everything is scary, i don't understand

armstrongzz || sala macchine #wat

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    donald armstrong | 01.09.16
    20 y.o. | electrokynesis | rebel
    Non sei tu il problema, Donnie. Non sei tu il problema, Donnie. Non hai niente che non vada.
    Non sono loro il problema, Donnie. Non sono loro il problema, Donnie. Non hanno niente che non vada.
    Tutto è okay. È tutto a posto. Passerà.

    Continuava a pettinarsi il ciuffo corvino, passandovi le dita attraverso nervosamente. Non riusciva a stare comodo sulla sedia: sembrava quasi pretendere, l’elettrocineta, che questa potesse inglobarlo, rendendolo parte dell’arredamento. Non voleva essere lì, non voleva quelle persone. Era sempre stato un ragazzo schivo, di quelli che preferivano mangiare in solitudine piuttosto che in compagnia dei propri amici, ma da quando era stato nei Laboratori, la sua situazione era drasticamente peggiorata. Stare in una stanza con più di tre persone gli dava un improvviso senso di oppressione al petto, il cuore a battere irregolare contro la custodia di metallo; i palmi sudati, i brividi involontari che gli drizzavano i peli sulla nuca. Si costringeva a rimanere immobile, confidando che ad ogni respiro la situazione potesse migliorare. Donald Armstrong non era mai stato un ragazzo normale, lo sapeva. Lo strano sussurrato a fior di labbra al suo passaggio, al liceo, si era presto tramutato in quello fuori di testa: qualcuno lo diceva quasi affettuosamente, un commento ad un particolarmente adorabile cucciolo di cane.
    Qualcuno ci credeva davvero.
    Lui non ci aveva mai fatto caso, evitando sempre di ascoltarli. Mentirei se vi dicessi che ignorarli fosse intenzionale: accadeva e basta. Viveva in un mondo solo suo, dove raramente permetteva a qualcuno di accedere. Non era raro trovarlo con gli occhi cerulei persi nel vuoto, le labbra a muoversi silenziosamente in parole che altri non riuscivano ad udire. C’era qualcosa che non andava, in Donald Armstrong. O forse era il mondo che non andava, e lui unico ad essere quello giusto.
    Si alzò improvvisamente in piedi, sentendo la pelle febbricitante e coperta da un sottile strato di sudore. Non guardò nessuno, accennando un sorriso impacciato, mentre rapido si dirigeva verso Lydia. Non sapeva come comportarsi: doveva scambiare qualche occhiata con qualcuno? Tranquillizzare quelle poche persone che poteva definire amici, come Freya? Fare un cenno di saluto a suo fratello? Lui non ci sapeva fare, con le persone. Ed aveva solo bisogno di una cosa. «io…» iniziò, sentendo un principio di attacco di panico a stringergli la trachea. Deglutì rapidamente, come se quel gesto potesse in qualche modo aiutarlo. La mano di Lydia rimase a pochi centimetri dal suo braccio, prima di posarvisi delicatamente, quasi con ritrosia. «tutto bene?» domandò cercando il suo sguardo con i grandi occhi verdi, così simili a quelli di Freya da risultare quasi inquietanti. Certo, dopo tre fremelli uno ci faceva il callo, ma era comunque abbastanza strano da lasciarlo sempre con la bocca asciutta, incapace di dare una forma ai propri pensieri. Distratto, Donald. Sempre. In quel caso però fu d’aiuto: concentrarsi sulle somiglianze fra Lydia e Freya lo aiutò a calmarsi, il respiro quasi regolare. Se prima alla sua domanda annuì, dopo un’occhiata più severa non potè che scuotere il capo. «non credo» ammise, schiarendosi la gola per impedire che la voce uscisse lamentosa, spezzata. «posso tornare a casa?» la mano di lei si posò delicatamente sulla fronte, e Donnie dovette stringere i pugni per non allontanarsi di un passo al suo tocco. Serrò le palpebre, aprendo gli occhi solamente quando sentì di essere fuori pericolo.
    Fuori pericolo, come un animale selvatico tenuto in trappola a lungo, incapace di riconoscere una mano amica da una pronta a tirargli uno schiaffo. Era quello il suo problema: Donnie non era in grado di separare i due concetti, rimanendo aggrappato alla certezza che gli sarebbe accaduto qualcosa di brutto. Non si fidava, non capiva. Rimase lì, il cuore impazzito e le labbra strette fra i denti, tirando un sospiro di sollievo quando la Hadaway gli fece cenno di sì. «vuoi che ti accompagni? Il professor henderson può cavarsela da solo, per un po’» voleva andare con lui? Forse fu troppo rapido a fare cenno di no, perché l’espressione dell’assistente si incupì velatamente. L’aveva offesa? Non poteva saperlo, Donnie. Non ci arrivava. Ella gli indicò con il capo la porta, e l’elettrocineta fu rapido ad imboccarla. Non si girò neanche una volta, nemmeno per ringraziare la rossa di avergli permesso di uscire. Cominciò semplicemente a camminare, cercando di mettere quanto più spazio possibile fra lui e gli altri, ignorando il corridoio che pareva stringersi su di lui ad ogni passo. Non è reale, Donnie. Ma non lo era davvero?
    Quando sbucò nel cortile, l’aria fredda sulla pelle accaldata, quasi svenne dal sollievo. Si fermò in un angolo di questo, gli occhi chiusi ed i pugni serrati, cercando di ricordarsi come si compiva il semplice atto della respirazione. Sapeva tutto della respirazione, Donald Armstrong: non era altro che un processo costituito da due fasi, inspirazione ed espirazione. Il primo serviva ad incamerare aria, e con essa l’ossigeno ivi presente che sarebbe poi stato trasportato nei tessuti grazie all’emoglobina; il secondo permetteva di liberarsi dell’anidride carbonica, la quale si legava alla molecola dell’acqua nel circolo sanguigno, e veniva eliminata così dall’organismo. Fisicamente era ancora più semplice: bisognava contrarre i muscoli intracostali ed il diaframma, così da causare un aumento del volume polmonare e una diminuzione della intrapleurica, la membrana che rivestiva i polmoni, in modo da permettere ai polmoni di gonfiarsi dell’aria proveniente dall’esterno. Era così semplice sulla carta, nei libri che amava sfogliare convincendosi che dai, gli esseri umani non potevano essere così complessi. La biologia, la morfologia, l’anatomia, la biochimica spiegavano alla perfezione come fossero fatti gli esseri umani, esattamente come avrebbe fatto un libretto di istruzioni per un generatore elettrostatico. E allora perché dovevano essere così… imprevedibili? Perché il suo corpo reagiva in maniera così diversa rispetto a quello degli altri?
    Perché la sua mente non funzionava come la loro?
    Non li capiva, non si capiva.
    Uscì dalla scuola con il capo chino, evitando ogni genere di occhiata; percorse la strada per arrivare ad Hogsmeade, gli occhi fissi sui propri piedi ed il principio di panico che andava scemando ad ogni passo. Doveva andarsene; non sapeva dove, sapeva solo che doveva andarsene. Dalle persone, dal passato, dal presente, dal futuro. Principalmente, da sé stesso. Spesso essere Donald Armstrong era sfiancante, vestiti troppo stretti per un corpo in continua evoluzione. Non si bastava mai, ma neanche ci provava. Aveva bisogno di aggiustare qualcosa, di sporcarsi le mani con olio scuro; magari avrebbe potuto dare un’occhiata all’auto di Phobos, o alla macchinetta del caffè al quartier generale.

    Non se ne rese conto, Donnie. Letteralmente.
    «pronto? Ehilà, ciao?» una piccola mano ondeggiò davanti agli occhi azzurri del ragazzo, che lentamente mise a fuoco qualcuno. Aggrottò le sopracciglia, guardandosi rapidamente attorno. Il pavimento bianco, le pareti chiare, l’odore inconfondibile di deodorante per ambienti e tè. «ciao?» rispose confuso, osservando Erin Chipmunks. Lei ricambiò l’occhiata, osservandolo altrettanto dubbiosa. Come diamine era arrivato al quartier generale dei ribelli? Non ricordava di aver fatto la strada, non ricordava di essere entrato. Succedeva spesso: Donnie spegneva il cervello, lasciandosi guidare dalla memoria motoria che, istintivamente, lo faceva muovere portandolo nel luogo ritenuto più consono. Funzionava in modo semplice, esattamente come un computer. Gli bastava il giusto input per raggiungere la meta, e neanche se ne rendeva conto. Si inumidì le labbra, sbattendo le ciglia scure nella vana ricerca di ritrovarsi. Si perdeva sempre, Donnie. «ti ho chiesto» ripetè quella, scandendo lentamente le parole. «non dovresti essere a lezione?» lezione? Quale? «DONNIE!!» una piccola creatura, con annessa un’umana ancora più piccola, fece capolino nella sua visuale. «cosa ci fai qui?» Anziché rispondere, ‘Armstrong si ritrovò a guardare la bambina dagli occhi verdi ed i capelli biondi, il pollice stretto fra i denti e lo sguardo curioso. Allungò le mani in automatico, invitandola ad avvicinarsi; Tupperware lo squadrò, quasi studiandolo, quindi si fiondò fra le sue braccia. Dopotutto era zio Donnie. Non sapeva perché, chi avrebbe mai detto che a un Donald potessero piacere i bambini?, ma con lei si sentiva… al sicuro. Normale, forse. Riusciva a tenerlo ancorato a terra, ricordandogli che non era solo. Che non era solo. Era confortante, quel piccolo corpicino caldo stretto contro il petto, il profumo familiare dei capelli chiari. Sapeva di casa: neanche pensava di ricordarlo più, un profumo del genere. Pensava di averlo perso, come aveva perso tante cose divenendo un Esperimento. Deglutì, alzandosi con in braccio Tup. «era noiosa» liquidò l’argomentazione con un tono di voce vago, appena udibile sopra il ronzio dell’aria condizionata. Rivolse un goffo sorriso alla bambina, che ricambiò con quegli insulsi dentini da latte che tanto gli facevano senso. «perché c’è l’aria condizionata accesa?» domandò alle due, che alla sua domanda si scambiarono un’occhiata. Erin fu la prima ad abbassare lo sguardo, il piede a ciondolare sul pavimento disegnando cerchi concentrici. Idem, la segretaria cui compito era ancora mistico agli occhi dell’Armstrong, si schiarì la voce. «beh…» «SMETTILA DI SPARARE ARIA FREDDA, HO DETTO» l’urlo arrivò attutito dalla sala macchine (quale? Ma sì, la sala macchine), una voce esasperata che Donnie non faticò a riconoscere. «…ecco» concluse la Withpotatoes, come se quella fosse una risposta abbastanza soddisfacente. Effettivamente, lo era. Sbattè nuovamente le palpebre, lasciandosi guidare dal ronzio sempre più acuto del macchinario. Con la bambina ancora stretta a sé, che ogni tanto tirava i corti capelli corvini per attirare la sua attenzione, Donnie entrò nella sala macchine seguito a ruota da due trotterellanti ribelli. Nathan, arrampicato su una scala argentata, stava sbraitando contro il macchinario a denti serrati, stringendo con forza i pugni lungo i fianchi. «non ne vuole sapere di andare» si giustificò lui, saettando con gli occhi sui nuovi arrivati. «le hai chiesto se ha qualche problema?» domandò ingenuamente, avvicinandosi di un passo. Il lato positivo del suo (loro, considerando che Nathan poteva copiarlo quando voleva) potere, era poter interagire con la tecnologia: domandare pareva lecito, perfino se si trattava di un tostapane – o, nel loro caso, un condizionatore. «SECONDO TE?» Arretrò rapidamente di un passo, le manine paffute di Tup premute sulle guance. Diciamo che si era allontanato per tutelare la bambina, ma sappiamo entrambi che era lui il caga sotto della coppia. «è così da un po’» sussurrò Erin, indicando con il capo Nathan. «TI HO SENTITO, ERIN» «nathan, perché non ti prendi una pausa? Può pensarci donnie…» la voce di Idem venne stoppata da un grido innervosito del mimetico, le mani a picchiare contro le cosce. «OKAY, OKAY» saltò giù dalla scala, spolverandosi gli abiti malgrado non ve ne fosse alcun bisogno. «e ora voglio i biscotti» puntò l’indice contro la Chipmunks, la quale pareva più che felice di ubbidire all’ordine diretto. Sparirono nuovamente nel corridoio; da dove si trovava, Donnie riusciva a percepire lontane le prese in giro della ragazza, seguite da risate sguaiate e diversi rumori molesti dovuti probabilmente ai poteri di Nathan. Rimase in silenzio, inspirando l’aria rarefatta della stanza. Lui non era mai stato così: non era mai stato il ragazzino che spensierato rideva dei misfatti altrui, che usciva con gli amici o con il quale scherzare. «stai bene?» se stava bene? Rivolse un mezzo sorriso ad Idem, la risata incastrata fra i denti. Non era mai stato bene, lui. Non lo era stato prima di scoprire della magia, non lo era stato quando aveva partecipato alla missione, non lo era stato nel periodo prima dei Laboratori, e di sicuro non lo era stato durante. Aveva i suoi momenti: non era particolarmente simpatico, l’Armstrong, ma era sempre stato buono. Particolare sotto ogni punto di vista, sicuramente, ma di quell’ingenua bontà che ti faceva ancora sorridere. Idem Withpotatoes era una psicomaga, avrebbe potuto aiutarlo – magari suggerendogli qualche pastiglia da prendere? Il fatto era che Donnie voleva stare bene, ma non riusciva a capire quale fosse il problema. Non trovava il difetto di fabbrica che lo rendeva così: senza quello, non aveva nulla da aggiungere al sorriso sbilenco in direzione della Segretaria. Forse era quello stare bene: come si faceva a saperlo?
    Quando Neil si era presentato alla sua porta, due mesi prima, la situazione di Donnie era peggiorata. Il problema non era Neil in sé, non lo era mai stato; il più piccolo di casa l’aveva sempre temuto, sì, ma era ormai abituato a quella bruciante sensazione di sentirsi il meno adatto in famiglia, e le critiche non lo turbavano più quanto avrebbero dovuto. Donnie voleva bene a suo fratello, indipendentemente da come l’aveva sempre trattato. No, certo che non era Neil il problema: era ciò che si era portato, silenziosamente, appresso.
    Il fatto che ormai fossero solo loro due, ciò che rimaneva della loro famiglia. I loro genitori erano rimasti soli: come avrebbero fatto senza nessuno dei due figli a casa? Sentivano la loro mancanza? Chi prendeva la padella delle omelette, situata in punto dell’armadietto irraggiungibile dal metro e sessanta scarso della madre? Chi ricordava a papà di prendere il latte, che immancabilmente mancava ogni giorno a casa Armstrong? Si ricordavano di loro?
    E Neil non avrebbe dovuto essere lì. Non era il suo posto. Poteva ancora avere una vita, fuori da quel mondo: trovarsi un buon lavoro, magari insegnare in qualche università prestigiosa. Mettere su una famiglia normale, non quell’accozzaglia mal abbinata di persone che avevano a New Hovel. Ma non poteva più. Era colpa sua, di Donnie; e non aveva fatto niente, vittima anch’egli di un sistema, di una realtà, che non gli apparteneva. Non che ne avesse mai parlato con Neil. Vivevano insieme, ma Donnie si chiudeva la maggior parte del tempo in camera, evitando il più possibile conversazioni con il fratello, oppure fuggiva al quartier generale. Ovunque, tranne che in sua compagnia.
    Neil rappresentava per Donald tutti i suoi fallimenti, tutto ciò che aveva perso.
    Sempre più distratto, Donnie. Sempre più sbagliato, mentre veniva nuovamente affogato dall’ombra scura di Neil: chi conosceva il fratello non poteva credere che fosse imparentato con Donnie. Perfino Idem, IDEM WITHPOTATOES, gli aveva chiesto se era stato adottato («non vi assomigliate, io… mi dispiace! Lo sai che sono abituata alle famiglie libere, DAI non mi mettere il broncio ti prego, non volevo offenderti! SEI IL MIO ARMSTRONG PREFERITO. Isaac, diglielo!» «donnie, sei il suo armstrong preferito…» «aw, grazie isaac!» «.. condoglianze.» «perché?» «niente idem, niente»).
    Mise Tupperware a terra, spingendola verso la segretaria. «come al solito» si strinse nelle spalle, rispondendo con naturalezza alla domanda della donna. Era stato sincero, ed allo stesso tempo non aveva detto nulla di compromettente. Visto? Stava diventando bravo a fixare i bug. Soddisfatto di sé stesso, gli rivolse un sorriso più convinto. «ora io e Eit ci facciamo una chiacchierata» indicò il condizionatore. Perché Eit? Perché a) Eit, condizionatore caaaasa –semi cit b) era biondo e non particolarmente intelligente, come aveva notato facendoci qualche chiacchierata.
    A buon intenditore, poco ihihih.
    «allora noi andiamo, se hai bisogno di qualcosa chiamami! QUALUNQUE COSA: una tazza di tè, dei biscotti, del salmone affumicato, una teiera, un thermos, un temperino, un attizzatoio… qualunque, okay? CIAO DONNIE buon lavoro! Tup, saluta zio Donnie» Le osservò mentre uscivano dalla sala macchine, lasciandolo solo con quel basso ronzio soffocato.
    Solo in quel momento, Donald si concesse di respirare. Di farlo sul serio, con la quiete pacata che provava solamente quand’era in compagnia di Dare, il tostapane, o Polgy. Quand’era da solo, e non aveva altri metri di parametro, andava tutto bene.
    Non è normale, direte voi; ma per Donnie, era ciò che più si avvicinava ad esserlo.

    houston i have so many problems
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    Edited by the w a t t guy - 15/1/2017, 02:10
     
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  2. [pali]noia
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    Di solito, Neil non si sarebbe preoccupato per Donald Armstrong, non più di quanto facesse normalmente: era impossibile, per lui come per qualsiasi altra persona che conoscesse un minimo l’elettrocineta, non essere in pensiero per il ragazzo in qualsiasi momento della giornata, costantemente, consapevole che la sua inadeguatezza verso il mondo esterno l’avrebbe messo nei guai. Se solo il suddetto non si fosse, per l’appunto, già ritrovato in situazioni poco piacevoli, sarebbe stato tutto nella norma. Il solito Donnie, alla fine, quello che un giorno sì e uno no usciva dalla propria camera con un nuovo problema astrofisico che avrebbe causato problemi all’intera umanità, fermamente convinto delle proprie supposizioni. Ma era diverso. L’aveva seguito con lo sguardo, quando repentino si era alzato dalla propria postazione nell’aula di Henderson, raggiungendo prima l’assistente per poi uscire. Tuttavia, per quanto l’idea di seguirlo aveva sin dal principio sfiorato la mente del biondo –cazzo, lo era andato a cercare in capo al mondo, quasi rimettendoci la sanità mentale e la pelle, non aveva intenzione di andarlo a recuperare perché altri psicopatici avevano ben deciso di catturarlo-, aveva deciso di restare in classe. Certo, per dargli i suoi spazi e quel che vi pare, ma non era nell’indole dell’Armstrong perdersi una lezione, per nessuna ragione al mondo. Aveva delle priorità nella vita, e tra queste, senza dubbio alcuno, v’era lo studio di qualsiasi cosa potesse essergli utile: quel mondo, sia chiaro da subito, era per il criocineta un puzzle con diversi pezzi mancanti. Nuovo, e pieno di storie alle quali non aveva mai osato credere e alle quali, in realtà, faticava a credere tutt’ora, nonostante fosse da due mesi e mezzo coinvolto in certe dinamiche. Insomma, non poteva permettersi di perdere quelle ore dietro al fratello; per lui, aveva ritenuto, e per le sue numerose paturnie, avrebbe avuto tempo in seguito. Tanto, dove voleva andare? Viveva con lui, e se a casa non voleva andare il massimo che poteva fare era restare al Quartier Generale, ove comunque anch’egli aveva accesso. Non aveva scampo, detta in termini semplicistici.
    «passo io a prendere Tup, devo passare comunque al Quartier Generale» decise sottovoce, alzandosi una volta che il professore dette loro la libera uscita e rivolgendo un mezzo sorriso alla Jackson. «ti occupi te dell’altro bambino, vero?» Ogni riferimento a cose o Withpotatoes reali è puramente non casuale. «fai meno lo stronzo, Armstrong, tu non sei meglio di lui» era in momenti come quelli, che Neil si chiedeva cosa lo avesse affascinato di Delilah alcuni anni addietro. Non era mai stata il tipo dello scozzese, la mora, e mai sarebbe rientrata nei suoi canoni; eppure, ora avevano addirittura una famiglia. Roba da matti. «sì che lo sono»

    Il sorriso di Neil Armstrong si fece, se possibile, più evidente mentre le mani paffute di Tupperware andavano tastando i fogli ben disposti sul tavolo di lavoro, una risata sdentata a permeare la stanza già satura di voci adulte; non poteva allontanarsi davvero molto, tenuta sulle gambe del criocineta, eppure sembrava non importarle, intenta a raggiungere pezzi di carta ancora più lontani, cercando di afferrarli tra le piccole dita per analizzarli –giusto un paio di secondi, prima che questi per lei perdessero ogni tipo di attrattiva e venissero lasciati disordinatamente sulla superficie levigata. Un comportamento, quello della bambina, che in altri momenti, in altre vite, avrebbe infastidito a tal punto l’uomo da portarlo ad abbandonarla in qualche sgabuzzino al buio per ore. Così, tanto per vedere se la volta successiva si sarebbe azzardata a mettere a soqquadro file su file di appunti ribelli come se fossero pezzi di Lego lasciati inermi su un morbido tappeto di spugna. Eppure, le permetteva di farlo, soprattutto spinto da uno sconfinato piacere nel vedere il resto degli strateghi della Resistenza sull’orlo di una crisi di nervi mentre il loro duro lavoro veniva soggiogato alla volontà di una ragazzina di tre anni, il cui unico intento era quello di curiosare in giro, scoprendo cose che non avrebbe mai capito veramente. Che padre sarebbe stato se le avesse impedito di interagire con il mondo che la circondava? Poi, era ancora troppo presto, secondo la sua modesta opinione, per sgridarla per piccolezze simili. «Armstrong» Non si premurò, lo scozzese, di alzare il capo verso il collega che, impertinente, cercava di distogliere la sua attenzioni dalle gesta di Tup. Se avesse scordato, il criocineta, di essere lì in veste di capo degli strateghi? Ovviamente no, ma avevano deciso di chiamarlo per una riunione dopo che era uscito da una lezione e che, al Quartier Generale, ci era passato solo per riprendere sua figlia; capitelo, se di stare lì non ne aveva voglia alcuna. L’unica cosa che fece, ancora il sorriso sornione sulle labbra, immutato da pochi attimi prima, fu sporgersi in avanti, attento a non far movimenti bruschi con la bambina in braccio –Neil, come Lele, non ha ancora ben chiare le attitudini dei bambini di tre anni-, afferrando uno dei fascicoli tanto agognati dalla biondina, porgendoglielo in seguito. Per quanto gli riguardava, avrebbe potuto benissimo continuare in quel modo, tentato in aggiunta di chiedere a qualcuno –probabilmente ad Idem, era così adorabilmente disponibile!- di portare una scatola di colori così da farla divertire ancor di più, scarabbocchiando inutili cerchi e linee astratte su tutte le strategie della stanza. «lo sai perché sei qui, vero?» «a volte mi chiedo se, invece, so perché tu sei qui, Roger» rispose, alzando finalmente il capo, le labbra piegate in una curva carica di sarcasmo. , era l’ultimo arrivato e , era un babbano: capiva, davvero!, la reticenza da parte di molti individui di quella comunità nei suoi confronti, ma se le alte sfere avevano deciso che era in grado di ricoprire quel ruolo, tanto gli bastava. «e non trovo mai una risposta soddisfacente» sospirò, vagamente intristito dalla sua stessa affermazione. Non lo pensava davvero; gli stava sul cazzo, vero, ma quello era un altro discorso, non lo sopportava dal momento stesso in cui aveva messo piede nella sede della Resistenza, ma Neil sapeva essere professionale e riconoscergli i dovuti meriti –quando non faceva lo stronzo. «Armstrong, sul serio, la questione è delicata» «quanto delicata chiese, nascondendo nel gesto di riavvicinare la figlia al petto un appunto di preoccupazione nello sguardo ceruleo, il sorriso leggermente meno radioso. «abbastanza da richiedere una riunione straordinaria, non credi?» Alzò una mano, intimandogli di tacere prima di continuare. Perché, ormai, sapeva l’avrebbe fatto. «se è davvero così urgente come dici, sarebbe stato opportuno iniziare il discorso prima una volta che avevo messo piede qui dentro, senza far aspettare tutti quanti...» iniziò, portando lo sguardo all’orologio a parete (#qualeorologio #qualeparete) «quindici minuti buoni. Non credi? Avanti, aggiornaci» lo invitò, con un cenno della mano, ad esporre i fatti, mentre la bionda in grembo si dimenava, vogliosa di scendere dalle sue gambe e di muoversi liberamente nella stanza. La lasciò scendere, dedicando l’attenzione necessaria al lavoro da svolgere. «una spia al Ministero ci ha riferito che un gruppo di Segugi crede di aver trovato un nido di ribelli dislocati nei pressi di Plymouth» «ed è vero?» Temendo già la risposta affermativa, ancor prima che il ribelle potesse annuire confermando la propria tesi il biondo prese ad avvicinare i vari fascicoli, cercando di studiare quanto più velocemente possibile gli appunti su di essi riportati. Informazioni utili, senza dubbio, ma che non facevano al caso loro: di tutto, aveva solo potuto apprendere che non era stato conveniente avvicinarsi al luogo per avvertire gli insorgenti. Troppo rischioso, si sarebbero messi troppo in evidenza materializzandosi fuori dal raggio delle protezioni anti-smaterializzazione. Ma non v’erano proposte in merito; probabilmente nella fretta che li aveva spinti a radunarsi non c’era stato il tempo di improvvisare un piano. Alzò lo sguardo sull'attuale sostituto di Patrick Howe, generale dei guerriglieri e sempre presente in situazioni del genere, rivolgendosi unicamente a lui. «quanti uomini riesci a radunare nel giro di trenta minuti?» «forse una quindicina, massimo venti ragazzi» Erano pochi, decisamente pochi per l’idea che aveva lo stratega, ma non avevano molte altre scelte. Arrangiarsi, all’Armstrong, non era mai piaciuto particolarmente, ma necessità fa virtù. «è rischioso, ma confido che i nostri guerriglieri siano all’altezza del compito» iniziò, girando un foglio scritto per metà e facendosi passare una penna (#dachi). «potremmo avere più tempo, la nostra spia può rallentare la spedizione dei Pavor» sancì Roger, guadagnandosi un punto stima sulla tabella di Neil. «meglio. Due gruppi, uno qui e uno qui» indicò, sul foglio, due località nei pressi di Plymouth: Truro e Torbay. «dovranno scatenare un’insurrezione: non mi interessa il motivo, l’importante è non coinvolgere civili. Cercate punti validi dove attaccare –case di ministeriali, monumenti, quello che più ritenete opportuno-, fate casino. Sono due punti abbastanza distanti dalla base dei ribelli, ma non troppo da far pensare ad un depistaggio» alzò lo sguardo, un secondo soltanto, per vedere se qualcuno aveva di che domandare al riguardo. Sperava che nessuno si sarebbe opposto: sapeva che non era il migliore dei piani, ma il tempo stringeva e perdere una base era troppo pericoloso. «inizieranno a distanza di quindici minuti gli uni dagli altri, così da lasciare che si insinui il dubbio di un terzo attentato; invieranno abbastanza uomini da averne in minor quantità per quelli di Plymouth, dove un terzo squadrone andrà ad avvertire gli altri» «e se nel frattempo arrivassero altri Mangiamorte?» «combatteranno» rispose con semplicità, sentendo alcuni bisbigli di sottofondo. Accettabili, anche lui sarebbe stato contrario a quel punto. «i gruppi di Truro e Torbay dovranno resistere fino all’arrivo dei Pavor, poi fuggire a piedi verso un rifugio fittizio nei pressi del luogo assaltato. Una volta che li avranno abbastanza depistati, si smaterializzeranno a Plymouth, soccorrendo gli altri» «è troppo rischioso» Si alzò, Neil Armstrong, recuperando la figlia che era andata a molestare la giacca di un ribelle che sporgeva dalla sedia. «se avete altre idee, sarò felice di sostituire la mia con la vostra» rispose sincero, puntando lo sguardo sull’unico guerrigliere presente. «non sono così furbi, i Mangiamorte, e ci sottovalutano: crederanno che siamo noi gli idioti, a scappare da una parte all’altra come una mandria di bufali impazziti wat. Lasciamoglielo credere e salviamo quei coglioni che si sono fatti scoprire» E, così com’era entrato, Neil Armstrong uscì dalla Sala Riunioni degli Strateghi. Camminando.
    Morgan santissimo, perché la gente doveva rompere così tanto il cazzo al nuovo arrivato? Si era ambientato benissimo, ed in pochissimo tempo: le divergenze c’erano state sin da subito, ma era consapevole il biondo che con un carattere simile quelle non potevano mancare. Non aveva nemmeno avuto il tempo di chiedere ad Idem se la bambina fosse stata tranquilla tutto quel tempo, se le avesse in qualche modo dato fastidio o qualsiasi altra cosa, che gli strateghi l’avevano appellato. Eppure, lì, voleva solo fare due cose l’Armstrong: riprendersi Tupperware e cercare Donnie. Non era poi chiedere tanto, ed in altre occasioni gli avrebbe richiesto un solo quarto d’ora del suo tempo. Invece.
    Invece che cazzo, pure gli incidenti a piedi nella sala d’ingresso (#quale) del QG? In momenti simili, credeva nelle teorie della cospirazione del fratello. Fortuna che, a scontrarsi con lui, era stata la Chipmunks. Perché fortuna? Non lo so, ma secondo Neil era quel tipo di ragazza in grado di fare amicizia con qualsiasi persona, e che vivendo in quel posto conosceva ogni anfratto della costruzione, e tutti i luoghi preferiti dei suoi amici. «Erin!» E, semplicemente, non sapeva a chi chiedere. «scusami, perdonami, non volevo» «Erin» «ero distratta! Sì, lo so, come al solito, ma non l’ho fatto apposta ad investirti! Si dice investire se entrambi sono a piedi?» «Erin…» <i>«non vi siete fatti nulla, vero? Tu beh, al massimo mi faccio male io. Tup? Tutto bene?» «Erin! Tranquilla, non è morto nessuno. Hai visto Donnie?» chiese, calmandola definitivamente, mentre la biondina si avvicinava impertinente alla sedicenne, strattonando la mano di Neil ed allungando la propria, libera, verso la ragazza completamente sovrappensiero. «l’ho visto in sala macchine un po’ di tempo fa, credo sia ancora lì!» La ascoltò, ma sul momento non le rispose, osservando invece la figlia: non era il suo solito fare molesto, quello con il quale reclamava l’attenzione della Chipmunks. Era curiosa, sì, ma in un modo che il biondo non aveva ancora visto negli occhi chiari della ragazzina. «grazie, gentilissima» Alzò lo sguardo celeste, fissandosi negli occhi grigi di lei, sorridente. «giusto un’ultima informazione… dov’è la sala macchine?»

    Vedere il fratello così preso in qualcosa non era per Neil una novità: avrebbe potuto saccheggiargli l’intera camera più volte senza che questo se ne accorgesse, tanto era l’impegno che prestava a qualsiasi cosa avesse il suo sguardo puntato addosso. Lasciò che fosse Tupperware la prima ad entrare nella stanza colma di macchinari, senza preoccuparsi più di tanto di pericoli che potevano essere presenti in quei metri quadri: considerata la paranoia di Donnie, questo aveva probabilmente già provveduto ad allontanare oggetti particolarmente pericolosi nel raggio di dieci metri. «Ehi» Dubitava l’avesse sentito, ma era inevitabile che una volta che la bambina l’avesse raggiunto questo alzasse lo sguardo, incontrandolo. Aveva scordato, in tutto quel tempo, cosa significasse conversare con lui; avrebbe potuto negarlo quanto voleva, elevandosi costantemente all’idea che ormai aveva del più grande, il fratello menefreghista e stronzo che, ogni volta che era possibile, lo trattava di merda, ma tutte le volte che preferiva allontanarsi da lui, anche sotto lo stesso tetto, faceva un po’ male. Quel male fastidioso, e che il biondo non capiva. Nemmeno si chiese se era stato così vile negli anni da meritarsi quel trattamento: non si pentiva, idealmente l’aveva fatto per lui. Solo che, Donald, non riusciva a comprenderlo. «avresti dovuto restare a lezione, è stata divertente e se gli Ajoy avessero davvero una gioia sarebbe più bella ancora #perdire» asserì, serio in volto per quanto cercasse di sforzare un sorriso.
    neil armstrong
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    Edited by [pali]noia - 26/9/2016, 14:25
     
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    Tutto ciò che non riusciva ad esprimere con le persone, Donald lo metteva nel lavoro manuale. Le conversazioni mancate o spente in un sorriso di circostanza davanti a chicchessia divenivano, quando fra le mani teneva un qualche attrezzo, chiacchierate dall’alto contenuto filosofico sulla vita: se come interazione sociale fossero valsi i complimenti che orgoglioso rivolgeva alla propria chiave inglese, probabilmente sarebbe stato ospite d’onore a tutte le feste del mondo magico. Al contrario del resto del genere umano, Donnie non era ciò che era: era ciò che faceva. Sin dalla tenera età non si era mai limitato ad aggiustare qualcosa di rotto, trovando il meccanismo inceppato e di conseguenza la soluzione per risolvere il problema; non era mai stato diretto e razionale come suo fratello, che piuttosto cercava il manuale d’istruzione in cirillico e lo traduceva pur di capire dove fosse l’errore, e più rapidamente di lui era in grado di sistemarlo. Lui studiava ogni pezzo come lo vedesse per la prima volta, aprendo qualunque macchinario per capirne il funzionamento senza alcun manuale. Cercava, con lentezza e meticolosità degna dei miglior ossessivi compulsivi, di entrare nell’oggetto, paragonando ogni rotella ad una parte del corpo umano, respirando il suo ossigeno come olio da motore. Era capace di smontarlo del tutto solamente per rimontarlo come secondo lui aveva più senso, e non riusciva a fermarsi solamente perché aveva risolto il bug iniziale. Donnie doveva migliorarlo, improntarlo in una nuova direzione. Quando qualcosa passava fra le sue mani, ne usciva completamente ristrutturato, originale ed inimitabile, ormai differente da ciò che era stato. Non c’era serie, non c’era fabbrica: c’era qualcosa di nuovo in tutto ciò che c’era di vecchio. C’era un Donald Armstrong, affascinato dai dispositivi di elaborazione più di quanto lo fosse dei suoi compagni di scuola; c’era un ragazzo che aveva fatto delle proprie capacità un’arte unica, naturale quanto l’aprire il frigorifero per prendere la brocca d’acqua fresca in un’afosa giornata estiva. E non voleva meriti, non voleva riconoscimenti.
    Voleva solo che funzionasse.
    Era l’unica cosa che aveva sempre voluto.
    Era seduto per terra a gambe incrociate da quello che poteva essere un minuto o vent’anni di vita, una piccola scatola nera fra le mani. Se la portava dinnanzi al viso e la studiava con le palpebre socchiuse, le labbra strette fra loro nella massima espressione di concentrazione, quindi la riponeva al suolo e prendeva dalla scatola degli attrezzi un cacciavite, o un paio di pinze, ed intrecciava i fili colorati come uno stilista avrebbe potuto annodare nastri di seta. Non pensava, l’Armstrong, mentre le sottili dita da pianista si arrovellavano attorno al complesso centralino del condizionatore; non aveva alcun bisogno di riflettere su ciò che aveva appreso in materia, o di rimembrare le nozioni lette con interesse su volumi che non venivano più sfogliati neanche da chi li aveva scritti: Donnie agiva d’impulso, un impulso ragionevole e pragmatico che non aveva bisogno di parole per avere senso – non per lui, mai per lui. Creativo e fantasioso, incapace di arrivare al punto B dal punto A: l’alfabeto, l’elettrocineta, lo faceva tutto – e da C passava a Z, tornando poi alla V, sfiorando la R ed ignorando la G. Seguiva percorsi che altri non erano in grado di vedere semplicemente perché in grado di prestare attenzione. Prese un monitor di un vecchio orologio digitale dalla cassetta, ed un termometro che teneva sempre a portata di mano per le emergenze (aka ogni volta che aveva freddo, e di conseguenza temeva di essersi preso la meningite); con un pezzo di nastro isolante, legò i due oggetti fra loro, aprendo poi il retro di ambedue per collegare fili sottili quanto ali di libellula da un computerino all’altro, i polpastrelli a sfiorarli con la delicatezza che una madre avrebbe riserbato al capo della propria figlia il primo giorno di scuola.
    La sensazione lenta e pigra di riemergere dalle profondità di un lago, la stessa che si provava dopo essersi assentati per un lungo tempo nel labirinto della propria mente, lo lambì quando percepì, più che vide o sentì, qualcosa al proprio fianco. Alzò gli occhi fissando la parete di fronte a sé, mentre le orecchie tornavano a compiere il loro dovere rendendolo partecipe dell’ambiente circostante – i passi rapidi nel corridoio, il vociare delle altre stanze, le risate atone che rimbalzavano sui muri. Dovette sbattere le ciglia un paio di volte prima che il mondo tornasse ad avere una forma concreta anche al di fuori delle proprie dita, contorni che non si era accorto essere sfocati divenire nuovamente nitidi. Aggrottò le sopracciglia confuso nell’osservare i tratti morbidi della bambina dai capelli color miele, familiare ma del tutto aliena sotto lo sguardo distratto di Donald. «tup» esordì semplicemente, senza neanche rendersi conto di aver parlato. Fu per puro istinto che pronunciò il suo nome, ma non la riconobbe finchè anche l’aria nei propri polmoni non tornò ad essere reale e respirare divenne l’atto di un essere umano senziente. «non posso» mugugnò con il cuore ancora fra gli ingranaggi, mentre gli occhi si soffermavano sul sorriso fragile dell’umana: se da una parte non poteva rinunciare a quello che stava facendo, dall’altra non poteva rischiare che un cucciolo d’uomo girasse da solo per quei meandri oscuri e tumultuosi (?) del quartier generale, con il rischio che qualcuno potesse schiacciarla. E voi direte, perché avrebbero dovuto? Sentite, Donnie era cresciuto guardando Tesoro mi si sono ristretti i ragazzi, il suo era un timore lecito. «avresti dovuto restare a lezione, è stata divertente» «LARRY E SERGEY» e per chi se lo stesse chiedendo, , i fondatori di Google erano la sua versione della santa trinità (e sì, il terzo membro era il motore di ricerca stesso): se avete problemi riguardo alle sue imprecazioni, siete pregati di rivolgervi ai suoi Legali.
    Ossequi.
    Impallidì mentre una scintilla guizzava dalle dita ed il computerino scivolava a terra, frenato dal rompersi in mille pezzi solamente dalle sue gambe. Arretrò rapidamente verso il muro per scaricare l’elettricità che gli drizzava i peli sulle braccia, e per allontanarsi quanto possibile dalla bimba. Con il cuore in gola e la bocca improvvisamente secca, Donnie rivolse un paio d’occhi troppo grandi e troppo blu su Neil Armstrong, aka suo fratello secondo diverse, ma non troppe, scuole di pensiero (insomma, solo mamma ne era convinta). «io…ma ti… ma che…dannazione, NEIL» balbettò agitando le mani in gesti casuali di fronte a sé, per poi stringersi nelle spalle e lasciar ricadere le braccia lungo i fianchi. «LO SAI CHE SONO FRAGILE» lo accusò puntandogli l’indice contro, mentre il suo organismo cercava di non andare in corto circuito tornando ad un ritmo di (semi) quiete. Deglutì poggiando la schiena al muro, gli occhi chiusi ed il mento infossato nel collo. «pensavo…»fossi ancora a lezione, e io potessi tornare a casa prima di te in modo da evitarti anche qua, ma non lo disse. Scosse il capo massaggiandosi la radice del naso, la lingua ad umettare le labbra. «non importa» non importava mai, e lo faceva sempre. Con il mignolo si grattò nervosamente il sopracciglio sinistro, un’occhiata di sottecchi verso Neil. «e le lezioni di Nate non sono mai divertenti, sono tentativi neanche troppo sottili di ucciderci» bofonchiò, riportando velocemente l’attenzione alle proprie mani. «non…» mi trovo bene con le persone. I lavori di squadra mi confondono. E la stanza si era fatta improvvisamente troppo affollata e stretta e si stava chiudendo su di me. Strinse le labbra fra loro, le dita a ticchettare sul pavimento come avrebbero fatto su una tastiera per eseguire una stringa di dati. «mal d’auto» si giustificò infine, annuendo fra sé per poi tornare a squadrare il profilo di suo fratello.
    Ma quale auto, Donnie.
    Quale auto.
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  4. [pali]noia
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    Neil Armstrong era sempre stato il primo della classe, di qualunque classe - indifferente se si trattasse di algebra o di storia, di letteratura inglese o di scienze applicate; indifferente, se si trattasse del college, della scuola superiore o dei nuovi corsi ad Hogwarts. Si era sempre, ed in una maniera terribilmente assidua, applicato al massimo in ogni esercizio postogli dinnanzi, rasentando livelli di ossessione raramente visti prima nella ricerca della perfezione alla quale aveva ambito sin da quando era un bambino, e sostanzialmente perché quello che aveva sempre desiderato era essere il primo della classe. Quello che alzava la mano, trattenendo la classe qualche altro minuto solo perché aveva fame di conoscenza in più, di chiarimenti, di spiegazioni che non erano state fornite; quello che tutti, un po’ e non così segretamente, odiavano per essere così spocchiosamente superiore, consapevole di essere una spanna al di sopra dei propri coetanei; quello che si guadagnava la fama da “secchione”, escluso dalle cerchie e felice d’esserlo, dedito solamente al perseguimento dei propri obiettivi. Sempre, si era imposto di saperne più degli altri, di capire più di quanto non facesse il resto della popolazione: amava, l’Armstrong, credersi migliore, anche qualora fosse perfettamente consapevole del fatto ch’egli, migliore, non lo era affatto. Magra consolazione, la sua, quella di poter fingere d’esserlo - più indottrinato, più intelligente, più facoltoso -, sapendo che tanto a nessuno interessava realmente quale fosse la verità dei fatti. Aveva indubbiamente un quantitativo maggiore di conoscenze rispetto all’inglese medio, questo è vero ed innegabile, ma nel suo continuo desiderio di volersi elevare alla perfezione sapeva di non averla ancora raggiunta: era una strada che perseguiva da ormai quasi vent’anni, e nel caso avesse solcato la linea di arrivo se ne sarebbe accorto, piantando una bandiera laddove aveva superato il proprio traguardo vittorioso.
    Si vantava, il criocineta, di poter conoscere qualsiasi cosa, di poterne capire la maggior parte e di poter tentare un approccio scientifico ad ogni difficoltà al fine di risolverla in maniera egregia; l’unica cosa che restava un mistero per Neil, e che non aveva problemi ad ammettere che gli causava difficoltà di comprendonio, era suo fratello. Lui e le sue passioni, le sue manie, il suo essere così Donnie. L’aveva sempre osservato, anche e soprattutto quando l’altro non sospettava affatto della sua presenza alle proprie spalle; l’aveva studiato, quasi, rimanendo con gli occhi chiari ad ammirare con sguardo critico i suoi atteggiamenti, i suoi movimenti, ma soprattutto il suo applicarsi in progetti che, apparentemente, non avevano alcuno scopo, fini soltanto a se stessi. Non si era mai azzardato, il biondo, a chiedere all’altro cosa stesse facendo: per il ventottenne, interessato a qualsiasi cosa possibile ed immaginabile, quando non propriamente esperto almeno curioso di più argomenti di quanti realmente non gliene interessassero, era facilmente intuibile la titanica impresa nella quale Donald si era andato ad affaccendare – che fosse la banale riparazione di un laptop all’invenzione stessa di qualcosa di nuovo, qualcosa che probabilmente non si era mai visto prima e che magari non avrebbe nemmeno funzionato. Non era affar suo la meccanica, l’ingegneria, o qualsiasi cosa con la quale l’elettrocineta andava trafficando di giorno in giorno: lo scozzese era più per la biologia, la chimica, la genetica, l’astronomia, e non aveva mai davvero concepito la sfrenata passione del più giovane per tali materie piuttosto che per quelle che catturavano la propria attenzione. Per lui, non avevano alcun fascino: erano utili, quello senza ombra di dubbio, eppure non vedeva niente di davvero entusiasmante nello smontare e ricostruire vecchi marchingegni, o studiare la base per la realizzazione di uno nuovo; pertanto, non si era mai davvero interessato a cosa Donnie facesse. Soprattutto, considerando qual era sempre stato il proprio sogno per il fratello, incurante del fatto che magari, a questo, dei progetti del maggiore non importasse alcunché: avrebbe voluto, come voleva invero anche allora, che il più piccolo seguisse le sue orme, che si impegnasse nei progetti che illuminavano le iridi chiare del biochimico, che le loro ambizioni trovassero un punto d’incontro e che, da lì, procedessero nella stessa direzione. Aveva sempre voluto tutto, Neil Armstrong: voleva le stelle, voleva toccare il cielo con la punta delle dita, voleva arrivare più vicino a quella magnificenza che si rispecchiava negli occhi di chiunque, di notte, alzava lo sguardo ad una volta luminosa e lontana; voleva che Donald fosse come lui, che rasentasse la perfezione, nonostante giorno dopo giorno, da vent’anni a quella parte, si accorgeva che di lui il fratello avesse ben poco.
    Quello che gli interessava davvero, di ciò che l’elettrocineta faceva, era il come. Prima di interromperlo, come puntualmente faceva ogni qualvolta la porta socchiusa lasciava al maggiore dei due la possibilità di entrare nella sua stanza anche - e soprattutto - quando non era richiesta la sua presenza, certo che il ragazzo non avrebbe udito alcun suono restava fermo qualche secondo con le spalle poggiate contro lo stipite della porta, o direttamente dietro il ragazzo, in silente contemplazione del lavoro che andava svolgendo.
    Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, e soprattutto non in presenza di Donnie, ma Neil Armstrong aveva sempre ammirato suo fratello – lui e quello che faceva, l’impegno astraente che metteva in qualsiasi opera lo attraeva, inglobandolo nel suo piccolo mondo personale ed escludendolo da qualsiasi altro molesto rumore proveniente dall’esterno di quella campana di vetro. Quando lo faceva, non gli importava nemmeno più quanto fossero diversi tra loro: era uno spettacolo per gli occhi, qualcosa che lasciava un sorriso a piegare le labbra inconsciamente, che faceva rimandare il momento della rottura di palle di qualche altro minuto; era qualcosa che lo coinvolgeva in prima persona, e che gli faceva pensare a quanto, diversi, non lo fossero poi così tanto.
    Anche in quel momento, soprattutto in quel momento, sentiva di provare una forte ammirazione verso il ragazzo: più distante, più estraneo - a se stesso, al resto del mondo -, eppure ancora più convinto nel rendere l’irrealizzabile realizzabile, più certo di poter funzionare qualcosa seppure chiunque altro avesse detto che in quello che stava facendo, di funzionante, non c’era alcunché.
    Sorrise distrattamente, mentre Tupperware si avvicinava ciondolante allo zio ed i due interagivano: avrebbe dovuto essere una cosa normale, qualcosa di cui non stupirsi né sorridere a meno che la vicenda non comportasse risvolti divertenti di cui essere ilari; tuttavia, vedere suo fratello avere un’interazione umana con un altro essere umano - e non con macchinette del caffè o cacciaviti -, era sempre un’emozione non da poco. Si prese il suo tempo, godendosi quel bizzarro ed insolito quadretto, prima di far prendere un colpo a suo fratello: prevedibile, ma sempre esilarante. «io… ma ti… ma che… dannazione, NEIL» Aw, le sue parole preferite: i soliti, balbettanti, pochi monosillabi che gli rivolgeva sempre. Si avvicinò alla figlia senza irrigidire la piega delle labbra, abbassandosi per prenderla tra le braccia ed issarla di peso: per quanto avesse voluto farlo passare per un gesto spassionato e naturale, non poteva negare che vi fosse un po’ di sincera paura nell’intenzione. Si fidava di Donald - quanto bastava, insomma -, e sapeva ch’egli era in grado di gestire abbastanza il proprio potere per non mettere a repentaglio la salute della bambina, ma sapeva anche quanto fosse suscettibile e quelle scintille a fior di pelle che aveva intravisto, beh, l’avevano spaventato. Si stava affezionando troppo a quel tenero ammasso di carne, ossa e muscoli da permettere che venisse elettrizzato. «LO SAI CHE SONO FRAGILE» «Sì, lo so.» ammise semplicemente ed un po’ costernato, come se per l’altro non fosse ovvio che aveva voluto fargli drizzare i peli sulle braccia di proposito. Gli piaceva, stuzzicare il fratello: era più forte di lui, glielo rendeva davvero troppo facile. «pensavo… non importa» corrugò le sopracciglia, cullando Tupp svogliatamente, un movimento ormai entrato nell’abitudinario dell’Armstrong. Si era imparato, dopo vent’anni, a non chiedersi più, né a chiedere all’altro, cosa pensasse: probabilmente, nulla di davvero importante come andava professando; sicuramente, qualcosa che Neil avrebbe dovuto sentire – perché, andiamo!, che avrebbe “voluto” sentire era molto opinabile. «e le lezioni di Nate non sono mai divertenti, sono tentativi neanche troppo sottili di ucciderci» «Non saprei, ho assistito a davvero poche lezioni.» ammise, facendosi più vicino al condizionatore lasciato a terra, lo sguardo attento ad osservare la centralina dissezionata. «Abbiamo fatto una specie di gioco: c’erano soldati, guardiani…» alzò le iridi azzurre, puntandole in quelle blu del fratello, negli occhi riflessa una nota di malizioso divertimento, «bombe Sì, ok, forse non era il modo migliore per tranquillizzarlo riguardo alle lezioni dell’Henderson; indovinate a chi non interessava?
    A Neil Armstrong, non interessava.
    «mal d’auto»
    Mal d’auto.
    Meh. Scosse la testa, tornando a rivolgere la propria attenzione al condizionatore. La cinetosi, da che mondo è mondo, non veniva stando seduti in un’aula che non era affatto in movimento. Le opzioni erano due: o suo fratello soffriva di una forma di epilessia particolare, oppure era una cazzata. Non sapeva quale escludere per prima. «Sono sicuro che ci sia qualcuno con qualche antiemetico, in giro per il Quartier Generale,» rispose invece, assecondando l’assurdità del fratello, ponendogli come sempre una soluzione sensata ad un problema che, di sensato, non aveva alcunché: era la sua arma, la sapienza, ancora prima di aver avuto dalla sua parte poteri magici dai dubbi potenziali. «o magari nei laboratori hanno qualche provetta di atropina da somministrarti» asserì piatto, nonostante al momento Donnie sembrava essere a posto - certo, se si trascurava un po’ tutto ciò che lo faceva essere Donald e che faceva sembrare che nulla fosse a posto. «Cosa ti ha fatto di male questo condizionatore?», chiese semplicemente, chinando di nuovo lo sguardo sull’operato appena interrotto. Non si era mai interessato, Neil Armstrong, al lavoro del fratello, dicendosi che non era affar suo, ripetendosi che l’unica cosa che gli interessava era il come egli procedesse. Voleva solo capire, però – capire cosa lo spingesse, cosa facesse. Capire chi fosse suo fratello, dopo vent’anni passati a volerlo plasmare a propria immagine e somiglianza.
    neil armstrong
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    C’era chi si interessava alla fotografia, chi collezionava francobolli; qualcuno perfino accendini e cucchiai, anche se a Donnie era sempre sfuggito il fascino di posate raccolte nei vari luoghi del mondo – forse, perché i vari luoghi del mondo non li aveva mai visti. C’era chi faceva free climbing, chi nuotava, chi alzava il volume dello stereo e cantava con la testa sporta fuori dal finestrino. Il genere umano, da quando aveva iniziato ad esistere, aveva sviluppato centinaia, migliaia di hobby, modi che permettevano di soffocare i tempi morti fra un’attività e l’altra. Qualcosa che ammaliava, che piaceva, e che spingeva a rifarlo.
    Ora. Fra tutti gli svaghi esistenti, e come già detto erano infinitamente tanti, era per Donnie un mistero cosa avesse spinto Neil Armstrong, vent’anni prima, a scegliere quello di tormentare suo fratello. Non poteva cucinare? Appassionarsi alla moto GP? Dedicarsi alla Formula 1 come i suoi coetanei? wat No, sarebbe stato troppo bello, per l’Armstrong minore: Neil era appassionato di stelle, di scienza, e di trovare sempre nuovi modi per deteriorare la già labile pazienza di Donnie, nonché per sottolineare l’incapacità di quest’ultimo a vivere come un uomo degno di tale nome – e con uomo, intendo essere umano. Lo osservò a sopracciglia inarcate, gli occhi blu spalancati e la pelle a divenire più bianca mano a mano che il fratello andava narrando le basi della lezione: quando arrivò a bombe, si trattenne dal sussultare solamente perché fra le mani reggeva oggetti infinitamente delicati, ed avrebbe preferito non romperli a causa della propria suscettibilità. In compenso, era disposto a rischiare se avesse deciso di usarli come oggetto contundente: una vera fortuna, per Neil, che Donnie non fosse un ragazzo violento. «Sono sicuro che ci sia qualcuno con qualche antiemetico, in giro per il Quartier Generale, o magari nei laboratori hanno qualche provetta di atropina da somministrarti» Sul serio? Era sempre così… logico. Almeno in quello, in realtà, non erano troppo diversi: la differenza fra loro, era che dove Donnie avrebbe ignorato il problema con una scrollata di spalle, Neil si intestardiva a trovare una soluzione – specialmente se poteva intingerla d’ironia e sufficienza. Lo osservò in silenzio, sbattendo solamente le ciglia, per secondi che parvero minuti. Aprì la bocca un paio di volte, ma lasciò uscire solamente aria, privo di parole con le quali ribattere al fratello. «non volevo disturbare» esordì infine, corrugando le sopracciglia. Quelle tre parole avrebbero perfettamente potuto riassumere gran parte della vita di Donald Armstrong: non voleva disturbare. Non era mai stata sua intenzione, malgrado sembrasse che il solo venire al mondo avesse recato all’Armstrong maggiore un disturbo. Quel suo essere così particolare, che spesso aveva messo in posizioni scomode i suoi genitori, non era voluto: se fosse stato per Donnie, avrebbe vissuto la sua esistenza senza venire mai a contatto con altri esseri umani, così da escludersi a prescindere la possibilità di deluderli, di infastidire. Così come non voleva irritare gli altri, gradiva che lo stesso trattamento fosse serbato nei suoi confronti: non gli piaceva chi ficcava il naso, chi li obbligava ad essere qualcuno che non si sentiva d’essere. Non tollerava, Donnie, il senso di disagio a cui l’altrui interazione lo obbligava, mettendolo nella posizione di farlo sentire… disadattato. Che, a conti fatti, era proprio ciò che era. Quand’era da solo, però, non se ne rendeva conto – perché avrebbe dovuto? Era il confronto a renderlo consapevole dell’enorme differenza fra lui e gli altri, una normalità alla quale non solo non giungeva, ma non aspirava. Era così assurdo che non fosse interessato a piacere agli altri? Che ritenesse un peso, anziché piacevole, inserirsi in contesti sociali?
    Sì.
    Ma Donald Armstrong, non sapeva essere altrimenti.
    «Cosa ti ha fatto di male questo condizionatore?» Ecco, cosa Donnie non riusciva a digerire. Quelle domande vuote, atte a riempire il silenzio - quelle costrette. Inspirò secco dal naso, chiudendo gli occhi. Quando teneva le palpebre abbassate, poteva fingere che tutto andasse bene; che, ancora, si trovasse nel proprio mondo, una realtà parallela e differente rispetto a quella dove vivevano le altre persone. «ha insultato chewbecca, quindi mi sono sentito in dovere di smontarlo» scosse il capo ed espirò, facendo scivolare lo sguardo dal condizionatore a suo fratello. «secondo te? si è rotto» sottolineò con stizza, allargando le braccia. «come ogni cosa nel mondo magico: sembra saper fare solo questo» rompere gli oggetti, le case.
    Le persone.
    Soprattutto, le persone.
    Si inumidì le labbra, tamburellando poi le dita sul pavimento. Una parte di lui, si sentiva in dovere di spiegare a Neil cosa stesse facendo – nel dettaglio, con tecnicismi che forse, a stento, lui avrebbe compreso- semplicemente per vederne la sua reazione: dopo vent’anni, Donnie ancora s’intestardiva, irrazionalmente, a cercare l’approvazione del fratello maggiore. Che vita di stenti. L’altra, voleva solamente che lo lasciasse in pace.
    Optò per un compromesso.
    «già che ci sono, sto cercando di migliorarlo» sollevò il termometro e l’orologio, senza alzare lo sguardo. «così che possa rendersi conto della temperatura esterna, e possa di conseguenza regolare l’aria fredda o calda da inviare in rapporto al tempo necessario per raggiungere un equilibrio termico» si strinse nelle spalle, mordicchiandosi il labbro inferiore. Quando lasciò cadere gli attrezzi al suolo e si volse completamente verso Neil, si sentì improvvisamente presente, concreto: non era più nel suo mondo, dove aggiustare il condizionatore era priorità; si trovava nell’esistenza terrena che lo vedeva costretto a vivere, non a sopravvivere. E che, in quella vita, implicava la presenza della sua famiglia.
    Perché Neil sarebbe sempre stato la sua famiglia. forse? «non vuoi davvero parlare del condizionatore. Nessuno vuole farlo» il che, ma non lo disse, rattristava molto lo strumento: era come le piante, gli piaceva ascoltare la voce umana – e Beethoven, poi! Vero brodo di giuggiole. Si, aveva la capacità di comunicare con gli elettrodomestici (l’avevate forse dimenticato?), e quelle informazioni gli erano state riferite dal diretto interessato. «non mi piace quando fingi che ti importi. L’ipocrisia non ti sta bene» si strinse nelle spalle, piccato ma onesto: peccava di tante cose, Donnie, ma la falsità non rientrava in categoria. «dimmi cosa vuoi, così possiamo…» tornare a ignorarci come prima? fingere di essere ancora a Glasgow, fra esami da dare e madri iperattive da evitare? «non so, dimmi qualcosa» perchè erano mesi, che Donnie aspettava. Perché era tutta una vita, che attendeva – spiegazioni, motivazioni.
    Imprecazioni ed insulti, se necessari. Ma qualcosa di vero, e di privato della patina atona delle costrizioni: qualcosa di sentito, per una volta.
    Fosse anche un vaffanculo, Donnie: è colpa tua.
    Donald Armstrong si accontentava di maledettamente poco.
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