the sun will rise and we will try again

erin x nate j

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    we'll be together again

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    you're soft like the summer rays
    how not to fall in love with everyone who is nice to me
    Ci sono rari momenti di quiete perpetua, una calma che trascende la normalità e entra sotto pelle, lenendo ogni ferita come il più dolce dei nettari. In cui ti senti in pace con il mondo, connesso ad ogni sua creatura; in cui i legami con le persone a te più vicine ti sembrano così concreti da poterli vedere ad occhio nudo, fili invisibili che intrecciano inevitabilmente la tua vita a quella altrui, rendendola qualcosa di più. In cui guardi il cielo e ti rendi conto di non essere l’unico a volgere gli occhi alle stelle, ed un sospiro ti gonfia il petto di effimera e cedevole allegria, una gioia insensata per un istante inesistente.
    Ed Erin Chipmunks si trovava in uno di quegli estatici momenti della sua esistenza, un piccolo ritaglio di spazio fra il caos dei festeggiamenti e l’innaturale immobilità dell’alba. C’era qualcuno al proprio fianco, ma non riusciva a percepirlo quanto avrebbe dovuto. Li sentiva, ma finchè non avesse deciso di vederli realmente, non li avrebbe visti. Avrebbe potuto continuare ad inspirare quel momento sospeso fra ciò che era e ciò che sarebbe stato, ma se l’avesse fatto, non sarebbe stata Erin Chipmunks. Quindi, come prevedibile, si voltò a guardarli.
    Alcuni li conosceva, altri li aveva semplicemente già intravisti. Non sapeva perché si trovassero lì, come lei; non sapeva quale scelte della loro vita avessero determinato la loro presenza sopra quel tetto, ma non aveva alcuna importanza: nello spazio di quel battito, tutti loro erano Erin Chipmunks quanto lei era ognuno di loro.
    «non so davvero perché io ci abbia provato» una risata amara, gorgogliata fra un singhiozzo e le mani premute sulle labbra. Erin si volse verso la voce, la bocca dischiusa e gli occhi ben aperti su uno scenario che di familiare aveva tutto, pur non avendo nulla. La sua indole l’avrebbe spinta ad avvicinarsi, a chiedere cosa potesse non andare; eppure non si mosse, rimanendo immobile nel suo corto vestitino porpora. «ancora, ancora e ancora. non migliora mai, perché non migliora mai? Avrei… io avrei dovuto..» e di nuovo la voce si ruppe in singhiozzi sibillini, soffocati nella lingua morsa fra i denti. «sei ubriaca» perentorio, la luce di un fiammifero ad illuminarne flebilmente il volto mentre poggiava la spalla al muro, lo sguardo fisso sulla ragazza dalla felpa troppo grande. Quando lei alzò gli occhi blu su di lui, si irrigidì ma rimase nella sua posizione, la mandibola serrata ed il cipiglio severo. «non abbastanza» rispose lei in un sussurro, mentre un sorriso si apriva lentamente sulla bocca di lui. Uno di quei sorrisi che non era riservato a nessuno, spontaneo su labbra sottili e morbide. «vorrei solamente…» deglutì, la maglia tirata su fino a coprire il mento. Istintivamente lui fece un passo verso di lei, la sigaretta stretta fra le dita ed i pugni chiusi lungo i fianchi. «che il nuovo anno sia diverso. Migliore. Vorrei essere una Maeve Winston migliore» si morse il labbro inferiore, le sopracciglia arcuate in una muta supplica. Ed allora lui compì un passo verso di lei, abbassandosi in modo che la sua voce non fosse udibile da nessun altro. «sei sempre stata una maeve winston migliore» le prese una ciocca di biondi capelli platino e la sistemò dietro l’orecchio, il palmo poggiato delicatamente sul suo viso. «per me» concluse, le dita a ticchettare nervosamente sulla punta delle scarpe. «ed ovviamente te lo sto dicendo solamente perché sei ubriaca, e sono certo che domani non ti ricorderai nulla» un sorriso sghembo e luminoso, feroce ma spezzato, di quella nolente disarmonia che risuonava nelle case abbandonate. «perché?» un perché a tante cose, un perché a tutto e nulla che rimbalzava vuoto su un pavimento consumato, in contrasto con i botti d’inizio anno a scalfire il cielo sopra di loro. «perché non ne vale la pena» ricordare? Sapere? Dirlo? Erin Chipmunks era del parere che valesse sempre la pena, ma tacque. Fu invece Maeve a rispondere, dopo aver aperto la bocca un paio di volte incamerando semplicemente aria. Poggiò pesantemente la testa sulla sua spalla, e bastò quel contatto per far rilassare i muscoli tesi, un profumo familiare che andava a posarsi su narici che a lungo ne avevano sentito disperatamente la mancanza. «ne vali sempre la pena, Liam» uno sbuffo di fumo a rischiarare un espressione melanconica, un silenzio a durare più del necessario prima che Liam Callaway inspirasse la sigaretta fra i denti, le braccia ora avvolte attorno ai fianchi di Maeve. «si torna a casa, bionda» e con un gesto fluido si rialzò reggendola sulla spalla, un grugnito a bassa voce. «l’ultima volta non pesavi così tanto. Sei ingrassat- ahia.» «non posso, ci sono aiden e dakota e-» «si arrangeranno» «lasciami» un mugolio così basso da far a malapena vibrare le corde vocali, le palpebre pesanti su un paio d’occhi incredibilmente chiari. «se mi vomiti addosso, giuro che ti uccido, winston» «non è vero» una voce biascicata, appesantita dall’alcool di una notte di cui, Maeve Winston, non avrebbe avuto memoria. Ed una risposta che, come il resto, sarebbe sempre rimasta nell’oblio. «certo che non è vero, stupida» si schiarì la voce, posando finalmente lo sguardo sugli altri. «grazie dell’aiuto, comunque. stronzi» si alzò qualche risatina, mentre un ragazzo dagli occhi rotondi con una cartina ancora stretta fra le dita, ricambiò l’occhiata obliqua dell’irlandese.
    «fottiti callaway, almeno quella winston non mi riguarda»
    QUEST08 Due fratelli, un rapporto complesso - morti a pesare sulle spalle, sangue del loro sangue."
    «chi? Cosa? Avevi bisogno di aiuto? AH scusa! Scusa! ARRIVO» qualcuno che Erin conosceva fin troppo bene si avvicinò con le braccia alzate verso di lui, bloccata però da un’altra donna che le mise una mano dinnanzi per fermare la sua avanzata.
    «andiamo callaway, pensavo che le donne fossero la tua specialità» la mora alzò le sopracciglia con un sorriso malizioso, una nota ironica a vibrare negli occhi scuri. Per tutta risposta, con ancora in spalla Maeve, Liam alzò il dito medio verso di lei, suscitando le risate di un’altra ragazza. Fu proprio quest’ultima ad avvicinarsi a Rea Hamilton, un braccio ad avvolgerle le spalle in un amichevole stretta.
    «non ce la fai proprio a non farti mandare a fanculo, eh? Fottuti Hamilton» il labbro inferiore stretto fra i denti, prima di scoccarle un fuggevole bacio a fior di labbra, le dita ad alzarsi mimando un due. Si sedette al fianco del ragazzo con la canna, il quale le rivolse brevemente un’occhiata prima di concludere il suo lavoro premendo le dita sulla cartina. «i milkobitch?» ella si scosse nelle spalle, aprendo la bocca perché questi potesse infilarvi lo spinello. Lo accese poi schioccando le dita, un refolo di denso fumo grigio ad adombrarle la vista. «in giro, suppongo» lui si picchiettò il pugno sul petto, trascinando poi due dita. «adulta responsabile, dicevano» «sei più grande di me, will» «sì, ma io sono il cugino figo. non posso tenerli d’occhio, altrimenti perdo il mio fascino» un brontolio di gola, una risata cristallina a divulgarsi fra una stella e l’altra. «non hanno bisogno di me» una verità sputata con un sorriso storto, le sopracciglia arcuate e leggere su un paio d’occhi tristi. «cazzate, i fratelli hanno sempre bisogno della sorella. esperienza personale» una donna si sedette fra loro, obbligandoli a distanziarsi abbastanza da lasciarle spazio. Senza troppi complimenti, prese la canna dalla bocca della ragazza e la infilò nella propria, gli occhi socchiusi ed un sospiro a trattenere il fumo nei polmoni. «guarda quel coglione del mio, l’ho lasciato da solo CINQUE minuti ed il tempo di girarmi aveva già legato la propria vita alla prima stronza che passava per strada» «a me euge non dispiace» Will si riappropriò della canna da Delilah, il naso arricciato e le gambe allungate pigramente davanti a sé. «scusa tanto se sono morta » uno sbuffo ed un pugno alla spalla di Delilah, più rude di quanto l’espressione della mimetica abbia lasciato ad intendere. «non ti scuso un cazzo, crane. Te e quel pirla di tuo padre» Run sorrise a Del, le braccia piegate dietro di sé a sostenere il peso del busto. «you only live once…» iniziò «…but twice is better» completò Will a denti stretti, allungando il pugno per picchiarlo contro quello di Heidrun. «se non muori almeno una volta, non vali un cazzo» il coretto degli angeli, a cui si aggiunsero Liam ed un altro ragazzo.
    «morire è mainstream ormai» disse il primo strascicando le parole, la sigaretta ormai quasi finita fra pollice ed indice. «mai nessuno che rimanga davvero morto» «anche io sono morto...quasi. valgo?» Delilah si allungò per tirare uno schiaffetto sulla fronte del secondo ragazzo, rimarcando il marchio, la propria firma, tracciato ore prima. «no, donnie» e schioccando con disapprovazione la lingua sul palato, Donald Armstrong si sedette con le gambe strette al petto vicino a un’altra ragazza, le spalle ingobbite e lo sguardo distante. «mi sento così castizzato» una veloce occhiata di lei, le palpebre a sbattere pigramente su occhi sottili. «perché lo sei» rispose semplicemente, i piedi a penzolare nel vuoto. «potevi mentirmi» Donnie si grattò la nuca con distrazione, le mani nuovamente intrecciate sulle ginocchia. La ragazzina si limitò a stringersi nelle spalle, un sorriso mesto a curvarle le labbra. «sì, potevo» commentò apatica. «ma non voglio sentirti lamentare un’altra volta. Ho un limite davvero molto basso di sopportazione, donnie» il babbano corrugò le sopracciglia scure, un broncio pronunciato mostrato quasi con orgoglio alla giovane al proprio fianco. «sei senza cuore, jer» nessuno dei due commentò nulla per un tempo che parve lunghissimo, i respiri a mescolarsi fra loro accompagnati dalle risate in sottofondo di Will, Delilah e Run, con marcati commenti di Liam riguardo a quanti pochi neuroni avessero da bruciarsi con la droga. «lo pensi davvero?» una domanda scoccata al nulla, lo sguardo vacuo sotto di sé. Jericho non guardò Donnie nel porre quell’interrogativo in tono privo di sfumatura, la voce masticata fra i denti ed i capelli sciolti a solleticarle le spalle. Aveva davvero bisogno di sentirselo dire, Jericho. E Donald lo fece. «no» un’alzata di spalle. «senza cuore non potresti vivere, nulla pomperebbe il sangue al resto dell’organismo. Si chiama natura umana» un sospiro a languire sullo stomaco, la guancia stretta fra i denti nell’abbozzo di sorriso che la Lowell rivolse a Donnie. «posso sempre provare togliertelo e vedere se sopravvivi. Si chiama esperimento» «lo faresti davvero?» ed in quel momento il silenzio si fece più pesante, come se tutti sul tetto stessero attendendo una risposta della telepata. Lo avrebbe fatto davvero? Si inumidì le labbra, le mani premute sotto le cosce e le unghie a tracciare piccole mezzelune cremisi sulla pelle. «speriamo non ci sia mai bisogno di scoprirlo» un’ironia tagliente ed amara sulla lingua, un sorriso ad alleggerire la tensione ricambiato dall’Armstrong. Eppure lo sapevano entrambi, eppure lo sapevano tutti, che quella non era una risposta. «cosa speri per il nuovo anno? Di essere rapito dagli alieni?» Donnie parve non cogliere il sarcasmo della domanda, l’indice a picchiettare sul labbro inferiore. «esce sherlock. So accontentarmi. Magari, mh… Trovare un wi fi decente a new hovel? Riavere la mia spada laser? Non morire?» le pose tutte come sincere questioni, ma Jericho non rispose a nessuno degli interrogativi. Continuando a guardare il profilo di una Londra troppo lontana, si limitò a muovere impercettibilmente le labbra in una domanda che, forse, sperava non giungesse realmente alle orecchie del suo interlocutore. «pensi che io sia cattiva, donnie?» un sospiro, il battito a misurare la frequenza di un nuovo anno, di una vita nuova che non si rinnovava mai. «sì» due sospiri, un battito a misurare la frequenza di una vita che s’era cercato di ribaltare, ma non cambiava mai. «okay» «chiedimi se penso che io sia cattivo» Donnie si chinò in avanti, ma senza accennare a toccarla. Lui era germofobico, lei personofobica: c’era un motivo di fondo, se erano amici. «non mi importa» uno sbuffo, i polpastrelli del babbano ad arrotolare corte ciocche corvine. «donnie, pensi di essere cattivo?» imitò quindi lui con voce stridula. «NON PARLO COSÌ» si schiarì la voce, gli occhi alzati al cielo. «sì» un sì a tutto, una conversazione che non aveva alcun bisogno di continuare. Eppure, lo fece comunque. «nessuno è cattivo» si intromise una voce acuta ma delicata, una piccola figura a chinarsi dietro di loro. «BEH, non esageriamo» e poco mancava, al ragazzino dal sorriso sbilenco, di accendere delle frecce luminose con le quali indicare Liam e Rea, da quanto poco allusiva era stata la sua occhiata. Rea inspirò, mentre Liam si limitò a lanciare il mozzicone nella sua direzione, scansato con un agile balzo laterale. «che c’è? è il mio lavoro!» commentò il ragazzo con scetticismo, cercando nel mentre di nascondersi dietro la figura della donna – la quale, dal canto suo, gli riservò un’occhiata torva. «non è vero, Stiles. il nostro lavoro è vedere del buono, sempre» Stiles fece schioccare la lingua con disappunto, ma non ebbe cuore di rispondere piccato alla mora. «sì okay, anche. Ma non sempre sempre» «sempre sempre» «non sempre sempre sempre» «sempre sempre sempre» «non sempre sempr-» «LA FINITE?» sbottò una ragazzina rimasta in silenzio fino a quel momento, i pugni poggiati con stizza sui fianchi nudi. «scusa, bells» «è colpa di Idem» Idem aggrottò le sopracciglia guardando Stiles, mentre questo si limitò a guardarsi attorno quasi stesse ricercando la fonte di tale risposta. «io voglio credere che tutti abbiano del buono» rispose con un soffio di voce la Withpotatoes, il tono sognante e distratto di chi già vagava con la mente altrove. «perché?» domandarono contemporaneamente gli altri dodici abitanti di quel tetto, volgendo l’attenzione alla mora. Ciascuno con un intonazione differente, con una speranza diversa a marcire fra gengive e labbra. «perché questo è il mondo nel quale voglio vivere» una pausa, gli occhi blu alzati su di loro. «illusa» un sorriso appena accennato della Hamilton, mentre Will porse ciò che era rimasto della canna alla Withpotatoes. «te la offro eh, ma metto le mani avanti: la tua roba è più buona» un pugno di Run sulla spalla del Barrow. «non fare lo stronzo» un’occhiataccia di Jericho alla Crane. «non fare la stupida, ha ragione» un sospiro di Bells. «sei una tale spacca gioie, lowell» una risata divertita di Liam. «si vede che non conosci abbastanza bene la Winston, quello è il suo primato» Maeve bofonchiò qualcosa di non meglio precisato. «dice che spacca gioie, ma almeno sa scegliersi bene i suoi amici – e aggiunge che Stiles è stato un amico meraviglioso per anni ed è indubbiamente il fremello più bello» Donnie aggrottò le sopracciglia. «a me sembra che abbia detto “per una volta, sono d’accordo con will”» Delilah tossicchiò, piegando il capo concentrata verso la testa di Maeve. «”quello stronzo, di Will”» ed alla specifica della Jackson, una voce rimasta silenziosa fino a quel momento si aprì un varco. «ma non sarebbe così male» pasticciata, imbrattata di tutte le parole buttate giù fra grida e domande in tutti quegli anni, il tono della ragazza parve esitante. Erin fece finalmente un passo in avanti, raccogliendo su di sé gli sguardi incuriositi di chi, a lei, ancora non aveva fatto caso. «no, non sarebbe così male» sorrise a bocca piena, guadagnandosi una distratta e amara piega delle labbra di Lydia, gli occhi verdi socchiusi su un tempo che non le apparteneva. «sei nuova di queste parti, vero?» la Chipmunks alzò lo sguardo su Liam, annuendo lentamente. «oh, no. quindi credi ancora alla storia degli unicorni, degli arcobaleni, e dell’amore vince tutto» l’irlandese schioccò la lingua sul palato, mentre Maeve si coprì la bocca con le mani per soffocare una risata. «perché, non può?» Bells si mise di fronte ad Erin con le sopracciglia corrugate, le braccia distese lungo i fianchi. Prima che Liam potesse ribattere, qualcosa colpì Bells sulla fronte; lo raccolse fra le mani, e tutti poterono adocchiare una giacca di pelle scura. «non capisci mai quando devi tenere la bocca chiusa, pinocchio» un sussurro che riuscirono a sentire solamente Erin e Bells, un brivido a fior di pelle memore di una vita nel quale l’uomo si nascondeva attorno ad un falò temendo il buio. «e copriti, per l’amor del cielo. Sei nuda» «non vedo perché debba essere un problema tuo, non sei mia madre» un sospiro gonfio d’afflizione, le dita sottili della Hamilton a massaggiare le palpebre. «non puoi vestirti e basta?» «sì» eppure Bells non si mosse, un sorriso malandrino sulle labbra sottili. Erin avrebbe voluto intimarle di farlo, semplicemente farlo, percependo la vibrante nota discorde che aleggiava fra loro. Ma, come il resto del tetto, preferì non immischiarsi negli affari altrui. «ti ammalerai» e fu un suono così sofferto, quello che proruppe dalle labbra di Rea, che perfino Erin si volse a guardarla a labbra dischiuse. Più che un’osservazione, pareva essere un coccio di vetro divenuto parola, tagliente sulla gola e concreto nel tonfo contro il pavimento. «e…?» la Dallaire fece un passo verso Rea, mentre la Hamilton, i pugni stretti lungo i fianchi, retrocedette. «preferirei non lo facessi» parve più un ringhio che non il sincero interessamento di qualcuno. Una risata, apparentemente inappropriata, giunse dalle loro spalle. «pensavo che al!sciaia fosse esilarante, ma mi mancava elijah!rea. sei così…» «non dirlo» «…tenera» «l’ha detto» completò Will, ancora seduto per terra, con un luminoso sorriso verso la Hamilton. Erin lanciò un’occhiata a Donnie, ma anche lui parve non comprendere. «lydia, almeno te» Rea non guardò la Hadaway, che in quel momento trattenne il fiato. «puoi dire a questa ragazzina viziata di mettersi qualcosa addosso, prima che le venga un cristo?» Lydia si inumidì le labbra, le sopracciglia arcuate con cinismo. «perché io?» «perché se riesci a far mettere a nathaniel le scarpe quando esce di casa, indubbiamente riuscirai a convincere arabells a indossare una stramaledetta giacca» un sorriso a curvare infinitesimale le labbra delle due, mentre qualcosa di non detto – mentre tutto, di non detto- sembrò passare dall’una all’altra. «bells, puoi metterti la giacca per favore? sai che elijah si preoccupa» disse quindi l'assistente di Henderson, volgendo un'occhiata alla Corvonero. «e anche rea» aggiunse Run, alzandosi per raggiungere Erin. Le avvolse le spalle con un braccio, mentre osservava di sottecchi una seccata Hamilton. «gli hamilton fanno sempre i difficili, ma in realtà sono dei budini» le sussurrò all’orecchio, suscitando un risolino allegro da parte della Chips. «ti conosco?» le domandò quindi, guardandola dall’alto con espressione curiosa. Heidrun Crane ed Erin Chipmunks non potevano saperlo, ma si conoscevano - da prima, da sempre. Battendo le palpebre, la ribelle potè quasi vedere delle lettere argentate su marmo bianco, e potè sentirne lo spessore sotto i polpastrelli – e l’aria greve di sospiri e pianti a opprimerle il petto. Scosse il capo con un sorriso timido. «non proprio» «malissimo. Io sono Heidrun» un battito sulla lingua, un improvvisa stretta alla gola. Ruotò gli occhi su Lydia, cogliendola in flagrante mentre le stava studiando il profilo – il naso dritto, le labbra morbide, il mento sfuggente. «Erin» suonò più come una domanda, ma nessuno sembrò farci caso. «mi conosci?» e cambiò interrogativo, Lydia, pur rimanendo il quesito lo stesso. Cambiò forma, cambiò senso, cambiò tutto. «non proprio» rispose ancora Erin, i palmi a fremere di un prurito impossibile da grattare. «però mi piacerebbe» un po’ a Lydia, un po’ a Run, un po’ a quel mondo dove la bontà esisteva senza doverla ricercare. Né la Hadaway nè Erin seppero il perché di quel gesto, ma la rossa allungò una mano verso di lei. La posò brevemente sulla sua guancia, prima di porgergliela perché la stringesse – ed Erin ci si aggrappò, sentendo la realtà farsi più nitida ed al contempo distorta attorno a lei. «anche a me» perché anche a Lydia sarebbe piaciuto conoscersi, perché anche Lydia avrebbe voluto conoscere quella ragazzina familiare sotto il palmo come un sapone dolce a permeare sulla pelle.
    Ci sono momenti che vorresti semplicemente durassero per sempre, dilatandosi ben oltre quel loro effimero esistere. Vorresti poterli stringere fra pollice ed indice ed allungarli, viscoso caramello a tendersi fra i polpastrelli in fili sottili. Si conoscevano, non si conoscevano; non aveva importanza. In quel battito condiviso sopra un anonimo tetto londinese, tredici ragazzi, ragazze, uomini e donne, cercavano di racimolare il coraggio di affrontare un nuovo giorno.
    Una nuova alba.
    Una nuova vita.
    E senza accorgersene cominciarono a parlare, a ridere delle stesse battute, ad improvvisarsi ballerini sopra il ciglio di un burrone. La mano di Stiles sul fianco di Erin mentre con la sinistra l’aiutava in una piroetta, le mani di Idem sulle spalle di William in un trenino improvvisato, le braccia di Run incrociate sulla testa di Jericho, le gambe di Donnie intrecciate a quelle di Delilah; ed ancora Liam a reggere Maeve, le dita di Lydia a sistemare i corti capelli di Bells mentre Rea declinava l’invito ad unirsi alle danze, trascinata poi a forza dalla risata insistente di Idem.
    Ma nell’istante in cui tutto cominciava, era già destinato a finire.
    «vado, maeve sta cominciando a sbavare. Buon anno, stronzetti»
    «nonstosbavando. E scusate, non volevo…non importa. salutatemi tutti»
    «grazie di tutto, vi voglio tanto bene e sono tanto felice di avervi conosciuto»
    «vi abbraccerei, ma preferisco mantenermi integro, ed alcuni di voi mi terrorizzano. Sì che siamo tre, ma solo uno è simpatico quanto me»
    «addirittura la rima? Complimenti, stiletto. E buon anno un cazzo, per inciso»
    «sei triste perché non ti ho baciata a mezzanotte? Lo sai che amo solo te. E te. E te. E anche te. Abbraccio di gruppo per inaugurare il nuovo anno?»
    «ci stiamo solamente avvicinando inesorabilmente alla morte. Devo farvi gli auguri per questo?»
    «ma smettila coglione, che non muori mai. Buon 2017, e che nessuno venga rapito, che cazzo…non di nuovo»
    «vado anche io. Grazie… credo? Auguri… si dice così, giusto?»
    «certo che siete proprio gente stran…normale. Vi voglio quasi bene»
    «non capisco perché si dica buon anno. Come se potessimo decidere noi come andrà l’anno. Che assurdità, è tutto predestinato. Gli illuminati hanno scelto. Dovremmo dire: spero che il Fato sia stato clemente con te, nel decretare cosa accadrà nel 2017»
    «noi scegliamo sempre quel che facciamo, ragazzino. Ad esempio, io sto scegliendo di non buttarvi al piano di sotto: visto? L’anno sta già iniziando bene, per voi»
    Ed un sorriso, le guance rosate e la pelle ancora a tremare del calore delle loro mani, delle risate ingoiate fra palato e lingua. «non importa se sarà migliore o peggiore. L’importante è che saremo insieme, giusto?»
    Giusto.
    Buon anno, oblivion.

    Non fu uno dei soliti risvegli. Erin Chipmunks, quando il mondo prese a vorticare incessantemente attorno a lei, aveva ancora gli occhi chiusi. Le ciglia sembravano incollate fra loro, la bocca un pastone asciutto, le labbra intorpidite. Con un mugolio sofferente, si costrinse a rotolare di lato, gli scompigliati capelli scuri attorcigliati sotto la testa.
    Non aveva fatto i conti con il proprio letto, o meglio, con l’assenza di questo. Percepì il vuoto sotto di sé prima ancora dello spostamento d’aria che le indicò che stava cadendo, eppure non fu abbastanza recettiva da attutire il colpo. «aahmsdjf» non ebbe neanche la forza di gridare, né per chiedere soccorso né per semplice sorpresa. Non ricordava che aprire la bocca fosse così complesso; in realtà, a malapena ricordava chi fosse. Si portò la mano a massaggiare la nuca, ringraziando mentalmente Idem che le aveva comprato uno di quei spessi tappeti pelosi che era stata lesta a mettere vicino al proprio materasso, consapevole che prima o poi sarebbe tornato utile. Dire che la Chips fosse poco avvezza all’alcool, sarebbe stato un eufemismo; non sapeva neanche che sapore avesse il vino, e si era sentita adulta a sorseggiare una birra sulla cima di un palazzo qualunque di una Londra qualunque. Non rimembrava la prima vera sbronza, quella in compagnia di Scott e Murphy, e si era rifiutata di credere ai filmati che l’avevano vista protagonista di una cover di Baby di Justin Bieber fatta con maracas di riso soffiato. Perlomeno si era risvegliata al loro fianco, ed era stata certa di non aver fatto nulla di troppo assurdo – o meglio, quasi nulla del quale pentirsi.
    Ma quello.
    Ma cosa.
    Ma chi.
    Serbava solamente sprazzi della notte passata, e nessuno di quelli la aiutava a ricostruire la serata – né, a dire il vero, a spiegare come fosse arrivata al proprio letto. Deglutì raggomitolandosi su sé stessa per impedire alla Terra di girare troppo rapidamente, o al proprio stomaco di decidere di svuotarsi sul tappeto.
    Ma dove.
    Ma quando.
    Capodanno.
    «AUGURI!» biascicò al nulla volgendosi supina, le braccia alzate con uno sforzo immane sopra di sé. Un sorriso languido e pigro le piegò le labbra, rimembrandole che quello era il primo buongiorno dell’anno. Il duemilaediciassette era l’anno nel quale finalmente sarebbe divenuta maggiorenne, ed avrebbe potuto avere una bacchetta tutta sua. Un gridolino eccitato le graffiò la gola, mentre le piccole mani paffute andavano a pigiare sugli occhi, proseguendo poi lungo i capelli per snodarli fra le dita. Rimase in silenzio per cercare di udire rumori provenienti dall’esterno, ma con un’amarezza pesante si rese conto che non c’era nessuno, e nessuno ci sarebbe stato: era il primo dell’anno, tutti erano a casa dalla propria famiglia.
    Anche lei, in effetti, era a casa dalla propria famiglia – o almeno, una parte. Riuscì a rotolare di lato, sforzandosi poi di alzarsi in piedi. Si fiondò in bagno giusto per bere un goccio d’acqua e lavarsi i denti, senza sprecarsi a guardare la propria immagine sfatta allo specchio. Più i secondi passavano, più il pavimento sotto i propri piedi acquisiva stabilità e meno il malessere al ventre la costringeva a fermarsi con la fronte poggiata sulle piastrelle. Di soppiatto, come un gatto ninja obeso, socchiuse l’uscio di una porta ormai familiare quanto la propria, le dita a rallentare la spinta ogni volta che questa scricchiolava sui cardini.
    Perché avrebbe potuto pensare alla sera prima.
    Perché avrebbe potuto cercare di ricostruire cos’era successo.
    Perché avrebbe potuto stilare una lista di buoni propositi per il nuovo anno – ma chi vogliamo prendere in giro? Quello l’aveva già fatto.
    Perché avrebbe potuto preparare la colazione, o rimanere distesa nel letto a raccogliere dettagli sulla festa rivivendo come un sogno ad occhi aperti ogni istante.
    Ma il primo gennaio, per Erin Chipmunks, significava solamente una cosa.
    «SHERLOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOCK» gridò con quanto fiato aveva in gola, fiondandosi sul letto di Nathan Wellington. «dai nate svegliati dai è uscito sherlock dai BUONGIORNO NATE È USCITO SHERLOCK» saltellò sul materasso al fianco del suo miglior amico, facendolo tremare come un budino di gelatina. Un giramento di testa a costrinse a bloccarsi d’improvviso, la pelle improvvisamente pallida e madida di sudore. Deglutì febbrilmente la saliva, un sapore amaro sulla lingua. «forse dovevo metterci meno entusiasmo» gorgogliò lasciandosi cadere sul letto, cercando di capire come respirare senza che l’atto di incamerare ossigeno la inducesse al vomito. E poi, lo disse: la menzogna originaria, antecedente il domani comincio la dieta, superiore al ancora una puntata poi dormo, più ancestrale del c’è ancora tempo. Con l’innocenza di chi davvero ci credeva, Erin Chipmunks lo disse: «non berrò mai più alcool»
    Buon anno, stolti Erinton.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by - as fuck - 3/10/2017, 17:01
     
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    Dicembre ammazza l'anno e lo sotterra, si diceva in quale remoto luogo della penisola italiana, e chi non sarebbe d'accordo con questa affermazione? Allo scoccare della mezzanotte sembra tutto svanire, dodici mesi portati via dalle bollicine e le scintille accese. I fuochi d'artificio esplodono, come a voler spaventare e scacciare ciò che è stato e accogliere con gioia ciò che sarà, anche se in fondo tutti sanno che anche quest'anno sarà identico al precedente con la sola differenza che la morte si avvicinava per tutti di un passo. Per tutti ma non per Nathan, non in modo ufficiale almeno. Era già morto, lui, e anche se era stata solo una messa in scena, era convinto che lui avesse scampato il pericolo. Pensava di aver battuto il cupo mietitore, non doveva più temere la falce, la sua lapide era già stata piantata sopra una bara vuota, una bara simbolica, un bara che serviva alla sua famiglia per avere qualcosa su cui piangere la sua scomparsa. Ma non aveva mai affrontato davvero la Morte, Nathan, l'aveva ingannata, ci aveva giocato quando aveva spiccato quel folle salto contro la superficie scura del Lago, ma non aveva mai avuto il piacere di stringere la mano ossuta della falciatrice di anime. Poi era arrivata quella notte, quel countdown, quelle persone rinchiuse, quelle fiamme."Quello" viene usato per riferirsi solitamente a qualcosa di lontano nello spazio e nel tempo, ma, se Nathan avesse dovuto parlare ad alta voce dei suoi ricordi, l'unico aggettivo che avrebbe usato sarebbe stato "questo": questa notte, questo dolore, questa paura, queste fiamme e questa esperienza. La morte gli si era avvicinata così tanto da poter sentirne l'alito gelido tra le fiamme ed era quella la ragione se il trentuno dicembre duemilasedici non aveva quella spensieratezza che l'aveva animato festeggiando il capodanno precedente, quell'entusiasmo che aveva perchè credeva di non essere più soggetto alle leggi naturali, al tempo o a ciò che infieriva sulla vita dei vivi. Era un fantasma e, nonostante vari disagi, era comunque una cosa dalle quale poter trarre qualche gioia: non c'erano scadenze relative a documenti, la burocrazia non poteva nemmeno sfiorarlo, il suo nome capitava ogni tanto sulla bocca dei vivi che non sapevano della finzione dietro quel salto. Ma aveva avuto la conferma, questa notte, che il tempo passa inesorabile per tutti se i polmoni funzionano ancora e il cuore pompa sangue nelle tue vene. Non importa se hai finto la tua morte, se l'hai vissuta e sei tornato miracolosamente indietro o se sei semplicemente e normalmente vivo: prima o poi busserà alla tua porta e non ci sarà via di scampo, prima o poi arriviamo tutti a Samara.
    Potrete dunque biasimare il povero Wellington se era seduto ad un comodo divanetto, circondato da bottiglie vuote e piene (sopratutto vuote tbh), che fissava la pista da ballo dove le persone si divertivano? «beati loro» sussurrò prima di attaccarsi ad un bicchiere pieno di punch, dove qualcuno aveva versato dell'alcol che aveva indotto poi Nate e bere anche altro oltre la bibita teoricamente analcolica. Stavano per morire tutti, chi prima chi dopo, e l'alcol non aiutava certo il cervello a distogliersi da quell'argomento, per non parlare della pigrizia che lo aveva assalito e che gli impediva di anche solo cercare qualcos'altro a cui pensare. Erin era sparita, aveva perso Freya nella folla e dopo l'accaduto non sapeva se avrebbe dovuto cercarla o meno, ma evidentemente aveva preferito rintanarsi nel proprio angolo di depressione piuttosto che cercare qualcuno che gli risollevasse il morale. Fare nuove amicizie era fuori discussione, ci voleva troppa forza psicologica e Nathan temeva che bastasse respirare nella sua direzione per farlo scoppiare in lacrime o farlo esplodere di rabbia: tutto dipendeva dalla persona, dalla lunghezza del respiro e da molte altri varianti che avrebbero influito in modo incisivo sulla reazione del mimetico.
    Poi lo vide, non servì una seconda occhiata per accertarsi che fosse quello giusto: se lo sentiva nella pancia -ah e percepiva anche il suo potere, quindi non poteva sbagliarsi. Se ne stava lì, appoggiato ad un muro a bere, affannato da qualche ballo o avventura capodannesca (?). Qualcosa scattò nella mente del mimetico e in un balzo era già nella pista da ballo. Gli occhi esaminarono attentamente il volto di Jayson, evidentemente meno triste di Nathan (#unaJoya), mentre la sua mente gli riportava alla memoria i racconti che aveva sentito dopo la festa dell'anno precedente.
    «Hai sentito del casino che ha combinato quel Jayson?»
    «Oh sì quello che ha baciato la rossa sbagliata?»
    «Sì! Che idiota, non mi stupirei nello scoprire che l'hanno presa entrambe a schiaffi...»
    «Io ancora non riesco a credere che esistano davvero delle persone così simili senza nemmeno un legame di parentela»
    «Simili?! Solamente? Ma se potrebbero fare la versione rossa de "La Principessa e la povera"!»

    Normalmente Nate non avrebbe portato rancore, ma la situazione in cui si trovava era ben lungi dall'essere normale, anche per i i livelli di normalità che ora Nathan aveva stabilito nella sua vita/morte.«Allora, Matthews, già data la paccata sbagliata?» l'vaveva sentito prima, imitare Xav che imitava Jay che si vantava delle proprie capacità seduttive, peccato che Nathan l'avesse riconosciuto grazie ai suoi sensi di ragno mimetico. «Non dirmi che nessuna è venuta ancora a cercarti, dopo la tua imitazione a dir poco perfetta di Xav che imitava te» bevve un altro sorso, gettando il bicchiere in un cestino e prendendone un altro. «non essere teso, non voglio farti niente. Ormai la storia dell'anno scorso è acqua passata» sorrise mentendo a sè stesso e a lui. L'alcol scivolò lungo la sua gola e quell'ultima goccia sbloccò un nuovo livello di ubriachezza nel Wellington, un livello che nessuno vorrebbe si ripresentasse. Il bicchiere di plastica si ruppe sotto la stretta dell'ex tassorosso, riversando quel poco della bevanda che era rimasta sul fondo di carta. L'altra mano si poggiò sul muro, proprio affianco all'orecchio del telecineta. Il corpo di Nathan si posa davanti al suo, bloccandogli le vie d'uscita più ovvie, ma non intrappolandolo del tutto. Gli occhi erano puntati in quelli di Freddie, e lui avrebbe potuto leggergli nelle iridi castane ciò che gli passava per la testa «sappi che, però, se ti avvicinerai a lei tanto così» il volto si avvicinò paurosamente «giuro che rimpiangerai il momento in cui ti sei avvicinato per la prima volta a Freya Gardner». La rabbia aveva tinto di rosso il volto del mimetico, o forse era solo l'alcol e il caldo di quel posto, e le sopracciglia erano corrugate in modo minaccioso.
    Potete immaginare da voi quello che successe dopo come se ce ne fosse bisogno.



    «non toccare i biscotti» mormorò nel sonno. Le coperte lo avvolgevano, annodate con il piumone e il lenzuolo, mentre le gambe si intrecciavano in modo assurdo con il copriletto. Si rotolò a destra, poi a sinistra, di nuovo e a destra e sinistra ancora una volta. Al contrario di una certa ragazza, Nate aveva imparato a conoscere bene quel materasso e sapeva bene dopo quanti rotolamenti il suo culo da mimetico avrebbe schiacciato le centinaia di famiglie di acari della polvere che infestavano quella moquette. «i biscotti!» disse più arrabbiato muovendo un braccio in aria. Nathan soffriva di molti disturbi, ma non aveva mai dato segni di sonnambulismo nè parlava nel sonno. Era evidente che quella era stata la sua prima vera sbronza, soprattutto perchè non gli era mai capitato di fare cose del tipo svenire nel bel mezzo di un esibizione di ombre cinesi («vedete, questo è ovviamente un palo della luce» aveva affermato mostrando l'ombra del dito indice appena piegato in avanti). Un po' di meritato riposo era quello che desiderava, dopo aver preso Erin in spalla e averla riaccompagnata al QG. Aveva provato a farla camminare come una persona normale, ma ad ogni passo cadeva insultando in modi poco carini la forza di gravità («sei una persona orrbile! Non tivergognid i buttare giù ogni cosa?!»), caricarsela come un sacco di patate era stato l'unico modo per non farla scoppiare in un pianto di rabbia contro l'asfalto della strada.
    Ma quando vivi con Erin Chipmunks in un luogo dove la gente viene solo per lavorare ed è un giorno dove solitamente la gente non lavora, be stai certo che il meritato riposo diventerà ancora più meritato quando sentirai la vita piombarti addosso con il peso di una sedicenne.
    «SHERLOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOCK»
    «GANGAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA»
    L'addestramento ricevuto da Erin sembrava aver funzionato. Sa quando Skandar aveva ricevuto per natale un pinguino che urlava alla vista degli intrusi, la Chip avrebbe fatto di tutto pur di rubarglielo. Essendo l'adulto (ma non troppo) di turno, si era visto costretto a trovare un compromesso per i due litiganti, e chi ha detto che il terzo gode significa che non ha mai visto una Chipmunks intestardita. Alla fine Nathan era diventato l'avicustos della ragazza, costretto ad urlare quella parola senza senso che, però, in fondo gli piaceva poter dire a squarciagola. La memoria muscolare (?) aveva attivato la bocca e, senza che il cervello lo ordinasse, l'urlo uscì fuori dalla sua bocca. Non era ancora del tutto sveglio, anzi stava dormendo ancora, quando sentì una gomitata particolarmente dolorosa lì dove nessun ragazzo dovrebbe essere mai colpito. Vide i propri figli, le notti insonni a placare i pianti dei bambini, i primi compleanni, le cazzate della loro adolescenza, i diplomi, i matrimoni e i propri nipoti, vide tutto svanire come bruciato dal fuoco. La stirpe dei Wellington terminava con quella gomitata, i Chipmunks sarebbero stati per sempre ricordati come coloro che posero fine alla progenie di una famiglia i cui discendenti erano particolarmente predisposti all'animagia fin dalla tenera età. L'ultima frase prima di perdere la propria fertilità fu sussurrata da un Nathan dolorante «i miei biscotti...». Non pianse ma avrebbe voluto, in compenso la voce della sedicenne che acclamava a gran voce il nuovo episodio di Sherlock Holmes ebbe lo stesso effetto di un martello pneumatico inceppato che continuava a fare su e giù lungo la spina dorsale del Professor Xavier (il mutante, non il fremello). Non si direbbe a vederla da lontano, ma Erin Chipmunks era un concentrato di energia: una lattina di Cocacola, Mentos, lava vulcanica ed essenza di Pikachu pronta ad esploderti in faccia per svegliarti dopo una sbronza. Il materasso instabile inziò a molleggiare il corpo inerme del mimetico finchè, per qualche assurdo motivo, Nathan fu scaraventato sul pavimento di faccia. Se prima non aveva speranze di avere figli, ora aveva perso anche quelle di trovare una ragazza, perchè difficilmente si sopravvive ad una caduta del genere con una faccia ancora affascinante. Aggrappandosi al lenzuolo e alla poca forza che gli rimaneva, Nathan si appese al materasso, come Jack Dawson avrebbe fatto con la porta galleggiante in Titanic «okay sono vivo...» ansimò guardando la sua amica, che però iniziò a girare in tondo fino a cadere per i giramenti di testa. Il caso volle che un piede si posasse proprio sulla mano che Nathan usava per reggersi, e come DiCaprio anche lui andò giù «no, non sono vivo». Spiaggiato sul piumone che si era riversato con lui sul pavimento, alzò un pollice in segno di assenso quando sentì la promessa che Erin si fece «concordo, però non rinuncio ai cioccolatini ripieni di liquore». Per pochi secondi, attimi di quiete totale, pensò quasi che Erin si fosse addormentata, ma bastò il bussare timido di due gufi per rianimarla. Nathan guardò alla finestra: due uccelli tenevano nelle zampe due pergamene rosa, il nastro dorato e un sigillo che recava un'arzigogolata P nella cera fucsia. Nathan seppe esattamente cosa stava per succedere e afferrò la caviglia di Erin con una mano, mentre l'altra la lanciava un cuscino nel punto in cui avrebbe rischiato di sfracellarsi a terra «scusa» mormorò quando aprì i vetri e afferrò i bollettini di Polgygirl dalle zampe dei rapaci. Soffriva tremendamente dei postumi della sbornia, aveva voglia di vomitare nel bagno e si sentiva come un fazzoletto usato per pulire un'emorragia interna allo stomaco, ma non avrebbe mai potuto dimenticare quello che era successo meno di dodici ore prima. Il pensiero che quelle pergamene erano state diffuse per tutta Londra iniziò a distruggerlo lentamente, ma poteva ancora impedire che la voce si spargesse lì al QG, anche se significava far atterrare la sua migliore amica su un cuscino di faccia a terra. Protese il braccio che reggeva i fogli in alto, mettendosi sulle punte e sfruttando ogni centimetro per evitare che la tappetta sks raggiungesse i bollettini. «Non è assolutamente niente! Sono le...ehm... bollette del... ehm... cotone! Il Ministero ha imposto nuove tasse sull'uso del cotone!» confidò nella reclusione forzata della strega e sperò vivamente che non avesse mai visto un bollettino di Polgygirl
    «me ne occupo io, sul serio non preoccuparti!». Se le avesse creduto, si sarebbe davvero preoccupato, insomma tutti sanno che il cotone è un bene primario come il cioccolato! Non poteva aspettarsi di fargliela bere, così ricorse al piano B: correre.
    Corse in cucina, nell'armeria, girò attorno ad una colonna, attraverso la serra, finì nell'ufficio di Idem e sbucò da lì nel bagno di Skandar dove sarebbe finito poi nell'ufficio di Keanu, nascondendo le pergamene nella sua scorta super segreta di tabacco per pipe (che super segreta non era visto che persino Nathan era riuscito a trovarla -sotto indicazioni di Murphy, ma quelli sono dettagli). Ma lì, davanti alla porta, Erin gli barricò la strada divaricando le gambe e protendendo una mano, aspettandosi che Nathan le cedesse di sua sponte il foglio. «Okay Erin, te lo darò, ma solo dopo aver visto Sherlock» avrebbe tanto voluto che qualche pirocineta fosse nei dintorni, così da poter dar fuoco a quei bollettini pieni di bugie e menzogne seduta stante. Senza aspettare un cenno di assenso sgusciò dentro l'ufficio, gettandosi sul divano e nascondendo le pergamene sotto il suo sedere «a meno che tu non voglia mettere le mani sotto il mio culetto» gli effetti dell'alcol non erano passati ancora del tutto, a quanto pare. Sapeva che non avrebbe mai messo le mani sotto il suo sacro popò, o almeno lo sperò vivamente.
    Non poteva permettere che la sua amica venisse a sapere di quello che era successo a capodanno, insomma quel giorno sarebbe dovuto rimanere un lontano ricordo che solo i pochi sobri potevano ricordare in modo decente, perchè Polgygirl si sentiva in diritto di spiattellare i loro fatti qui lì?! Mai sentito parlare di violazione della privacy o semplice imbarazzo? E poi a chi poteva interessare se Nathan aveva baciato qualcuno che non doveva baciare, per quale ragione quell'evento avrebbe dovuto fare notizia e suscitare lo scalpore delle persone? Era stato solo un bacio, un mero semplicissimo bacio con un po' di lingua, ma anche ai Golden Globes gente non sposata o fidanzata si baciava per festeggiare!
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    Purtroppo per Nathan Wellington, e per chiunque avesse avuto la (s)fortuna di conoscere Erin, era risaputo che la Chipmunks non fosse esattamente la delicatezza fatta persona. Non lo faceva con cattiveria, anzi, era il puro e semplice modo con il quale ella dimostrava il proprio affetto; naturalmente, quello i figli di Nathan non l’avrebbero mai saputo, considerando che con il suo dolce buongiornissimo aveva presumibilmente privato il mimetico della possibilità di divenire padre. Ovviamente, Tessa non si accorse neanche per un istante, in tutto il suo allegro rotolare, di star distruggendo pezzo dopo pezzo il suo migliore amico. Non si rese conto di avergli schiacciato la mano, né di avergli piantato un gomito nel costato, o di averlo quasi soffocato con le coperte. In compenso, e non era del tutto scontato, si accorse quando il corpo di Nathan cadde a terra. Ancora coricata sopra al piumone, si affacciò oltre il materasso con le sopracciglia arcuate e la bocca dischiusa in segno di sorpresa, le braccia già allungate di fronte a sé nel tentativo di aiutarlo a rimettersi in piedi – perché, checché ne pensasse il mondo, Erin Therese Chipmunks era una ragazza a modo. «oddio, scusa! È colpa mia? Scusa!» si affrettò ad aggiungere, mordendosi il labbro inferiore ogni qual volta gli sforzi per portarlo nuovamente sul letto si rivelavano non solo fallimentari, ma anche dolorosi. Dire che la Chips fosse goffa, sarebbe equivalso a dare del gattino ad un giaguaro: in compenso, c’era da dire, lo faceva di buon cuore.
    «concordo, però non rinuncio ai cioccolatini ripieni di liquore» Erin arricciò il naso, le braccia incrociate sul petto per evitare di creare ulteriori disagi a Nathan, e le sopracciglia corrugate. «non lo so» soffiò, sinceramente concentrata in quel quesito: quando si trattava di cibo, Erin Chipmunks non scherzava mai. «diciamo che dipende dal cioccolatino» concluse infine risoluta piegando la testa di lato, soddisfatta dall’aver trovato un compromesso per quella situazione altresì spinosa (perché non poteva rinunciare davvero al cioccolato, in qualunque forma esso fosse, ma d’altra parte… davvero, l’alcool le faceva uno strano effetto, e non era affatto certa che le piacesse). Malgrado si fosse alzata piena di energia, ora che si trovava nuovamente coricata su una superficie morbida, sentiva il sonno richiamarla a sé come Lessie che dovesse tornare a casa; cullata dal calore del materasso e dal profumo di casa del cuscino di Nathan, mugugnò una parola a caso («omelette») e chiuse gli occhi, il respiro già profondo.
    Ma bastò davvero, davvero poco per risvegliarla da quello stato di torpore: il ticchettio di un becco contro il vetro. Ora, al quartier generale raramente arrivava della posta, e quando giungeva, per la Chipmunks, era fonte di grande festa. Spalancò le palpebre e scattò a sedere, le mani già premute contro le guance per comprimere l’emozione. «CHI CI HA SCRITTO? CHI? È PER NOI?» domandò con acuti strilli felici, cercando di lanciarsi verso la finestra prima che potesse arrivarci il mimetico. L’aveva sottovalutato. Sentì il terreno mancarle sotto le gambe, di nuovo, e per una frazione di secondo temette che il suo migliore amico avesse appena attentato alla sua vita – non avrebbe neanche potuto biasimarlo del tutto, effettivamente. «nathan!» gridò, la voce soffocata nel cuscino che prontamente il ragazzo le aveva fatto trovare nel punto dove effettivamente cadde. «LO DICO A KEANU!» sibilò offesa, poggiando i palmi sul pavimento per lanciargli un’occhiataccia. Il fatto che fosse giunto prima di lei ad afferrare le lettere, non significava che avesse vinto, anzi: la guerra, per quella testa dura di Erin Chipmunks, era appena cominciata. Si alzò rapidamente in piedi con un grugnito basso e primitivo, lanciandosi alla carica contro lo special. «nathan. Cos’è? Nathan. EDDAI» saltellò, usando la spalla del ragazzo come trampolino di lancio, cercando di giungere alle dita dov’egli teneva il tesoro. Non sapeva di cosa si trattasse, ma il solo fatto che lui volesse privarla di quella conoscenza, lo rendeva agli occhi di Erin un segreto proibito ed inestimabile che, per ovvia conseguenza, doveva appartenerle. Indispettita, pigiò il piede scalzo contro quello del Wellington, cercando un punto debole che lo facesse abbassare abbastanza da renderle acciuffabile le buste. «dai, voglio saperlo anche io» lamentò con voce sottile, sporgendo il labbro inferiore all’infuori e spalancando i grandi occhi verdi. «non è giusto» si girò dall’altra parte e incrociò le braccia sul petto, fingendo, da grande stratega ch’era, di non essere più interessata. Si trattò però di un bluff, e con un balzo felino da vera ninja, in un battito di ciglia la Chipmunks si trovò appesa alle spalle di Nathan come un koala sul suo ramo preferito di eucalipto, le dita a cercare di stringersi attorno al dono portato dai gufi. «UNA è MIA, DAMMELA» «Non è assolutamente niente! Sono le...ehm... bollette del... ehm... cotone! Il Ministero ha imposto nuove tasse sull'uso del cotone!» «NATHAN WELLINGTON» ribattè piccata stringendo i denti, sfidando l’equilibrio di entrambi con le gambe avvolte attorno alla vita di Nate, e il gomito incuneato nella sua spalla.
    Quando cominciò a correre, ebbe inizio il problema. Erin, fedele koala fino alla fine, si aggrappò con più saldamente sulla schiena del mimetico, troppo testarda per arrendersi così presto. Perché voleva tenerglielo segreto? ERA IL SUO REGALO DI COMPLEANNO? Le stava facendo una sorpresa? AW. credici. Bastò quel pensiero positivo e felice per convincerla a lasciare la presa, incespicando poi di qualche passo dietro alla fuga forsennata del giovane.
    Ma Erin, non è il tuo compleanno. Era vero, dannazione! Sempre più oltraggiata dal comportamento assai meschino del suo coinquilino, Erin partì alla rincorsa: conosceva il quartier generale più di Nate, e non c’erano scorciatoie ch’ella non avesse ben presente – senza contare che ormai quelle fughe erano ordinaria amministrazione, ed ormai aveva anche appreso in quale punto del corridoio frenare per giungere alla svolta senza perdere velocità. «QUANDO TI PRENDERÒ, SARÀ PEGGIO» minacciò con voce greve, riflettendo rapidamente sulle alternative. Ormai era una questione di principio, il che aveva trasformato quella sfida in una vera e propria civil war, come la volta nella quale si erano esibiti in una battle dance fra gang partecipando con due squadre differenti. Dove sarebbe andato? Era da escludere l’ufficio di Morrigan, così come l’infermeria, e di certo da quel lato non sarebbe arrivato alla sala degli strateghi…l’ufficio di Keanu. Si fiondò in quella direzione ignorando il percorso labirintico intrapreso da Nathan; quand’egli, come prevedibile, giunse all’uscio, lei era già lì ad aspettarlo. «non così in fretta, cowboy» alzò l’indice e lo ruotò rapidamente in aria mimando di far girare una pistola, per poi fingere di afferrarla ed intascarla nella fondina. «Okay Erin, te lo darò, ma solo dopo aver visto Sherlock» Perché era così cattivo con lei? L’espressione ostinata della Chipmunks si sciolse in una maschera corrucciata, le sopracciglia aggrottate e le labbra strette fra loro. «no» commentò decisa, picchiettando con le dita sul palmo della mano destra perché lui le desse quelle dannate lettere. Rimase cocciutamente immobile mentre lui le passava accanto per andare a spiaggiarsi nel divano, gli occhi chiusi ed un sospiro esasperato a premere sulla lingua. Era una creatura curiosa di natura, la Chipmunks; figuriamoci quando di mezzo c’era un tale accanimento nel nasconderle qualcosa, matematico che avrebbe fatto di tutto per ottenerlo.
    «a meno che tu non voglia mettere le mani sotto il mio culetto»
    La sottovalutava.
    Sbuffò, scuotendo il capo con rassegnazione. «niente brownies per un mese» lo informò stringendosi nelle spalle con tutta l’arroganza (poca) di cui era capace, avvicinandosi poi al divano dell’ufficio di Keanu per lasciarsi cadere di peso al suo fianco. Non avevano portato il cibo, il che rendeva difficile guardare qualsivoglia telefilm (cosa? Erano in post sbronza e l’idea di mangiare avrebbe dovuto farle venire la nausea? Evidentemente, non la conoscete abbastanza). Rimase seduta a gambe incrociate finchè non divenne chiaro che nessuno dei due aveva alcuna intenzione di alzarsi, per cui si sistemò sui cuscini e si schiarì la voce. «se vai te a prendere i biscotti ed il gelato, mi arrendo» sorrise e sbattè le ciglia nel ritratto dell’innocenza, le mani lasciate mollemente in grembo. «SHERLOCK È LA PRIORITÀ» vero, eh. Di fatti aggiunse: «parola di lupetto» promise, alzando le dita verso la fronte nel saluto scout, con l’ingenua dolcezza tutta Erin.
    Quando Nathan, assicurandosi di avere le famigerate lettere con sé, si alzò per occuparsi del loro mantenimento, Erin rimase ferma e rilassata, sottolineando con un’occhiataccia che intendeva davvero quanto aveva detto. «sai nate, ho fatto un sogno bellissimo» gridò verso la porta aperta alle proprie spalle dove si era avviato l’amico, il mento poggiato sul sedile del divano. Sentì le guance arroventarsi, e con un sorriso dimentico della guerra in corso, si sprimacciò le guance e chiuse gli occhi. «c’era una festa, e c’era un sacco di gente! C’eravate tu, e Scott, e Murphy, e Patrick, e Sin, e Athena, e Idem, e tutti» iniziò, rendendosi conto che la lista minacciava di diventare più lunga del sogno. Si umettò le labbra, le dita intrecciate fra loro. «e poi c’era questo ragazzo» inspirò ed espirò sonoramente, lasciandosi scivolare languidamente sul divano. Non era davvero in grado di reggere la liquidità di quell’amore, il quale (come sempre) la costringeva in uno stato fisico morbido come budino e le impediva di rimanere seduta come una signorina che si rispettasse; non riusciva a cancellarsi il sorriso dalle labbra, mentre il cuore già batteva contro le costole seguendo un ritmo tutto personale. «oh, nate. era così…» scosse il capo sognante, le mani premute sugli occhi. «…bello. Aveva questi occhi sottili e gentili, e aveva dei denti bellissimi e una fossetta sulla guancia! un così buon profumo» ormai Nathan era già tornato nella stanza, ma Erin neanche se n’era accorta. «e aveva una voce così dolce, nate! i capelli scuri, così perfetti» un altro sospiro, la mente già a divagare dimentica dell’amico nella stanza. «hai presente la sensazione che hai quando addenti il tuo biscotto preferito?» distrattamente allungò una mano ed afferrò la confezione di frollini, infilandosene rapida uno in bocca. «o quando mordi un cupcake? O quando fai i grattini a Luna, e lei risponde con vibranti fusa sotto il tuo palmo? Ecco» ingoiò il biscotto, passandosi le dita sulle labbra per togliere le briciole. «era quello che provavo ogni volta che sorrideva- e lo faceva così spesso» troppo tardi per tornare indietro. Nathan già doveva immaginare cosa Erin, a breve, avrebbe aggiunto, essendo ormai quello un clichè della Chipmunks: ma per la ribelle, era sempre come la prima volta.
    Perché ci credeva davvero, lei. Con tutta sé stessa. Ogni. Volta.
    «penso che sia quello giusto» concluse poggiando un palmo contro l’altro, per poi far ricadere la guancia sinistra sulle dita giunte.
    E rapida come il serpente che sotto sotto era, si scagliò contro Nathan approfittando dell’effetto sorpresa così da appropriarsi delle lettere. «ERO UNA COCCINELLA, NON UN LUPETTO! HA!» gridò come giustificazione, onde evitare di essere accusata di spergiuro. Si acciambellò su un lato del divano allungando una gamba per bloccare Nathan, tutta sversa oltre il bracciolo per tenersi il più lontano possibile dal mimetico. Era… Polgy girl? Ma che diamine. Osservò il sigillo con sincera sorpresa, le sopracciglia aggrottate ed un espressione (stranamente) confusa. «nathan wuruhi wellington» iniziò, rompendo la busta con lenta intenzione mentre ruotava gli occhi su di lui. «c’è qualcosa che vuoi dirmi, prima che io apra questa lettera? Dillo ora, o subisci la mia ira funesta dopo»
    E con ira funesta, intendeva catapulte di cereali.
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    ⚜ 18 y.o. | mimesis | rebel heart
    Spesso Nathan si ritrovava ad osservare le persone. Non pensate a nulla di male, nonostante avesse avuto precedenti di stalking con Freya, non osservava le persone in quel modo. Le guardava quando passavano davanti a lui, persone che lui conosceva ma delle quali non sapeva ancora molto (sia perchè non volessero rivelarlo, sia perchè nemmeno loro le sapevano). Guardandole affaccendarsi e occuparsi delle millemila consegne che dovevano eseguire al QG, il mimetico spesso si chiedeva come sarebbe stato se quelle persone non avessero mai ricordato o se nessuno lo avesse mai fatto per loro. Come sarebbe quel posto se Skandar non avesse mai incontrato Patrick? Chi avrebbe cucinato per lui se la sorella gemella di Idem fosse stata ancora in circolazione causandole problemi? E se Aveline non avesse mai inscenato il suo suicidio? Cosa ne sarebbe stato di Phobos se i suoi professori non lo avessero mai introdotto a quel mondo fatto di segreti e sotterfugi che era la Ribellione?
    Di solito queste domande rimanevano senza risposta o, peggio, a queste se ne aggiungevano altre che facevano desiderare al ragazzo di poter viaggiare tra gli universi e visitare quelli dove queste persone non erano mai venute a sapere dell'Oblivion. Alle volte, quando la noia e la pigrizia lo spingevano a rimanere nella sua camera senza far nulla, osservava il soffitto e iniziava ad ipotizzare, costruiva un mondo in cui il QG non esisteva, un mondo senza ribelli e dottori, magari anche il mondo senza Oblivion (anche se quello era un mondo che si costruiva solo quando era tremendamente malinconico e stanco di quella vita che, però, aveva scelto lui stesso). Continuava a farsi domande e, stupide o intelligenti che fossero, nessuno avrebbe mai pensato seriamene di rispondergli, dicendo di avere di meglio da fare o urgenti compiti da portare a termine, ma sapeva che c'era qualcuno disposto a rispondere a quei dubbi futili. La sua migliore amica non gli avrebbe mai dato una pacca affettuosa sulla spalla dicendogli di lasciarlo stare, ma si sarebbe profondamente interessata con lui su le miriadi di AU che sarebbero potuti esistere, eppure l'argomento non era mai stato tirato fuori dal Wellington. Aveva paura di quello che avrebbero potuto dire, aveva paura che le loro parole potessero far sparire quelle persone facendo avverare le ipotesi, temeva che dirlo a voce alta sarebbe stato come recitare un incantesimo troppo potente per essere non verbale, un incantesimo che, finchè fosse rimasto tra le sue mura mentali, sarebbe stato al sicuro. Ma, più di tutto, temeva che Erin se ne andasse. Nate aveva così tante ipotesi su una possibile alternativa per Erin: sarebbe stata smistata in Grifondoro o Tassorosso? Avrebbero fatto amicizia anche ad Hogwarts? Avrebbe giocato a Quidditch o avrebbe aperto un club per il suo corpo di ballo? Come sarebbe stata la sua bacchetta? E il suo Sicarius? Tutte domande che passavo per la testa dell'ex animagus quando si ritrovava ad osservare la sua amica, una ragazza che ne aveva passate di cotte e di crude ma che sembrava essere messa meglio di Nathan. Sembrava. Non dubitava che anche Erin piangesse, l'aveva vista farlo e sapeva che durante la missione i ricordi erano inevitabilmente riaffiorati nella mente della ribelle, era anche per quello che non le faceva quelle domande: non voleva che lei si rendesse conto che avrebbe potuto avere di meglio, non voleva che continuasse a vivere rimpiangendo la vita che le era stata negata quando Keanu l'aveva portata al Quartier Generale. Non voleva farle vivere una vita facendole notare che avrebbe potuto viverne un'altra. Le voleva troppo bene per farle un torto del genere, teneva troppo alla sua ribelle compagna di cibo spazzatura per vederla con gli occhi spenti e il volto stanco e fu per questo che decise che non le avrebbe mai posto quel genere di domande.
    Però avrebbe volentieri voluto smerdarla (fatemi passare il termine, non trovo sinonimi) in una battle dance quando scoprì che aveva osato mentirgli su una cosa sacro santa come gli scout «Mi pare ovvio che tua sia stata una coccinella. I lupetti non avrebbero mai fatto una cosa del genere!» sibilò assottigliando gli occhi e, facendo il gesto della sua tribù, ululò due o tre volte al soffitto. Se all'esterno Nathan sembrava offeso o addirittura arrabbiato, bisogna che vi sveli un segreto: dentro di sè albergava una paura indescrivibile, un timore che lo stava rodendo da dentro come avrebbe fatto un roditore con una forma di groviera. Il rumore delle dita di Erin che strofinavano la grana della carta era incredibilmente stressate e goccioline di sudore percorsero la spina dorsale del ragazzo che, in ansia per quello che sarebbe successo dopo, avrebbe tanto voluto rendersi invisibile: la mimesi sembrava così power, poi stava senza altri poteri ed era utile quanto un paio di braccioli nel Sahara -cit.
    «nathan wuruhi wellington» il sigillo di cera si infranse sotto la pressione delle dita di Erin con un suono che ricordò quello delle ossa quando si rimpono (e Nathan ne aveva sentite di ossa che si rompevano in missione) «c’è qualcosa che vuoi dirmi, prima che io apra questa lettera? Dillo ora, o subisci la mia ira funesta dopo» con uno sguardo spaventato, rassegnato ma anche offeso fulminò la Chipmunks.
    «Erin Therese Chipmnuks» disse il secondo nome con la stessa inflessione con cui l'aveva detto Erin, in un muto ma evidente gesto di sfida che sperò la ragazza cogliesse «credere a tutto quello che si dice non è un bene» aveva parlato il primo che a dicembre del 2012 aveva cercato di rimediare a tutti i torti fatti temendo la profezia dei Maya «quindi hai ancora tempo per darmi quella lettera che, in mia difesa, ha detto cose che dovrebbero rimanere voci di corridoio» si avvicinò all'amica (o almeno a quella che era stata la sua amica prima dell'imperdonabile tradimento) «ha scritto cose che hanno fatto sfigurare tutti noi. Tutti» dopo aver sussurrato queste parole si allontanò, sperando di aver insinuato il timore e il dubbio nell'animo della strega. Perchè doveva essere solo lui quello che stava per essere mangiato vivo dalla paura, quando avrebbe potuto scamparla ripagando la sua minacciatrice #wat con la sua stessa moneta? Prese anche lui la busta e ruppe il sigillo con uno scatto secco delle mani, sempre più intenzionato a spaventarla e farle pentire di aver anche solo pensato di aprire quella busta «se apri quella busta, io aprirò questa. Farei volentieri a meno di questa situazione, ma mi stai costringendo ad andare avanti, Tessa» non usava quasi mai quel nome per Erin, la faceva sembrare meno... meno Erin. Odiava dover essere cattivo, ma, quando si sentiva costretto, anche lui doveva sfoderare gli artigli. Era o non era un lupo? La risposta giusta è "no, non lo era", ma in cuor suo Nathan sperava sempre che Wuruhi ritornasse e si sentiva ancora un po' lupo. Dopo tutto, non ci si poteva aspettare che una cosa che lo aveva accompagnato da sempre durante la sua vita lo avesse abbandonato tutto d'un colpo senza lasciare alcuna traccia dietro di sè. C'erano ancora quei particolari, quei gesti che un occhio distratto avrebbe catalogato come tick o abitudini, che appartenevano al lato animalesco che, pur non essendo più con lui, sentiva di aver integrato nel suo lato umano. Non era raro infatti che Nathan sperasse che il suo lato umano avesse assorbito quello lupesco: Wuruhi sarebbe stato ancora lì, ma l'umanità lo aveva semplicemente soffocato, appannando il vetro attraverso il quale Nathan si vedeva in forma animale.
    Ma, ritornando a noi, in quel momento gli artigli gli sarebbero serviti a ben poco. Le mani strofinarono la carta ruvida con quella movenza che sarebbe stata facilmente riconducibile ai duelli nel Far West. Gli occhi del mimetico fissi in quelli della strega, le dita pronte a sfilare il foglio dalla busta in cui era stato piegato e il cuore rassegnato alla possibilità che forse non sarebbe stato lui il grilletto più veloce del Quartier Generale. Uno spettatore esterno avrebbe potuto facilmente credere che fossero stati dei viaggiatori del tempo, provenienti dall'America del diciannovesimo secolo e Luna che continuava a rotolare per la stanza miagolando non rovinava l'atmosfera, assomigliando a quei strani cespugli che di vedevano spesso rotolare nel film. «Siamo ancora in tempo. Questa città è grande abbastanza per due se chiudiamo queste lettere...» ma non era destino che i segreti di capodanno rimanessero tali.
    Non temeva lo scontro a fuoco con la ragazza davanti a lui (e per fuoco intendeva marshmellow bruciacchiati), quanto più temeva quello che avrebbe potuto pensare di lui. Perchè aveva fatto una cosa del genere? Perchè si era avvicinato tanto al telecineta? Era stato anche messo in guardia dalle sue capacità amatorie dallo stesso, eppure gli era sembrata un'ottima vendetta quella che aveva messo in pratica. Sperò solo che Freya non volesse vendicarsi a sua volta (di chi poi? di Nate o di Jay?). Fu il pensiero della rossa che lo fece rabbrividire più di tutti, la consapevolezza che anche lei aveva ricevuto quella lettera, che anche lei avrebbe letto quelle righe e che non l'avrebbe potuta fermare. Non da lì.
    «qualunque cosa ci sia scritta, sappi che io voglio bene a Freya e che nulla di quello che sta lì dentro è stato fatto per ferirla» disse in tono più serio, per quanto serio poteva essere con tutti quei biscotti ancora tra le braccia. Era andato a prenderli mentre Erin urlava della sua ultima cotta e non li aveva ancora mollati, doveva pur avere un ostaggio di cui avvalersi in casi estremi, o sbaglio? E quale ostaggio migliore dei biscottini al cioccolato e quelli di marzapane a forma di omino: già pregustava il momento in cui avrebbe staccato la testa di uno di loro con un morso feroce. Perchè Nathan sapeva.
    Sapeva che nulla avrebbe persuaso la Chipmunks dal leggere il bollettino di Polgy Girl e, quando la vide estrarre il foglietto, fece la stessa identica cosa. In un lampo si ritrovarono a leggere entrambi quelle parole incriminanti.
    Non potè trattenere un sorriso quando lesse per la prima volta il nome della sua amica «Erin hai presente il sogno di cui mi stavi parlando?» non attese nemmeno che la Chip gli rispondesse, troppo impegnata forse a trovare notizie scandalose sul suo amico (notizie che non si sarebbero fatte attendere molto) «mi sa tanto che la maglietta bagnata di questo Stich non è un sogno, anzi deve essere piuttosto reale per esserci sbattuta contro» ridacchiò fra sè e sè, immaginando l'amica imbarazzata con il bicchiere svuotatosi sopra il ragazzo. «chissà chi ha cresciuto questo tipo: hai letto che ha fatto la pipì su un sacco di persone? EW» esclamò disgustato, sforzandosi di non vomitare sulla busta dei biscotti. Non appena alzò lo sguardo dal foglio di carta, però, ebbe ben altro di cui aver timore: gli occhi di Erin sembravano volerlo incenerire e ci sarebbero anche riusciti se non fosse stato che era senza bacchetta e sena poteri. Per la prima volta fu felice che quelle domande erano rimaste semplici quesiti per un mondo utopistico, ma tanto utopistico non era stato quello che Erin doveva aver letto. Nathan sperò ardentemente che si trattasse del flirt che una certa Ashley aveva tentato con lui la notte scorsa, andando miseramente in bianco #sorrynotsorry #solounospasimanteasera, ma sapeva bene che la sua speranza era vana e futile. Era fottutamente fottuto, Nathan Wellington.
    «Erin io ti voglio bene, lo sai vero?» tentò con un sorriso di finta innocenza, ma evidentemente voleva più bene a quel Jayson Matthews.
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    Erin si sentiva ancora terribilmente strana. Il mondo le pareva ovattato, come se i suoni giungessero da luoghi alternativi a quello in cui stava vivendo; le braccia e le gambe sembravano fatte di gelatina, e lo stomaco si contorceva ad ogni movimento supplicandola di tornare a morire nel letto per smaltire quella che, ufficialmente, era stata la sua prima vera sbronza. Decisamente, la Chipmunks non era fatta per gli alcolici: avrebbe dovuto rimanere sui solidali brownies alla droga, anziché farsi trascinare nel tunnel oscuro dei cocktail. Ma erano così carini, con quegli ombrellini! Come si faceva a resistere? Non che il post sbronza potesse in alcun modo limitare la vivacità della Chips, o il suo bisogno di sapere: più Nate faceva il misterioso, più Erin si sentiva in dovere di scoprire cosa le stava nascondendo. Era il suo miglior amico, ed i migliori amici non avevano segreti, giusto?
    «credere a tutto quello che si dice non è un bene» Nessuna frase che iniziava a quel modo, avrebbe potuto avere risvolti positivi. Corrugò le sopracciglia ed osservò il Wellington con un cipiglio scettico, le palpebre assottigliate nel tentativo di cogliere ogni minimo accenno di cedimento da parte del ragazzo. Come poteva dirle una cosa del genere? L’ingenuità di Erin era classificata come una delle meraviglie del mondo, sotto protezione personale della UNICEF: non esisteva Chipmunks, senza l’innocenza con la quale ella credeva a qualunque cosa le venisse raccontata, si trattasse di unicorni volanti o leggende metropolitane che vedevano Keanu in veste di Batman. «quindi hai ancora tempo per darmi quella lettera che, in mia difesa, ha detto cose che dovrebbero rimanere voci di corridoio» Nessuna voce di corridoio nasceva per rimanere tale, era insito nella natura dei pettegolezzi quella di circolare come sangue nelle vene. Per tutta risposta, tranciò il sigillò della lettera con un unico gesto secco, il sopracciglio sinistro allusivamente arcuato verso lo special. «dimmelo tu, prima che le legga qui. cos’è, poi? E come fai a saperlo? NATHAN.» più il tempo passava, più sentiva l’eccitazione della scoperta scemare per lasciare spazio al puro e semplice terrore. Di cosa si poteva vergognare tanto da non fargliene parola? Cosa, tanto insistentemente, non voleva sapesse? «ha scritto cose che hanno fatto sfigurare tutti noi. Tutti» Se avesse stretto maggiormente le palpebre, sarebbe diventata Brock. Non sapeva in quale altro modo esporre il proprio cinico sospetto nei suoi confronti – eppure si irrigidì impercettibilmente, i polpastrelli stretti attorno alla pergamena della busta. Non le era piaciuto affatto il sussurro di Nathan, il quale sembrava volerle far credere che lì, proprio lì dentro, ci fosse qualcosa che l’avrebbe fatta pentire amaramente di aver preso quella testarda posizione. Forse, si disse, aveva ragione lui. Forse non avrebbe dovuto aprirla, ed avrebbe dovuto rimanere nella sua ignoranza fidandosi delle parole del suo miglior amico.
    FIGURARSI! «impossibile.» ribattè piccata, ma senza riuscire a celare completamente il primo, infido, seme del dubbio. Era abbastanza certa che fosse impossibile trovare pettegolezzi che la riguardassero – e lo sperava, perché il suo sottile amor proprio non avrebbe retto. Considerando il… peculiare comportamento di Erin Chipmunks nei confronti della vita, era difficile credere che avesse una dignità, ma invero, era una delle sue caratteristiche più marcate. Ci teneva ad apparire sempre al meglio, Erin; ci teneva, a quel che gli altri pensavano di lei. Abbastanza, confidava, da non aver fatto nulla di cui vergognarsi. I secondi passavano, e la Chips si domandò se quella fra le sue mani non fosse la lista dei codici missilistici degli USA – perché affidarli agli Erinton, direte voi? Beh, se l’America aveva avuto il coraggio di consegnarli a Trump, non vedeva perché loro non avrebbero potuto avere lo stesso trattamento di favore. Se il problema erano i capelli, le tinte esistevano apposta. «se apri quella busta, io aprirò questa. Farei volentieri a meno di questa situazione, ma mi stai costringendo ad andare avanti, Tessa» Non attaccava. In quella debole minaccia, Erin riusciva solamente a leggere il terrore insito negli occhi del Wellington. E lo sapeva, Nate, che la strega non sapeva resistere al richiamo di una sfida. «sto prendendo la lettera, wellington.» alzò una spalla nella sua direzione, cominciando, con non troppo velato istigamento, ad estrarre la pergamena dalla busta - lentamente, centimetro dopo centimetro, e senza mai distogliere la propria attenzione dal nemico.
    «Siamo ancora in tempo. Questa città è grande abbastanza per due se chiudiamo queste lettere...»
    Scosse il capo, Erin Therese Chipmunks. Greve e profonda, come la voce di Sandy Cohen, inspirò secca dalle narici. «è troppo tardi» era sempre, troppo tardi.
    E con un fluido movimento della mano, lanciò la busta sulla faccia di Nate per impedirle di leggere prima di lei, e si fiondò sulla lettera. Le bastarono le prime righe per farle emettere un gridolino fra l’estasiato ed il terrorizzato, la mano sinistra a premere sulla bocca dischiusa: «MA è POLGY GIRL!!!!!!111!11» Con tanto di uno pronunciato, altrimenti che esaltazione sarebbe stata. Sentiva il cuore pulsare rapido dietro le costole, eccitato come un bambino il giorno di Natale. Polgy Girl ed il Cioè, erano indubbiamente le sue riviste preferite: dove credevate che trovasse gli spunti per le sue storie? Su quale base, Erin Chipmunks, scriveva tutte le sue fanfiction? Era così in fibrillazione, che strinse istintivamente il braccio del Wellington. Non aveva ancora istinti omicida, voleva solamente condividere l’emozione – e non aveva mai compreso come gli altri potessero tenersela per sé, quella gioia smisurata. Quando Erin si sentiva felice, tutti dovevano esserlo, e soprattutto tutti dovevano sapere qual era stato il motivo ad averla resa così allegra. Chissà se era lei, ad essere fatta male, o il mondo.
    Lei.
    Primadonna (come zio Arci) scorse subito l’articolo alla ricerca del suo nome, le guance ad arrossarsi mano a mano che trovava Erin scritto più e più volte nell’articolo.
    «ho ballato con sin? AH! Esiste davvero?? Aw. AH! O emme gi. Ew. Meh.» non tutti I principi azzurri potevano essere perfetti, giusto? Lei era una principessa non addormentata, quindi poteva permettersi che il suo principe facesse… la pipì… ma perché? «magari erano feriti» lo giustificò subito, lanciando un’occhiata di sottecchi a Nathan. «la pipì è un ottimo disinfettante, bear grylls lo dice sempre» teh, e poi dicevano che i documentari di sopravvivenza (?) non servivano ai giovani! (?!). Solo dopo essersi assicurata di aver fatto solamente cose adorabili, che le dipinsero un glorioso sorriso sulle labbra, cominciò a cercare il nome di Nathan.
    «…» «Erin io ti voglio bene, lo sai vero?» Inspirò, espirò. Chiuse gli occhi, li riaprì.
    «nathan» iniziò, in un ringhio basso stranamente minaccioso dalla morbida bocca rosea della Chipmunks. «wuruhi» gesù! Ma com’era possibile? Quanto l’aveva lasciato solo, dieci minuti?!?!?!? «WELLINGTON!» prese un cuscino del divano e lo scaraventò contro il mimetico; ne prese un secondo, cominciando a picchiarlo con quello il più rapidamente possibile, approfittando della distrazione del primo nella speranza che non riuscisse a reagire. «ma sei SCEMO una cuscinata, cercando di salvaguardare i biscotti – priorità. «COSA HAI FATTO. Perché?? JAY!» squittì, placando l’ira funesta per portarsi le mani alle labbra. In realtà, lo conosceva poco, se non di nome – l’aveva intravisto, ne aveva letto sul Morsmordre, le dava uno strano senso di deja vu. Eppure, trovava assolutamente intollerabile che, fra tutti gli invitati, Nathan avesse limonato (LIMONATO!) lui. Senza contare che: «PENSAVO TI PIACESSE FREYA! MA SEI VERAMENTE» si sprimacciò le guance nel tentativo di resistere alla voglia di prendere a pugni l’amico. «UN IDIOTA!» sbottò, arrossendo per quel turpiloquio che tanto faceva effetto, detto con la sua voce. «NON SIETE ANCHE USCITI INSIEME? E DAVANTI A LEI! E LUI, oh jeez» si lasciò ricadere sul divano priva di forze, il viso nascosto fra le mani. «TI SEI BEVUTO IL CERVELLO??????????? COME HAI POTUTO!!! NATHAN!!!!» Gli strappò i biscotti dalle braccia, e con furia cieca se ne ficcò uno in bocca, tornando poi a guardarlo in tralice. Se gli occhi avessero potuto incendiare, Nathan Wellington sarebbe già stato un bel falò. «sono molto, molto» masticò, prese un altro biscotto. «molto, molto, molto» deglutì, passandosi il dorso della mano sul mento per togliere le briciole. Incrociò le braccia sul petto e smise di guardarlo, offesa personalmente dal comportamento di quello che credeva un amico. «delusa, da te. FREYA! Lei è così… come hai potuto» corrugò le sopracciglia, una rapida occhiata verso di lui prima di tornare a fissare un punto imprecisato di fronte a sé. «E NON ME L’HAI DETTO!» irritata, prese un terzo cuscino e gli scagliò contro pure quello.
    Ed occhio, Wellington, perché i cuscini erano finiti: il prossimo passo, sarebbe stato il tavolino.
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