spaco girls do it better

post quest#7 | euge, nate, gemes

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    charming and irresponsible -- death eather, fucker, 25 y.o. | 17.11.16
    Non era uno che si arrendeva facilmente, Eugene Jackson, eppure di fronte a quei corpi martoriati sentì venir meno la storica baldanza, quell'innata convinzione di poter aggiustare tutto, rimettere le cose a posto. In un istante il pavor aveva perso quasi tutto ciò che aveva. Chi di loro, volontari e rapiti, si era visto strappare non una, ma ben tre persone care? Avrebbe dovuto chiedere a Sinclair Hensen, o a Jayson. Ma non aveva idea che entrambi  tenessero ad Al quanto lui, forse persino di più. E saperlo non sarebbe stato comunque di aiuto, dico bene?
    Era rimasto immobile, le iridi grigio azzurre incapaci di distogliersi da quello spettacolo di violenza e disperazione, dalle dita impazzite accorse a stringere brandelli di vestiti, ad accarezzare capelli e visi troppo pallidi. Bells, un ragazzino di cui non conosceva il nome, una giovane in lacrime chinata sul corpo della mora. Era anche il suo posto, quello: al capezzale del suo migliore amico, della sua ragazza, di suo cugino. Etichette che mal si adattavano ad Elijah, Run e Aloysius, ma che in quel momento sembravano tanto giuste nella loro banalità. Non aveva le forze, il venticinquenne, per spiegare a se stesso quanto più importante di un amico fosse stato il Dallaire, in che modo il suo rapporto con la Crane andasse oltre le normali convenzioni dei rapporti tra uomo e donna, di cosa avesse significato per lui e Delilah vivere parte della loro vita insieme al biondo.
    Sarebbe dovuto rimanere al loro fianco, stringere le proprie dita sulla pelle ormai gelida, ma non poteva.
    Sembrava bloccato, come se quello stesso freddo di metà novembre gli fosse penetrato nelle ossa, avesse avvelenato il sangue facendosi spazio attraverso le ferite. Insieme. Vivere, o morire, ma insieme. Era questa la promessa fatta ad Elijah, questo il patto stretto undici anni prima, mentre il loro sangue si mescolava diventando unica fonte di vita, legati per sempre. Doleva la cicatrice sul palmo, una fitta bruciante di nostalgia e rammarico, più potente di qualunque altra sofferenza inflitta da pallottole o aguzze schegge di legno conficcate nell'addome. Aveva tenuto stretto tra le dita qualcosa di piccolo, fragile e prezioso, dandone per scontata la presenza finché questo non era andato ad infrangersi in maniera irreparabile; li aveva dati per scontati, Eugene Jackson, e loro erano morti.
    «e se vi dicessi che, ipoteticamente s’intende, potrebbe esserci la possibilità di--


    --bere?» «che?» L’incertezza si era fatta strada negli occhi chiari dell’Hamilton, evidentemente confuso dalla vita stessa, e nel riconoscerla Eugene non poté fare a meno di sorridere, come qualunque persone di buon cuore trovandosi di fronte ad un cucciolo di labrador non propriamente stabile sulle zampette pelose. Avvolse il braccio destro attorno alle spalle del ragazzo, mostrandogli con la mano libera l’insegna del pub il cui ingresso si stagliava davanti a loro in tutta la sua triste fatiscenza, mentre Nathaniel faceva del suo meglio per aiutarlo a mantenere l’equilibrio. Non era stato facile trascinarsi fino a Dark Street con una gamba ferita e una scheggia di legno lunga quindici centimetri conficcata nel fianco, ma la recente eccitazione mista a felicità per come si erano magistralmente risolti tutti i loro casini aveva avuto la meglio. «Bere, Gemmy. Dobbiamo bere per festeggiare, non puoi dire di no.»
    In effetti, Gemes Hamilton non poteva.
    E, a giudicare dalla faccia del ventiseienne, non ne aveva nemmeno l’intenzione. Effetto #eurun
    «Bravi, così vi voglio. Appassionati.» Sarebbe dovuta essere una battuta, quella del pavor, ma bastava guardarlo in volto per capire che il suo entusiasmo era puro, innocente, irrefrenabile. Al punto che dopo un solo bicchiere della benza venduta illegalmente da Spaco anche gli altri due avrebbero certamente cominciato a condividerlo, ciascuno per i suoi motivi. Nathaniel per il sollievo, quello di essere usciti vivi e vegeti da una situazione in cui il lieto fine non era nemmeno stato preventivato, la più intima e prorompente forma di felicità alla sola idea di non aver perso l'amico più caro, una parte di sé. Esisteva forse un motivo più importante, o un momento più catartico per festeggiare? Euge era convinto che no, non esistesse. Quanto a Gemes, anche se il ragazzo di suo avesse preferito tenere private le proprie emozioni, lasciandosi sfuggire un sospiro di sollievo nella solitudine della sua stanza, il destino aveva in serbo per lui qualcosa di ben diverso. Non puoi unire la tua coscienza, il tuo stesso io interiore, a quella di Eugene Jackson e Heidrun Crane diventando una cosa sola, e pensare seriamente che una personalità oscura e spaccagioia possa avere la meglio.
    Li spinse, o per meglio dire si lasciò spingere, fino all'ingresso del locale, deciso a fare la sua entrata trionfale nonostante la fitta continua di dolore che dal fianco si irradiava in tutto il corpo, creando evidente fastidio anche al suo nuovissimo amico del cuore. «TUTTA LA NOTTE?» Qualche testa ruotò lentamente verso il terzetto, sollevando occhi venati di rosso e privi di qualunque lucidità sui vestiti logori, le chiazze di fango ormai secco a mescolarsi con sangue ancora fresco, senza fare una piega. Rientrava tutto nella normalità, per gli avventori dello SpacoBot. Il proprietario stesso, in piedi oltre il bancone con una bottiglia priva di etichetta stretta nella mano destra e la mancina a ravanare nei pantaloni stinti, parve del tutto disinteressato nel vedere gli ultimi arrivati, ma l'ex serpeverde lo conosceva bene. Troppo bene, per non individuare un barlume di sorpresa, una scintilla di sollievo velata dalla cataratta che adombrava le iridi chiare. Avevano più di un conto in sospeso, loro due, ma di fronte ad una nottata come quella appena passata, il venticinquenne era disposto a mettere da parte gli antichi dissapori (quali), sotterrare l'ascia di guerra in nome del party hard. «Coca e mignotte?» La voce di Gemes gli giunse timida all'orecchio, la fronte del ragazzo corrugata come normale reazione per una frase che evidentemente gli era sfuggita di bocca senza che il proprietario della stessa ne conoscesse il significato. Lo strinse più forte, Eugene, tirando l'Hamilton a sé trattenendosi appena dal schioccargli un bacio sulla testa, e solo in quanto conscio che quel movimento avrebbe provocato una considerevole fitta di dolore acuto, ma regalando comunque al ragazzo un sorriso radioso, estatico. «Per la barba di Morgan, quanto cazzo ti voglio già bene.»

    «--riportarli indietro?» La testa di Eugene si era sollevata di scatto, un movimento meccanico ed istintivo con cui il suo corpo ferito e distrutto a livello più intimo aveva reagito sospinto da una rinnovata fiammella di speranza. Voleva crederci, ad ogni parola. Che l'amore fosse la chiave per ricominciare da capo, che condivisione e sacrificio fossero sufficienti per rimediare agli sbagli che lui, tutti loro avevano commesso. Quella sera, in quella vita. Non gli importava nemmeno del fatto che vi fosse ovviamente qualcosa di sottinteso nella voce di Lancaster, un non-detto al quale nessuno di loro voleva dare conto, ciascuno troppo preso dalla propria disperazione, dal proprio dolore, per pensare anche solo lontanamente alle conseguenze. Aveva mille buoni motivi per rifiutarsi, Eugene Jackson, per sentirsi giustificato nel fare un passo indietro, e tre contati sulle dita di una mano che lo spingessero a fare un passo avanti. Ma quei tre bastava, e avanzavano: stavano lì, sdraiati nel fango sotto i suoi occhi, le palpebre chiuse su volti stanchi ma apparentemente sereni, fango e sangue lavati via da una pioggia compassionevole.
    Lo avrebbe fatto per ciascuno di loro, se fosse stato necessario.
    «a-mors: un legame, qualcosa di abbastanza solido sul quale potreste camminare. Senza questo, il resto è inutile: dovete tenere a queste persone, altrimenti... come dicono i giovani? Con il cazzo che funziona» Ci teneva?
    Li aveva guardati ad uno ad uno, soffermando le iridi grigio azzurre su ciascun viso, senza soffermarsi sui capi chini di chi attorno a loro continuava soffrire e di chi, come lui, si era appena concesso di tornare a sperare. Li aveva guardati ad uno ad uno, sentendo il cuore colmarsi di nostalgia e rimorsi, passione e felicità, affetto ed assenza, rendendosi conto solo in quel momento che vivere senza di loro avrebbe significato sopravvivere, senza mai riuscirci davvero. E che se la domanda era «siete disposti a perdere un po’ di voi stessi, per farli tornare indietro?», la risposta non poteva essere altro che «sì.»
    Non si stupì, il pavor, quando, in seguito alla richiesta fatta da Lancaster per dei volontari, vide--


    --una lontra spelacchiata seduta al bancone del bar (piena di whiskey e margaritas; tutto d'un tratto la porta fa slam, il guercio entra di corsa con una novità, dritta sicura si mormora che i cannoni hanno fatto bam HANNO UCCISO L'UOMO RAGNO CHI SIA STATO NON SI SA FORSE QUELLI DELLA MALA FORSE LA PUBBLICITA'), le zampette avidamente strette attorno ad un bicchiere pieno per metà di liquido giallo paglierino, di dubbia provenienza. Il cappello a tesa larga indossato dall'animale, calato di qualche centimetro sul muso nemmeno fosse stato il protagonista di qualche film gangster anni settanta, rendeva difficile individuarne l'identità, ma il venticinquenne non poteva sbagliare. Chi mai avrebbe dimenticato il proprio salvatore? E, diciamo la verità, Larry Roger quella notte aveva parato loro il culo al pari di un cincia assassina, e si meritava certamente quel momento di quiete dopo un duro lavoro.
    «ma quello è..»
    «ma quello è..» Gli occhi dei loweu, così limpidi da rendere entrambi libri aperti, si incrociarono misticamente mentre le loro labbra sillabavano lo stesso, identico quesito, nelle voci la presenza percepibile di riverenza e profondo rispetto. Sarebbero potuti morire là, in quel bosco dimenticato da Morgan e dal mondo, feriti nell'orgoglio e non solo per mano - o per bocca? wat - di una donna infima e crudele, evidentemente innamorata di euge come la maggior parte delle esponenti del sesso femminile (credici), ma la nutria quasi ormai del tutto priva di pelo era accorsa in loro aiuto come un angelo vendicatore, il principe sul cavallo bianco, la tipa bionda che interpreta Josephine ne l'ange guardien. Stupidi telefilm francesi, piacciono solo ad Elijah.

    ..Nathaniel e Rea avvicinarsi al corpo immobile di Elijah, sospinti da una volontà superiore, una forza fino a quel momento del tutto sconosciuta. C'era sempre stato un disegno preciso, nei castafratti, ed Eugene non vi si era mai opposto, prendendolo come un chiaro segno del destino, un'evoluzione naturale. Lo aveva anzi abbracciato, conscio di non poter essere per ciascun membro dell'elite quello che loro rappresentavano uno per l'altro, fiero anche solo di potersi considerare come il figlio scapestrato, quello da rimettere in riga, ma tanto amato. Era giusto che ci fosse Nate, al capezzale del biondo, così come legittima gli sembrava la presenza della Hamilton. Il primo amore e l'ultimo, dico bene? Aveva senso, almeno per lui. E poco importava che ancora non fosse a conoscenza della paccata dei relijah, perchè in cuor suo già conosceva la risposta e, sebbene con qualche difficoltà iniziale dovuta all'antica otp (da portare in salvo) e la accettava come un dato di fatto, l'ennesimo minuscolo pezzetto che andava a completare il loro incasinatissimo puzzle.
    Si rese conto in quel momento, o forse l'aveva sempre saputo, di quale fosse il suo compito, del motivo reale per cui si era spinto tanto lontano, mentendo alle persone che più amava senza essere in grado di dire addio. Voleva salvare Run, Eugene Jackson, ma non pensava che sarebbe arrivato fino a quel punto, di dover prendere il proprio desiderio tanto alla lettera. Eppure, eccolo lì; passi cauti trascinati sul terreno fangoso, la pioggia a confondersi con le lacrime sulle guance pallide, il sangue a spillare lento ed inesorabile da una ferita di cui nemmeno si ricordava più. C'era solo Heidrun Crane, distesa ai suoi piedi, e lo sguardo disperato di una ragazzino che esprimeva rabbia mescolata al dolore, rancore e rimorsi. Chissà quante cose Jeremy Milkobitch avrebbe voluto dire a quella che considerava ormai una sorella.
    Chissà quante cose avrebbe voluto dirle il pavor, se solo avesse saputo che quell'ultimo istante insieme nel capanno sarebbe stato davvero l'ultimo.
    Lo sapevano, il pavor e il diciassettenne, di far parte della stessa macchina, riflessi speculari di due generazioni a confronto, ma non era quello il luogo o il momento per rispettare le gerarchie, per rendere onore ad un passaggio di testimone tra -fratti che ancora nessuno di loro aveva ufficialmente battezzato. Sarebbe arrivato il giorno in cui, seduti attorno ad un tavolo allo SpacoBot, Eugene e l'Elite avrebbero mostrato ai Cata il frutto più prezioso degli anni passati ad Hogwarts, dei sacrifici e delle botte, delle fughe e del bullismo psicologico inflitto a poracci sovrappeso come Charles Palmer, di serate infinite a guardare le stelle fatti oltre ogni limite; la mappa del Castafratto sarebbe passata di mano in mano, come una reliquia di inestimabile valore, a allora ogni cosa avrebbe ritrovato il suo giusto posto nel mondo. Ma lì, ai limiti di una radura nota solo a pochi, con l'odore acre del fumo a sollevarsi indifferente dai resti del capanno andato in frantumi, lì non potevano permettersi di essere amici.
    «se qualcosa va storto, ti ammazzo.» «mi stupirei del contrario, milkobitch.» Si erano guardati per un lungo istante, prima che la mano del pavor si decidesse finalmente a calare sulla spalla del ragazzo, battendovi sopra con vigore, un modo come un altro per rassicurarlo e insieme invitarlo a farsi da parte. Quando il gioco si faceva davvero duro, anche i duri preferivano lasciare il loro posto a quelli senza un briciolo di buon senso, privi dello spirito di autoconservazione che ha permesso all'uomo di sopravvivere per milioni di anni (milioni? chissà), quelli che alla vecchiaia non ci arrivano nemmeno pagando e ne vanno dannatamente fieri. Uno, era Eugene Jackson; l'altro, era--


    --GEMES HAMILTON, IL MIO NUOVO AMICO DEL CUORE!» non è che poteva portare il telecineta a bere da Speco senza presentarlo ad suddetto, eh! Vide con la coda dell'occhio Nathaniel sollevare lo sguardo al soffitto, e si affrettò a rifilargli un umido bacio sulla guancia, nel tentativo disperato di riequilibrare l'affetto in gioco. Gli sarebbe piaciuto, al pavor, poter contenere l'entusiasmo che lo aveva tramortito nel momento in cui la parte più intima della sua anima si era fusa con quella di Gemes e Heidrun, la scintilla di gioia febbrile divampata quando la mora aveva finalmente riaperto gli occhi. Avrebbe dato chissà cosa per potersi finalmente chiudere le palpebre, lasciare il mondo fuori dalla propria testa, trovare un attimo di pace, ma ovviamente questa è una balla bella e buona e probabilmente l'avevate già capito che vi sto prendendo per i fondelli.
    Eugene era nato, per vivere sensazioni come quelle. Per godersele come non ci fosse un domani.
    «Jakey, credo che ti serva un medimago, e al più presto.» Eccolo lì, lo spirito Dallaire che si impossessava senza ritegno del corpo di Nate, costringendo il professore a preoccuparsi come una mamma chioccia con problemi di gestione dell'ansia, una caratteristica che il Jackson aveva sempre, come tutti i figli, amato e odiato. Non aveva poi tutti i torti, il suo migliore amico, considerato il foro rattoppato alla bell'e meglio che bucava il fianco del pavor da parte a parte, ma questo non implicava che Euge volesse o potesse permettersi di dargli ragione. L'ultima cosa desiderata dall'ex serpeverde, quella notte ormai virante alle prime luci dell'alba, era vedersi costretto in un letto del San Mungo con il divieto più assoluto di bere alcolici e quindi festeggiare a dovere. Che nel gergo equivaleva ad uscirne schifosamente marci e felici. «Eaulamadonna Nate, come la fai tragica. Spaco, qui, era un dottore. Può pensarci lui, vero Spaco?.» Ci credeva davvero, eh, tenetelo a mente.
    Cercò intensamente lo sguardo dell'uomo, se così vogliamo chiamarlo, mentre Gemes prendeva posto al suo fianco su uno sgabello cigolante mantenendo la distanza di sicurezza da Larry Roger, e quando lo incontrò questi si sporse sul bancone, alitandogli un faccia un delizioso aroma di benzina, sigaro scadente, scarpe vecchie e trota salmonata (?), senza che il viso coperto di rughe e pizzetto ispido cambiasse di una virgola. Bisognava saperlo leggere, il buon Spaco. «Facevo il cuoco, coglione di un Jackson.» «Ah. Beh dai, più o meno ci siamo.»

    Ma ci siamo dove?
    Lo scoprirete nella prossima puntata.
    eugene jake jackson
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    non era previsto che finisse così, giuro. dovevo scrivere altre mille cose, ma mi sono infognata e ho pensato che era meglio chiudere qui ihihi. nei prossimi post forse riesco anche a descrivere cos'è successo a fine quest, stay tuned! e buone feste (?) <3
     
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    «è una trappola»

    Rimase immobile, gli occhi azzurri a vagare alla ricerca di qualcosa che non era davvero sicuro di voler trovare, qualcosa che non era certo di voler sapere, mentre i minuti scemavano in effimeri secondi ed il vano tentativo di intrufolarsi in quel capanno uscendone, come sempre, vittorioso gli stringeva il petto in una morsa che mai, il ventiseienne, aveva pensato di poter avvertire – non più, mai più. Non aveva mai fallito, in tutti quegli anni; anche quando ciò malauguratamente succedeva, era sempre stato capace di rivoltare la faccenda a proprio vantaggio, riuscendo ogni volta a dare lo scacco matto nonostante la partita sembrasse ormai persa, e le pedine sulla scacchiera un vago spettro a ricordare che non erano state sacrificate invano: a ricordare al re che non gli era concesso cadere decretando la propria sconfitta. Il re non doveva cadere.
    Non doveva cadere.
    Non l’aveva mai fatto, era sempre rimasto con i piedi perfettamente piantati a terra, lungi da lui l’idea di non aver salda la presa con il terreno; non l’aveva mai fatto, e anche quando le mani erano in procinto di attutire la rovina nel miglior modo possibile aveva sempre impedito che il corpo potesse toccare il suolo, pronto a rialzarsi ancor prima di cadere definitivamente. Non l’aveva mai fatto, perché sapeva che gli era semplicemente impossibile farlo.
    Non doveva cadere, il re; non doveva - né poteva, né voleva - fallire, Gemes Hamilton.
    Osservò i display e su questi il tempo scivolare via, fuori dal controllo umano, dal suo controllo, le palpebre assottigliatesi in una linea spigolosa, le labbra strette tra loro; ed arretrando, man mano che i secondi divenivano sempre di meno, tentò ancora di spingere il corpo nella direzione contraria, dentro quel dannato magazzino, senza più prestare realmente attenzione alla battaglia che proseguiva tutt’attorno: non aveva più importanza. Forse, non aveva mai avuto importanza.

    «hai mai creduto non fosse una trappola?»

    Lo sapeva da sempre, che era una trappola.
    Lo sapeva da quando, seduto dietro la scrivania del proprio ufficio, passava in rassegna con occhiate vaghe e apparentemente superficiali, disattente, gli articoli di giornale, le fotografie delle persone scomparse; quando le iridi celesti redarguivano sguardi privi di spessore ad animate figure su carta patinata, che si muovevano incastrate in quelle istantanee, incapaci di ricambiare quei sospiri trattenuti tra le labbra, di rispondere ai quesiti che uno sull’altro si accavallavano nella mente dell’Hamilton; quando cercando Amos, Jayson, Aloysius per la villa, non li trovava a scorrazzare per la villa, pulire, affogarsi nell’alcol o a meditare su quanto la propria vita potesse essere ingiusta; quando si degnava di passeggiare annoiato tra le strade di Londra, o di New Hovel, non vedeva le figure di Nathan o di Raine; quando, alla ricerca di qualcuno a cui scaricare i propri fascicoli, schioccava la lingua contro il palato, constatando che ancora, Heidrun, non era tornata a mettere i propri piedi sulla scrivania, le spalle buttate contro lo schienale della sedia e sempre, sempre, qualcosa da dire.
    Lo sapeva, nel momento in cui aveva dato la propria adesione a quella squadra di ricerca, che avrebbero rincorso vane speranze senza risolvere nulla, predatori ingordi che rincorrevano la propria preda fintanto che non fosse finita tra le loro fauci, finendo invece con un piede nella tagliola di un cacciatore, divenendo vittime. Lo sapeva perfettamente, quando analizzava con più accortezza davanti al fuoco del camino i dettagli sui rapimenti, i resoconti delle perlustrazioni, non trovando mai alcunché di rilevante. Nulla che li potesse condurre da nessuna parte, che gli faceva costantemente pensare di perdere tempo inutilmente.
    Lo sapeva, che era una trappola, quando aveva messo piede nella radura del bosco di Brecon, radunandosi insieme a decine e decine di altri volontari - familiari, amici, amanti. L’aveva dato ormai per scontato, quando quella bambina dagli occhi troppo azzurri aveva premuto il grilletto davanti alla folla frastornata e turbata, togliendosi la vita.
    L’aveva capito, quando il corpo del messaggio, con un tonfo soffice a risuonare come un grido nella foresta, era caduto tra le foglie, che quella non era una trappola.
    Era peggio, sarebbe stato peggio; sarebbe stata una carneficina, e loro tutti - volontari e cacciatori - la mandria che consapevolmente andava al mattatoio.

    «non dovremmo andare»

    Eppure.
    Eppure erano andati, eppure erano finiti come mosche nella tela del ragno - consapevoli, sempre consapevoli. Eppure, avevano voluto spingersi ancora una volta oltre il limite, incuranti della linea marcata a sangue davanti alle punte delle loro scarpe, derisori di quel confine che avevano superato come fosse un semplice ostacolo.
    Eppure, Gemes Hamilton era andato, credendo che come ogni volta da quella trappola ne sarebbe uscito con un sorriso trionfante, le vesti sporche del sangue degli sconfitti, tenuto tra le dita il bottino per il quale si era mosso, il tesoro che era andato reclamando - per poi lasciarlo sulla mensola del camino, pretendendo che non gli importasse affatto. Credendo che, come ogni fottuta volta, ce l’avrebbe fatta.
    Credendo che, come ogni fottuta volta, non gli sarebbe importato del premio.
    Credendo che, come ogni fottuta volta, non gli sarebbe importato di nulla.

    «hanno sempre bisogno di noi, rea»

    Perché era più facile così, era più facile pensare che, almeno quello, lo stesse facendo per loro. Era più facile, che dirsi che era lui ad aver bisogno di loro.
    Trenta secondi - le labbra strette, la mano a premere sul taglio alla spalla sinistra, le gambe ad allontanarsi dal capanno e la mente a proiettarsi ancora dentro la costruzione, verso un luogo che gli era sconosciuto, verso un luogo dove c’era tutto quello che importava.
    Non era un eroe, Gemes Hamilton, e non lo era mai stato. Mai, invero, lo sarebbe stato. Perché, semplicemente, non voleva farlo: aveva scelto l’oscurità, decidendo che l’antagonismo era il suo regno, il luogo al quale era sempre appartenuto e dove sarebbe sempre tornato. Era un mostro, lo era sempre stato - agli occhi della propria famiglia, a quelli delle persone che lo incontravano per la strada, ed era quello l’appellativo che gli veniva attribuito poco prima che labbra sconosciute esalassero l’ultimo respiro, scivolando delicate a terra e rimbalzando per le stanze vuote, eco di mille altre volte che una cosa del genere era già stata udita dalle orecchie del ventiseienne.
    Eppure, era andato.
    Eppure, ci aveva voluto credere.
    Che per una volta, che per qualcuno, potesse mettere da parte la maschera del cattivo, calandosi nei panni dell’eroe: poteva farlo per seguire Rea all’interno, piuttosto che restare a combattere una battaglia persa all’esterno; poteva farlo, per tirare fuori sua cugina, il Withpotatoes, Jayson; poteva farlo, per dire ad Heidrun che era sempre stato solo un bacio, e che per quanto potesse essere fantastico non serviva si prendesse una dannata fucilata per lui - innocente, lui.

    «hanno sempre bisogno di noi, rea; l’hanno sempre fatto»
    L’aveva sempre fatto.
    Venti secondi, e non aveva più alcuna importanza. Voleva, l’Hamilton, che non avesse più importanza, che non l’avesse mai avuta.
    Doveva aspettarselo: se c’erano eroi in quella storia, lui non era uno di quelli. Lui era il cattivo, quello che il fuoco, a quel capanno, avrebbe dovuto appiccarlo; non era quello che salvava il mondo, piuttosto colui che lo modellava, cambiandolo a proprio piacimento.
    Dieci secondi, e di mondo Gemes aveva cambiato solo il proprio, nascondendosi dietro le bugie che raccontava agli altri, nulla in confronto a quelle che si narrava da solo, che gli permettevano di dormire sonni tranquilli. Dieci secondi, ed il sorriso malizioso, privo di forma ed incapace di giungere alle gelide iridi di cobalto, piegò il viso del telecineta, le palpebre a calare sugli occhi stanchi - stanchi di tutto, stanchi di niente: stanchi anche solo di averci provato, ad essere quello che non poteva essere, che non sarebbe mai stato; stanchi di fingere, ed incapaci di fare altro.
    Cinque secondi, l’arma ancora stretta tra le dita, le narici piene dell’odore di sangue e terra, ed erba secca e aghi di pino ancora attaccati ai rami; il petto, pieno di ansiti e battiti che mai, il ventiseienne, aveva pensato di poter avvertire prima di quel momento.
    Non più, mai più.
    Quattro secondi, aprì gli occhi. Anche gli ultimi impavidi avevano smesso di tirare pugni alla porta irremovibile, le bacchette ancora spianate e pronte al peggio; ma non tutti avevano invece smesso di chiamare qualcuno che non li avrebbe uditi, da dentro. Non tutti, avevano smesso di sperare.
    Tre secondi, la testa reclinata all’indietro, lo sguardo puntato verso lo schermo distante e troppo, troppo vicino. Respiri pacati, il proprio sangue sulle dita, la gamba a pulsare laddove la freccia poc’anzi si era conficcata, la mano destra a sentire la presa sul manico dell’ascia venire meno. Nemmeno se n’era accorto, Gemes Hamilton, di quando aveva smesso - di guardare veramente, di udire i suoni in maniera distinta piuttosto che ovattati, di combattere una battaglia che non lo riguardava.
    Una battaglia che non gli importava.
    Una battaglia che gli era sempre importata troppo.
    Due secondi, ed era stanco di aspettare lì, inerme di fronte all’inevitabilità dei fatti. Incapace, di uscirne vincitore. Disadatto, non all’altezza di essere l’eroe che Raine pensava fosse, di vestire il mantello che Nathan avrebbe sempre voluto indossasse e che, con un blando gesto della mano, aveva sempre rifiutato. Incapace di dimostrare a Jayson che oltre alla maschera, c’era qualcos’altro - perché, di fatti, non c’era mai stato nient’altro da mostrare, niente su cui contare -; incapace, di entrare nel magazzino e dimostrare a Run che, qualcosa, lo sentiva.
    Che qualcosa, Gemes Hamilton, l’aveva sentito; aveva, semplicemente, deciso di smettere di farlo.
    Un secondo.
    DOVEVI FARE SOLO UNA COSA HAMILTON, UNA. UNA SOLTANTO.
    Chiuse gli occhi.
    L’eco della voce di Jericho pervase ancora la mente di Gemes, un sorriso e uno sbuffo distratto ad uscire dalle labbra. Quale bomba.
    Non aveva mai creduto, che quella non fosse una trappola.
    Zero, e non importava più a nessuno che quella era una trappola.
    Non c’era più nessuno, al quale poteva interessare.

    Puntò i polpastrelli nella molle terra, divenuta ancora più malleabile con una pioggia che non aveva sentito arrivare, stringendo i pugni sotto di questa ad ogni colpo di tosse, ed ogni volta che aveva creduto sarebbe stato l’ultimo rantolo al suolo, ricominciava. Se doveva esserci una bomba, come la stessa esplosione aveva dimostrato, ci sarebbero stati detriti, alte lingue di fuoco, denso fumo irrespirabile a pervadere la radura insinuandosi nelle narici dei presenti: era tristemente pronto, Gemes, a quell’evenienza. Ma quello non era semplice fumo, gli sussurrava la gola chiusa incapace di incanalare aria, il palato raschiato dai rauchi tentativi di gettare fuori il miasma ed incamerare ossigeno pulito, il sangue a cadere sulle foglie, chiazze cremisi a sporcare il prato di Brecon man mano che scivolavano dalle labbra. Del semplice fumo non avrebbe fatto stramazzare al suolo gran parte dei partecipanti a quella missione, più di quanto non avessero fatto le lotte antecedenti, o l’esito finale della battaglia. Semplice fumo - ed una semplice esplosione, e delle semplici morti - non avrebbe costretto l’Hamilton a stringere la terra tra le dita nell’intento di scaricare altrove un dolore così estraneo. Un dolore, quello, che andava scendendo l’esofago e stringeva lo stomaco, e che prendeva la via della trachea riempiendo i polmoni di veleno; un dolore che tanto aveva di quel miasma, quanto non ne aveva nulla.
    Una risata, breve e roca, atona e silenziosa a scuotere le spalle quando finì di sentirsi oppresso, sputando un ultimo grumo al suolo; una risata strappata dal ventre a tagliare la gola, densa come catrame a rotolare fuori dalla bocca, quando si rese conto che, alla fine, il re era caduto. Avrebbe voluto fosse solo un vacillo della base, preoccupante ondeggiare che alla fine si stava risolvendo da solo, riassestando il vellutato tondo sulla scacchiera; la verità era che non lo sapeva realmente, Gemes.
    La verità, era che non aveva più alcuna importanza - se fosse caduto, o se fosse rimasto in piedi.
    «tu» un sibilo basso, attutito dalle gocce di pioggia a scivolare sulla pelle, sulle giacche, sui corpi a terra. Lontano era quel braccio stretto attorno alle spalle, lontano il sollievo nell’aver intravisto Amos apparire nella radura, Jayson trasportarsi fuori dal capanno. Lontana, era anche solo la convinzione che il Matthews potesse essere suo fratello. Goditi le amnesie; avrebbe dovuto, l’Hamilton, anziché sperperare il proprio tempo in ricerche sfiancanti. Ma non sapeva accontentarsi, non era mai riuscito realmente a farlo; ed era arrivato così vicino, così tanto vicino, dal poter credere fermamente che Frederick non fosse davvero morto, da non crederci più - i fascicoli potevano essere sbagliati, i nomi ivi scritti frutto di un depistaggio, qualsiasi cosa. «tu» ripeté, inumidendo la voce della pioggia e del metallico gusto del sangue tra i denti, e di una risata che di divertito non aveva nulla. Poteva star succedendo qualsiasi cosa intorno a lui, ma non gli interessava; percepì più il silenzio del telecineta, che il suo respiro: così abituato ad aver sentito unicamente quello per quasi un anno da saperlo quasi riconoscere nonostante i tre mesi in cui non aveva idea di dove fosse - per quanto riconoscere il silenzio potesse essere un’impresa ardua. Portò il dorso della mano a pulire la bocca, osservando come le goccioline scarlatte venissero velocemente diluite dall’acqua piovana a contatto con la pelle, e un’altra risata gli scosse nuovamente le spalle, rivolte ad un cielo scuro che nemmeno le fiamme erano in grado di rischiarare, quasi lo trovasse esilarante. Ma non c’era nulla, di divertente: non c’era nulla. «avresti potuto portarli fuori» rabbia passivo aggressiva, troppo stanco Gemes per lasciare il rancore e l’odio ad accumularsi in un recipiente straripante. Non si mosse, nemmeno lo guardò nelle iridi di calda ambra; e la voce con cui parlò, e chiunque lo conoscesse ormai ne era consapevole, era quanto di più tagliente l’Hamilton possedesse, a discapito di armi e potere - fiele a scivolare sulla pelle, promessa di una vendetta vicina o lontana, rabbia a ribollire nelle vene. «avresti dovuto» sibilò, così sottovoce che il suono si sarebbe potuto benissimo disperdere tra le grida consapevoli che andavano alzandosi nella radura, le travi di legno sparse per il luogo a venir bruciate da quel fuoco divoratore, fino a quando l’acqua non cadeva su d’esse lasciando marcire al suolo uno scheletro pece. «invece hai portato fuori una donna qualsiasi; bel lavoro, jayson» non gli importava, che quella donna portasse in grembo un bambino; non gli importava, di cosa avessero passato sotto quel capanno tutto quel tempo, di quanto avessero potuto stringere un legame che aveva poi portato il Matthews a scegliere lei. Non gli importava, non gli importava più un cazzo. Accuse a rimbalzare su pareti d’acciaio, riverberando di un’ottava maggiore ogni volta che si ripetevano nell’ambiente vacuo, quelle che stava lanciando al superstite: avrebbe voluto non essere furioso, di quell’astio che andava insinuandosi sotto pelle, alimentandosi con il semplice passare del tempo, ma lo era; in quel momento, non riusciva nemmeno a passare sopra alle evidenti torture che doveva aver subito il ragazzo, a tutto quello che poteva essere accaduto lì dentro. Ci aveva provato, ci stava provando, a mettere da parte Gemes Hamilton almeno in quel frangente, almeno per un po’. Alzò gli occhi cobalto venati di tinte vermiglie, arrossati di uno sforzo e di qualcosa che, a quel punto, non voleva avvertire - non più, mai più - pieni di nulla e vuoti di ogni cosa, la bocca piegata in un sorriso inespressivo verso il fremello.
    Era colpa di Jayson, che non aveva tirato fuori Rea, Raine, Nathan, Heidrun.
    Era colpa di quei babbani, i cui corpi esanime oramai giacevano a terra e ai quali, da che era scaduto il tempo, il telecineta non aveva degnato uno sguardo.
    Era colpa degli ostaggi, di tutti loro, che l’avevano posto sull’orlo di una scelta.
    Era colpa di Gemes Hamilton, antagonista di una storia nella quale gli eroi non sembravano vincere, ed i cattivi a rimetterci comunque in egual modo - una storia d’infamie, di potere e non di vinti o caduti, non una di quelle che si va raccontando, e la stessa nella quale s’era sempre nascosto seppure alla luce del sole.
    Come non si accorse della pioggia a bagnare gli indumenti poco prima, decise di ignorare i passi decisi a schiacciare le foglie secche, di ignorare la voce dell’uomo accorso sul posto troppo tardi. Sempre, troppo tardi. Si alzò, sporgendosi in avanti e seguendo con disinteresse lo sguardo dei più, intenti già a soccorrere coloro che l’uomo aveva recuperato. E dietro il volto di marmo, notando i respiri regolari ed i movimenti quieti dei muscoli, qualcosa si accese. Una tenue scintilla, nulla di più, destinata a spegnersi di lì a pochi secondi, quando entrò in scena la francese - se già conosceva Dragomir e Lafayette, in quel momento non lo ricordava -, tra le braccia dei suoi uomini i corpi più martoriati dagli eventi.
    Deglutì un groppo troppo amaro, saliva e bile ad inumidire ed incastrarsi nella faringe, gli occhi chiari a vagare tra i corpi stesi al suolo. E vide sua cugina annaspare alla ricerca d’aria, e vide il petto di Rea alzarsi ed abbassarsi come normalmente avrebbe dovuto fare, tra le dita quelle di un corpo che invece non lo faceva. Ma non ascoltò la diatriba tra i due presidi, non era affar suo quello di cui i due avevano di che discutere, mentre si accorgeva amaramente di avere il respiro strozzato in gola.
    Perché, non riusciva a respirare normalmente?
    Perché, quel grumo non scendeva, liberandolo dell’inghippo?
    Li aveva già dati tutti per morti, se n’era già fatto una ragione: vedere i petti immobili e le palpebre calate per un tempo che sarebbe durato in eterno, non avrebbe dovuto fare una piega.

    «sono addestrati per affrontare situazioni del genere, ed ho visto combattere anche loro – nel labirinto, al lavoro. ma soprattutto, dio solo sa quanto io abbia provato a cancellarli da quest’esistenza: fidati, è impossibile»
    «per quello, ancora mi permetto di mantenere la speranza»

    Un anelito di fiato a svuotare i polmoni, un pigro e distratto movimento del capo.
    Se n’era fatto una ragione.
    Non avrebbe dovuto fare una piega.
    Era presenza usuale nella vita dell’Hamilton, la perdita, anche laddove una vera perdita non era avvenuta; quella che si presentava in quel momento davanti allo sguardo arrossato, il volto di pietra a celare quella scintilla che aveva voluto alimentare, era solo una delle tante.
    The lies we tell other people are nothing to the lies we tell ourselves.
    Non si era mai trattato soltanto di un bacio, non per Gemes Hamilton.
    «non vorrei risultare inopportuno, ma sono abbastanza certo che quando non respirano, significa che sono morti»
    Non fece un passo, non un respiro, non, mentre Lancaster, inopportuno in quel luogo quanto le parole in quella situazione, ruotava il capo di Heidrun - e lei non si dimenava, non cercava di liberarsi di quel tocco, alzandosi invece spavalda chiedendo cosa fosse successo, se fosse di nuovo in post sbronza o qualche cosa da Crane.
    Distolse lo sguardo, notando quello dell’Hamilton a cercare il suo – sul viso di lei un sorriso spento, su quello di lui nulla. Non sapeva nemmeno come guardarla, come esprimersi nei confronti della mora; non si era mai sentito tanto inadatto quanto in quel momento, mentre le iridi di un blu più acceso andavano a perdersi nel cioccolato fuso delle sue – e non aveva idea, di quanto quello fosse solo l’inizio. Mai i sensi di colpa avevano stretto lo stomaco di Gemes, tanto da fargli sentire la propria morsa potente, a gettare su un’indole bastarda una macchia d’infamia. Non aveva sensi di colpa, qualsiasi cosa facesse non lo portava a pentirsene in seguito.
    Eppure. Eppure quella volta era diverso – quella volta era tutto così diverso. V’era una sola persona della quale si fidasse quanto si fidava di sé stesso - tanto, ma mai fino in fondo -, ed aveva lasciato che questa rischiasse troppo senza ch’egli l’accompagnasse; quando c’era da scegliere, si erano scelti, vedendo nell’uno la perfezione ostentata dall’altra, e viceversa, trovandola inquietantemente piacevole, straordinariamente familiare. Era la sua famiglia, più di quanto potesse esserlo quella di sangue, ed aveva rischiato di perdere anche lei - ed era colpa di Jayson, che non l’aveva tirata fuori; ed era colpa di quei babbani, i cui corpi esanime oramai giacevano a terra insieme ai caduti di una battaglia alla quale erano disinteressati; ed era colpa degli ostaggi, di tutti loro, che li avevano posti sull’orlo di una scelta; ed era colpa sua, che non era né sarebbe mai stato l’eroe, e che non voleva esserlo.
    Chiuse gli occhi, piuttosto che mantenere quel contatto, le dita a premere tanto sulle palpebre chiuse da fare male, ma meno di quanto non potessero fare le gocce salate trattenute dietro di queste. Si isolò di forza dal mondo circostante, i suoni a giungere attutiti, le urla strazianti e straziate a scivolare lungo la giacca lacera, inconsistenti. Si isolò, premendo con più forza sugli occhi stanchi, il diaframma a spingere affinché la bocca esalasse un sospiro dalla consistenza amara di un rantolo strozzato - ed il corpo a chiedergli di adagiarsi al suolo, che tanto ormai era già caduto; le gambe ad intimare di tornare a casa, che il suo compito l’aveva fatto per quanto gli era stato possibile, che non aveva più alcun senso restare lì; il cuore a battere un po’ più forte tra le costole, ricordandogli che almeno lui era ancora vivo, e che era questo ciò che gli importava realmente.
    Ma non aveva più importanza.
    Non aveva mai davvero avuto importanza, prima, perché non c’era mai stato niente di davvero importante.
    E fu sinceramente tentato, Gemes Hamilton. Di voltare le spalle, sparire tra le ombre che le fiamme gettavano tra le fronde e le silhouette dei sopravvissuti, tornare a casa, versarsi due dita di buon whisky ed accendere un fuoco, le membra a riposarsi contro la pelle della poltrona – e di rispondere in maniera vaga agli abitanti di quella villa, di dirgli che stavano tutti bene e sarebbero tornati a momenti, aggiungendo che Al invece non l’avrebbe fatto, ma che le spiegazioni in merito sarebbero giunte in seguito, perché era stanco. Qualcosa, però, lo bloccò. Una voce, una delle tante che aveva tentato di distaccare dalla propria persona, ma che aveva fatto breccia nel muro di diamante dentro al quale era rimasto immobile.
    «e se vi dicessi che, ipoteticamente s’intende, potrebbe esserci la possibilità di riportarli indietro?»
    La ragione, lume che l’aveva sempre guidato anche quando pareva che fosse un insano seme della follia a muovere i suoi fili, gli diceva che era sciocco anche solo aver lasciato che quella retorica domanda si insinuasse tra le crepe di una muratura fallace. Non avrebbe senso, pensò con un amaro sorriso dipinto sulle labbra, le palpebre ancora calate. Altrimenti, sarei sinceramente fottuto. Se fosse stato così semplice, se fosse servito solo un mago da strapazzo qualunque, tutti i morti che si era assicurato fossero freddi prima di lucidare il pugnale in un elegante panno di velluto, sarebbero tornati a reclamare la sua testa – ed erano tanti, erano troppi. Allora cos’era a tenerlo inchiodato al terreno, reclamando con infantile morbosità di avere più informazioni?
    Se n’era fatto una ragione.
    Non avrebbe dovuto fare una piega.
    Era presenza usuale nella vita dell’Hamilton, la perdita.
    Cazzate.
    «quando dico amore, voi a cosa pensate? sacrificio. condivisione. è un legame. sto cercando di dirvi che possiamo portarli indietro»
    Fu a quelle parole, che comprese di aver fatto un madornale errore decidendo di fermarsi, attendere l’ennesima magia. Non il principio a far sgusciare dalle labbra una gutturale risata, bassa quel tanto che bastava a farla udire ai pochi che aveva intorno, vuota quanto vuoto era diventato quel peso sulla bocca dello stomaco; non il sacrificio, non la condivisione, non il legame, quella volta.
    «a-mors: un legame, qualcosa di abbastanza solido sul quale potreste camminare. senza questo, il resto è inutile: dovete tenere a queste persone, altrimenti... come dicono i giovani? con il cazzo che funziona»
    Gemes Hamilton, l’ultima volta che aveva controllato, non amava. Almeno, non amava nulla che non fosse sé stesso: non ne aveva mai fatto segreto, non si era mai preoccupato di dover affermare il contrario: era così, ed a lui andava bene fosse così. Senza contare che, ai suoi occhi, gli stessi che consideravano quella faccenda affare degli altri, categoria alla quale si era sempre rifiutato di appartenere, doveva essere un sentimento ricambiato. Non tanto per il semplice principio sul quale si basava una qualsivoglia relazione, quanto per qualcosa di più.
    Ad amare si imparava venendo amati, e ad essere amati si diveniva amando.
    Gemes Hamilton, non aveva mai amato.
    Gemes Hamilton, non era stato mai amato - non quando gli sarebbe servito, non nel modo giusto; e quando era troppo tardi, chi avrebbe mai amato un mostro?
    Rise ancora, sul volto uno spettro di esasperazione e disperazione, che nemmeno si premurava più di celare dietro una maschera di cera, consolandosi nella precaria certezza che sarebbe passato come un atto di psicosi - e sul fatto che fosse un sociopatico, nessuno aveva mai nutrito dubbi. Lui, non aveva mai nutrito dubbi.
    Rise ancora, sotto le sopracciglia corrugate gli occhi a cercare sul volto dei presenti qualcosa, qualcosa che avrebbe voluto fosse suo in quel momento; qualcosa, che l’avrebbe reso come gli altri.
    Rise ancora in maniera sommessa, senza essere ascoltato ormai da nessuno, nemmeno da sé stesso - di una risata che non aveva mai preso forma, incastrata tra le corde vocali e priva di suono -, fino a quando non ci fu più niente di cui ridere, e lo spettro del vago divertimento non divenne che una piega sbagliata su un volto scarico.
    Non c’era mai stato niente di cui ridere.
    «siete disposti a sacrificare qualcosa, per loro? siete disposti a condividere qualcosa, con loro? siete disposti a pagare un prezzo? siete disposti a perdere un po’ di voi stessi, per farli tornare indietro?
    ecco cosa intendo. e se questo non è amore, non so cos’altro potrebbe esserlo»

    Il problema, non era che non fosse disposto. Il problema era che non avrebbe funzionato.
    Non sapeva nemmeno per quale motivo voleva così tanto che potesse funzionare.
    Non ebbe nemmeno bisogno di vagare le iridi al suolo, cercando nei volti sconosciuto un vero motivo: non gli importava di Alec, ma sapeva che Jon era giunto fino a Brecon per Aiden; non aveva idea di chi fosse Helianta, ma aveva invece conosciuto il ragazzo biondo la cui mano Rea aveva stretto fino all’ultimo secondo; si era affezionato ad Al, alle sbronze moleste e a quelle silenziose davanti ad un fuoco spento, ma non conosceva affatto sua figlia.
    Perché, sinceramente, se c’era qualcuno per il quale il telecineta fosse disposto a sacrificare qualcosa, quella era Heidrun, e non sapeva nemmeno perché.
    Per quanto costasse al suo ego ammetterlo, Gemes Hamilton non era nessuno per Heidrun Crane.
    Heidrun Crane, non era nessuno per Gemes Hamilton.
    Nessuno: soltanto la persona più molesta sulla faccia della terra; soltanto una sconosciuta gettata per caso nel suo stesso gruppo in un Labirinto lontano nello spazio e nel tempo; soltanto la sua prima squadra in un ambiente ostile, quella ragazza un po’ troppo sfrontata che gli aveva puntato una balestra al petto; soltanto una scansafatiche, una che prendeva con troppa leggerezza tutto quello che c’era intorno; soltanto una scapestrata, intramontabile bambina, che si divertiva a prendere in giro le persone professando che loro due, insieme, erano i genitori del fratello di Rea.
    Nessuno.
    Soltanto quella ragazza che si era addormentata al suo fianco, la testa sul petto, quando tolti i pregiudizi ed i trascorsi non era rimasto nulla se non Gemes Hamilton, quando nel buio di una notte priva di stelle lo sguardo incerto andava a sfiorare il profilo addormentato.
    Soltanto quella ragazza che gli aveva chiesto di restare con lei, la prima persona alla quale aveva voluto avvicinarsi nonostante sapesse, cristo se lo sapeva, che non aveva alcuna intenzione di ascoltare le sue parole, per quanto egli volesse invece che le frasi sedimentassero qualcosa nell’animo turbato.
    Soltanto una voce nell’ombra dell’anno nuovo, l’unica ad essere giunta su una balconata ove si era rifugiato in cerca di isolamento, in cerca di una compagnia che non avrebbe mai chiesto.
    Soltanto un’anima pura riflessa nelle iridi verde bosco, candida di un’innocenza che poco aveva a che fare con i possibili crimini di cui s’era macchiata, un’ingenuità infantile che l’aveva fatto sorridere quando nessuno guardava.
    Soltanto l’unica persona che avrebbe accompagnato nella notte profonda, all’interno di un Laboratorio nel quale non sarebbe voluto entrare, e poco aveva a che vedere con la promessa dell’opportunità di tagliare la gola a qualche dottore sporadico, saziando un’insaziabile voragine nera di vendetta.
    Soltanto un bacio.
    Soltanto, qualcuno che era facile amare, e che era impossibile non farlo.
    Fu questo a frenarlo maggiormente, mentre automaticamente si muoveva verso Rea, senza guardare niente di particolare. Gemes Hamilton non era nessuno, per Heidrun Crane; o meglio, non era quello che c’era bisogno fosse. C’erano decine e decine di altre persone che l’amavano, che l’amavano veramente, che avrebbero potuto far funzionare un sortilegio nel quale voleva credere più d’ogni altra cosa. Non per lei, quanto per il rifiuto di perdere, si disse. Non ci sarebbe stata alcuna vittoria, non ci sarebbe stata alcuna sconfitta, se nessuno fosse morto. Anzi, avrebbero vinto loro - cristo!, da quando aveva iniziato a pensare come membro di un team? -, ed i cacciatori sarebbero rimasti su quel terreno sancendo il trionfo dei Volontari.
    Era per quello, voleva che funzionasse.
    Era per quello, che aveva paura non lo facesse.
    Un sospiro, il sapore amaro del sangue sulla lingua, gli occhi a poggiarsi sul corpo immobile di Run, un battito in meno.
    «possiamo davvero farlo?» Gemes chinò il capo, incontrando le iridi scure di Rea. Non si trattava più di volersi abbassare ad un livello al quale non erano disposti a chinarsi, perché sapevano entrambi di esserlo. «non lo so» rispose sincero, impassibile. «forse» un sospiro più greve, gli occhi alzati al cielo. Non erano abbastanza, gli Hamilton. Erano tante cose, diverse a seconda della bocca sulla quale si posava quel cognome, ma non abbastanza, mai abbastanza. C’erano decine e decine di altre persone che l’amavano, che l’amavano veramente, che avrebbero potuto far funzionare quel sortilegio. Non doveva essere necessariamente lui: Gemes Hamilton non era nessuno, per Heidrun Crane. «forse possiamo» un nodo alla gola che andava sciogliendosi, sebbene non credesse nemmeno lui alle proprie parole, sussurrate con un filo di voce appena percettibile.
    Perché Heidrun Ryder Crane, per Gemes, era qualcuno –lo era sempre stata.
    Era qualcuno dalla quale avrebbe voluto imparare ad amare, qualcuno da cui farsi amare.
    Per quanto quella fosse una dichiarazione vera e propria, l’Hamilton non l’avrebbe mai ammesso di amare Run.
    «siete sicuri di voler andare voi?» un battito di ciglia, spostò lo sguardo da Shia a Rea. Nessuno, invero, sembrava aver la risposta a quell’interrogativo. Nessuno a volerla sibilare tra i denti, nessun’onta di presunzione laddove dell’arroganza v’era il regno. Sorrise. «e tu?»
    Nessuno di loro era sicuro, eppure erano tutti tremendamente certi.

    «no» disse conciso, voltando le spalle al corpo della Crane, le iridi chiare puntate su due ragazzi troppo giovani. Inutile fingere non conoscesse Jeremy Milkobitch, lavorando e passando più tempo di quanto avrebbe mai voluto ammettere con la mimetica, o di non capire che lo stesso legame che lo legava alla ragazza fosse quello che stringeva un’altra adolescente a restare nei pressi del corpo del Dallaire. «non lo farete voi» un sorriso stanco ad illuminare il volto, convinto che quello sarebbe bastato a porre un punto fisso alla questione. Non lo fece, ed avrebbe dovuto supporre che quel mare di inespressi non erano giunti alle loro orecchie. Non lo farete voi, si parla di sacrificio e non voglio rischiare che se qualcosa va storto i vostri fratelli vi trascinino nella tomba con loro. A prescindere dal fatto che non se lo sarebbe mai perdonato – almeno quello -, era troppo anche per lui mettere a repentaglio la vita di ragazzi troppo giovani. «non capisci, è mia sorella, io devo farlo» serio, posò lo sguardo sull’indice puntato al petto, poggiando invece le mani sulle spalle del tassorosso. «se non ti levi di torno, farò in modo che shia vi droghi così pesantemente da non poter nemmeno festeggiare il momento in cui tornano in vita» sorrise soddisfatto e gli strizzò l’occhio, notando come fosse stato facile farsi guardare con malcelato disprezzo e facile timore. Meglio passare per egoista, a quel punto, e lasciar credere che il moto primordiale di quell’azione fosse unicamente superbia. Senza una parola, si inginocchiò al fianco di Heidrun, gli occhi a cercare altrove un appiglio ed incontrando invece quelli dell’altro volontario. «spero tu sappia cosa stai facendo, hamilton, altrimenti non ti basterà farmi gli occhioni dolci» In risposta, Gemes si limitò a sporgere il labbro inferiore, sbattendo le ciglia con delicatezza.

    «come fai? come fai a non sentire niente?»
    Le onde di un lago immobile riflesse negli occhi verdi, la mano di lei poggiata sul proprio petto in una notte muta. Non si era mosso, nemmeno lo sguardo aveva lasciato quello appannato dai fumi dell’alcol di lei. Sapeva che non dovevano essere importante per lei, quelle parole, o che non erano rivolte a lui: un mero sfogo per incazzarsi con un fato crudele; il punto era, ed era sempre stato, che era quello che aveva importanza, per Gemes. «lo senti?» un ringhio basso, il volto marmoreo immobile, la guancia a pulsare di uno schiaffo meno violento di quanto avrebbe potuto voler essere. «lo senti?» i fiati a mescolarsi, le palpebre socchiuse, qualcosa. Qualcosa che voleva sentire, ma che non aveva idea di come fare. Aveva smesso, non sentiva, mentre le labbra si sfioravano appena, desiderose di un attimo in più. «non senti niente, hamilton» Ed invece, aveva sentito tutto. Senza ch’ella potesse accorgersene, strinse le spalle di lei contro il proprio corpo, trattenendo il calore com’ella aveva fatto due notti prima, la testa a pesare sul petto. «tu puoi rimanere con me?»
    Le aveva detto, che lei non lo voleva veramente.
    Si era detto, che non lo voleva veramente.

    «Crane, non dormire» un sospiro a metà tra lacrime che non avrebbe mai versato e risa che sapevano d’antico. Alla fine, Gemes era rimasto con lei, per lei, la mano sul petto ed il battito a rincorrere quello di lei, cercandolo nei meandri di un labirinto in cui si era perso.


    «TUTTA LA NOTTE?»
    Storse il naso, guardandosi appena intorno.
    Ripensandoci in quel momento, l’idea di non pensarci su, bere qualcosa e dimenticarsi semplicemente l’orda di emozioni sparse ed emicranie immotivate, era stata la pensata più sbagliata che Gemes Hamilton avesse potuto fare. La cosa peggiore, era che non se ne pentiva davvero. Seguire Eugene e Nathaniel in quel posto dimenticato da Dio – e, a vedere dal lerciume, anche dal proprietario e dagli avventori – era stato piuttosto semplice: avevano chiesto chi volesse bere – o “lerciarsi a merda”, non ricordava esattamente i dettagli della discussione avvenuta -, ed il telecineta aveva semplicemente alzato la mano, stupendosi egli stesso di quella sciagurata iniziativa. «coca e mignotte?» Ahimè, la cruda verità era che quello non era né colpa del mago, né della mimetica: vantare mica tanto un migliore amico come Jonathan Winston aveva le sue controindicazioni. Quel detto, apparteneva alle sopracitate. «per la barba di morgan, quanto cazzo ti voglio già bene»
    No, Gemes.
    Non farlo.
    Non vuoi.
    Sì, che voleva. Dapprima imbarazzato, sorrise altrettanto estasiato al Jackson, di una solarità che mai, il volto dell’Hamilton, aveva potuto vantare. Era tutto così dannatamente sbagliato, da non esserlo affatto.
    «jakey, credo che ti serva un medimago, e al più presto»
    «eaulamadonna nate, come la fai tragica. spaco, qui, era un dottore. può pensarci lui, vero spaco?»
    Si sedette affianco ai due, evitando accuratamente di fissare troppo intensamente la nutria. Cosa cazzo ci faceva una nutria in un bar? Non voleva saperlo, non voleva davvero saperlo. «facevo il cuoco, coglione di un jackson» guardò sinceramente perplesso i due intenti a bisticciare, rivolgendo poi l’attenzione al barista. «ma… sono così sempre? no, non sono davvero il suo migliore amico» ci tenne a precisare, nemmeno troppo sottovoce, indicando Eugene con un cenno della testa.
    Ma chi voleva prendere in giro, già lo amava.
    Dannazione.
    Forse era bastata l’aria satura di alcolici - li avrebbe capiti - a farli sbarellare già prima di bere alcunché. «siete tutti e due dei coglioni» corresse Spaco. Si schiarì la voce, girandosi - non facilmente: lo sgabello fece uno strano rumore che gli fece rimpiangere qualsiasi cosa - e poggiando i gomiti sul bancone, la schiena contro il bordo di questo. «jackson, curarti è la prima cosa che ha fatto run: non hai un cazzo» asserì con un sorriso stampato in volto. «e dato che sei evidentemente già così lercio da non capirci molto» si sporse in avanti, incontrando gli occhi dell’amico di infanzia: da quanto tempo era che non passavano del tempo insieme? Troppo; era evidentemente il tempo di rimediare.
    No, Gemes.
    Non farlo.
    Non vuoi.
    Dio, com’era arrivata la sua vita a quel punto?
    «NATE PAGA UN GIRO A TUTTI!» urlò agli avventori, corrugando quasi subito le sopracciglia. Quando si girò, dopo aver udito il barista già posare uno shottino di… qualcosa, nel vano tentativo di dimenticare - quanto appena avvenuto, e tutto - portò il bicchierino alla bocca, svuotandolo in contemporanea con i suoi nuovi amici.
    La gola in fiamme, gli occhi lucidi: Gemes Hamilton aveva sempre retto meravigliosamente l’alcol.
    Ma quello? Quello era diverso. «un altro»
    Pessima, pessima idea.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by hiraeth. - 29/3/2017, 12:51
     
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    I HOPE TO ARRIVE TO MY DEATH LATE, IN LOVE, AND A LITTLE DRUNK

    «Ti prego! Ti prego smettila!»
    Aveva dieci anni, due denti da latte scheggiati, e un polso rotto che gli faceva un male dell'anima nell'attesa che le cure facessero effetto... eppure rideva, Nathaniel, di un riso spontaneo e esagerato che nasceva da sè, gli occhioni azzurri chiusi, il naso arricciato e la bocca aperta di chi non ha interesse a mostrarsi bello, ma è conscio di poter essere completamente se stesso e non verrà giudicato dall'interlocutore, perchè lo sapeva che Brandon non lo avrebbe mai giudicato. Era suo fratello: non si sarebbe mai permesso di fargli del male.
    «Non finchè non lo ripeterai»
    «Mai!»
    «Allora continuerò a farti il solletico per sempre»

    Mentre Nath rideva a pieni polmoni cercando senza successo di sottrarsi dalle grinfie del fratello, dal box accanto a loro provenivano dei gridolini ugualmente divertiti, e inutili furono le richieste del Lowell di mezzo di lasciarlo in pace (visto che non avrebbe mai ammesso una seconda volta di volergli bene), Bran non si fermò, almeno non finchè non sentì un gemito di dolore arrivare dal fratellino dopo che gli ebbe per sbaglio toccato la fasciatura alla mano. Si tolse immediatamente.
    «Mi dispiace»
    Nath non si fece sfuggire l'occasione, mettendosi in fretta in piedi sul tappeto della sala, e allontanandosi di corsa sorridendo nonostante la fitta di dolore atroce al polso. «Era una finta! Ci sei cascato!», mentì fuggendo via, ma quando passò davanti allo specchio si immobilizzò, restando a fissare il proprio riflesso. Prima che Brandon potesse raggiungerlo, dicendogli di non toccarsi, Nath alzò le dita dubbioso. Sollevò cauto il cerotto che gli copriva metà viso e che continuava a sentire pizzicare e prudere.
    Deglutì guardando il grande taglio che gli solcava la guancia, rosso e opprimente. Sapeva di essersi fatto male anche lì, quella mattina, ma non aveva avuto ancora l'onore (e il coraggio) di guardare esattamente la gravità della situazione.
    «Nath...»
    «E' enorme» Non aveva distolto lo sguardo dalla ferita per guardare il fratello, e ignorò la sua mano sulla spalla.
    «Col tempo andrà via»
    «Sarò per sempre lo Sfregiato»
    «Resterà solo una piccola cicatrice»
    «Nathaniel, quello strano»
    «Non ti piace essere quello strano, sempre al centro dell'attenzione?»

    «Meh» Riattaccò il cerotto stringendo i denti per il male. «Non così. Non voglio essere ricordato come l'idiota che è caduto dalla casa sull'albero. Non è figo. Timothy Yaxley la scorsa estate ha salvato sua sorella da una carrozza che la stava investendo. Quello è figo»
    Bran aggrottò le sopracciglia. «Timothy Yaxley è finito in coma per il resto delle vacanze, e probabilmente resterà paralizzato a vita»
    «Le ragazze amano i paralitici che salvano le sorelline. L'ho letto su Strega Moderna.»
    «Non pensarci neanche.»
    «L'HO SOLO GUARDATA NON METTEREI MAI A RISCHIO JERICHO. Però pensaci, la salverei eh»

    «Keenan»
    «Keith»
    Il magonò fece un sospiro, poi afferrò le spalle del fratello, obbligandolo a voltarsi per guardarlo. Nathaniel fece un attimo di resistenza, prima di arrendersi alla forza del fratello. «Non vuoi che la gente sappia che ti sei fatto quella cicatrice cadendo in giardino? Non lo saprà. Lo terremo per noi, se ti va. Te l'ho già detto: puoi essere quello che vuoi nella vita, Nathaniel. Quello che vuoi»
    «Non un eroe per mia sorella»
    «Non oggi», convenne il Lowell maggiore. «Ma un giorno, chissà, potresti. Per tua sorella... o per tuo fratello»
    «Ah, non illuderti. Non ti salverei mai, a te»
    «Piccolo. Stronzino Prima che Nathaniel potesse sgusciare via Brandon l'aveva già afferrato per il collo con il braccio, bloccandolo mentre con l'altra mano iniziava a fargli il solletico. Nath non riuscì a trattenersi, e in pochi secondi erano nuovamente a ridere sul pavimento. «Te lo dico io: un giorno vorrai salvare tuo fratello a qualsiasi costo!»


    Non c'era andato poi molto lontano, anche se probabilmente Bran non aveva certo pensato che il fratello sarebbe potuto essere qualcuno con cui Nate non condivideva nè il cognome nè il sangue.
    Elijah era morto.
    Elijah era morto, ed era anche colpa sua.
    Sua e di quei babbani, sui quali non poteva neanche venicarsi, essendo già andati al Creatore per i fatti loro.
    Nathaniel si passò la lingua sul labbro, cercando di pensare a qualcosa che non fosse Elijah, qualcosa che fosse niente. In quel momento, lui voleva essere niente, sparire, annullarsi, non essere Nathaniel Henderson come tanto tempo prima aveva smesso di essere Nathaniel Lowell. Anni fa aveva cercato di uccidersi, Nathaniel Lowell: in quel momento, si chiese se anche l'Henderson era ugualmente debole, se anche lui sarebbe arrivato al voler sparire abbastanza da farlo. Abbastanza da riuscirci.
    Senza Elijah poterlo salvare, sembrava fottutamente facile.
    Indietreggiò ancora, gli occhi ancorati sul corpo del biondo, e pensò di andarsene, di scappare via. Perchè non sapeva cosa fare, perchè non sapeva cosa pensare, le mani appiccicose e caldein tasca, mentre si passava la lingua sul labbro inferiore e poi se lo mordeva. Poteva farlo. Fuggire, scomparire. L'aveva già fatto, e lo faceva sempre, in fondo. Scappare quando le cose si mettevano male era nella sua natura, e negli ultimi mesi, nell'ultimo anno, aveva solo fatto finta di essere un uomo che non sarebbe mai stato, quello coraggioso che finalmente resta... finchè non pensò che Elijah non era stata la sua unica ancora. A conti fatti, non era rimasto per Eli. Facendo uno sforzo immemore, voltò lo sguardo su Jericho. Si chiese se lei gli stesse leggendo nella testa, se riuscisse a stare fuori da tutto quel dolore o se le persone in quella radura le stessero riversando addosso tutte se stesse.
    Si chiese se anche lei stava riconoscendo quel sentimento, "morte". Non sostantivo, ma davvero emozione che i fratelli Lowell si portavano dietro dall'omicidio della madre.
    Tirò fuori la mano dalla tasca, cercando di non pensare al sangue di Elijah, e l'allungò verso la sorella. Forse Jericho diceva sempre di non aver bisogno di lui, ma Nathaniel aveva un bisogno fottuto di lei.
    «mi sono fidata di te»
    Distolse lo sguardo, guardando Bells, i suoi occhi eterocromatici colmi di lacrime, le guance bagnate. Avere accanto a sè contemporaneamente Jer e Lies normalmente gli faceva un certo effetto, ma in quel momento sentì solo la pugnalata al petto della quindicenne, che lo distrasse nuovamente dalla special.
    «Mi dispiace», mormorò, la gola secca e a corto di parole migliori, a corto di scuse che avrebbero retto. Non c'erano scuse.
    Incassò lo spintone senza reagire, scuotendo la testa, cercando di non piangere ancora. «è colpa tua»
    Non sei l'unica ad averlo perso.
    Voleva dirglielo, voleva essere egoista, e in quel momento come un lampo ad attraversagli la mente, senza prestare attenzione alla ragazzina che se la prendeva con il pavor, pensò a qualcos'altro. A un altro lutto.
    Si voltò verso Jericho.
    Non sono l'unico ad averli persi.
    Insomma, non è come se non avesse mai pensato prima al fatto che anche sua sorella quel giorno avesse perso i genitori e il fratello (i fratelli), semplicemente aveva sempre pensato, senza davvero rendersene conto, di potersi un po' giustifica per l'essersene andato, per non essere riuscito a gestirla nel modo migliore.
    E invece era stato solo un idiota, e non c'era giustificazione che reggeva, nè l'avere undici anni, nè l'avere più ricordi con la propria famiglia, per aver lasciato Jericho da sola con quel dolore. Come aveva potuto permettersi di essere così dannatamente egoista?
    «Mi dispiace», ripetè, e questa volta era tutto per sua sorella. «Mi dispiace così tanto»
    Riportò l'attenzione su Elijah, sul suo... corpo, notando le dita intrecciate a quelle di Rea, col cuore troppo spezzato per dare il giusto peso alla consapevolezza che la donna avesse amato il biondo.
    Elijah era morto. Al era morto. Heli era morta. Run era morta. Alec era morto.
    Aveva fallito.
    Aveva fallito su così tanti fronti in soli venticinque anni di vita.
    «e se vi dicessi che, ipoteticamente s’intende, potrebbe esserci la possibilità di riportarli indietro?»


    Nathaniel si rigirò il ciondolo fra le mani più volte. Era stato un regalo inaspettato, un regalo non chiesto, ed era arrivato anonimo. Un ciondolo per parlare con una persona morta. Era diverso che usare un medium: avrebbe potuto vedere la madre defunta, poterci parlare direttamente... e soprattutto, poteva farlo senza intermezzi di sconosciuti o, peggio, di suoi studenti o Aveline. Da solo.
    Deglutì, chiudendo la collana fra le dita in una morsa.
    Solo.
    No, non era una cosa che doveva fare da solo, non quello. Non quella volta. Si infilò la collana, chiedendosi se prima o poi avrebbe trovato il coraggio di dire a Jericho che avrebbero potuto parlare con la madre, insieme; temeva Clarissa non avrebbe apprezzato il comportamento del figlio, e temeva Jericho non fosse pronta a condividere con lui una cosa del genere. Ma un giorno avrebbe superato almeno una delle due cose, e avrebbero potuto fare quella cosa. Strinse il ciondolo che pendeva sul petto.
    «Un giorno, mamma. Un giorno ti chiamerò»


    «chiamateli»
    Era assurdo. Illogico, irrazionale, insensato, impossibile, paradossale, folle.
    E lo era perchè Nate voleva crederci, ma non voleva davvero sperarci troppo, per paura che sarebbe morto di nuovo dentro se non avesse funzionato dopo essersi illuso di poter salvare Elijah, di poter essere un eroe per lui, per le loro sorelle, i loro amici. Ma non sarebbe scappato, quella volta. Non senza aver provato il tutto e per tutto.
    Chissà se avrebbe fatto le cose nel modo giusto, o sarebbe riuscito a mandare tutto a puttane come al solito... No.
    No, ce l'avrebbe fatta. Di sicuro. Non c'era margine di errore, non poteva permetterlo. Al diavolo l'egoismo, al diavolo tutto; era la loro unica speranza, e a costo di morire dalla delusione doveva provarci.
    E poi doveva riuscirci.
    «Elijah Dallaire?» e con quel tono sicuro eppure triste eppure disperato sembrava il nuovo poliziotto del quartiere che ti bussa alla porta e cerca la moglie della vittima di cui era lui stesso amico per comunicargli del decesso, ma non gli importava. Voleva le fare le cose per bene, voleva essere sicuro, e dire nome e cognome sembrava la cosa più sicura. Giusto? «Eli», riprovò, indeciso,
    notando che Rea non aveva usato il nome. Forse doveva chiamarlo come lo chiamava di solito. «Elijah. Biondo. Cazzone. Cucciolo? Coglione. Amore?» Non lo sapeva neanche lui qual era la cosa giusta da dire, da fare, da pensare. Lancaster non aveva dato esattamente delle indicazioni chiare, lo stronzo.
    Si mordicchiò l'interno della guancia, stringendo più forte la mano del ragazzo, sperando in Rea, perchè Morgan solo sa quanto voleva che tutto quello funzionasse, e quanto avesse paura che li stessero solo prendendo in giro.
    E il tempo passava, il silenzio si appesantiva. Era felice di non aver lasciato fare quella... roba, ad Arabells: non avrebbe mai voluto sottoporla anche a quello strazio, alla vista del fratello (fratello di entrambi, sebbene in modi diversi) morto e riverso a terra, la sua mano fredda che non ricambiava la stretta. Si meritava quel momento, si meritava di dover morire dentro allo spezzare del sogno.
    "Non lasciarci. Non ora, non così. Per favore, rispondici".


    «Sorgi e brilla, splendore!»
    «...nate?»
    «No, la nuova cameriera, visto tutto il tuo vomito che ho ripulito ieri sera. Spuntiamo anche il whiskey sulla lista degli alcol che non sai reggere. euge, il prossimo?»

    «Lasciami guardare... gin!»
    «-Gin, salute!»
    «Te l'ho già detto: non fa ridere»
    «Sì che fa ridere, sono un fottuto comico, ingrato»

    «...nate»
    «Sì, amore?»
    «Stai zitto»

    «...nate»
    Se l'era sognato. Cazzo, doveva esserselo sognato.
    «...rea»
    «Cristo» chiuchino!
    Beh, quasi. E il terzo minuto resuscitò, secondo le Scritture.
    «ehi» Era impalato, Nathaniel. Gli occhi spalancati, il respiro strozzato. Elijah era morto. Era sicuro fosse morto.
    «ha funzionato»
    «Siamo dei fottuti negromanti»
    Nate si portò la mano davanti alla bocca, e si accorse che stava sorridendo... no, ridendo. Una risata isterica che buttava fuori lo stress, e ogni fiato preso inalava gioia, quella che fa male talmente ti colpisce con violenza.
    Elijah era vivo. Era vivo. Era vivo. Era vivo.
    «damn uomo... c’è qualcosa che non va»
    Continuando a ridere si buttò sopra il Dallaire, le braccia intorno al suo collo, fregandosene del rito, fregandosene che dovesse avergli fatto male, fregandosene di tutto. Era vivo. Lo avevano salvato: la magia, Dio, l'amore, loro, Lancaster, che importava chi o cosa? Era lì, respirava, il suo cuore batteva all'unisono con il suo e quello di Rea.
    «te l’avevo promesso che sarebbe andato tutto bene, no?»
    «Paladino del cazzo»
    Dio, quante se ne sarebbe prese per quella sorpresina di morire.



    «Jakey, credo che ti serva un medimago, e al più presto»
    Non era stato facile abbandonare Elijah dopo essere riuscito a riprenderselo, nè in realtà avrebbe voluto lasciare chiunque altro di quella radura. Fosse stato per lui, sarebbero andati tutti insieme appassionatamente da qualche parte... o forse no, forse voleva stare da solo e fingere di odiare tutti da lontano.
    O forse voleva stare con i suoi amici?
    Fuck, la dura vita della relite sarebbe stata così d'ora in poi?
    In ogni caso, aveva abbandonato Eli alle cure di Rea (il terzo Hamilton dentro di lui aveva fatto sì che evitasse domande imbarazzanti e la richiesta di dettagli sulla loro relazione), Bells con Oscar, Heli a Killian, Jericho a Thad e, temeva, Jack, dopo averla tuttavia invitata con loro.
    «Perchè mai dovrei?»
    Nate aveva stretto il ciondolo che portava il collo, leggermente deluso dal rifiuto, ma aveva annuito, posando poi una mano sulla spalla della sorella. «Se hai bisogno, di qualsiasi cosa, chiama» Uno sguardo ammonitore all'Hades e alle sue labbra moleste, e poi via verso il solito Spacobot.
    «Eaulamadonna Nate, come la fai tragica. Spaco, qui, era un dottore. Può pensarci lui, vero Spaco?.»

    «Facevo il cuoco, coglione di un Jackson.» «Ah. Beh dai, più o meno ci siamo.»
    Nate rise, divertito, per poi mettere una mano intorno alla spalla di Gemes. Quella storia dei triumvirati poteva rivelarsi assai divertente. Lui non aveva segreti nè per Rea nè per Elijah, e non sarebbe stato affatto imbarazzante trovarseli nei propri sogni (magari anzi avrebbe potuto chiedere a loro aiuto su quel sogno ricorrente con Natajah vestito da ballerina di can can; un'allusione a prendere un'altro cane?), ma sarebbe stato altresì interessante ritrovarsi nei loro. Aveva captato una certa ship nell'aria (ok, nei loro pensieri), nonchè rivisto alcuni ricordi assai interessanti, e non vedeva l'ora di poterne parlare con Eli.
    O forse no. In fondo, era una cosa loro, e a quanto pareva aveva già fatto abbastanza per tenerli lontani asfissiando Elijah per anni con la sua assurda cotta per Rea. Morgan, forse se non avesse sempre detto al biondo di quanto era cotto della bruna, cotta che in realtà non era poi diversa dai sentimenti che aveva sempre provato anche per Euge e Eli, quest'ultimo forse si sarebbe fatto avanti molto prima.
    Aveva spaccato una ship.
    Com'era diventato uno sfascia famiglie?

    Mandò giù l'ennesimo bicchiere di benzina, fuoco caldo che gli bruciava la gola, e ridacchiò guardando Gemes. Aw, chissà se ora avrebbe sempre fatto parte del gruppo; era stato così restio prima di diventare Eurun a uscire con loro... BRAVO GEMES; essendo il gemello perduto di Rea, era giusto facesse parte della casta (almeno lui non lo terrorizzava come Delilah)
    «siete tutti e due dei coglioni»
    Nathaniel annui inarcando le labbra verso il basso. «Severo ma giusto»
    «jackson, curarti è la prima cosa che ha fatto run: non hai un cazzo. E dato che sei evidentemente già così lercio da non capirci molto-...» Gemes si interruppe.
    Questa volta lo sguardo era per lui, Nathaniel.
    Lo special non parlava, ma i suoi occhi gridavano qualcosa. Cosa? Beh, cosa era palesissimo, andiamo.
    "Santo cielo. Tutto questo tempo...?"
    «SONO GIA' OCCUPATO!»
    «NATE PAGA UN GIRO A TUTTI!»
    «...eh?»
    No ok, forse non voleva baciarlo. O forse aveva capito che Nate si stava facendo indietro e aveva corretto il tiro appena in tempo #wat «Se Aveline mi scarica perchè faccio schifo, sarai il primo da cui verrò per farmi consolare... beh, il secondo. Terzo. Quartoquinto.... Jay e Lydia valgono come uno o due?»
    E la benza iniziava a fare effetto, quindi si può smettere di fingere che Nathaniel avesse sentimenti FINALMENTE.
    «un altro»
    Copiando l'uomo, ma soprattutto copiando Thor Keanu, Nate alzò il calice (o quello che era nella realta mentre i suoi occhi appannati immaginavano un calice). «Questa bevanda mi piace. UN'ALTRA» e CRASH bicchiere per terra. Che in realtà non fece crash ma tump perchè era di plastica visto che Spaco conosceva le abitudini strane di Nate #wat
    E ora vorrei finire il post in modo serio e straziante, ma sappiamo tutti che non lo farò... o comunque circa. Perchè era serata karaoke, aveva deciso Nate, e senza chiedere nè il permesso nè il perdono si alzò in piedi sullo sgabello. «Questa... questa è per te!» Batte il pugno due volte sul petto, si baciò le dita e poi le rivolse verso il cielo (????). «ELIJAH DALLAIRE E' L'UOMO -più fastidioso del mondo. PERO' LO AMO» #wat
    L'idea era cantare una canzone strappalacrime ma poi alcol happened, e uscì più che altro qualcosa di inascoltabile, con la partecipazione di tutto tutto il bar #wat
    ciao non pensavate davvero che avrebbero passato la serata da spaco a lerciarsi come le merde senza rendersi ridicoli.
    E poi, Nate voleva approfittare del fatto di non poter essere ucciso da Rea (o del poterle dire a conti fatti che l'avrebbe trascinata a fondo con lui) il più a lungo possibile.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia



    idk man. Se non posto ora so che non posterò mai più quindi scusatemi per la merdata e scusatemi se non ci sono sentimenti ma io non ne ho. E sto ancora ridendo per la canzone di let it go

    il ciondolo per parlare con una persona defunta l'ha vinto qui
     
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2 replies since 24/12/2016, 16:48   395 views
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