We go together or we don't go down at all

// prequest #07 --- #catafratti (senza Oscar </3)

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    Chiuse gli occhi, negando allo sguardo ceruleo il prezioso cielo stellato di novembre, una canna tra le labbra, le scapole a cercare nell’umido terriccio dell’Aetas una comodità preclusagli dagli eventi e dalla pesantezza nel petto che, come un macigno, lo teneva supino sul terreno, impossibilitandolo ad alzarsi. Non lo aveva mai trovato il conforto in quel boschetto, Jeremy Milkobitch, preferendo sempre il polveroso pavimento della Stamberga Strillante, la puzza di muffa e i topi che di quel posto avevano fatto la propria reggia. Preferiva quel tanfo, la luce soffusa di quella fatiscente dimora lasciata disabitata chissà quanti anni prima, lo squittio snervante dei roditori e il rischio di prendersi qualche malattia per la sporcizia ivi raccoltasi, che quello spazio tanto verde. Preferiva il Lago Nero, o la Foresta Proibita, i caldi raggi solari riflessi sulla superficie scura o la completa oscurità che non lasciava trapelare nemmeno il più forte e prepotente fascio di luce tra le fronde; preferiva perdersi a contemplare le onde che increspavano lo specchio d’acqua, quando infantile lanciava un sasso ad infrangere l’apparente quiete, o ad ascoltare aneliti sconosciuti di ignote bestie che si nascondevano dietro i secolari e maestosi tronchi. Preferiva la Torre di Astronomia, l’irriverente altezza che si poteva notare sporgendosi un poco oltre il bordo, quel senso di onnipotenza che vibrava nelle ossa quando le iridi scandagliavano il paesaggio, che da lì si poteva ammirare in tutta la sua bellezza; preferiva il vento a scompigliare i corti capelli scuri, quell’ululato al quale poteva aggiungersi urlando tutto ciò che era rimasto inespresso fino a quel momento, trattenuto da una mandibola serrata e da denti digrignanti. Preferiva il Campo da Quidditch. Preferiva sentirsi libero come raramente riusciva a fare con i piedi a terra, lontano dalla sua scopa e dal prato costantemente tagliato, preferiva mettere tutta la testa in quel gioco, in un obiettivo, e non doversi concentrare più su null’altro; preferiva volare intorno agli anelli, da un estremo all’altro del campo, senza spettatori né competizione, senza vinti né vincitori. Preferiva le Serre di Erbologia, e tutti sapevano bene il perché, i differenti aromi a permeare l’aria e la nonchalance con la quale il professor Stilinski gli permetteva di fumare erba in quel luogo –sempre fuori dalle lezioni, ovviamente-; Dio!, preferiva addirittura la Sala delle Torture, ormai così familiare da essere una seconda casa per il tassorosso, piuttosto che quel bosco.
    Perché in quei luoghi, lo sapeva, lo avrebbero trovato. Bells, Arci, Jack, Oscar; sapevano benissimo dove cercarlo, quando non poi così sporadicamente decideva di allontanarsi, da qualsiasi cosa e da chiunque. Non era difficile, per loro, come per il Milkobitch non era altrettanto complicato intervenire per i suoi Catafratti quando sentiva che loro ne avevano bisogno: poteva farlo nel modo meno canonico, magari liberando un Boccino d’Oro per spezzare un imbarazzante silenzio tra la francese ed il grifondoro, chiedendo al Leroy quando sarebbe morto o confessando al corvonero che la sambuca lo faceva un po’ vomitare –tutti metodi che, secondo lui, riuscivano nell’intento di distrarre gli amici da ogni altra cosa che li turbava-, ma avrebbe fatto di tutto per loro, qualsiasi cosa potesse regalargli un sorriso. Se lo meritavano. Per quanto dicesse di amare quella solitudine, per quanto all’apparenza desiderasse estraniarsi da tutte quelle persone, pretendeva che loro violassero i tanto millantati spazi personali: non erano chiunque; loro potevano e dovevano farlo. Per tutti quegli anni, erano stati la sua costante, l’unica cosa che nonostante tutto andasse veramente bene. Preferiva la Stamberga, il Lago, la Foresta. Preferiva la Torre, il Campo da Quidditch, le Serre o la Sala delle torture. Preferiva essere trovato da loro, e che i quattro stessero con lui.
    Era quella la ragione che lo spingeva ad odiare quella felice boscaglia appena fuori da Hogsmeade, che gli faceva repellere il fogliame che l’autunno aveva fatto cadere, creando un soffice manto ambrato sul terreno già curato, o le risa della gente che, senza alcun pensiero, considerava l’Aetas un ottimo luogo nel quale fare un piacevole pic-nic. Lì, non lo avrebbero trovato, non avendo egli mai dato motivo alcuno per cercarlo fuori dai sentieri selciati. Lo odiava, perché ne aveva il sincero bisogno; ormai, da due mesi e mezzo, era il suo, personale, nascondiglio, e ancora non se la sentiva di rivelarlo agli altri. I rapporti non erano tesi, né si erano incrinati o allentati, ma con che coraggio poteva andare a chiedere loro conforto? Con che faccia presentarsi al loro cospetto, sfogarsi per Run scomparsa o Ian fuori controllo, quando tutti e quattro già condividevano la stessa merda?
    che meraviglia quell'esemplare di felesaps! la tua psw speciale è: non (ii)

    Erano passati quattro mesi e venti fottutissimi giorni, e ancora continuava, imperterrito, a scorgere tra le pieghe dei sorrisi altrui quello di Heidrun Crane, che dallo schermo di un palmare assicurava ai Milkobitch che sarebbe tornata in poco tempo, per il compleanno del rosso sicuramente. Che non poteva restare, in quel momento, e Morgan solo sapeva quello che doveva combinare la mora. Trascorrevano i giorni, trascorrevano le settimane, e Jeremy ci credeva alle parole della sorella; periodicamente scostava il tendaggio chiaro del soggiorno londinese, le dita sempre speranzose in quel tremolio sommesso, giustificandosi con una Bradley premurosa ed un Todd diverso, dicendo loro che stava solo aspettando che arrivassero gli altri. Non solo sembrava l’unico a serbare ancora l’illusione, nella villetta a schiera, di veder Run calpestare il viottolo lastricato che portava alla loro porta: sembrava l’unico a cui importasse, l’unico che volesse vederla di nuovo. L’unico a non credere possibile li avesse abbandonati, e che continuava a ripetere ad un sempre più scazzato fratellastro che non lo aveva mai fatto, che lui lo doveva sapere benissimo. Lo sapeva meglio di lui, ne era sicuro: a parti inverse, solo un anno prima, il moro non credeva di voler mai più incrociare gli occhi verdi e Ian, testardo, lo faceva desistere. “Lei ci vuole bene”, diceva, “non ci ha abbandonato, tornerà”. Ora? Era un ipocrita: ne era perfettamente consapevole, e si sentiva d’aver fatto un patto col demonio quando, prima che iniziassero le lezioni, aveva bussato a Villa Hamilton con la speranza di incontrare la versione giovane del Babbo Natale dei poveri –ma nemmeno troppo: Cristo, che villone!-, chiedendo quindi all’amico di Run di aiutarlo ad affrontare tutto quello, allo stesso modo in cui a Capodanno l’aveva fatto andare in giro con la convinzione che una giraffa d’appartamento volesse ucciderlo, però magari permettendogli di portarselo appresso –sì, Jeremy Milkobitch voleva “pillole di Shia”, fategli causa. Era davvero un ipocrita, e indubbiamente senza spina dorsale per ammetterlo a voce alta, ma non credeva che lavorare in un dannato stripper club gli facesse bene.
    QUEST08 Ama sua figlia, ed ama la sua causa - ed era uno solo,
    finché non ha scoperto di essere due. O forse tre. O forse quattro?"

    Non era da lui: il tassorosso, o la babbana, loro sì che avrebbero potuto spogliarsi per soldi nel Lilum; Todd? Mai. Aveva smesso di cercare di fermarlo, aveva smesso di tentare l’impossibile per farlo ragionare, quando con l’ultimo sforzo si era sentito la gola chiusa, la mandibola serrata, le labbra morse fino a quando il sapore metallico del sangue non aveva intorpidito il palato. «almeno io i soldi per comprarmi il cazzo che mi pare me li guadagno; tu come te la prendi la roba che nascondi sotto al letto?» In quattro mesi, venti giorni, aveva sperato in un miglioramento, ma l’unico che era mai riuscito a trovare era stato nella droga che gli procurava l’uomo barbuto, in quelle pasticchette dalla provenienza dubbia ed apparentemente gratuite ( «quanto ti devo?» «nulla» aveva così tanto la faccia da povero? «quando dovrai pagarmi, lo saprai» ). In quattro mesi, tutto quello che aveva ottenuto era un peggioramento, una continua discesa in picchiata verso abissi che non aveva davvero l’ardore di esplorare.
    Erano passati tre mesi, e ancora, ogni volta che si imbatteva in un grifondoro per i corridoi, o negli spogliatoi di Quidditch, gli chiedeva se Oscar era in camera, se sarebbe sceso a cena quella sera, incapace di credere che anche lui fosse scomparso dalla sua vita. Ancora, ogni volta che incontrava i Catafratti, manteneva un sorriso dipinto sul volto. «sicuramente si sarà addormentato» ripeteva, ogni fottuto giorno, «aspettiamolo ancora un po’» Non importava quanto l’immagine dalle sfumature avana l’avesse scrutato dall’edizione speciale del quindici agosto del MorsMordre, non importava che Bells avesse visto l’accaduto, che l’avesse testimoniato passando addirittura per pazza. Non importava un cazzo; Oscar era un coglione, il prototipo dello studente con la cravatta rosso e oro, li stava evidentemente prendendo per il culo. Sì, lo stava protraendo a lungo quello scherzo, ed era diventato di pessimo gusto, ma non era possibile quello che dicevano. Ogni volta che seguiva le tracce che la Pager Squad dava loro, non cercava lui. Cercava Run, che aveva sicuramente fatto qualche casino mentre era via e si era fatta prendere –dopotutto, era per lo stesso motivo che quattro anni prima era scomparsa dalla circolazione-; cercava Tiffany, nostalgico dei morsi affettuosi quando meno se li aspettava o della sua perpetua necessità di sfornare i più improbabili dolci; cercava Eleanor, perché le mancava quello strano rapporto che aveva instaurato con la corvonero: non era il solito parlare, il loro, e non era sicuro nemmeno fossero definibili amici, ma la sua compagnia taciturna era piacevole. Non Oscar, mai Oscar. Lui non poteva permetterselo, non poteva semplicemente pensare di farsi prendere da qualche pazzo psicopatico. Se ne rendeva conto, che gli mancava? Che il sostegno che era in grado di dargli non sapeva dove altro trovarlo –nessuno di loro, sapeva dove cercarlo-? Potevano farsi forza a vicenda, potevano fingere, ma “a vicenda” non era lo stesso. E nemmeno s’azzardava, le iridi azzurre a cercare nel baldacchino del dormitorio giallo e nero, di credere alla peggiore delle ipotesi.
    Erano passati quattro mesi, venti giorni; tre mesi, un giorno; due mesi, trenta giorni; due mesi, ventotto giorni. Non aveva il coraggio di guardarli, di aprire il baule e svuotarlo fino al fondo sul quale aveva lasciato tutte le edizioni straordinarie, ma ricordava ogni singolo giorno, quasi a memoria sapeva recitare quello che i diversi bollettini riportavano, trovare delle pecche nelle descrizioni –avrebbe dovuto dire al Ministero, per esempio, che Run era anche da prima del diciotto luglio che non si faceva viva, o che la Fraser era un licantropo-, e ad occhi chiusi sarebbe stato capace di tracciare i lineamenti dei volti dei dispersi.
    Erano passati poco più di due mesi, dall’ultimo quotidiano nefasto; poche settimane, dagli avvertimenti, dall’inizio di quel nuovo periodo del terrore.
    Alle sette della sera, la Sala Grande vantava diversi presenti, come al solito intenti nel consumare la cena. Non sembravano molti, agli occhi di Jeremy Milkobitch; non erano tutti, ma nemmeno si era impegnato a focalizzare i volti altrui, la mente ancora annebbiata dall’abuso mattutino il cui effetto sembrava sull’orlo della propria fine. Aveva intravisto i soliti, osservato uno spensierato Todd alla stessa tavolata di Jack e Bells, scambiato un’occhiata con Arci e Carrie insieme ai compagni verde-argento. Aveva cercato i capelli mossi di Oscar, tra le fila dei Grifondoro. Nell’anormalità, era una semplice serata, a tratti noiosa e a tratti più noiosa. Questo, fin quando gli animi si fecero febbrili, le voci si affievolirono; poté udire chiaramente il gridolino di Ego anche se erano distanti –impossibile non riconoscerlo, ormai, per il tasso-, brusii di sottofondo, fiati spezzati.

    Erano passati quattro mesi, venti giorni; tre mesi, un giorno; due mesi, trenta giorni; due mesi, ventotto giorni. Ma non fu difficile, quando il distorto video si materializzò dietro il tavolo dei docenti –spingendo persino i più improbabili a sussultare-, riconoscerli.

    Si massaggiò la gola, sputando fuori una nuvola di fumo amarognolo, le palpebre tanto strette tra loro da lasciare sullo schermo oscuro che offrivano tanti, piccolissimi, globi luminescenti, tanto strette da far male. Ma lo poteva sopportare, la testa a cercare di scavarsi una fossa tra quelle foglie bagnate fuori dal sentiero dell’Aetas. Non gli era servito vedere la fine del filmato per alzarsi, non ancora sazio ma ormai privo di fame; non aveva avuto bisogno che il Baudelaire desse l’ordine ai capi casata di portare gli studenti nelle Sale Comuni. Gli era bastato scorgere quegli occhi che impestavano i suoi sogni ed incubi, che ricercava quando insolente prendeva le spalle una ragazza dai lunghi capelli scuri, o un giovane dai ricci bruni, obbligandolo a voltarsi; non era servito altro a spingerlo ad alzarsi dalla panca, approfittando della distrazione dei più e dell’accondiscendente sguardo preoccupato degli altri per sgusciare fuori dalla stanza, raggiungere il proprio dormitorio, prendere quanto doveva e trovare tra gli arbusti di quel maledetto bosco un po’ di solitudine da riempire con la propria voce. Non aveva avuto la necessità di incontrare gli occhi etero cromatici della Dallaire, lo sguardo spaventato dell’Hades o quello confuso del Leroy per sapere che, come lui, avrebbero fatto di lì a poco la stessa mossa. Forse erano già ; non sapeva, Jeremy, quanto tempo era passato da quando aveva preso a calci un’innocente corteccia, o da quanto era sdraiato sul manto erboso. Non poteva essere passato molto: si era fatto un solo spinello –e sì, era diventata un’unità di misura del tempo, non giudicate. Solo quando si alzò, si accorse di non vederci. Ci fosse stata Arabells con lui, in quel preciso istante, le avrebbe chiesto scherzoso se era così che si sentiva fino a un po’ di tempo addietro: instabile, in procinto di perdere le forze da un momento all’altro. Dovette poggiare la schiena ad un albero per comprendere che una patina gli offuscava lo sguardo, che aveva chiuso tanto forte gli occhi per impedirsi di piangere, lasciando che le lacrime bruciassero la retina piuttosto che scorrere sul volto. Vaffanculo, erano vivi. Non aveva mai davvero creduto il contrario, ma vederli –seppure in pessime condizioni-, l’aveva sollevato in una maniera incommensurabile. Sollevò il capo al cielo stellato di novembre, respirando sommessamente, un «grazie» sussurrato a chiunque ci fosse in ascolto.

    Quando aprì la porta della Stamberga Strillante, ispirò con estrema goduria tutto il tanfo del luogo marcescente: c’era chi ad Hogwarts si sentiva a casa, e Jeremy Milkobitch si univa senza ritrosie a questo gruppo di persone che sempre, ovunque, si erano sentite inadeguate. Sbagliato, nella vita di Lilith Myers, il figlio che aveva rovinato la pace apparente con Gregory; sbagliato, nella casa di Bradley, un nuovo impiccio a cui dare fissa dimora, che ella non aveva mai chiesto; sbagliato, non il fratello che Todd, né Run, si meritavano. Il Castello era il suo posto, i Catafratti la sua famiglia.
    Ma la Stamberga? Era il suo puzzolente e decadente angolo di paradiso. Il loro, puzzolente e decadente angolo di paradiso.
    Mosse qualche passo incerto, dopo che cigolante la porta aveva ruotato sul proprio asse, chiudendo la porta principale dalla quale raramente entravano: erano più soliti raggiungerlo con il passaggio segreto, stessa cosa che qualche minuto dopo le diciannove aveva fatto egli stesso, preferendo poi aspettare lontano. Si trattenne dall’usare un Lumos, le mani strette a pugno nelle tasche, reputando di saper ormai bene come muoversi per quelle stanze anche nell’ombra più totale, e lesinò dal cercare a gran voce gli altri. Sapeva che, se non erano già lì, sarebbero arrivati a momenti; solamente, sperava nessun altro avrebbe abusato del loro luogo di ritrovo in quel momento –purtroppo, non potevano vantare alcuna proprietà privata sul terreno, non avendola comprata. Non ancora. E, di fatti, qualcuno c’era. Silenzioso, gli occhi ancora arrossati –per l’erba, per il pianto trattenuto, cazzo gliene-, si sedette affianco a Bells, posando il capo contro un mobilio dal dubbio e sconosciuto utilizzo. Estrasse dal pacchetto una sigaretta, sfiorando appena con i polpastrelli il filtro di quella che, contrassegnata da un segno rosso indelebile, la Crane gli aveva regalato lo scorso Natale, posando poi il contenitore tra sé e l’amica. Con un colpo di bacchetta, una debole fiammella accese il cilindro di tabacco, mentre le gambe del diciassettenne si accavallavano l’una sull’altra. «l’alcol lo abbiamo?» chiese, spezzando il silenzio nella catapecchia. Semplice prassi, per il catafratto, i denti scoperti in un simil-sorriso di circostanza; non aveva alcun boccino da liberare, quella sera, per alleviare la tensione. Non serviva dirle quello che faceva battere il cuore contro le costole con una frequenza irregolare, non c’era bisogno di dire che Oscar stava bene, che potevano salvarli. Non ci sarebbe stato bisogno di dire nulla, e Jeremy avrebbe preferito quell’opzione; ma sapeva, il Milkobitch, che serrare la mandibola, digrignare i denti, in quel momento non serviva a nulla. Serviva parlare di qualsiasi cosa, serviva concentrarsi, e al tempo stesso liberare la mente.
    Serviva stare insieme, quella sera più di altre, come se nessuno sapesse quello che sarebbe accaduto di lì a poco.
    La guerra aveva avuto inizio il diciotto luglio, quando il primo ostaggio era stato preso e nessuno ne era al corrente.
    Il momento della battaglia era arrivato insieme al filmato, insieme ai respiri irregolari di Run, Blaze, Tiffany, Eleanor, Hope, e di tutti gli altri rapiti. E solo Dio sapeva quanto Jeremy Milkobitch fosse impaziente di scendere in campo.
    jeremy milkobitch
    don't give up, i won't give up
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    Edited by etc. - 24/9/2018, 00:08
     
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    16.11.2016
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    Esaltato e sofferente, Archibald si guardava la mano, la bocca aperta che annaspava in cerca di aria, mentre la lingua passava leggeva sulle labbra per inumidirle. Deglutì, cercando di chiudere le dita a pugno; la fitta di dolore gli procurò una smorfia istintiva, ma non riaprì la mano. Guardò, invece, la parete di fronte a sè. Era scontato che uno dei due si sarebbe rotto, ma credeva davvero che non sarebbe stato lui quella volta, che la rabbia lo avrebbe aiutato a colpire abbastanza forte il muro, lasciando il segno come nei film. O per lo meno una macchia di sangue; sarebbe stata parecchio pittoresca.
    Prese fiato, lanciando di nuovo con un latrato di rabbia un pugno al muro, più forte, più feroce. Il suono secco e violento delle proprie nocche contro il mattone, la scarica che gli attraversava i nervi dalle dita alla spalla, il male acuto assurdo tremendo brutale liberatorio. Restò nuovamente senza fiato, lo sguardo fisso sulla parete del dormitorio per non dover guardare i visi sorridenti che lo salutavano dalle foto appese, la mano che pulsava fortissimo per il male. Ma non abbastanza. Mai abbastanza per dimenticare completamente cosa stava succedendo.
    "«Sicuramente Oscar si sarà addormentato. Aspettiamolo ancora un po’»"
    Chiuse gli occhi, dilatando le narici per ispirare ed espirare quanta più aria poteva, e, ancora, colpì di fronte a sè gridando rauco. Negli ultimi mesi, quando Jeremy faceva finta che tutto andasse bene Arci aveva sempre cercato di limitarsi a copiarlo. Inizialmente apriva la bocca per ribattere, per dirgli che era un testa di cazzo, un illuso con i neuroni bruciati dalle droghe, ma alla fine la richiudeva, facendo spallucce. "«Gli teniamo il posto»"
    Se il modo di Jeremy per tirare avanti era fingere che andasse tutto bene, Arci lo avrebbe lasciato fare dandogli corda come si fa con un pazzo.
    Ma quel metodo con lui non funzionava, perchè per quanto provasse a dirselo sapeva che non andava tutto bene, e ogni giorno di più se ne rendeva conto. Ogni giorno cercare di far star meglio Jeremy con quel gioco di ruolo, faceva star peggio Arci, che aveva dovuto trovare i propri metodi per non pensare a quanto fottuti fossero. E il dolore, quello sì che aiutava. Più dell'alcol, più della droga, più del fumo. Ne era assuefatto, lo eccitava. Si sentiva insieme sveglio e intorpidito rispetto ai problemi che aveva; non sapeva se fosse una forma di autolesionismo, ma non gli importava. Per qualche minuto, lo faceva sentire meglio esprimere a forza la propria rabbia e il proprio dolore, era sempre stato così.
    Era stato facile far finta di niente al matrimonio icequeen, festeggiare con i JJ e Thad, farsi di coca e volteggiare in giro nel tentativo di toccare a sgamo le tette delle sposa... ma era passato altro tempo, erano stati trovati altri morti. Morti. Morti. Oscar Tiffany Eleanor Jayson Run Thea Tiffany Oscar Jayson Tiffany Oscar Oscar. Più passava il tempo, meno probabilità c'erano che sarebbero tornati a casa. Meno probabilità c'erano che fossero vivi. Archibald non era altruista, non si era iscritto alla squad per il bene della comunità magica. L'aveva fatto per loro, e ci aveva davvero creduto... almeno, per qualche tempo. Ora non ne era più tanto sicuro; non sapeva neanche se continuava a partecipare alle missioni, come quella sera, per fiducia nel governo o per semplice voglia di altra violenza.
    Afferrò il proprio zainetto nero uscendo dal dormitorio, trotterellando ingenuamente verso l'infermeria dove, senza chiedere niente a nessuno, si buttò coricato su un lettino. Gli occhi chiusi mentre, i piedi sulle coperte like a very acab, fingeva di dormire sapendo che presto qualcuno l'avrebbe notato.
    «Vattene»
    Aw. Sorrise interiormente al suo infermierino grumpy preferito, e esteriormente si limito ad alzare la mano verso di lui. «Guarda»
    «Mi stai facendo suca»
    «Sì. Non ti sembro un po' gonfio? Curami» Non sentendo risposta aprì gli occhi, guardando il viso scettico di Thad. Chissà perchè aveva un deja vu di quella scena... ah, forse perchè praticamente viveva lì in infermeria ultimamente. che volete farci? Amava tanto il suo Thaddy Bear e farsi curare da lui lo rilassava. «...ehi, davvero. Ho male. Credo di avere un paio di microfratture, e 'sta sera c'è la resa dei conti. Mi servo sano»
    Quando Thad si sedette accanto a lui sul letto, Arci lo guardò armeggiare con la propria mano affascinato come la prima volta; la magia del ragazzo lo faceva impazzire... se non avesse avuto troppo paura di perdere le proprie abilità da mago, sarebbe voluto andare anche lui in un qualche laboratorio per farsi dare mistici superpoteri.
    «Perchè?»
    «Mh» Arci sapeva qual era la vera domanda dietro quel perchè, e non era neanche sicuro di sapere lui cosa rispondere. O se voleva rispondere... ma decise di farlo. Ultimamente aveva preso ad aprirsi sempre di più con Thad, e non solo perchè era sempre il primo a sapere dei suoi piccoli scleri o della sua vena autolesionista, ma perchè con i catafratti non riusciva a parlarne. Non riusciva a essere la solito prima donna vittima quando li vedeva così a terra; voleva essere per loro quello che loro erano sempre stati per lui. Stette zitto per parecchio, e appena Thad ebbe finito e Arci potè di nuovo aprire e chiudere la mano senza sentire niente di strano, si tirò su a sedere. «Stiamo crollando» senza guardarlo, scosse così piano la testa da essere un gesto quasi impercettibile. «Jeremy ha di nuovo parlato di Oscar come se fosse qui e... e credevo che lui fosse il più forte, che... Thad» Sospirò, mordendosi il labbro «Non posso essere io quello che resiste. Io non so tenermi in piedi da solo, cazzo, lo sai. Ho bisogno che loro stiano bene» Si rese conto di avere gli occhi lucidi e si portò in fretta di dorso ad asciugarli, conscio che lo special aveva visto ma riassettandosi non tanto per la vergogna, quanto per il fastidio. «Ho bisogno che mi facciano stare bene. Da solo non sono in grado... ho paura di fare cazzate questa sera. Ho paura di non lottare per la mia vita se le cose si metteranno... male. Sto diventando matto?»
    Non staremo ad ascoltare le risposte di Thad perchè si è fatta una certa non so cosa risponderebbe Arci non gli diede il tempo di ribattere. Si alzò solo dal letto con un balzo schiarendosi la voce, afferrando poi lo zainetto che aveva abbandonato a terra.
    «Una caramellina per il malato?» Sorrise ingenuamente, facendo gli occhi dolci. Fine momento tenerezza, non voleva mettere a disagio Thad obbligandolo a fingersi più suo amico di quanto magari non fosse.
    «Oh, certo» Thad prese il barattolo di dolcetti che tenevano in infermeria per i primini e i bambini special, infilandoci la mano dentro. Ne tirò fuori il dito medio. «Potevo aspettarmelo. CIAO AMORE CIAO CI VEDIAMO STA SERA!» Un bacio sulla fronte al suo piccolo soldato coraggioso, e via verso il vento.

    Si avventurò verso il platano picchiatore dopo cena subito dopo la scena prima? O Thad è già nella foresta con Jericho? Non lo so dai what is life, non facendosi vedere dalla gggente per paura che qualcuno potesse scoprire il passaggio segreto, e per poco non gli venne un colpo vedendo una figura oscura e immobile di fronte al tunnel.
    «Jack!» bibligiurlò (#wat) spalancando le braccia. Come un gattino nervoso il corvonero fece un salto in avanti, voltandosi verso Arci con una maschera di paura addosso.
    «Mi ha spaventato», si giustificò imbarazzato, e Arci cercò di non ridere intenerito.
    «Ma non mi dire»
    Il loro piccolo bambino... se non avesse saputo che sarebbe stato troppo egoista persino per lui escluderlo, non gli avrebbe mai permesso di partecipare alla missione di quella sera. Jack era so cute so pure... avrebbe avuto il coraggio di ferire, se necessario? Avrebbe avuto il coraggio di uccidere, per salvare Oscar, Tiffany, se stesso? Ma ripeto, non poteva impedirgli di andare. I catafratti erano una squadra, una famiglia, e senza Blaze stavano cadendo a pezzi. Dovevano andare a riprenderselo. Tutti insieme. «Vieni qua, bombolone» Se lo prese a braccetto afferrando una delle bottiglie che teneva in mano per paura che gli cadesse, e se lo trascinò dietro il passaggio segreto fino alla Catapecchia.
    «L’alcol lo abbiamo?», sentì prima di girare l'angolo (?), e sorrise. Entrarono nella stanza, e cercò subito gli amici con lo sguardo. Bells e Jeremy erano già lì, come due cuori di panna uno accanto all'altro per supportarsi vicendevolmente. Una parte di lui, però, si fece male nel rendersi conto che Oscar non c'era. Non era Jeremy, non era un illuso come lui... ma ancora quattro mesi dopo, si aspettava sempre un po' di vedere Blaze dove sarebbe dovuto essere se non fosse stato rapito. "Sono forte. Non crollo. Sono già stato in missione. Vinceremo".
    «Aria ne abbiamo?», ribattè ad alta voce facendosi vedere, alzando la bottiglia e mettendo Jack rifornitore ufficiale davanti a sè, sperando che cogliessero la triste battuta alcol uguale aria quindi domanda scontata Jeremy ovvio che alcol ne abbiamo. E poi nel dubbio c'erano le scorte negli armadi OHOHOH.
    Se erano insieme potevano vincere. Se erano insieme potevano portare tutti a casa, perchè loro erano casa.
    archibald dominique leroy
    anger will help you survive for a while, but than it'll eat you alive
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    cose boh vita.
    Abusa come sempre di Thad e parla dei e con i cata. NON SO SCRIVERE NON SO MUOVERE I PG ALTRUI CIAO


    Edited by don't you worry‚ Arci - 13/10/2016, 14:37
     
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  3. #(Jack)daniels
        +4    
     
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    User deleted


    17 y.o | neutrale
    ravenclaw
    #catafratto
    Non reagiva.
    Non reagiva davanti a quello specchio, non reagiva davanti a quello schermo in sala grande, non reagiva davanti a quelle persone che considerava da molto tempo una famiglia, la sua famiglia. Non reagiva Jack, non più, non come gli altri si aspettavano, niente scenate, niente abbracci, niente jeremyjeremyjeremy , niente party abusivi in sala comune, niente alcol nascosto tra gli scaffali. Lo sguardo fisso, perso nelle crepe asimmetriche che riflettevano la sua immagine in modo discordante, moltiplicando il volto, dimezzandolo, contorcendolo fino a renderlo una figura irreale. Voleva arrendersi Jack Killian Hades, trovare un modo per far tacere il dolore che gli pulsava dentro, che lo consumava lentamente, pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno. Lo sentiva crescere, aumentare, consapevole di non poterlo trattenere oltre, che ogni colpo ricevuto poteva trasformarsi in quello decisivo. E non serviva chiedersi come ci era arrivato a quel limite, perché non avesse fatto nulla per impedire che la bottiglia vuota andasse a schiantarsi contro lo specchio, andasse a frammentare la sua immagine in lacrime dall’altro lato della stanza. Non reagiva Jack, non in pubblico, non poteva permetterselo, non quando ogni persona che conosceva aveva perso qualcuno d’importante, un fratello, un’amica, un amore, un catafratto. Voleva soltanto che il dolore svanisse, che la sua coscienza accettasse le vittime, custodisse i ricordi, dimenticasse il resto. Voleva soltanto smettere di annaspare alla ricerca d’aria, liberare la trachea dai singhiozzi misti ad amare imprecazioni verso un dio che non esisteva, verso chiunque decidesse del loro destino. Voleva soltanto lasciarsi affogare, smettere di dimenarsi per raggiungere la superficie, voleva soltanto perdersi nell’oscurità , smettere di cercare la luce , smettere di sbattere la testa contro la superficie riflettente che lo aveva visto crescere in quegli ultimi sette anni. E non serviva chiedersi perché ma continuava a farlo Jack, continuava a sussurrare quella parola cercando d’estirparla dalla propria mente, cercando di trovare risposte, sfogando quella rabbia che lo accompagnava ventiquattro ore al giorno, che nascondeva con sorrisi e battute stupide. Perché perché perché. Non era più un bambino l’Hades ma aveva ancora paura del buio, aveva ancora paura di veder morire le persone che amava esattamente com’era accaduto per sua madre. Non era più un bambino l’Hades ma aveva ancora bisogno di Jericho, aveva ancora bisogno di stringerla a se, di parlare con lei esattamente come faceva un tempo. Non era più un bambino l’Hades e per una volta doveva fare la persona adulta, decidersi a usare la forza pur di ristabilire un equilibrio, pur di rivedere i catafratti uniti, non poteva perderli, non poteva perdere la Lowell , o le persone a loro care. Reagire? Sì avrebbe voluto farlo, avrebbe voluto avere il coraggio di Jeremy, la forza di Bells, lo spirito di Arci, la volontà di Oscar ma in quel momento era solo spaventato, era solo il solito Jack, quello che cercava d’affogare i problemi nell’alcol, quello che affogava se stesso nell’alcol pur d’impedire alla razionalità d’insinuarsi tra i propri pensieri , di metterlo spalle al muro. Eppure pochi minuti prima, invece di posare le labbra sulla bottiglia ricolma di liquido e lasciare a qualcun altro il compito di vivere quella vita, l’aveva stretta e scaraventata contro lo specchio, imprecando. I cata avevano bisogno di lui e non poteva abbandonarli, non poteva fare finta di niente, ignorare il problema, ignorare la realtà.
    Non aveva reagito Jack quando era stato proiettato quel filmato in sala grande, quando il suo sguardo scosso era repentinamente saltato dal tavolo dei corvi a quello dei tassi alla ricerca di Jeremy, alla ricerca di un appiglio morale al quale fare disperatamente appello. Non aveva fiatato o dato segni di disperazione, non aveva cercato di bere il resto della coca cola d’un fiato, sperando che suscitasse in lui un effetto simile ad una sbronza. No, Killian era rimasto immobile, le dita chiuse in un pugno, le labbra serrate in un’espressione difficile da interpretare… rabbia, disperazione, paura. Tanta paura. Non di morire ma di vedere gli altri soffrire, di vedere i suoi amici, i suoi compagni e tutti quelli che conosceva perdere loro stessi, correre rischi assurdi, sacrificarsi. Perché. Perché avevano rapito tutte quelle persone? Perché quella guerra sembrava infinita? Perché la gente non decideva di rispettare le idee altrui senza condannarle? Senza usare la forza? Non c’era solo un catafratto tra i dispersi, c’erano molti altri che Jack conosceva, c’erano ragazzini, giovani, adulti, c’era Tiffany, c’era la sorella dei Milko. Non aveva reagito solo perché era presente tutta la scuola, non aveva reagito perché in quel momento sarebbe semplicemente scoppiato in lacrime , nascondendo gli occhi umidi dietro i palmi delle mani. Doveva dar sfogo a quel dolore, doveva fermarlo, doveva convincersi a fare qualcosa che andava contro la sua natura, contro i principi nei quali credeva da sempre. Combattere e lasciare che la sua famiglia rischiasse con lui. Dio no non poteva farlo cazzo.
    S’alzò in piedi passando una mano tra i capelli, facendola scivolare lungo il volto, aveva sprecato mezza bottiglia di Rum, i cata non glielo avrebbero mai perdonato se fossero venuti a saperlo. Sorrise amaramente mentre raccoglieva i vetri sparsi sul pavimento della stanza, mentre impugnava la bacchetta e con un reparo sistemava lo specchio, facendolo tornare tale e uguale a prima. C’era di nuovo la sua immagine ad osservarlo, c’era di nuovo la figura dell’Hades di sempre, quello ancora sconvolto da fatto che Jericho l’avesse ingannato, quello che vedeva Jeremy come un fratello oltre che come spacciatore ufficiale, quello che amava arci, abbracciava Bells, scherzava con Oscar, prendeva in braccio Todd, quello che aveva la fobia del sangue e che preferiva svenire piuttosto di rimanere lì a guardare. Non sarebbe bastato. Non sarebbe bastato quel Jack per la missione, non sarebbe bastata la sua idiozia, l’alcol, la voglia di non prendere nulla sul serio, nemmeno la possibilità che avrebbero potuto non farcela. Erano i catafratti, dovevano riuscire. Dovevano riportare tutti a casa, festeggiare fino al non reggersi più in piedi, dovevano fare casino fino al venire espulsi ma non potevano morire, non avrebbe lasciato che accadesse. Si guardò intorno scosso, il dormitorio era deserto e l’aroma del Rum rimasto sul pavimento inebriava l’intera stanza, #ripfragolino #qualcunohaunacannuccia? #pernondimenticare forse avrebbe dovuto dare una sistemata , eliminare le prove, andare da Jericho, chiederle scusa e pregarla di non fare nulla, di non immischiarsi, dirle che l’amava e che se le sarebbe successo qualcosa probabilmente si sarebbe lasciato morire ma era tardi…Troppo tardi e l’Hades aveva paura… troppa paura. Uscì dal dormitorio senza nemmeno accorgersene, trovandosi ben presto intento a frugare tra i libri della sala comune dove teneva le bottiglie di alcolici per le feste. Ne erano rimaste soltanto tre, una vuota di sambuca, una piena e una di Jack Daniels ancora da stappare, beh quella sembrava proprio l’occasione giusta. Le prese entrambe nascondendole sotto la giacca e chiuse la porta alle proprie spalle cercando di non far rumore, a quel punto c’era un unico posto dove andare, un unico posto dove la compagnia giusta non sarebbe mai mancata.

    La stamberga strillante non era esattamente il magico luogo da cartolina dove passare festività e serate tra amici ma di quella catapecchia (che serviva a spaventare i bambini o i pulcini del primo anno) i cata ne avevano fatto una specie di casa, la loro casa. Il mobilio non era molto efficiente, i pavimenti contavano più di qualche asse marcio, buco e s’inclinavano pericolosamente quando meno te lo aspettavi ma almeno quel posticino era tutto per loro. Lì non c’erano regole, lì potevano stare tranquilli, fumare, bere, abbracciarsi, potevano parlare del più e del meno o cantare a squarciagola guardando le stelle attraverso il lucernario creatosi all’ultimo piano con il crollo di una decina di tegole. Lì non c’erano insegnanti, lì sparivano i problemi, lì si trovavano le soluzioni, tutti insieme, come in una normale famiglia. Sbucò dal passaggio segreto infreddolito, non riusciva a realizzare che Oscar sarebbe mancato all’appello, che poche ore dopo nessuno di loro sarebbe più stato lo stesso, non riusciva ad immaginare Bells, Jeremy, Arci combattere, far del male a qualcuno pur di riavere il Fraser, non riusciva ad immaginare nemmeno se stesso. Jack non sapeva quale fosse il suo limite, dove avrebbe ceduto, fino a che livello poteva spingersi la sua forza di volontà, quella rabbia che chiedeva vendetta, quel dolore che esigeva uno sfogo, un capo espiatorio. Voleva ritrovare Oscar vivo, abbracciarlo, minacciarlo con dolcezza, voleva ritrovare tutti i rapiti vivi, minacciarli, abbracciarli e sentirsi sollevato al pensiero che tutto sarebbe tornato a posto, che i cata avrebbero ricominciato a festeggiare, a sfidarsi per palpare le tette della prof. Queen. Voleva molte cose l’Hades ma non riusciva sempre ad ottenerle, in quel momento avrebbe voluto sentirsi sicuro, varcare la soglia della stamberga con passo convinto, con l’energia di un leader pronto a spingere i suoi prodi contro l’ignoto, contro la morte e invece… invece s’era fermato. Incapace di muoversi, convinto che quella follia fosse necessaria ma allo stesso tempo consapevole d’essere soltanto quello che appariva, un ragazzo a cui piacevano l’alcol, le feste, le ship, che studiava raramente e si vantava d’essere finito tra i corvi. Non sarebbe bastato. Non quella sera, non ai catafratti, doveva essere di più, per loro, per Oscar, per chi necessitava d’essere tirato fuori da quella situazione. Posò il palmo della mano sulla porta, sulla superficie ispida e rovinata tipica dei luoghi abbandonati, cercò di cancellare l’espressione disperata, di sostituirla con un sorriso tirato, non avevano bisogno d’altra tristezza, sapeva fare bene il Jack della situazione, quello era il momento per dimostrarlo, per evitare che il morale crollasse non appena avrebbe varcato la soglia, non appena i cata avessero sentito la mancanza di Oscar.
    «Jack!» sussultò staccando la mano dalla porta, voltandosi indietro di scatto ed osservando Arci come se avesse appena incrociato un fantasma. Era talmente preso dai suoi pensieri da non averlo sentito arrivare «Mi hai spaventato» sussurrò stropicciandosi gli occhi e sorridendo appena, divertendosi della sua stessa, assurda reazione. «Ma non mi dire» alzò le spalle un poco in imbarazzo, farsi beccare in momento dramma dal serpeverde non era proprio il massimo ma infondo Leroy lo conosceva abbastanza per capire quando andava in crisi con la vita e quella era una di quelle occasioni. «Vieni qua, bombolone» alzò un sopracciglio scuotendo la testa divertito per il soprannome, lasciandosi prendere a braccetto e venir trascinato dentro la base operativa dei Catafratti. «L’alcol lo abbiamo?»
    Fail il Jack. Non cedere. Fai il Jack. Non crollare. Fai il Jack, per loro, per Oscar, per il mondo. Continuò a ripeterselo fin quando fece capolino nella stanza, fin quando posò lo sguardo su Bells e Jeremy realizzando che non sarebbe arrivato più nessuno, che Fraser non sarebbe stato dei loro quella sera. Si morse le labbra stringendo ancora di più la bottiglia per impedire al dolore di fargliela nuovamente lanciare contro la parete, contro qualsiasi cosa che avrebbe potuto ridurla in pezzi. Si, avevano l’alcol. Avevano l’Hades, ora e per sempre, dovunque fossero finiti, qualunque decisione avessero preso, nonostante la paura, la possibilità di non farcela, erano cresciuti insieme i cata e insieme sarebbero caduti, e insieme avrebbero brindato alla vittoria.
    «Aria ne abbiamo?»
    Sorrise Jack Killian Hades posando la bottiglia sul pavimento, incrociando lo sguardo dei compagni, ringraziando il cielo che fossero lì con lui « Nah, a cosa serve?» ribattè con la solita battuta pessima mentre s’avvicinava alla Dallaire e istintivamente la stringeva in un abbraccio «Mon capitain» sussurrò accarezzandole i capelli castani e dondolandola appena, posando le labbra sulla sua fronte per lasciarle un bacio. Lo riporteremo qui Bells è una promessa. Diede due colpi alla spalla di Jeremy, lanciandogli uno sguardo preoccupato, sicuro che non gli sarebbero servite parole per spiegare cosa volesse dirgli in quel momento. Si portò affianco a lui lentamente, andando ad aprire un malandato cassetto del mobile in cui il Milkobitch era appoggiato, per le occasioni speciali servivano oggetti speciali. Per qualche istante lasciò che la mano andasse a sfiorare i capelli del tasso impedendo che si muovesse e prendesse lo spigolo del ripiano, ne tirò fuori una scatola bianca che poggiò anch’essa al pavimento con delicatezza. Prese velocemente posto accanto all’amico, alzando il coperchio del contenitore e rivelandone il contenuto, cinque bicchieri di cristallo trasparente, i tipici da whisky, scanalati lungo gli angoli. Recuperò la bottiglia di Jack Daniels, l’aveva risparmiata ben consapevole che Jer odiava la sambuca, e invece d’aprirla rapidamente svuotandone il contenuto nei bicchieri come faceva di solito, l’Hades la lasciò cadere tra le mani dell’amico «Ti va di fare gli onori di casa?» gli domandò cercando di sorridere, cercando di svuotare la mente, di non pensare, di non attaccarsi a lui piangendo chiedendogli il perché delle cose, sussurrando a denti stretti jeremyjeremyjeremy confidando che il tasso sarebbe stato più forte… non lo era. Non abbastanza. Faticava a ricordarselo ma tra di loro Jack era il più grande, quello che avrebbe dovuto proteggerli, quello che avrebbe dovuto tener alto lo spirito e invece non riusciva nemmeno a parlare ma ci avrebbe provato Killian, avrebbe provato ad essere forte, a combattere, a credere in loro, nella sua piccola, grande famiglia di sportivi alcolizzati, drogati, amanti dell’esoterico, perché catafratti si rimaneva sempre e comunque.

    Killian Jack Hades
    i need a hug or 8 shots of vodka please
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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    16.11.2016
    if u seek oscar

    15.08


    Poggiò i gomiti sul tavolo, Arabells Dallaire, il capo chino e le dita intrecciate fra i corti capelli castani. Sentiva ancora la pelle calda di Oscar sotto le dita, e non riusciva a spiegarsi quell’asfissiante senso di freddo sui polpastrelli. Il respiro, che nei momenti meno opportuni tendava a spezzarsi, era in quel momento regolare.
    Era Arabells ad essere fuori dalla norma, con gli occhi asciutti e le labbra screpolate da quanto le aveva morse. Continuava ad attendere con impazienza masochista il momento nel quale l’intero corpo avrebbe cominciato a bruciare, obbligandola a strizzare le palpebre e stringere i denti, perché sarebbe stato sintomo che da qualche parte, anche se non lì, Oscar Fraser stava mentendo. Non riusciva ancora a capire, Bells.
    Non riusciva ancora a crederci.
    Negazione
    Non alzò il capo neanche quando sentì la porta cigolare, rimanendo testardamente con la fronte poggiata sulla superficie fredda del tavolino. Non si sprecò a muoversi neanche quando due sedie vennero spostate, grattando sul pavimento. Neanche quando una mano si poggiò sul suo braccio, stringendo per attirare la sua attenzione. Eppure, bastò quel breve ma delicato contatto per inumidirle nuovamente gli occhi e farle bruciare la gola, dove soffocò l’ennesimo singhiozzo. «arabells?» non conosceva quella voce, motivo per cui non ritenne opportuno rispondere. Erano ore che si trovava in quella stanza dalle pareti grigie, erano secoli che la obbligavano a ripetere la stessa, interminabile, storia. Ed aveva visto i loro occhi farsi da interessati ad apatici mano a mano che andava avanti nel suo resoconto, per divenire infine intolleranti ed esasperati. Non nascosero neanche i commenti riguardo alla sua dichiarazione: bugiarda, fu il primo strizzato a labbra serrate. Instabile, il secondo e più critico sguardo alla sua situazione.
    Ma Arabells Dallaire sapeva perfettamente cosa aveva visto. Non pensava che sarebbe mai riuscita a dimenticare il momento nel quale aveva sentito il proprio petto spaccarsi a metà, la terra a graffiarle i palmi mentre i piedi continuavano ad inciampare obbligandola a scivolare al suolo ancora, ancora, e ancora. Non era servito, non era servito.
    Era arrivata troppo tardi.
    «no» era un no a tante cose, quello. Era un no che le grattò il palato a sangue, strappato dall’apatico silenzio nel quale si era rinchiusa a doppia mandata. Era un no a quel nome, a quella vita che non poteva, certamente, appartenere a lei. Voleva credere che avessero ragione, che fosse instabile e si fosse inventata tutto. Che fosse una bugiarda, e nulla di quanto aveva ripetuto allo sfinimento fosse reale. Voleva credere di non essere stata interrogata dalla madre di Shane, di non aver sentito i suoi occhi trafiggerla quasi fosse stata un insetto nella teca di un entomologo. Voleva credere di non aver sentito lo sguardo dei Pavor seguirla mentre percorreva il corridoio, di non aver avuto la smania di supplicare Eugene, uno dei migliori amici di Eli, di non lasciarla da sola con loro. Aveva pregato Elijah di rimanere a casa, evitando le sue braccia dannosamente familiari; lo sguardo chino e distante, la necessità di stare sola per dare una parvenza di ordine al caos dei propri pensieri. Non riusciva a smettere di tremare, i pugni stretti con forza e nascosti dentro le tasche dei pantaloncini corti, gli stessi con i quali era uscita per vedere Oscar una manciata di ore prima. Scostante, Lies, nel desiderare così profondamente il conforto di suo fratello, e nel non riuscire ad accettarlo. Nell’evitare lo sguardo preoccupato di Tiffany e Chris da oltre le tende della camera di Blaze, nel premere con le unghie sui palmi abbastanza da disegnarvi lunette cremisi. Aveva bisogno in maniera quasi disperata di qualcuno che le mentisse, promettendole che sarebbe andato tutto bene. Aveva bisogno di suo fratello, Arabells Dallaire, di Elijah Dallaire. Ma Eli, quell’Eli, che ne sapeva. Che ne sapeva dei pomeriggi passati a giocare in cortile, di quanto le mani di Oscar fossero state anche le sue, o di come il suo profumo ancora permeasse dolorosamente in ogni fibra dei suoi vestiti. Che ne sapeva di quando, volgendo lo sguardo cieco ad un cielo trasparente, Oscar le dipingeva il mondo.
    Non avrebbe capito, Elijah. Non voleva capisse, Bells: perchè non poteva permettersi, lei, che il Dallaire più grande si esponesse tanto da presenziare al Ministero. Era un fuori legge, e neanche lo sapeva. Ma Bells? Bells ne era perfettamente consapevole; poteva ancora non essere il suo Elijah, ma era pur sempre Eli. Se non si fosse presa cura di lui, chi l’avrebbe fatto? Non di certo il francese. Neanche si rendeva conto del pericolo che correva giornalmente, con quel sorriso sincero e sempre un po’ triste. Non ne era proprio in grado, Elijah Dallaire, di proteggersi dal mondo: si occupava degli altri, e mai di sé stesso.
    Era scostante, instabile, bugiarda, volubile ed egoista, Bells. Ma doveva esserlo, per entrambi: Elijah non lo era abbastanza. «davvero, saranno solo un paio d’ore. Sarò a casa prima che tu possa rendertene conto. Per favore» Per favore, Elijah, fallo e basta. Senza discutere, senza farmi rimpiangere di non averti fatto venire con me per stringerti la mano.
    Come se Bells, Arabells Dallaire, avesse davvero potuto affrontare quello da sola. Come se avesse potuto rimanere impassibile, la Corvonero, sotto lo sguardo indagatore dei Pavor e quello annoiato dei Cacciatori. «bells?» quella voce, al contrario, la conosceva. Si obbligò, ingollando un grumo acido di saliva, ad alzare lo sguardo sul ragazzo. Allora potè vedere chi aveva preso posto dinnanzi a lei, l’una con le mani ancora sulle sue spalle, e l’altro con le dita intrecciate in grembo. Stiles e la donna si scambiarono un’occhiata, forse sollevati dall’avere una risposta, seppur priva di parole, dopo quelle che erano parse ore di silenzio interminabile. «ti ricordi di me?» annuì, chinando nuovamente il capo. «lei è idem. Siamo qui per aiutarti» perché non avevano mandato Arthur, quello che da mesi era ormai il suo psicomago? L’avrebbe preferito, Arabells. Non che a loro importasse. Scoppiò a ridere, di quelle risate grezze che lasciano sempre un sapore amaro sul palato, di quelle che fanno strizzare le palpebre per impedire alle lacrime, ingiustificate, di scivolare lungo le guance. «aiutarmi?» fu il suo unico, tagliente, commento. Se volevano aiutarla, dovevano uscire da lì – tutti quanti. Dovevano andare a cercarlo prima che fosse davvero troppo tardi, prima che anche l’ultima briciola di pane sparisse senza lasciare un percorso da seguire. Se avessero davvero avuto intenzione di aiutarla, non l’avrebbero costretta su quella sedia per minuti, ore, vite. Non volevano aiutare lei, loro: volevano solo aiutare sé stessi. «l’hanno portato via» bisbigliò per quella che poteva tranquillamente essere la centesima volta, espirando fino a svuotare completamente i polmoni. Minuta, Arabells, lo era sempre stata; ma mai, mai si era sentita così piccola, mentre rapida strisciava la sedia sul pavimento sottraendosi al tocco della psicomaga. Scosse il capo, incerta sul perché. Non voleva più sentirli, vederli, essere. Aveva fatto il suo dovere, aveva fatto la ragazza responsabile: poteva crollare, poteva voler solamente tornare a casa. Poteva tornare la ragazzina che si arrampicava sul balcone dei suoi vicini di casa solamente per raggomitolarsi nel letto del suo migliore amico, come quando erano bambini. Poteva fingere che tornando in scozia ci fosse Oscar ad aspettarla sulla veranda con quel mezzo sorriso che spesso invitava l’altrui persona a prenderlo a schiaffi, a dirle «alla buon’ora, eh. Te ne sei andata senza salutare» avrebbe accettato anche quelle pseudo frecciatine, grata solamente di poterlo stringere a sé ed affondare il viso nella sua spalla. Grata solamente di essere a casa, dove tutto, presto o tardi, sarebbe tornato alla normalità. «stanno facendo il possibile» Ma non era vero, e lo sapevano tutti e tre in quella stanza. Non ritenne opportuno rispondere, le braccia strette al petto e lo sguardo chino. «vuoi parlarne, o… preferisci una caramella?» un mezzo sorriso grezzo le incurvò pigramente le labbra sottili, mentre Stiles svuotava il contenuto delle sue tasche sul tavolino argentato. «anche io ne ho un paio!» nel giro di un minuto, il tavolino traboccava di dolcetti del quale Bells neanche conosceva l’esistenza. Gli occhi cominciarono a bruciarle fastidiosamente, minacciando di farla sciogliere in lacrime da un momento all’altro. Si sentiva così… vuota. Fragile, come se il più sottile filo di vento avesse potuto portarla via. «sono solo stanca» mentì, stringendosi nelle spalle magre, evitando gli occhi di entrambi. Lo sapeva, davvero, che erano… che ci stavano provando, ecco, come Arthur prima di loro. Ma lei non ce la faceva, capite? Era semplice, ed al contempo troppo complesso: non ce la faceva. Non si era neanche accorta di aver cominciato a tremare, finchè qualcuno non le posò una spessa coperta sopra le spalle. Quando, quel qualcuno, si era alzato? Sbattè le palpebre, rendendosi conto di essersi assentata per diversi minuti – o forse ore. «posso andare a casa?» domandò infine in un filo di voce, sentendo il palato asciutto. Il silenzio dei due psicomaghi fu sufficiente come risposta, mentre entrambi sembravano voler prendere coraggio per dire, o fare, qualcosa. «vorremmo solo che tu stessi meglio» e di nuovo, Bells fu rapida a nascondere le mani sotto la coperta per impedire alla donna di avvolgerle fra le proprie, gli apatici occhi chiari fissi su un punto non meglio precisato della parete. Un tremito involontario la scosse così forte da farle battere i denti fra loro. Quando la porta si spalancò, non fu lei a trasalire, ma i suoi due baby sitter. Nuovamente, la Dallaire non si sprecò neanche a muoversi, limitandosi a mettere a fuoco la foto che qualcuno aveva fatto scivolare sotto i suoi occhi vuoti. «sei sicura di non averla vista? Bassa com’è, non mi stupirei se fosse passata inosservata» Osservò davvero la ragazza, i tratti delicati ed il sorriso dolce dalla patinata superficie della pellicola. Prima le avevano mostrato la foto di Aiden, il fratello di Maeve, insistendo che era impossibile non avesse scorto nulla. «se dice che non ha visto nulla, significa che non c’era nulla da vedere» ed aveva provato a sorridere grata all’uomo, un certo Crane, risultando poco convincente anche a sé stessa. Quale novità. «sì» rispose con voce piatta, sollevando gli occhi su quelli chiari dell’uomo. Era diventata una sfida ormai, fra lei e tutti loro: la guardavano e vedevano una bambina confusa, mentre Bells sapeva perfettamente cosa aveva visto, e chi non aveva visto. Così resse lo sguardo del cacciatore, consapevole che come tutti, in quella stanza, la stava studiando. Non aveva neanche la forza di ribattere a quelle mute accuse, Arabells Dallaire. «alzati pinocchio, torni a casa» percepì il silenzio a seguito di quelle parole, mentre il cuore accelerava fievolmente il proprio battito. Non si azzardò a guardare Rea, troppo cosciente di quell’artificioso momento di stasi. Vide con la coda dell’occhio Stiles grattarsi la nuca, Idem lanciare un’occhiata alla cacciatrice. «non può ancora, lo sai» in un altro contesto, avrebbe fatto notare che non era carino parlare di lei come se non fosse presente nella stessa stanza. In quell’istante, però, non le importava. I tacchi risuonarono sul pavimento in maniera quasi dolorosa, spezzando il delicato equilibrio della campana di vetro nella quale Bells si era rinchiusa. Osservò di sottecchi Rea avvicinarsi a Idem, udendo a malapena il «watch me» sussurrato a fior di labbra con il più melenso dei sorrisi. Quando le fece cenno di alzarsi, scattò prontamente in piedi lasciando cadere a terra la coperta. La seguì fuori dalla stanza senza azzardarsi ad aprire bocca, temendo di sfilacciare quell’effimera illusione di sicurezza. «jackson, renditi utile alla società…» senza troppi complimenti, la mora posò una mano sulla sua schiena e la spinse verso il Pavor. «…e riportala ad inverness. Ti ricordi dove abita elijah, o vuoi un disegnino?» «eli?» prima che Rea, le labbra già inumidite con stizza, potesse rispondere ad Eugene, Bells si schiarì la voce. «sono sua sorella» vide gli occhi cerulei dell’uomo spalancarsi, le labbra dischiuse con sorpresa. «sei quella dallaire!» Annuì. Di punto in bianco, il Pavor cominciò ad agitare le mani di fronte alla sua faccia. «jackson…» «…» «jackson, davvero…» «…» «JACKSON» un sibilo esasperato stretto fra i denti, gli occhi ridotti ad una fessura. Arabells si sciolse in un sorriso sinceramente divertito, malgrado fosse incapace di cancellare la patina che le adombrava gli occhi chiari. «non sono più cieca» specificò piano, consapevole che da qualche parte, in quel momento, Oscar sentiva il proprio corpo bruciare. Doveva: la verità faceva sempre male. «immaginavo» nessuno fu abbastanza sciocco da chiedere ad Eugene Jackson perché l’avesse fatto: perfino Bells aveva capito che era meglio non fare domande. Rea le posò le mani sulle spalle, abbassandosi per avvicinarsi al suo orecchio. «guardalo bene, ragazzina. Questo è un chiaro esempio di come, alla tua età, bisogna scegliersi con maggior cura i propri amici, se non si vuole arrivare a venticinque anni con una sola domanda: perché?» e quell’interrogativo, chiaramente, non era rivolto ad Arabells. Era rimasta ad ascoltare con interesse passivo, l’attenzione ancora ad una vita precedente nel quale Arabells Dallaire, capitano quidditich dei Corvonero, non aveva alcun motivo di trovarsi al Ministero, all’alba di quel quindici agosto. Eppure, una briciola della Bells quotidiana fece capolino dagli occhi chiari, brillando flebilmente. In un momento di défaillance, si disse che avrebbe dovuto raccontare di quello strano incontro ad oscar: «chissà se fra dieci anni anche noi saremo così» «beh, di sicuro jeremy sarebbe elijah: con tutte quelle droghe, improbabile si possa ricordare ancora di noi» e le avrebbe strappato un sorriso, un po’ triste ed un po’ sollevato. Perché era quello che faceva Oscar, era quello che aveva sempre fatto, sin da quando erano bambini.
    La faceva sentire meglio. Sempre.
    Poi si rese conto che, una volta ad Inverness, non ci sarebbe stato alcun Oscar ad aspettarla.
    «una volta non dicevi così, rea» Euge rivolse un sorriso sghembo a Bells . «ti hanno mai raccontato di quando io e-» «eugene jackson, non sfidare la mia pazienza» «e poi dove sarebbe il divertimento?» «jackson» un’occhiataccia. Un sospiro, ed un paio di dita ad indicare il proprio volto: «non ho più occhiali» «posso ancora trovare qualcos’altro da rompere» sorrise, Rea Hamilton, e sorrise anche Eugene Jackson. Arabells abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Cosa avrebbe detto agli altri? Come avrebbe spiegato che Oscar era , davanti a lei, e che non era riuscita a fare nulla? Sapeva che avrebbero capito, ma… non voleva vedere i loro sguardi feriti, né sentire i cazzo sbottati fra i denti. Eppure si rese conto di aver bisogno dei suoi migliori amici; le sarebbe bastata la loro compagnia, le sarebbe bastato averli lì, sentire il loro familiare profumo sovrapporsi, ma non sostituirsi, a quello ancora rovente di Oscar. «muovetevi, qua c’è qualcuno che deve davvero lavorare» Bells non fece notare che le avevano detto di non poter uscire, ben contenta di poter lasciare quel luogo il prima possibile. Egoista, la Dallaire, perché non le importava, non realmente, che qualcuno potesse andarci di mezzo. «grazie» ma non ne aveva più di sorrisi con il quale ricambiare la piega delle labbra vagamente amara della cacciatrice, né ironia con la quale rispondere al sopracciglio inarcato. «non ringraziarmi»

    «devo solo dormire un po’» liquidò Elijah entrando in casa, veloce nel scattare sulle scale verso la propria camera. Si chiuse la porta alle spalle, scivolando lentamente a terra. Non si era neanche resa conto di aver trattenuto il fiato fino a che i polmoni non cominciarono a bruciarle, obbligandola ad inspirare a bocca spalancata. Si strinse le ginocchia al petto con la cieca convinzione che, se le avesse strette abbastanza a lungo, avrebbe smesso di far male. Affondò il volto fra le gambe, concentrandosi unicamente sul proprio respiro.
    Passarono minuti, passarono ore, passarono esitanti pugni sulla spessa porta, passarono chiamate che non ricevettero mai risposta. Passò la vita, mentre Arabells semplicemente respirava, stupendosi del sapore ferroso dell’aria sulla lingua – incosciente dell’essersi morsa a sangue l’interno della guancia. E poi, così come aveva cominciato, smise: era improvvisamente in piedi, i vestiti stropicciati del giorno prima, il petto che si alzava troppo rapidamente. Passò il braccio sul comodino, sulla scrivania, sul mobile dirimpetto al letto, facendo cadere a terra ogni oggetto ivi accuratamente riposto. Ed ancora prese ogni libro, ogni calamaio ed ogni fragile ricordo che tutto ciò rappresentava a calci, strappandolo finchè sotto le suole non rimasero che brandelli. «bells…» non sapeva da quanto elijah fosse lì, e neanche le importava.
    Rabbia.
    Tremava di rabbia, Arabells Dallaire, e non aveva un capro espiatorio contro il quale riversarla – e se l’era presa con la camera, e se l’era presa con il sole che aveva avuto l’ardire di sorgere anche quel giorno, e se l’era presa con quel mondo al rovescio che continuava a schiacciarla. Quando vide suo fratello destreggiarsi fra i detriti, lo sguardo triste a cercare il suo, come un animale in gabbia fuggì nell’angolo più lontano della stanza. «no, elijah» e tremava anche la voce, e tremava anche la stanza, e qualcosa mancava. «bells, per favore…» «NO» ribadì, questa volta più cattiva, più meschina e più disperata nell’evitare il contatto con lui. «vattene» vibrava come un diapason, Bells, fra le mani i volumi del sesto anno che aveva comprato pochi giorni prima a Diagon Alley. «no» «elijah, esci» «no» ed allora Arabells cominciò a lanciare qualunque cosa avesse sotto mano contro di lui, odiandolo ancora di più perché continuava a rimanere lì. Quando finì gli oggetti, cominciò ad inveire con voce bassa e tremula, in bilico fra follia ed una verità così semplice da costringerla in ginocchio – ma rimase in piedi, fra quelle certezze che in realtà non aveva, e quegli occhi così Elijah da riempirle ogni respiro di pura agonia. Perché se ne andavano tutti? Cosa c’era che non andava in Arabells Dallaire? Prima suo fratello, poi Oscar. Perché dovevano fare così? Perché non potevano semplicemente rimanere con lei, malgrado il poco che aveva da offrire? «tu non sai niente» sibilò, immobile al centro della stanza. «tu non sei neanche mio fratello. non hai alcun diritto di entrare qua, di entrare nella mia vita fingendo che tutto sia normale. non lo è» e bruciava sulla lingua, perché era ciò che di più vero e più falso avesse mai detto. Certo che era suo fratello, lo era sempre: lo era quando al mattino la aspettava seduto già al tavolo della colazione, con quel sorriso che le era mancato abbastanza da far male; lo era quando le spettinava i capelli castani, quando faceva domande ingenue su una storia della quale non aveva memoria, lo era quando stringeva il boccino fra le dita facendosi solleticare il dorso dalle ali sottili. Ed era normale averlo lì, convincersi che sarebbe rimasto, che quella poteva essere la loro nuova normalità. Si sarebbe adattata, per lui e per loro. Non che in quel momento avesse importanza: voleva solo farlo stare male quanto stava male lei. «non puoi pretendere che un abbraccio sistemi tutto, elijah. Tu non lo sai, tu non lo sai. Non ricordi di quando da bambina ti chiedevo di descrivermi i gemelli, non ricordi di tutte quelle volte che hai sorpreso me e oscar a litigare, non ricordi di quando abbiamo rotto la finestra dei Campbell ed abbiamo corso a perdifiato fino a casa per nasconderci dietro di te, non ricordi della prima volta che oscar ha bussato alla nostra porta per chiedere se la bambina cieca poteva andare a giocare con loro, non ricordi di tutte le volte in cui sono caduta e lui era lì, non ricordi di tutti quei sorrisi che riusciva sempre a strapparmi anche quando la mamma era in crisi, e non ricordi di tutte quelle stupide storie che mi raccontava sempre su come un giorno il mondo sarebbe stato suo ”perché sono oscar”, e non ricordi delle ore passate a guardare il cielo attraverso i suoi occhi, e di come tornando a casa ti dipingessi le nuvole. Tu non ricordi, Elijah. Lui…»
    Contrattazione.
    La voce le venne a mancare, soffocata da un bisogno così primordiale da farle cedere le ginocchia. Nascose il volto fra le mani, lasciando che il primo singhiozzo sgusciasse dalle labbra socchiuse, le palpebre serrate. Rimase così, con il viso affondato nei palmi, anche quando Elijah alla fine si avvicinò, sedendosi per terra per stringerla a sé.
    Depressione.
    E Bells cominciò a piangere, lacrime calde e salate sulla maglia di suo fratello; ed alla fine si aggrappò a lui, come aveva sempre fatto, soffocando il pianto sulla sua pelle che non aveva mai smesso, neanche nel momento peggiore, di essere casa. Voleva domandare perché, voleva chiedere dove, voleva dire perdonami, ma non riuscì a fare nulla: stettero lì, accoccolati come quando erano bambini, finchè il corpo di Bells non smise di essere scosso dai singhiozzi, finchè il respiro non tornò regolare. E stettero lì anche dopo, i Dallaire: nel silenzio di una camera distrutta, senza più nulla da dire, a ricostruire i pezzi di una famiglia alla deriva.
    Non dovettero neanche fare nulla, per tornare ad essere fratelli. Poco importava che Elijah non ricordasse, poco importava che Arabells non potesse essere sincera; erano sempre stati loro due contro tutti, ed in quel momento Bells capì che tutto ciò a cui aveva dato importanza nell’anno precedente, non l’aveva mai avuta. Perché lui era , ed era sempre lui, ed avevano qualcosa che a molti altri era precluso: la possibilità di farsi nuovi ricordi.
    Ed aveva bisogno di aggrapparsi a quella consapevolezza – a quella speranza, a quel futuro- per avere un minimo di fede. L’avrebbero trovato, certo che l’avrebbero trovato. Aveva Elijah, e aveva Arci, e aveva Jack, e aveva Jeremy.
    Aveva tutto ciò di cui aveva bisogno, Bells: aveva la sua famiglia.
    Accettazione.

    16.11



    Oscar. Tiffany. Eleanor. Calathea. Selenya.
    Oscar. Tiffany. Eleanor. Calathea. Selenya.
    Potevano fingere quanto volevano che Hogwarts fosse un posto sicuro, che nulla potesse cambiare il normale ordinamento scolastico, ma neanche i professori erano in grado di occupare i posti lasciati vacanti dai dispersi. I mesi erano passati in maniera del tutto irreale, un universo parallelo rispetto a quello nel quale Bells aveva vissuto fino a quel momento. Nessuna novità, né peggiore né migliore. Niente di niente. Sembrava semplicemente che il mondo si fosse abituato alla loro assenza; sembrava che si aspettassero che loro potessero abituarsi a quelle mancanze. Come se il cuore di Arabells avesse mai potuto smettere di balzare in gola ogni volta che, voltandosi verso il tavolo dei Grifondoro, non trovava Oscar ad intrattenere la tavolata con qualcosa di incredibilmente stupido e da Oscar. Come se potesse semplicemente dimenticarsi della sensazione data dalle sue braccia, dal profumo che testardo si insinuava in ogni fibra di tessuto; come se potesse fingere, Arabells Dallaire, di non svegliarsi ogni mattino con la speranza di trovarlo ad aspettarla alla base della torre, o di non addormentarsi con la felpa del Grifondoro sotto al cuscino. Non sapeva sinceramente come reagire, la Dallaire: Jack aveva l’alcool, Arci aveva la sua rabbia, e Jeremy si era buttato sulle droghe, con quel sorriso sghembo e quelle battute a pendere pigre dalle labbra. «sicuramente si sarà addormentato. aspettiamolo ancora un po’» e non sapeva, il Milkobitch, quanto quella stupida battuta le facesse male al cuore, ogni giorno. Quanto ogni volta rivedesse il viso di Oscar, quella notte, e sentisse la terra a graffiarle i palmi. Quanto morisse dalla voglia di alzare gli occhi e puntarli in quelli del Tassorosso, intimandogli di smetterla di dire cazzate: ma non l’aveva mai fatto, limitandosi a sorridere distratta. «grifondoro…» bofonchiava, ogni giorno, nascondendo il tremore della voce dietro il tono basso.
    E Jack beveva, e Arci se la prendeva con gli oggetti, e Jeremy fumava.
    E Bells.
    E Bells si allenava, supplicando Phobos, Arwen, Jade e suo cugino? di aiutarla. Non voleva mai più sentirsi impotente di fronte a nessuno, non voleva più provare quella destabilizzante sensazione di non farcela. Non avrebbe mai permesso a qualcun altro di andarsene. Migliorava nel corpo a corpo, migliorava nella scherma, nell’uso delle armi bianche. Migliorava nel fingere che quella realtà fosse per lei concreta, obbligandosi a mangiare ogni giorno, a svegliarsi ogni giorno. Migliorava nel non cercare la risata di Tiffany fra la folla, nel non pensare. Non sapeva come aiutare sé stessa, figurarsi gli altri: non sapeva come affrontare l’improvviso cambiamento di Todd, come confortare Jeremy per la foto di sua sorella su quel maledetto giornale, non sapeva come aiutare Jack ad uscire dal baratro nel quale si era lanciato sorridendo, non sapeva come spingere Arci a sorridere un po’ di più. Non sapeva prendere il meglio degli altri, Arabells. Non sapeva come farglielo vedere: quello era Elijah, e lei da suo fratello non aveva preso un granchè. Era solo… Arabells Dallaire, la ragazza dal sorriso leggero e l’animo bruciante di competizione, brillante ed acuta nel trovare una soluzione alle situazioni più improbabili, o nello scovare nuovi metodi per riempire il barattolo. E si piaceva così, Bells. Eppure non bastava, non si bastava.
    Ma i suoi amici? Loro erano sempre stati abbastanza. Nelle loro stranezze, nelle loro perversioni, nei loro dubbi sulla vita, nelle loro guerre per l’alcolico più buono, nei loro commenti sulla morte e sull’esistenza, nei confronti fra melograni e pompelmi, nel quidditch. Non cambiavano mai, i catafratti, pur cambiando sempre. E sapeva perché, Bells. E sapeva come.
    Perché loro, malgrado tutto – malgrado tutti – cambiavano insieme. E se erano insieme, era come non farlo affatto. Diversi e uguali, opposti e simili: potevano litigare, ma non durava mai; ed erano un fronte unito, loro: potevano permettersi di prendere in giro Arci ed il suo fanatismo per la morte, la sfortuna di Jeremy nel trovarsi una ragazza, il cuore d’oro di Jack o le doti da seduttore fallito di Oscar, ma se qualcun altro avesse osato fare anche solo una battuta riguardo le loro debolezze, che per Bells erano sempre i loro punti di forza, non durava cinque minuti prima di tornare sui propri passi con delle scuse graffiate a mezza voce.
    Sempre.
    Erano la sua certezza, la sua costanza.
    Per questo, il sedici novembre, Bells sapeva che li avrebbe trovati lì – che l’avrebbero trovata lì.
    RaineAidenOscarTiffanyAmosAlecEleanorNathanJaysonHopeHeidrunPatrickAloysiusDakotaBelladonnaElysianLucilleAniseHeliantaCalatheaSelenyaEliaMorriganEvadne. Ne conosceva pochi, Bells, molti solo di vista o per sentito dire. C’era il ragazzo che suo fratello e Nate avevano adottato, c’era la vicina di casa di Arci, c’era la sorella di Jeremy, c’era una delle gemelle, c’era il fratello di Idem, c’erano due Hamilton, c’era il fratello della professoressa Winston, c’erano i loro compagni. C’era Oscar. Aveva letto i loro nomi, imparato a memoria i loro volti, ascoltato le loro storie: sapeva che Elia era una telepata, ma ancora non si era resa conto del suo potere; sapeva che Elysian era una cronocineta, e che non le piaceva frequentare le lezioni al castello; sapeva che Helianta, studentessa anche lei di Nate, aveva un senso dell’umorismo particolare; sapeva che Lucille aveva una rubrica su internet, e che molti dei suoi follower erano preoccupati per lei.
    Sapeva un sacco di cose, Arabells Dallaire. Ma non sapeva perché.
    Quando li vide, fu come vederli per la prima volta. Come se, fino ad allora, non fossero mai stati reali per lei. Come se non avesse mai creduto che, da qualche parte, li stessero aspettando. RaineAidenOscarTiffanyAmosAlecEleanorNathanJaysonHopeHeidrunPatrickAloysiusDakotaBelladonnaElysianLucilleAniseHeliantaCalatheaSelenyaEliaMorriganEvadne. Il cucchiaio a mezz’aria, il respiro incastrato da qualche parte fra trachea e polmoni. Il cuore a pulsare da qualche parte, ma certamente non dove doveva essere.
    Si era mossa senza pensare, guidata dal bisogno di trovarsi. Lo sguardo assente, l’animo appesantito da tutti gli addii che non aveva dato, svuotato dalla speranza che, nel momento in cui aveva posato gli occhi su Oscar, le aveva sfondato il petto come una diga. Non aveva avuto neanche mezzo dubbio, procedendo a capo chino nel passaggio segreto che l’avrebbe condotta alla Stamberga, che sarebbero arrivati. Lo facevano sempre. Quella era più di un luogo di ritrovo dove fumare canne o bersi shottini di sambuca, più di una vecchia catapecchia dove riunire cinque adolescenti disagiati privi di pensieri seri ed al contempo gonfi di tacita necessità di comprendere l’universo.
    Era il loro mondo, la Stamberga Strillante. Lo era da sempre.
    E quando arrivarono, uno dopo l’altro, Bells era già lì ad aspettarli: raggomitolata sotto una spessa coperta rubata nel dormitorio dei Corvonero anni e anni prima, una sciarpa da Grifondoro stretta al collo abbandonata alla Stamberga l’anno precedente, le mani con un guanto di Serpeverde e Tassorosso. Non esistevano casate, erano semplicemente loro. Ciascun oggetto rappresentava uno di loro; se avesse potuto, specialmente in quel momento, Bells si sarebbe fasciata addosso ciascuno dei catafratti, stringendoseli addosso come il più amato dei piumini. Non potendo usare loro, si accontentava dei loro totem. Il primo fu Jeremy, che silenzioso si sedette di fianco a lei. Arabells si trascinò più vicino, avvolgendosi nella coperta e poggiando poi la testa sulla sua spalla. «l’alcol lo abbiamo?» aveva sorriso di sottecchi, alzando appena lo sguardo su di lui. «che ce ne facciamo dell’alcool, abbiamo un jack» nel momento in cui concludeva quella scontata risposta, neanche li avesse appellati, Arci e Jack fecero capolino dalla porta. Per un momento, effimero e sottile, temette di poter scoppiare a piangere. Così, senza un motivo apparente – un po’ per tutto, un po’ per niente. «Aria ne abbiamo?» e meno male che poteva solo mentire, Arabells Dallaire, perché la sua risposta sarebbe stata: non troppo. Fu con un sorriso sincero e felice che volse lo sguardo su Jack, beandosi del calore del suo abbraccio e del suo profumo. Quante di quelle notti, loro due, si erano ritrovati sul divano della Sala Comune a guardare il camino? Quante aveva stretto la sua mano, intrecciando le dita a quelle di Jack, senza nulla da dire?
    «arci, non fare l’arci e vieni qua: se ti viene più semplice, puoi fingere che io sia thad» allargò le braccia, invitando il Serpeverde ad avvicinarsi. Era l’unica ragazza del gruppo, quindi poteva permettersi di elemosinare abbracci – ed uno shottino in più, e l’ultimo tiro da una canna – se ne aveva voglia. Sessista, si sapeva, ma lecito. Se li tenne tutti vicini, mentre Jeremy li battezzava con la bottiglia portata da Jack. Che senso aveva fingere, quando era chiaro come il sole che aveva bisogno di loro? Erano i suoi migliori amici, Bells voleva lo sapessero. «abbiamo l’alcool» esordì, un sorriso allegro sulle labbra. Perché adesso sapeva, Arabells Dallaire, che da qualche parte Oscar stava patendo davvero tutte le sue verità. Sadica? No, solo pragmatica. «abbiamo 4/5 dei catafratti. Jeremy, la droga l’abbiamo o hai fumato di nuovo senza di noi?» scaletta di priorità, serviva sempre. Tirò fuori un taccuino, quello dal quale non si separava mai da tre mesi a quella parte; in realtà, non c’era scritto nulla di che. Nomi, conversazioni con i membri della pager squad («ciao vi ho portato il caffè, avete novità?» «no» «allora mi riprendo il caffè»), disegni quando si annoiava, linee rosse con le quali si convinceva di avere una pista, cognomi cerchiati.
    Le mancava solo una cosa.
    Il senso.
    Elencò le domande ad alta voce, alzando un dito per ogni interrogativo:
    «cosa vogliono da loro» pollice. «cosa vogliono da noi» indice. «perché hanno preso una ventina di ostaggi» medio. «chi sono» anulare.
    Ed infine.
    «come facciamo a riprenderci oscar» perché con oscar fra loro, si sapeva, il resto sarebbe venuto da sé – RaineAidenTiffanyAmosAlecEleanorNathanJaysonHopeHeidrunPatrickAloysiusDakotaBelladonnaElysianLucilleAniseHeliantaCalatheaSelenyaEliaMorriganEvadne. Si diceva che nessuno potesse mettersi fra moglie e marito, e che quando due fratelli combattevano spalla a spalla, era impossibile vincere: e loro, che erano più di un matrimonio ed un legame di sangue, cos’erano? Tipo la bomba atomica delle alleanze?
    Ai Catafratti l’ardua sentenza.
    arabells lies dallaire
    i should have kissed you longer, i'm a little bit lost without you
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    Edited by rea/l life ruiner - 8/10/2016, 01:44
     
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    Si strinse un po’ di più nelle spalle, quando un brivido gelido attraversò arrogante la spina dorsale. Non aveva pensato che, a metà novembre, in Scozia, potesse realmente fare così freddo; non gli era nemmeno passato per la mente, quando tra la caterva di oggetti emersi dal baule ai piedi del letto aveva visto diverse felpe pesanti che fino ad allora aveva reputato futili, che fuori dalle mura del castello l’inverno si stesse avvicinando. Aveva così tante domande da porre, ed altrettante sfuriate da tacere ad un cielo notturno, che non si era dato il tempo di riflettere davvero su tutto quello che stava accadendo fuori da lui; era come se tutto attorno a sé si fosse cristallizzato, rimanendo immutato. Il tempo stesso, Jeremy Milkobitch, aveva voluto credere che non fosse trascorso, per quanto l’ineluttabile passare dei giorni tendesse a negare questa sua convinzione. Era stato più facile, per lui fino a quella sera, credere che fosse così. Che non fosse lontano luglio, che ferragosto fosse appena alle loro spalle: che il mondo non avesse continuato a girare, come era solito fare, dandogli il voltastomaco. Gli aveva dato forza, sperarlo, in un modo talmente infantile che se fosse stato lucido la maggior parte del tempo avrebbe smesso di credere in certe illusioni, se si fosse dato un margine di riflessione avrebbe capito quanto stupido era quel ragionamento, e quanto idiota potesse sembrare per gli altri. Ma non gli importava, quello era il punto fisso di una questione fin troppo in sospeso: fino ad allora, aveva ricercato in quel castello costruito in aria, roccaforte di luminose speranze, un riparo sicuro dall’azione corrosiva del tempo; corroso anch’egli, danneggiati tutti, l’idea che tutto fosse immobile, che la realtà stessa dopo l’ultima scomparsa fosse stata intrappolata in una sfera di vetro, smossa talvolta da mani più grandi per dare una mera illusione dei giorni, delle stagioni che si scavalcavano, gli faceva pensare che il nodo alla gola fosse meno aggrovigliato, più facilmente districabile. Ed era convinto, il tassorosso, che fosse un bene anche per chi gli stava vicino, ignaro invero di quanto tale pensiero potesse risultare sbagliato, di quanto una certa sicurezza potesse suonare come uno stridio alle orecchie altrui. Voleva stare bene, voleva che i suoi amici stessero bene, e voleva che gli stessi lo facessero sentire meglio, per quanto evitasse, come meglio riteneva, di gravare su di loro certe responsabilità. Erano solo adolescenti, alla deriva e rotti, sotto più punti di vista di quanti non avrebbe avuto il piacere di ammettere: non dovevano spettar loro oneri simili, troppo giovani in una guerra che era diventata anche la loro fin troppo in fretta. E si era illuso, così prepotentemente, che il tempo non fosse passato, che i mesi non si fossero accavallati, che tra poche settimane non avrebbe iniziato a cadere la prima soffice neve sulla scogliera che accoglieva Hogwarts. Era rimasto a quattro, tre mesi prima, quando tutto andava bene, e non voleva invece riconoscere la verità, che tra non molto sarebbe stato Natale e che rischiava di non passarlo serenamente come aveva fatto quello precedente, quando Run era tornata, quando Todd era ancora un imbranato che non andava al Lilum per far vedere che his anaconda does.
    E non si era reso conto del fottuto freddo che aveva iniziato a far vibrare le ossa, a far accaparrare la pelle, a far sbattere i denti tra loro. Era irreale, tutto quello, anche quando solo pochi minuti prima giaceva immobile su un gelido manto di foglie bagnate. L’apparenza si era infranta, il mondo reale l’aveva colpito in pieno come un tir, quando si era seduto accanto a Bells, ultimando un lavoro già cominciato dagli sguardi stanchi, sconvolti e, perché no?, accusatori dei suoi amici, di sua sorella, in quel filmato in definizione scadente. Nemmeno ci provava ad eludere quel tremore, a far finta che non esistesse, mentre tra i denti teneva stretta la sigaretta per evitare che battessero tra loro dando fastidio e gli occhi scivolavano vogliosi sulla coperta della corvonero. Ancor prima che ella potesse dar risposte alla sua domanda, senza nemmeno chiedere, prese un lembo della trapunta e se la trascinò addosso, crogiolandosi nel caldo tepore di questa e sporgendosi appena per controllare che non avesse, invece, scoperto la Dallaire. «che ce ne facciamo dell’alcool, abbiamo un Jack» «cosa che invece non possono dire i nuovi iPhone 7» asserì subitaneo, prima di allargare un sorriso a quella triste battuta che, temeva, avrebbe fatto ridere solo lui. «al prossimo numero toglieranno anche la fotocamera, me lo sento» Alzò appena la testa, scuotendola e sbuffando teatralmente un’affranta nuvola di fumo. «poveri telefoni»
    «aria ne abbiamo?» Osservò i due amici entrare nella Stamberga, seguendone i movimenti contento, grato che fossero infine arrivati. Non ne aveva mai dubitato, sia chiaro, ma ogni volta essere insieme era un toccasana impossibile da ignorare; voleva che lo facessero stare bene, e che loro stessero bene con lui, ma alla fine bastava che ci fossero, fisicamente o meno, e andava meglio. «ve l’ho mai detto che vi amo?» Sì, diverse volte. Non aveva l’affetto facile, Jeremy, ma provarne verso i Catafratti, per lui, era la cosa più naturale del mondo. Lanciò un bacio ad entrambi, posando poi gli occhi sulla Bottiglia, ed ivi lasciandoli. Solo quando l’Hades gli spettinò i corti capelli scuri per evitare di colpirlo, accidentalmente, con lo spigolo del cassetto il Milkobitch si mosse, alzando appena lo sguardo azzurro sull’amico, un sorriso mesto a rischiarare il volto ambrato; non poteva non chiedersi, tutte le volte che si riunivano, se presi singolarmente ce l’avrebbero fatta. Perché, e di ciò era sicuro, insieme erano perfettamente in grado di smuovere una montagna, e pertanto non si preoccupava. Ma senza gli altri? Probabilmente sì, se la sarebbero cavata, lo stesso Leroy ce l’aveva fatta solo otto mesi prima –guadagnandosi il silenzio da parte del tassorosso per una settimana, sia per la storia delle tette di Anjelika sia per non averli avvisati, per non avergli detto che stava andando a mettere in rischio il culo da solo-, ma aveva paura. Paura, ora che il tempo era tornato a scorrere regolare, che qualcosa potesse andare storto. Egocentricamente, avrebbe voluto costringerli a rimanere dentro il castello, così da tenere al sicuro almeno loro, evitando di stare peggio qualora gli fosse accaduto qualcosa –non se lo sarebbe perdonato, e non glielo avrebbe perdonato-; altrettanto egoisticamente, non sarebbe riuscito ad andare da solo, senza di loro.
    «ti va di fare gli onori di casa?» «cosa?» Non se n’era reso conto, il diciassettenne, che il volto s’era scurito, il sorriso un po’ adombrato, che nel frattempo le iridi si erano incupite, rattristate quando il corvo aveva aperto la scatola bianca davanti a loro. Forzò la gola a mandare giù un groppo rimasto incastrato proprio lì, abbastanza grande da farlo impercettibilmente annaspare. «che domande del cazzo, Kill» asserì, con tono basso e inquisitore, girandosi torvo verso l’Hades e scuotendo indignato la testa. L’alcool era la sua specialità, come la sua era la droga, e se fosse stata una persona migliore avrebbe rifiutato, gli avrebbe detto che quello era il suo compito, il fine ultimo. Doveva essere lui a versare il whisky: non Jeremy, non Arci, non Bells, ma Jack. «ovvio che voglio fare gli onori di casa» Con sguardo sognante, si fissò quindi sulla suddetta Bottiglia, rimirandola come fosse stata un’opera d’arte –e in effetti lo era. «è da quando siete entrati che non vedevo l’ora di tenere stretto tra le mie braccia il mio Jack preferito, amarlo come se non ci fosse un domani, e poi stapparlo» Scusa Jack, alcool before #hadebitch.
    «Jeremy, la droga l’abbiamo o hai fumato di nuovo senza di noi?» Alzò il collo della bottiglia dal quarto bicchierino, incontrando lo sguardo della Dallaire. Le sopracciglia arcuate, la bocca socchiusa: non avrebbe potuto, il Milkobitch, sfoggiare un’espressione più accorata, nonché colpevole in quel guizzo cobalto nelle iridi. «per che razza di persona mi hai preso?» domandò, accigliato, una mano al cuore. «certo che ho fumato senza di voi» è un problema, avrebbe voluto ammettere in quel sorriso sghembo che piano piano si faceva più leggero, ma non ce la faceva: non lo reputava tale, non veramente. Non ancora. «questo non significa che non ci sia, anzi» Si mise in ginocchio, liberandosi della coperta, sporgendosi appena. «è tutto nella tasca dietro, Jack puoi prendere e far girare ad Arci? Prima o poi ti insegnerò a farlo, promesso» concluse, alzando innocentemente le spalle.
    «cosa vogliono da loro, cosa vogliono da noi, perché hanno preso una ventina di ostaggi, chi sono. Come facciamo a riprenderci Oscar» Inumidì le labbra, versando l’ultima goccia di whisky nel quinto bicchiere. Un monito, quello, a sbrigarsi, a fare quello che dovevano. C’erano i 4/5 dei Catafratti, nella Stamberga Strillante, non erano tutti, ed aveva paura Jeremy. Molta paura, ma prima o poi Oscar avrebbe svuotato quel bicchiere lasciato lì. O forse no, ne avrebbero riempito un altro perché chissà quale schifo immondo c’era entrato dentro, ma idealmente parlando il concetto rimaneva immutato. Per tradizione, trasse direttamente dalla bottiglia il primo sorso di Jack Daniel’s strizzando gli occhi: come per le canne, per le quali vale la regola che “chi arriccia, appiccia e spiccia”, era suo compito bere dal collo del suo amore, essendo stato egli a riempire i bicchieri. «vogliono sterminarci, per le prime due domande» rispose, esponendo la sua ed invitando gli altri a prendere gli shottini tra le dita. Era l’unica spiegazione sensata, le altre non avevano davvero fondamento. C’era chi pensava fosse solo una trappola, gente che nella Pager Squad aveva iniziato ad istigare diversi dubbi, e chi pensava fosse solo una cazzata. Jeremy, onestamente, non sapeva a cosa credere, e limitarsi all’ultimo bollettino sembrava il ragionamento più logico. «sono dei fottuti psicopatici»
    Alzò il bicchiere al cielo, in un solenne brindisi, restando con lo sguardo fermo sul bicchiere lasciato a terra: quanto era vero che loro erano i Catafratti, Oscar sarebbe tornato ed avrebbe bevuto quel fottuto shottino. Anche così. «onestamente, non so come ce lo riprenderemo, ma lo faremo. Ad ogni costo»
    Ce li riprenderemo, tutti. «insieme»
    jeremy milkobitch
    don't give up, i won't give up
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    (n.d.a. "chi arriccia, appiccia e spiccia" letteralmente traducibile come "colui che gira, accende e spegne" che poi magari qualcuno non sa #wat e succede quello che è successo per “paccare” vabbè sì cià)


    Edited by .ipseity - 11/10/2016, 14:43
     
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4 replies since 30/9/2016, 02:24   476 views
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