just, stay with me -- deatheater | 26 y.o. | telekinesis | hunter
«è una trappola»
Rimase immobile, gli occhi azzurri a vagare alla ricerca di qualcosa che non era davvero sicuro di voler trovare, qualcosa che non era certo di voler sapere, mentre i minuti scemavano in effimeri secondi ed il vano tentativo di intrufolarsi in quel capanno uscendone, come sempre, vittorioso gli stringeva il petto in una morsa che mai, il ventiseienne, aveva pensato di poter avvertire – non più, mai più. Non aveva mai fallito, in tutti quegli anni; anche quando ciò malauguratamente succedeva, era sempre stato capace di rivoltare la faccenda a proprio vantaggio, riuscendo ogni volta a dare lo scacco matto nonostante la partita sembrasse ormai persa, e le pedine sulla scacchiera un vago spettro a ricordare che non erano state sacrificate invano: a ricordare al re che non gli era concesso cadere decretando la propria sconfitta. Il re non doveva cadere.
Non doveva cadere.
Non l’aveva mai fatto, era sempre rimasto con i piedi perfettamente piantati a terra, lungi da lui l’idea di non aver salda la presa con il terreno; non l’aveva mai fatto, e anche quando le mani erano in procinto di attutire la rovina nel miglior modo possibile aveva sempre impedito che il corpo potesse toccare il suolo, pronto a rialzarsi ancor prima di cadere definitivamente. Non l’aveva mai fatto, perché sapeva che gli era semplicemente impossibile farlo.
Non doveva cadere, il re; non doveva - né poteva, né voleva - fallire, Gemes Hamilton.
Osservò i display e su questi il tempo scivolare via, fuori dal controllo umano, dal suo controllo, le palpebre assottigliatesi in una linea spigolosa, le labbra strette tra loro; ed arretrando, man mano che i secondi divenivano sempre di meno, tentò ancora di spingere il corpo nella direzione contraria, dentro quel dannato magazzino, senza più prestare realmente attenzione alla battaglia che proseguiva tutt’attorno: non aveva più importanza. Forse, non aveva mai avuto importanza.
«hai mai creduto non fosse una trappola?»
Lo sapeva da sempre, che era una trappola.
Lo sapeva da quando, seduto dietro la scrivania del proprio ufficio, passava in rassegna con occhiate vaghe e apparentemente superficiali, disattente, gli articoli di giornale, le fotografie delle persone scomparse; quando le iridi celesti redarguivano sguardi privi di spessore ad animate figure su carta patinata, che si muovevano incastrate in quelle istantanee, incapaci di ricambiare quei sospiri trattenuti tra le labbra, di rispondere ai quesiti che uno sull’altro si accavallavano nella mente dell’Hamilton; quando cercando Amos, Jayson, Aloysius per la villa, non li trovava a scorrazzare per la villa, pulire, affogarsi nell’alcol o a meditare su quanto la propria vita potesse essere ingiusta; quando si degnava di passeggiare annoiato tra le strade di Londra, o di New Hovel, non vedeva le figure di Nathan o di Raine; quando, alla ricerca di qualcuno a cui scaricare i propri fascicoli, schioccava la lingua contro il palato, constatando che ancora, Heidrun, non era tornata a mettere i propri piedi sulla scrivania, le spalle buttate contro lo schienale della sedia e sempre, sempre, qualcosa da dire.
Lo sapeva, nel momento in cui aveva dato la propria adesione a quella squadra di ricerca, che avrebbero rincorso vane speranze senza risolvere nulla, predatori ingordi che rincorrevano la propria preda fintanto che non fosse finita tra le loro fauci, finendo invece con un piede nella tagliola di un cacciatore, divenendo vittime. Lo sapeva perfettamente, quando analizzava con più accortezza davanti al fuoco del camino i dettagli sui rapimenti, i resoconti delle perlustrazioni, non trovando mai alcunché di rilevante. Nulla che li potesse condurre da nessuna parte, che gli faceva costantemente pensare di perdere tempo inutilmente.
Lo sapeva, che era una trappola, quando aveva messo piede nella radura del bosco di Brecon, radunandosi insieme a decine e decine di altri volontari - familiari, amici, amanti. L’aveva dato ormai per scontato, quando quella bambina dagli occhi troppo azzurri aveva premuto il grilletto davanti alla folla frastornata e turbata, togliendosi la vita.
L’aveva capito, quando il corpo del messaggio, con un tonfo soffice a risuonare come un grido nella foresta, era caduto tra le foglie, che quella non era una trappola.
Era peggio, sarebbe stato peggio; sarebbe stata una carneficina, e loro tutti - volontari e cacciatori - la mandria che consapevolmente andava al mattatoio.
«non dovremmo andare»
Eppure.
Eppure erano andati, eppure erano finiti come mosche nella tela del ragno - consapevoli, sempre consapevoli. Eppure, avevano voluto spingersi ancora una volta oltre il limite, incuranti della linea marcata a sangue davanti alle punte delle loro scarpe, derisori di quel confine che avevano superato come fosse un semplice ostacolo.
Eppure, Gemes Hamilton era andato, credendo che come ogni volta da quella trappola ne sarebbe uscito con un sorriso trionfante, le vesti sporche del sangue degli sconfitti, tenuto tra le dita il bottino per il quale si era mosso, il tesoro che era andato reclamando - per poi lasciarlo sulla mensola del camino, pretendendo che non gli importasse affatto. Credendo che, come ogni fottuta volta, ce l’avrebbe fatta.
Credendo che, come ogni fottuta volta, non gli sarebbe importato del premio.
Credendo che, come ogni fottuta volta, non gli sarebbe importato di nulla.
«hanno sempre bisogno di noi, rea»
Perché era più facile così, era più facile pensare che, almeno quello, lo stesse facendo per loro. Era più facile, che dirsi che era lui ad aver bisogno di loro.
Trenta secondi - le labbra strette, la mano a premere sul taglio alla spalla sinistra, le gambe ad allontanarsi dal capanno e la mente a proiettarsi ancora dentro la costruzione, verso un luogo che gli era sconosciuto, verso un luogo dove c’era tutto quello che importava.
Non era un eroe, Gemes Hamilton, e non lo era mai stato. Mai, invero, lo sarebbe stato. Perché, semplicemente, non voleva farlo: aveva scelto l’oscurità, decidendo che l’antagonismo era il suo regno, il luogo al quale era sempre appartenuto e dove sarebbe sempre tornato. Era un mostro, lo era sempre stato - agli occhi della propria famiglia, a quelli delle persone che lo incontravano per la strada, ed era quello l’appellativo che gli veniva attribuito poco prima che labbra sconosciute esalassero l’ultimo respiro, scivolando delicate a terra e rimbalzando per le stanze vuote, eco di mille altre volte che una cosa del genere era già stata udita dalle orecchie del ventiseienne.
Eppure, era andato.
Eppure, ci aveva voluto credere.
Che per una volta, che per qualcuno, potesse mettere da parte la maschera del cattivo, calandosi nei panni dell’eroe: poteva farlo per seguire Rea all’interno, piuttosto che restare a combattere una battaglia persa all’esterno; poteva farlo, per tirare fuori sua cugina, il Withpotatoes, Jayson; poteva farlo, per dire ad Heidrun che era sempre stato solo un bacio, e che per quanto potesse essere fantastico non serviva si prendesse una dannata fucilata per lui - innocente, lui.
«hanno sempre bisogno di noi, rea; l’hanno sempre fatto»
L’aveva sempre fatto.
Venti secondi, e non aveva più alcuna importanza. Voleva, l’Hamilton, che non avesse più importanza, che non l’avesse mai avuta.
Doveva aspettarselo: se c’erano eroi in quella storia, lui non era uno di quelli. Lui era il cattivo, quello che il fuoco, a quel capanno, avrebbe dovuto appiccarlo; non era quello che salvava il mondo, piuttosto colui che lo modellava, cambiandolo a proprio piacimento.
Dieci secondi, e di mondo Gemes aveva cambiato solo il proprio, nascondendosi dietro le bugie che raccontava agli altri, nulla in confronto a quelle che si narrava da solo, che gli permettevano di dormire sonni tranquilli. Dieci secondi, ed il sorriso malizioso, privo di forma ed incapace di giungere alle gelide iridi di cobalto, piegò il viso del telecineta, le palpebre a calare sugli occhi stanchi - stanchi di tutto, stanchi di niente: stanchi anche solo di averci provato, ad essere quello che non poteva essere, che non sarebbe mai stato; stanchi di fingere, ed incapaci di fare altro.
Cinque secondi, l’arma ancora stretta tra le dita, le narici piene dell’odore di sangue e terra, ed erba secca e aghi di pino ancora attaccati ai rami; il petto, pieno di ansiti e battiti che mai, il ventiseienne, aveva pensato di poter avvertire prima di quel momento.
Non più, mai più.
Quattro secondi, aprì gli occhi. Anche gli ultimi impavidi avevano smesso di tirare pugni alla porta irremovibile, le bacchette ancora spianate e pronte al peggio; ma non tutti avevano invece smesso di chiamare qualcuno che non li avrebbe uditi, da dentro. Non tutti, avevano smesso di sperare.
Tre secondi, la testa reclinata all’indietro, lo sguardo puntato verso lo schermo distante e troppo, troppo vicino. Respiri pacati, il proprio sangue sulle dita, la gamba a pulsare laddove la freccia poc’anzi si era conficcata, la mano destra a sentire la presa sul manico dell’ascia venire meno. Nemmeno se n’era accorto, Gemes Hamilton, di quando aveva smesso - di guardare veramente, di udire i suoni in maniera distinta piuttosto che ovattati, di combattere una battaglia che non lo riguardava.
Una battaglia che non gli importava.
Una battaglia che gli era sempre importata troppo.
Due secondi, ed era stanco di aspettare lì, inerme di fronte all’inevitabilità dei fatti. Incapace, di uscirne vincitore. Disadatto, non all’altezza di essere l’eroe che Raine pensava fosse, di vestire il mantello che Nathan avrebbe sempre voluto indossasse e che, con un blando gesto della mano, aveva sempre rifiutato. Incapace di dimostrare a Jayson che oltre alla maschera, c’era qualcos’altro - perché, di fatti, non c’era mai stato nient’altro da mostrare, niente su cui contare -; incapace, di entrare nel magazzino e dimostrare a Run che, qualcosa, lo sentiva.
Che qualcosa, Gemes Hamilton, l’aveva sentito; aveva, semplicemente, deciso di smettere di farlo.
Un secondo.
DOVEVI FARE SOLO UNA COSA HAMILTON, UNA. UNA SOLTANTO.
Chiuse gli occhi.
L’eco della voce di Jericho pervase ancora la mente di Gemes, un sorriso e uno sbuffo distratto ad uscire dalle labbra. Quale bomba.
Non aveva mai creduto, che quella non fosse una trappola.
Zero, e non importava più a nessuno che quella era una trappola.
Non c’era più nessuno, al quale poteva interessare.
Puntò i polpastrelli nella molle terra, divenuta ancora più malleabile con una pioggia che non aveva sentito arrivare, stringendo i pugni sotto di questa ad ogni colpo di tosse, ed ogni volta che aveva creduto sarebbe stato l’ultimo rantolo al suolo, ricominciava. Se doveva esserci una bomba, come la stessa esplosione aveva dimostrato, ci sarebbero stati detriti, alte lingue di fuoco, denso fumo irrespirabile a pervadere la radura insinuandosi nelle narici dei presenti: era tristemente pronto, Gemes, a quell’evenienza. Ma quello non era semplice fumo, gli sussurrava la gola chiusa incapace di incanalare aria, il palato raschiato dai rauchi tentativi di gettare fuori il miasma ed incamerare ossigeno pulito, il sangue a cadere sulle foglie, chiazze cremisi a sporcare il prato di Brecon man mano che scivolavano dalle labbra. Del semplice fumo non avrebbe fatto stramazzare al suolo gran parte dei partecipanti a quella missione, più di quanto non avessero fatto le lotte antecedenti, o l’esito finale della battaglia. Semplice fumo - ed una semplice esplosione, e delle semplici morti - non avrebbe costretto l’Hamilton a stringere la terra tra le dita nell’intento di scaricare altrove un dolore così estraneo. Un dolore, quello, che andava scendendo l’esofago e stringeva lo stomaco, e che prendeva la via della trachea riempiendo i polmoni di veleno; un dolore che tanto aveva di quel miasma, quanto non ne aveva nulla.
Una risata, breve e roca, atona e silenziosa a scuotere le spalle quando finì di sentirsi oppresso, sputando un ultimo grumo al suolo; una risata strappata dal ventre a tagliare la gola, densa come catrame a rotolare fuori dalla bocca, quando si rese conto che, alla fine, il re era caduto. Avrebbe voluto fosse solo un vacillo della base, preoccupante ondeggiare che alla fine si stava risolvendo da solo, riassestando il vellutato tondo sulla scacchiera; la verità era che non lo sapeva realmente, Gemes.
La verità, era che non aveva più alcuna importanza - se fosse caduto, o se fosse rimasto in piedi.
«tu» un sibilo basso, attutito dalle gocce di pioggia a scivolare sulla pelle, sulle giacche, sui corpi a terra. Lontano era quel braccio stretto attorno alle spalle, lontano il sollievo nell’aver intravisto Amos apparire nella radura, Jayson trasportarsi fuori dal capanno. Lontana, era anche solo la convinzione che il Matthews potesse essere suo fratello. Goditi le amnesie; avrebbe dovuto, l’Hamilton, anziché sperperare il proprio tempo in ricerche sfiancanti. Ma non sapeva accontentarsi, non era mai riuscito realmente a farlo; ed era arrivato così vicino, così tanto vicino, dal poter credere fermamente che Frederick non fosse davvero morto, da non crederci più - i fascicoli potevano essere sbagliati, i nomi ivi scritti frutto di un depistaggio, qualsiasi cosa. «tu» ripeté, inumidendo la voce della pioggia e del metallico gusto del sangue tra i denti, e di una risata che di divertito non aveva nulla. Poteva star succedendo qualsiasi cosa intorno a lui, ma non gli interessava; percepì più il silenzio del telecineta, che il suo respiro: così abituato ad aver sentito unicamente quello per quasi un anno da saperlo quasi riconoscere nonostante i tre mesi in cui non aveva idea di dove fosse - per quanto riconoscere il silenzio potesse essere un’impresa ardua. Portò il dorso della mano a pulire la bocca, osservando come le goccioline scarlatte venissero velocemente diluite dall’acqua piovana a contatto con la pelle, e un’altra risata gli scosse nuovamente le spalle, rivolte ad un cielo scuro che nemmeno le fiamme erano in grado di rischiarare, quasi lo trovasse esilarante. Ma non c’era nulla, di divertente: non c’era nulla. «avresti potuto portarli fuori» rabbia passivo aggressiva, troppo stanco Gemes per lasciare il rancore e l’odio ad accumularsi in un recipiente straripante. Non si mosse, nemmeno lo guardò nelle iridi di calda ambra; e la voce con cui parlò, e chiunque lo conoscesse ormai ne era consapevole, era quanto di più tagliente l’Hamilton possedesse, a discapito di armi e potere - fiele a scivolare sulla pelle, promessa di una vendetta vicina o lontana, rabbia a ribollire nelle vene. «avresti dovuto» sibilò, così sottovoce che il suono si sarebbe potuto benissimo disperdere tra le grida consapevoli che andavano alzandosi nella radura, le travi di legno sparse per il luogo a venir bruciate da quel fuoco divoratore, fino a quando l’acqua non cadeva su d’esse lasciando marcire al suolo uno scheletro pece. «invece hai portato fuori una donna qualsiasi; bel lavoro, jayson» non gli importava, che quella donna portasse in grembo un bambino; non gli importava, di cosa avessero passato sotto quel capanno tutto quel tempo, di quanto avessero potuto stringere un legame che aveva poi portato il Matthews a scegliere lei. Non gli importava, non gli importava più un cazzo. Accuse a rimbalzare su pareti d’acciaio, riverberando di un’ottava maggiore ogni volta che si ripetevano nell’ambiente vacuo, quelle che stava lanciando al superstite: avrebbe voluto non essere furioso, di quell’astio che andava insinuandosi sotto pelle, alimentandosi con il semplice passare del tempo, ma lo era; in quel momento, non riusciva nemmeno a passare sopra alle evidenti torture che doveva aver subito il ragazzo, a tutto quello che poteva essere accaduto lì dentro. Ci aveva provato, ci stava provando, a mettere da parte Gemes Hamilton almeno in quel frangente, almeno per un po’. Alzò gli occhi cobalto venati di tinte vermiglie, arrossati di uno sforzo e di qualcosa che, a quel punto, non voleva avvertire - non più, mai più - pieni di nulla e vuoti di ogni cosa, la bocca piegata in un sorriso inespressivo verso il fremello.
Era colpa di Jayson, che non aveva tirato fuori Rea, Raine, Nathan, Heidrun.
Era colpa di quei babbani, i cui corpi esanime oramai giacevano a terra e ai quali, da che era scaduto il tempo, il telecineta non aveva degnato uno sguardo.
Era colpa degli ostaggi, di tutti loro, che l’avevano posto sull’orlo di una scelta.
Era colpa di Gemes Hamilton, antagonista di una storia nella quale gli eroi non sembravano vincere, ed i cattivi a rimetterci comunque in egual modo - una storia d’infamie, di potere e non di vinti o caduti, non una di quelle che si va raccontando, e la stessa nella quale s’era sempre nascosto seppure alla luce del sole.
Come non si accorse della pioggia a bagnare gli indumenti poco prima, decise di ignorare i passi decisi a schiacciare le foglie secche, di ignorare la voce dell’uomo accorso sul posto troppo tardi. Sempre, troppo tardi. Si alzò, sporgendosi in avanti e seguendo con disinteresse lo sguardo dei più, intenti già a soccorrere coloro che l’uomo aveva recuperato. E dietro il volto di marmo, notando i respiri regolari ed i movimenti quieti dei muscoli, qualcosa si accese. Una tenue scintilla, nulla di più, destinata a spegnersi di lì a pochi secondi, quando entrò in scena la francese - se già conosceva Dragomir e Lafayette, in quel momento non lo ricordava -, tra le braccia dei suoi uomini i corpi più martoriati dagli eventi.
Deglutì un groppo troppo amaro, saliva e bile ad inumidire ed incastrarsi nella faringe, gli occhi chiari a vagare tra i corpi stesi al suolo. E vide sua cugina annaspare alla ricerca d’aria, e vide il petto di Rea alzarsi ed abbassarsi come normalmente avrebbe dovuto fare, tra le dita quelle di un corpo che invece non lo faceva. Ma non ascoltò la diatriba tra i due presidi, non era affar suo quello di cui i due avevano di che discutere, mentre si accorgeva amaramente di avere il respiro strozzato in gola.
Perché, non riusciva a respirare normalmente?
Perché, quel grumo non scendeva, liberandolo dell’inghippo?
Li aveva già dati tutti per morti, se n’era già fatto una ragione: vedere i petti immobili e le palpebre calate per un tempo che sarebbe durato in eterno, non avrebbe dovuto fare una piega.
«sono addestrati per affrontare situazioni del genere, ed ho visto combattere anche loro – nel labirinto, al lavoro. ma soprattutto, dio solo sa quanto io abbia provato a cancellarli da quest’esistenza: fidati, è impossibile»
«per quello, ancora mi permetto di mantenere la speranza»
Un anelito di fiato a svuotare i polmoni, un pigro e distratto movimento del capo.
Se n’era fatto una ragione.
Non avrebbe dovuto fare una piega.
Era presenza usuale nella vita dell’Hamilton, la perdita, anche laddove una vera perdita non era avvenuta; quella che si presentava in quel momento davanti allo sguardo arrossato, il volto di pietra a celare quella scintilla che aveva voluto alimentare, era solo una delle tante.
The lies we tell other people are nothing to the lies we tell ourselves.
Non si era mai trattato soltanto di un bacio, non per Gemes Hamilton.
«non vorrei risultare inopportuno, ma sono abbastanza certo che quando non respirano, significa che sono morti»
Non fece un passo, non un respiro, non, mentre Lancaster, inopportuno in quel luogo quanto le parole in quella situazione, ruotava il capo di Heidrun - e lei non si dimenava, non cercava di liberarsi di quel tocco, alzandosi invece spavalda chiedendo cosa fosse successo, se fosse di nuovo in post sbronza o qualche cosa da Crane.
Distolse lo sguardo, notando quello dell’Hamilton a cercare il suo – sul viso di lei un sorriso spento, su quello di lui nulla. Non sapeva nemmeno come guardarla, come esprimersi nei confronti della mora; non si era mai sentito tanto inadatto quanto in quel momento, mentre le iridi di un blu più acceso andavano a perdersi nel cioccolato fuso delle sue – e non aveva idea, di quanto quello fosse solo l’inizio. Mai i sensi di colpa avevano stretto lo stomaco di Gemes, tanto da fargli sentire la propria morsa potente, a gettare su un’indole bastarda una macchia d’infamia. Non aveva sensi di colpa, qualsiasi cosa facesse non lo portava a pentirsene in seguito.
Eppure. Eppure quella volta era diverso – quella volta era tutto così diverso. V’era una sola persona della quale si fidasse quanto si fidava di sé stesso - tanto, ma mai fino in fondo -, ed aveva lasciato che questa rischiasse troppo senza ch’egli l’accompagnasse; quando c’era da scegliere, si erano scelti, vedendo nell’uno la perfezione ostentata dall’altra, e viceversa, trovandola inquietantemente piacevole, straordinariamente familiare. Era la sua famiglia, più di quanto potesse esserlo quella di sangue, ed aveva rischiato di perdere anche lei - ed era colpa di Jayson, che non l’aveva tirata fuori; ed era colpa di quei babbani, i cui corpi esanime oramai giacevano a terra insieme ai caduti di una battaglia alla quale erano disinteressati; ed era colpa degli ostaggi, di tutti loro, che li avevano posti sull’orlo di una scelta; ed era colpa sua, che non era né sarebbe mai stato l’eroe, e che non voleva esserlo.
Chiuse gli occhi, piuttosto che mantenere quel contatto, le dita a premere tanto sulle palpebre chiuse da fare male, ma meno di quanto non potessero fare le gocce salate trattenute dietro di queste. Si isolò di forza dal mondo circostante, i suoni a giungere attutiti, le urla strazianti e straziate a scivolare lungo la giacca lacera, inconsistenti. Si isolò, premendo con più forza sugli occhi stanchi, il diaframma a spingere affinché la bocca esalasse un sospiro dalla consistenza amara di un rantolo strozzato - ed il corpo a chiedergli di adagiarsi al suolo, che tanto ormai era già caduto; le gambe ad intimare di tornare a casa, che il suo compito l’aveva fatto per quanto gli era stato possibile, che non aveva più alcun senso restare lì; il cuore a battere un po’ più forte tra le costole, ricordandogli che almeno lui era ancora vivo, e che era questo ciò che gli importava realmente.
Ma non aveva più importanza.
Non aveva mai davvero avuto importanza, prima, perché non c’era mai stato niente di davvero importante.
E fu sinceramente tentato, Gemes Hamilton. Di voltare le spalle, sparire tra le ombre che le fiamme gettavano tra le fronde e le silhouette dei sopravvissuti, tornare a casa, versarsi due dita di buon whisky ed accendere un fuoco, le membra a riposarsi contro la pelle della poltrona – e di rispondere in maniera vaga agli abitanti di quella villa, di dirgli che stavano tutti bene e sarebbero tornati a momenti, aggiungendo che Al invece non l’avrebbe fatto, ma che le spiegazioni in merito sarebbero giunte in seguito, perché era stanco. Qualcosa, però, lo bloccò. Una voce, una delle tante che aveva tentato di distaccare dalla propria persona, ma che aveva fatto breccia nel muro di diamante dentro al quale era rimasto immobile.
«e se vi dicessi che, ipoteticamente s’intende, potrebbe esserci la possibilità di riportarli indietro?»
La ragione, lume che l’aveva sempre guidato anche quando pareva che fosse un insano seme della follia a muovere i suoi fili, gli diceva che era sciocco anche solo aver lasciato che quella retorica domanda si insinuasse tra le crepe di una muratura fallace. Non avrebbe senso, pensò con un amaro sorriso dipinto sulle labbra, le palpebre ancora calate. Altrimenti, sarei sinceramente fottuto. Se fosse stato così semplice, se fosse servito solo un mago da strapazzo qualunque, tutti i morti che si era assicurato fossero freddi prima di lucidare il pugnale in un elegante panno di velluto, sarebbero tornati a reclamare la sua testa – ed erano tanti, erano troppi. Allora cos’era a tenerlo inchiodato al terreno, reclamando con infantile morbosità di avere più informazioni?
Se n’era fatto una ragione.
Non avrebbe dovuto fare una piega.
Era presenza usuale nella vita dell’Hamilton, la perdita.
Cazzate.
«quando dico amore, voi a cosa pensate? sacrificio. condivisione. è un legame. sto cercando di dirvi che possiamo portarli indietro»
Fu a quelle parole, che comprese di aver fatto un madornale errore decidendo di fermarsi, attendere l’ennesima magia. Non il principio a far sgusciare dalle labbra una gutturale risata, bassa quel tanto che bastava a farla udire ai pochi che aveva intorno, vuota quanto vuoto era diventato quel peso sulla bocca dello stomaco; non il sacrificio, non la condivisione, non il legame, quella volta.
«a-mors: un legame, qualcosa di abbastanza solido sul quale potreste camminare. senza questo, il resto è inutile: dovete tenere a queste persone, altrimenti... come dicono i giovani? con il cazzo che funziona»
Gemes Hamilton, l’ultima volta che aveva controllato, non amava. Almeno, non amava nulla che non fosse sé stesso: non ne aveva mai fatto segreto, non si era mai preoccupato di dover affermare il contrario: era così, ed a lui andava bene fosse così. Senza contare che, ai suoi occhi, gli stessi che consideravano quella faccenda affare degli altri, categoria alla quale si era sempre rifiutato di appartenere, doveva essere un sentimento ricambiato. Non tanto per il semplice principio sul quale si basava una qualsivoglia relazione, quanto per qualcosa di più.
Ad amare si imparava venendo amati, e ad essere amati si diveniva amando.
Gemes Hamilton, non aveva mai amato.
Gemes Hamilton, non era stato mai amato - non quando gli sarebbe servito, non nel modo giusto; e quando era troppo tardi, chi avrebbe mai amato un mostro?
Rise ancora, sul volto uno spettro di esasperazione e disperazione, che nemmeno si premurava più di celare dietro una maschera di cera, consolandosi nella precaria certezza che sarebbe passato come un atto di psicosi - e sul fatto che fosse un sociopatico, nessuno aveva mai nutrito dubbi. Lui, non aveva mai nutrito dubbi.
Rise ancora, sotto le sopracciglia corrugate gli occhi a cercare sul volto dei presenti qualcosa, qualcosa che avrebbe voluto fosse suo in quel momento; qualcosa, che l’avrebbe reso come gli altri.
Rise ancora in maniera sommessa, senza essere ascoltato ormai da nessuno, nemmeno da sé stesso - di una risata che non aveva mai preso forma, incastrata tra le corde vocali e priva di suono -, fino a quando non ci fu più niente di cui ridere, e lo spettro del vago divertimento non divenne che una piega sbagliata su un volto scarico.
Non c’era mai stato niente di cui ridere.
«siete disposti a sacrificare qualcosa, per loro? siete disposti a condividere qualcosa, con loro? siete disposti a pagare un prezzo? siete disposti a perdere un po’ di voi stessi, per farli tornare indietro?
ecco cosa intendo. e se questo non è amore, non so cos’altro potrebbe esserlo»
Il problema, non era che non fosse disposto. Il problema era che non avrebbe funzionato.
Non sapeva nemmeno per quale motivo voleva così tanto che potesse funzionare.
Non ebbe nemmeno bisogno di vagare le iridi al suolo, cercando nei volti sconosciuto un vero motivo: non gli importava di Alec, ma sapeva che Jon era giunto fino a Brecon per Aiden; non aveva idea di chi fosse Helianta, ma aveva invece conosciuto il ragazzo biondo la cui mano Rea aveva stretto fino all’ultimo secondo; si era affezionato ad Al, alle sbronze moleste e a quelle silenziose davanti ad un fuoco spento, ma non conosceva affatto sua figlia.
Perché, sinceramente, se c’era qualcuno per il quale il telecineta fosse disposto a sacrificare qualcosa, quella era Heidrun, e non sapeva nemmeno perché.
Per quanto costasse al suo ego ammetterlo, Gemes Hamilton non era nessuno per Heidrun Crane.
Heidrun Crane, non era nessuno per Gemes Hamilton.
Nessuno: soltanto la persona più molesta sulla faccia della terra; soltanto una sconosciuta gettata per caso nel suo stesso gruppo in un Labirinto lontano nello spazio e nel tempo; soltanto la sua prima squadra in un ambiente ostile, quella ragazza un po’ troppo sfrontata che gli aveva puntato una balestra al petto; soltanto una scansafatiche, una che prendeva con troppa leggerezza tutto quello che c’era intorno; soltanto una scapestrata, intramontabile bambina, che si divertiva a prendere in giro le persone professando che loro due, insieme, erano i genitori del fratello di Rea.
Nessuno.
Soltanto quella ragazza che si era addormentata al suo fianco, la testa sul petto, quando tolti i pregiudizi ed i trascorsi non era rimasto nulla se non Gemes Hamilton, quando nel buio di una notte priva di stelle lo sguardo incerto andava a sfiorare il profilo addormentato.
Soltanto quella ragazza che gli aveva chiesto di restare con lei, la prima persona alla quale aveva voluto avvicinarsi nonostante sapesse, cristo se lo sapeva, che non aveva alcuna intenzione di ascoltare le sue parole, per quanto egli volesse invece che le frasi sedimentassero qualcosa nell’animo turbato.
Soltanto una voce nell’ombra dell’anno nuovo, l’unica ad essere giunta su una balconata ove si era rifugiato in cerca di isolamento, in cerca di una compagnia che non avrebbe mai chiesto.
Soltanto un’anima pura riflessa nelle iridi verde bosco, candida di un’innocenza che poco aveva a che fare con i possibili crimini di cui s’era macchiata, un’ingenuità infantile che l’aveva fatto sorridere quando nessuno guardava.
Soltanto l’unica persona che avrebbe accompagnato nella notte profonda, all’interno di un Laboratorio nel quale non sarebbe voluto entrare, e poco aveva a che vedere con la promessa dell’opportunità di tagliare la gola a qualche dottore sporadico, saziando un’insaziabile voragine nera di vendetta.
Soltanto un bacio.
Soltanto, qualcuno che era facile amare, e che era impossibile non farlo.
Fu questo a frenarlo maggiormente, mentre automaticamente si muoveva verso Rea, senza guardare niente di particolare. Gemes Hamilton non era nessuno, per Heidrun Crane; o meglio, non era quello che c’era bisogno fosse. C’erano decine e decine di altre persone che l’amavano, che l’amavano veramente, che avrebbero potuto far funzionare un sortilegio nel quale voleva credere più d’ogni altra cosa. Non per lei, quanto per il rifiuto di perdere, si disse. Non ci sarebbe stata alcuna vittoria, non ci sarebbe stata alcuna sconfitta, se nessuno fosse morto. Anzi, avrebbero vinto loro - cristo!, da quando aveva iniziato a pensare come membro di un team? -, ed i cacciatori sarebbero rimasti su quel terreno sancendo il trionfo dei Volontari.
Era per quello, voleva che funzionasse.
Era per quello, che aveva paura non lo facesse.
Un sospiro, il sapore amaro del sangue sulla lingua, gli occhi a poggiarsi sul corpo immobile di Run, un battito in meno.
«possiamo davvero farlo?» Gemes chinò il capo, incontrando le iridi scure di Rea. Non si trattava più di volersi abbassare ad un livello al quale non erano disposti a chinarsi, perché sapevano entrambi di esserlo. «non lo so» rispose sincero, impassibile. «forse» un sospiro più greve, gli occhi alzati al cielo. Non erano abbastanza, gli Hamilton. Erano tante cose, diverse a seconda della bocca sulla quale si posava quel cognome, ma non abbastanza, mai abbastanza. C’erano decine e decine di altre persone che l’amavano, che l’amavano veramente, che avrebbero potuto far funzionare quel sortilegio. Non doveva essere necessariamente lui: Gemes Hamilton non era nessuno, per Heidrun Crane. «forse possiamo» un nodo alla gola che andava sciogliendosi, sebbene non credesse nemmeno lui alle proprie parole, sussurrate con un filo di voce appena percettibile.
Perché Heidrun Ryder Crane, per Gemes, era qualcuno –lo era sempre stata.
Era qualcuno dalla quale avrebbe voluto imparare ad amare, qualcuno da cui farsi amare.
Per quanto quella fosse una dichiarazione vera e propria, l’Hamilton non l’avrebbe mai ammesso di amare Run.
«siete sicuri di voler andare voi?» un battito di ciglia, spostò lo sguardo da Shia a Rea. Nessuno, invero, sembrava aver la risposta a quell’interrogativo. Nessuno a volerla sibilare tra i denti, nessun’onta di presunzione laddove dell’arroganza v’era il regno. Sorrise. «e tu?»
Nessuno di loro era sicuro, eppure erano tutti tremendamente certi.
«no» disse conciso, voltando le spalle al corpo della Crane, le iridi chiare puntate su due ragazzi troppo giovani. Inutile fingere non conoscesse Jeremy Milkobitch, lavorando e passando più tempo di quanto avrebbe mai voluto ammettere con la mimetica, o di non capire che lo stesso legame che lo legava alla ragazza fosse quello che stringeva un’altra adolescente a restare nei pressi del corpo del Dallaire. «non lo farete voi» un sorriso stanco ad illuminare il volto, convinto che quello sarebbe bastato a porre un punto fisso alla questione. Non lo fece, ed avrebbe dovuto supporre che quel mare di inespressi non erano giunti alle loro orecchie. Non lo farete voi, si parla di sacrificio e non voglio rischiare che se qualcosa va storto i vostri fratelli vi trascinino nella tomba con loro. A prescindere dal fatto che non se lo sarebbe mai perdonato – almeno quello -, era troppo anche per lui mettere a repentaglio la vita di ragazzi troppo giovani. «non capisci, è mia sorella, io devo farlo» serio, posò lo sguardo sull’indice puntato al petto, poggiando invece le mani sulle spalle del tassorosso. «se non ti levi di torno, farò in modo che shia vi droghi così pesantemente da non poter nemmeno festeggiare il momento in cui tornano in vita» sorrise soddisfatto e gli strizzò l’occhio, notando come fosse stato facile farsi guardare con malcelato disprezzo e facile timore. Meglio passare per egoista, a quel punto, e lasciar credere che il moto primordiale di quell’azione fosse unicamente superbia. Senza una parola, si inginocchiò al fianco di Heidrun, gli occhi a cercare altrove un appiglio ed incontrando invece quelli dell’altro volontario. «spero tu sappia cosa stai facendo, hamilton, altrimenti non ti basterà farmi gli occhioni dolci» In risposta, Gemes si limitò a sporgere il labbro inferiore, sbattendo le ciglia con delicatezza.
«come fai? come fai a non sentire niente?»
Le onde di un lago immobile riflesse negli occhi verdi, la mano di lei poggiata sul proprio petto in una notte muta. Non si era mosso, nemmeno lo sguardo aveva lasciato quello appannato dai fumi dell’alcol di lei. Sapeva che non dovevano essere importante per lei, quelle parole, o che non erano rivolte a lui: un mero sfogo per incazzarsi con un fato crudele; il punto era, ed era sempre stato, che era quello che aveva importanza, per Gemes. «lo senti?» un ringhio basso, il volto marmoreo immobile, la guancia a pulsare di uno schiaffo meno violento di quanto avrebbe potuto voler essere. «lo senti?» i fiati a mescolarsi, le palpebre socchiuse, qualcosa. Qualcosa che voleva sentire, ma che non aveva idea di come fare. Aveva smesso, non sentiva, mentre le labbra si sfioravano appena, desiderose di un attimo in più. «non senti niente, hamilton» Ed invece, aveva sentito tutto. Senza ch’ella potesse accorgersene, strinse le spalle di lei contro il proprio corpo, trattenendo il calore com’ella aveva fatto due notti prima, la testa a pesare sul petto. «tu puoi rimanere con me?»
Le aveva detto, che lei non lo voleva veramente.
Si era detto, che non lo voleva veramente.
«Crane, non dormire» un sospiro a metà tra lacrime che non avrebbe mai versato e risa che sapevano d’antico. Alla fine, Gemes era rimasto con lei, per lei, la mano sul petto ed il battito a rincorrere quello di lei, cercandolo nei meandri di un labirinto in cui si era perso.
«TUTTA LA NOTTE?»
Storse il naso, guardandosi appena intorno.
Ripensandoci in quel momento, l’idea di non pensarci su, bere qualcosa e dimenticarsi semplicemente l’orda di emozioni sparse ed emicranie immotivate, era stata la pensata più sbagliata che Gemes Hamilton avesse potuto fare. La cosa peggiore, era che non se ne pentiva davvero. Seguire Eugene e Nathaniel in quel posto dimenticato da Dio – e, a vedere dal lerciume, anche dal proprietario e dagli avventori – era stato piuttosto semplice: avevano chiesto chi volesse bere – o “lerciarsi a merda”, non ricordava esattamente i dettagli della discussione avvenuta -, ed il telecineta aveva semplicemente alzato la mano, stupendosi egli stesso di quella sciagurata iniziativa. «coca e mignotte?» Ahimè, la cruda verità era che quello non era né colpa del mago, né della mimetica: vantare mica tanto un migliore amico come Jonathan Winston aveva le sue controindicazioni. Quel detto, apparteneva alle sopracitate. «per la barba di morgan, quanto cazzo ti voglio già bene»
No, Gemes.
Non farlo.
Non vuoi.
Sì, che voleva. Dapprima imbarazzato, sorrise altrettanto estasiato al Jackson, di una solarità che mai, il volto dell’Hamilton, aveva potuto vantare. Era tutto così dannatamente sbagliato, da non esserlo affatto.
«jakey, credo che ti serva un medimago, e al più presto»
«eaulamadonna nate, come la fai tragica. spaco, qui, era un dottore. può pensarci lui, vero spaco?»
Si sedette affianco ai due, evitando accuratamente di fissare troppo intensamente la nutria. Cosa cazzo ci faceva una nutria in un bar? Non voleva saperlo, non voleva davvero saperlo. «facevo il cuoco, coglione di un jackson» guardò sinceramente perplesso i due intenti a bisticciare, rivolgendo poi l’attenzione al barista. «ma… sono così sempre? no, non sono davvero il suo migliore amico» ci tenne a precisare, nemmeno troppo sottovoce, indicando Eugene con un cenno della testa.
Ma chi voleva prendere in giro, già lo amava.
Dannazione.
Forse era bastata l’aria satura di alcolici - li avrebbe capiti - a farli sbarellare già prima di bere alcunché. «siete tutti e due dei coglioni» corresse Spaco. Si schiarì la voce, girandosi - non facilmente: lo sgabello fece uno strano rumore che gli fece rimpiangere qualsiasi cosa - e poggiando i gomiti sul bancone, la schiena contro il bordo di questo. «jackson, curarti è la prima cosa che ha fatto run: non hai un cazzo» asserì con un sorriso stampato in volto. «e dato che sei evidentemente già così lercio da non capirci molto» si sporse in avanti, incontrando gli occhi dell’amico di infanzia: da quanto tempo era che non passavano del tempo insieme? Troppo; era evidentemente il tempo di rimediare.
No, Gemes.
Non farlo.
Non vuoi.
Dio, com’era arrivata la sua vita a quel punto?
«NATE PAGA UN GIRO A TUTTI!» urlò agli avventori, corrugando quasi subito le sopracciglia. Quando si girò, dopo aver udito il barista già posare uno shottino di… qualcosa, nel vano tentativo di dimenticare - quanto appena avvenuto, e tutto - portò il bicchierino alla bocca, svuotandolo in contemporanea con i suoi nuovi amici.
La gola in fiamme, gli occhi lucidi: Gemes Hamilton aveva sempre retto meravigliosamente l’alcol.
Ma quello? Quello era diverso. «un altro»
Pessima, pessima idea.
You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia