live like you're going to die (because you are)

run x gemes (x morgan freeman)

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    Mirror mirror on the wall
    Who's the baddest of them all?

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    heidrun ryder crane « girls like me don't last very long »
    weapon ✕ 20 y.o. ✕ 18.06.2016 ✕ mimesis ✕ fucked up ✕ death eater
    Buffo l’effetto causato dall’adrenalina. Heidrun riusciva a percepire ogni granello di polvere sulla pelle, ogni legamento dolorante; riusciva a vedere con chiarezza il petto che si alzava ed abbassava, la vividezza di ogni colore, a sentire il sapore ramato del sangue sul palato. Eppure non riusciva a muovere un muscolo: il cuore in gola, gli occhi verdi fissi sull’uomo a terra. Un peso familiare e fastidioso nella mano, dove il palmo umido stringeva qualcosa. La risata dell’uomo le vibrò nelle ossa, una scarica elettrica poco sotto la pelle a bruciare direttamente nelle vene. «fallo» non era la prima volta che glielo ripeteva, ma Run non ci riusciva. Lo guardava, lo voleva fare, ma non ci riusciva. Aveva creduto per anni di non desiderare altro, l’aveva sognato; era stata un ossessione, una spinta ad aprire gli occhi ogni mattina. Era stato fonte dei sorrisi più sinceri, quelli nascosti nell’ombra perché di allegro non avevano mai avuto nulla. Ma la saliva faticava a scendere, e le labbra non riuscivano a formulare alcuna parola. «fallo» aveva paura? No. Aveva tante cose, ma la paura non rientrava neanche nella top ten. E allora perché, perché Dio, non ci riusciva? Le dita tremavano, lo sguardo continuava a scivolare dalla propria mano all’uomo, gli occhiali spezzati ed un rivolo di sangue a sporcare la curata barba bianca. Fallo, e questa volta non era stato nessuno a dirglielo. Era Run, era sempre Run. Allora, perché? L’uomo continuò a ridere, alzandosi a sedere per poggiare la schiena contro il muro bianco. «fallo» Heidrun chiuse gli occhi, mordendosi l’interno della guancia così forte da lasciarsi sfuggire un gemito. Le sembrava di essere tornata una sedicenne, i pugni a picchiare contro il vetro e nessuno ad aiutarla - nessuno a sentire, nessuno a vedere. Bloccata, prigioniera. Gli anni erano passati, le storie erano cambiate, ma Run era rimasta una prigioniera. Aveva solo altre sbarre, tutto qui. Le ferite bruciavano, ma non quanto l’oggetto stretto nella mano destra: sembrava avere un cuore pulsante, sotto il metallo, che ad ogni respiro le sfiorava con dolcezza i polpastrelli. Razionalmente sapeva che non era così, ma era una sensazione così vivida da far male. Si inumidì le labbra, dimentica di ogni cosa: non sentiva alcun rumore, non vedeva nessun altro, neanche ricordava. C’erano solamente loro, sempre e solo loro. E la mano continuava a tremare, ed il braccio continuava a tremare, e l’intero corpo della Crane pareva scosso da piccoli spasmi. Heidrun Ryder Crane non aveva mai avuto paura di morire. Era sempre stato un dato di fatto per lei, qualcosa a cui aveva semplicemente dovuto abituarsi, come il tè a colazione anziché il caffè. Sapeva che sarebbe successo, e sapeva che sarebbe successo prima piuttosto che poi. Aveva vissuto la sua intera vita in visione di quel momento, sforando ogni limite nella consapevolezza di avere una spada sopra la propria testa. Aveva cercato di legarsi il meno possibile, finendo vittima di quegli stessi fili che aveva giurato non l’avrebbero mai stretta. Aveva abbandonato ogni cosa, ogni persona. Aveva abbandonato sé stessa: Heidrun Milkobitch, Heidrun Harvelle, Heidrun Crane. Era rimasta solo Run, sempre Run. E si era ripromessa che avrebbe smesso, che poteva farcela. E si era detta che forse, anche lei, avrebbe semplicemente potuto avere un futuro come gli altri. Sognare di avere una casa propria, sapete. Perfino una famiglia, una vera, dove invitare Jeremy e Todd per i pranzi di natale. Si era permessa di progettare, si era permessa di crederci. Aveva stretto più amicizie, aveva approfittato di quell’innato carisma per piacere alle persone, non solo per tormentarle: aveva fatto della propria arma una coperta, una fottuta coperta. E ci aveva sperato, Run, che potesse bastare. Che, semplicemente, avrebbe potuto essere così. Non doveva per forza andare così, non doveva per forza andare così.
    Heidrun Ryder Crane non aveva mai avuto paura di morire, prima di allora.
    Ma c’era sempre una prima volta.
    Inspirò, ed i polmoni si ribellarono al semplice atto della respirazione. Ogni volta che incamerava aria, le ferite sembravano riaprirsi, sanguinando nuovamente sul pallido linoleum. Aveva ancora gli occhi chiusi, e pensava. Era difficile credere che la Crane potesse essere una persona seria; era difficile vederla in quel momento, e credere che fosse la stessa ragazza che sfidava Spaco ogni notte a strip poker. Era impossibile riconoscere nei tratti tirati, e d’improvviso adulti, la maliziosa ed allegra Run che riusciva sempre a strappare un briciolo d’amore a chiunque. Che fosse temporaneo, che fosse permanente, non aveva mai avuto importanza: momento o vita, era impossibile non affezionarsi a Run. L’arma di un destino beffardo che si divertiva a strapparla dalle radici ogni volta che queste toccavano qualcosa di vivo, tranciando nello strappo anche brandelli di carne. Le era stato insegnato ad essere così, a far così bene da far male; ed era quel che era ormai, incapace di smettere. Con gli anni aveva solamente cominciato a far male anche a lei, quel taglio netto. Ogni volta, ogni dannata volta. Diventava stancante, sapete. Diventava difficile.
    Così, inspirò. Non aveva mai avuto tempo, Heidrun. La bambina del Limbo, colei che era stata cresciuta in un bozzolo di tempo cristallizzato, non aveva mai avuto tempo. Un lusso che tutti davano per scontato, minuti che per Run erano sempre stati un conto alla rovescia.
    WEST TIM OS IT? (– cit)
    La resa dei conti, un fottuto scontrino non rimborsabile.
    Portò la mano alla testa, sfiorando con il metallo freddo la pelle calda della guancia, della fronte. Un altro brivido, un altro grumo di saliva che non voleva scendere. Fallo. «fallo»
    Deglutì, ruotando gli occhi sull’uomo. Non aveva lacrime, Run, ma quella sofferenza premeva comunque sul petto, cercando un modo per uscire. Di solito, diveniva solamente violenza cieca: mobili, muri, vetri, specchi. Distruggeva qualunque cosa le capitasse sotto mano, un ringhio basso a far vibrare le corde vocali nel vano tentativo di non cominciare a gridare. Ma non riusciva a muoversi, non quella volta.
    Perché era così, che doveva finire.
    Tutte le storie avevano una conclusione. Alcune avevano un lieto fine, altre colpi di scena che ne ribaltavano le trama. Altre ancora sembravano non finire mai, ma lo facevano. Finiva sempre, finiva tutto. La storia di Heidrun Ryder Crane nasceva da un amore strappato fra una pagina di progettazione e l’altra, un esperimento che aveva impiegato nove mesi a vedere la luce. Ma era stato amato, a suo modo; quell’esperimento era diventato una bambina dai grandi occhi verdi ed i capelli castani, con il sorriso sghembo e le ginocchia sempre sporche di terra. All’epoca, Run ci aveva creduto, nel lieto fine. Joanna Harvelle le aveva fatto credere nel lieto fine, che da ogni cosa malvagia potesse nascere qualcosa di puro e meraviglioso come Heidrun.
    Run, non andrò da nessuna parte.
    Bugiarda, Jo, lo era sempre stata.
    E per Heidrun Ryder Crane, non c’era un lieto fine. Le gioie violente hanno violenta fine.
    «lo prometti?» quanto le erano costate quelle due parole, vuote quanto lo sguardo che cieco osservava l’uomo senza vederlo. Non era Gamma, ma non era neanche Heidrun. Erano ciò che avevano voluto fosse, ciò che l’avevano plasmata per diventare. E non lo era per niente, nella supplica taciuta in fondo alla gola, in quelle lacrime che non avrebbe mai versato.
    Le avevano detto di scegliere una battaglia. E ne aveva tante, Run, e ne aveva troppe. Una passione smoderata per le cause perse, dove entrava in gioco quando tutti avevano già un piede nella fossa. Ed aveva sempre vinto. Ma c’era sempre una prima volta.
    «lo prometto»
    Le avevano detto di scegliere, e lei l’aveva fatto. L’ombra di un sorriso le curvò le labbra, mentre alzava il braccio con il quale impugnava la pistola. La canna scura verso il piede, verso la gamba, verso il petto dell’uomo. Ed ancora a salire, mentre il braccio di Run si piegava cambiando obiettivo. Si era trovata spesso dall’altra parte di una rivoltella, ma non aveva mai creduto, neanche una volta, che quello sarebbe stato il modo in cui sarebbe morta. Sopravviveva sempre; non sapeva come, ma lo faceva.
    Inspirò, ma la mano aveva smesso di tremare. Perché per la prima volta, per la prima volta, Run era sicura.
    Ed era una sua scelta.
    Con un sopracciglio amaramente inarcato e la canna della rivoltella puntata contro la propria tempia, volse appena il capo verso destra, incrociando lo sguardo di Gemes. Alla fine, a quanto pareva, la sua presenza era stata superflua. Non rimpiangeva di averlo coinvolto: si rammaricava di non aver mai bevuto scotch, di non aver assaggiato il rum al caramello, di essere piombata nella vita di suo padre come un incendio doloso, di aver di nuovo lasciato i Milkobitch a litigare per la fetta di torta più grossa, di aver abbandonato Jade ad un tricheco e un Eugene, di non essere andata al poligono con Lienne, ma non si pentiva di Gemes Hamilton. Un vago sorriso a palpebre serrate. «nonno ha promesso» giustificò, l’indice a premere sul grilletto.
    E fece fuoco.

    dodici ore prima



    Si scrive questioni in sospeso, si legge they see me rollin’ they hatin’. Heidrun Crane era la regina indiscussa della procrastinazione, abbonata a quell’ultimo minuto che le donava sempre il brivido dell’avventura. Quella poteva tranquillamente essere la sua ultima settimana sul pianeta terra; avrebbe dovuto lasciare un testamento, sistemare i conti a metà. Dire addio. Fare tutto ciò che mai aveva provato, così che se si fosse presentata l’occasione, avrebbe potuto dire di aver vissuto. Però, rendiamoci conto del soggetto in questione: Run. Run. La sua logica, in effetti ineccepibile, era che chiunque avrebbe potuto morire in qualunque momento. Il semplice fatto ch’ella sapesse esattamente quando sarebbe successo, non significava che dovesse comportarsi in maniera diversa: era per le pari opportunità, lei. Umile. La sua “dipartita”, inoltre, era diventata un miraggio: Heidrun aveva un piano, una cosa che accadeva così di rado da farla commuovere, e ci credeva. Avrebbe funzionato, quindi perché fare la melodrammatica?
    Codarda.
    Non siamo tutti perfetti.
    C’era un rischio, però, che non poteva correre. Una priorità, una necessità. Non ricordava pressochè nulla dei sei giorni precedenti - droga, alcool, ancora droga, qualche commozione cerebrale, shock post traumatico, di nuovo alcool… il solito - ma si era tenuta un giorno, l’ultimo, per l’apice della sua carriera da criminale (e ne vantava, di reati; quando si parla di apice, si intende qualcosa di molto grosso). Il suo sogno proibito, ma di certo non segreto, da ormai quasi un anno. Il suo hobby preferito - più del rum, della coca e mignotte, e di Spaco. La Crane non poteva tornare a casa, nessuna delle sue case, perché gli stronzi sapevano esattamente dove ella fosse in qualunque fottuto momento della sua giornata. Non si era mai preoccupata di correre rischi troppo grossi, quando il pericolo verteva solamente sulla propria persona; se fosse stato solo lei il problema, avrebbe vissuto quella settimana come una qualunque: Milkobitch, REB, Lienne, Al. Magari avrebbe aggiunto qualche fresca new entry a cui rompere le palle come solo lei sapeva fare, who knows. Comunque, non poteva farlo. Non poteva, capite?, concepire che qualcun altro ci andasse di mezzo – non per causa sua, non per lei. Si riteneva simpatica (quando non adorabile), ma non ne valeva la pena. Non Run, mai Run.
    Quello era il motivo per il quale, il 17 giugno 2016, con un paio di baffi finti appiccicati sotto il naso ed una tuta verde militare, Run spingeva il carrello degli inservienti lungo il corridoio del Ministero. Aveva legato i capelli in una coda stretta, coperti poi con il cappello tipico degli inservienti (#quale), un grosso secchio dell’immondizia e abbastanza moci da essere confusa sul loro utilizzo. «ehi» salutava con un cenno del capo ogni collega inserviente, conoscendo alla perfezione la politica dei subalterni: un rispettoso movimento della testa, secco e senza sorridere, per conformarsi all’odio verso il Potere. Il sorriso non era ammesso, perché significava tradimento: nessuno era felice di pulire le scrivanie altrui, guadagnandosi perfino occhiate sprezzanti. Quindi, con il viso impassibile ed i più bei baffi del mondo, Run salì nell’ascensore. «che piano?» che domanda! «quinto»
    Inizia con la H, otto lettere. Ci sono solo tre cose che iniziavano con la H, di otto lettere, che mandavano Run su di giri, ma una in particolare era ormai divenuta ragione di vita. Incompresa dai più, e probabilmente non qualcosa a cui chiunque altro avrebbe pensato in tempo di crisi, ma dai. Era chiaro che per la Crane fosse una priorità. 1) Hashishh, con due acca finali per dare enfasi, ma per quello aveva già dato; 2) Hamilton, che nel caso di Shia poteva rientrare nel punto 1;
    3)
    Quando le porte dell’ascensore si aprirono sul quinto livello ministeriale, era ormai sola nel cubicolo. Si guardò attorno, notando che, come sempre, non c’era anima viva. Fingevano che fosse perché il loro lavoro si svolgeva sul campo, ma la cruda realtà era che si trattava di un reparto lasciato nell’anarchia. Inspirò il profumo di fascicoli che nessuno avrebbe letto, e quello delle sedie nuove che nessuno mai occupava, con un flebile sorriso sulle labbra. «levati» avrebbe riconosciuto ovunque quella voce soave, la quale ogni volta era in grado di farle battere forte il cuore. Fortuna per Run, Akelei Beaumont se ne sbatteva le palle della plebe, quindi non le riservò neanche un’occhiata. Ah, l’animo della Crane un po’ ne risentì: ma come, non percepiva la forza dell’amore? Non la sentiva la presenza? Si limitò a chinare il capo, spostando il carrello in modo ch’ella potesse entrare nell’ascensore, e proseguì il suo cammino della speranza verso L’ufficio – con la L maiuscola, chiaramente.
    Perché era ovvio, ragazzi miei, che Heidrun stesse cercando lui.
    «HARRISON PALMER c’è un pacco per lei» spalancò le porte con discrezione, poggiando una cesta con dei biscotti sulla scrivania lucidata di Harry. Il solo vederlo le fece traboccare il cuore di gioia. Dammit, le sarebbe mancato quasi quanto Spaco. Ma come, Run, non eri così ottimista sul tuo ritorno?
    Vaffanculo? Vaffanculo. «dev’essere un’ammiratrice» spinse il pacco più verso di lui, attenta a non incrociarne i neri occhi magnetici – o a non farsi sgamare mentre già pregustava la vittoria, con quelle luccicanti e divertite iridi verde bosco. «da quando quelli come voi portano pacchi a quelli come me sempre il solito dolce zuccherino che aveva imparato ad amare. Per tutti i turni, per tutte le rotture di coglioni, le frecciatine, e questo tuo essere insulso e patetico: Harrison Palmer, ti amo, ma questa è una vendetta vera. «il fattorino è malato» lecito. Lanciò un’occhiata all’orologio appeso alla parete, conscia, come tutti i bravi stalker, che quella era l’ora della merenda. Harry era l’uomo più abitudinario sulla faccia della terra, un sicario avrebbe avuto vita facile con lui. Non si preoccupò neanche di constatare se i biscotti fossero o meno avvelenati: allo scoccare del minuto, con una Crane inserviente che lo osservava con fascino morboso, Harry addentò un biscotto. «vattene, no?» masticò, ed alcune briciole rimasero impigliate sul labbro inferiore. Non si trattenne più: un sorriso sornione le curvò le labbra, mentre le mani strappavano i baffi finti con un gesto secco, il cappello a liberare la chioma scura. Poggiò un gomito sulla scrivania, cercando lo sguardo dell’uomo. E… eccolo. Non ricordava di essere mai stata così felice in vita sua, mentre una scintilla illuminava lo sguardo del capo dei Cacciatori, che improvvisamente apparve in tutto il suo umano splendore. «ciao harry» «heidrun…sei così…bella» Per la Crane, quell’anno, il giorno del Ringraziamento arrivava in anticipo! Grazie Morgan per avermi rinchiuso in una casa random per una settimana; grazie delle paccate, delle sigarette offerte dalla casa, e grazie per avermi fatto conoscere delle persone fantastiche.
    Ma soprattutto, grazie per l’Amortentia.
    Amen.
    Agitò una mano davanti a lui, per poi portarsela al petto con sentita emozione. «oh, harry, grazie. Ma bando alle ciance» Ed ecco il momento tanto atteso, desiderato, ed acclamato per un intero anno. Senza tanti complimenti, strappò i primi tre bottoni della divisa da inserviente, quindi ammiccò a Palmer. «è il momento delle cartoline di natale!» esordì eccitata, uscendo completamente dalla divisa per mostrarsi in tutto il suo splendore: pantaloncini rossi bordati di pelliccia bianca, giacchetta della medesima fantasia, e scarpe intonate all’outfit. Aprì il cestino, che si rivelò – sorpresa sorpresa!- non contenere spazzatura, ma un mucchio indefinito di abiti di ogni genere. Dovete sapere che la Crane era sempre stata piuttosto fantasiosa in fatto di biglietti; ad esempio: quando lavorava nei Laboratori, ad ogni San Valentino regalava a Shia un collage di coloro ch’ella aveva portato nei Laboratori, formando con le foto che aveva strappato dai fascicoli il più sentito dei cuori. Ma ragazzi, le cartoline di natale erano sempre state la sua passione. Sfioravano un livello di trash in grado ogni volta di farla sentire felice di appartenere al genere umano. Foto incorniciate da scenari improbabili, vedenti come protagonisti lei vestita in maniera altrettanto assurda? Cioè, praticamente legalizzavano la biondezza interiore di Run. Per quel giorno, aveva in serbo un servizio fotografico molto speciale. Innanzitutto, diversificato: non sapeva quanto sarebbe stata via, o se mai sarebbe tornata, quindi doveva farne almeno per ogni festività; poi, numerose, perché Run aveva un sacco di amici – e, solo per sé, ne voleva almeno dodici così da farsi un calendario personalizzato. Aveva perfino i costumi per la festa del ringraziamento: lei, bellissima nel suo cappello da pellegrino, e lui, chiaramente, vestito da tacchino. Aveva anche i vestiti per Carnevale, lui Pokèball e lei Ash, per San Valentino, lui Cupido e lei Pollon (Beh? Non aveva mai creduto nell’amore #wat), per Halloween, lei Harley Quinn e lui Joker. Inoltre, aveva costumi personalizzati per ogni compleanno (ossia abiti casuali che moriva dalla voglia di far indossare all’uomo, tipo il biscotto di pan di zenzero). Lui, cieco d’amore per la Crane, non le avrebbe mai detto di no.
    L’inizio della fine.
    Poteva anche star morendo, Heidrun Ryder Crane.
    Ma, che Morgan l’avesse in gloria, l’avrebbe fatto con il botto.
    «ti amo, heidrun ryder crane» troppi feels. «puoi ripeterlo all’obiettivo, zuccherino trottolino cetriolino di mare mio?» Run salutò felice, sorridendo al proprio cellulare, mentre Harrison Palmer si volgeva like he really means it a guardare con profonda commozione l’obiettivo della videocamera. «ti amo, heidrun ryder crane» non vedeva l’ora di mostrarlo a tutti.
    Best.
    Day.
    Ever.

    quattro ore prima



    I piedi dondolavano nel vuoto, mentre la più delicata delle brezze le solleticava i capelli sul viso. Run si lasciò cadere all’indietro, poggiando la schiena contro il tetto dell’anonimo palazzo londinese in un altrettanto anonima zona della città. Gli occhi fissi sul cielo, le mani a stringere una bottiglia di vino ormai vuota, ed una canna già a metà. Il dolce sapore sul palato, accompagnato all’alcool, rendeva il mondo molto diverso da come lo ricordava: sfocato, morbido. Quasi comprensibile. Eppure dovette serrare le palpebre, stringendo convulsamente il collo della bottiglia di vetro. Era stata sciocca, era stata superficiale. Era stata una Heidrun Ryder Crane, in tutta la sua perfetta imperfezione; si era lasciata abbindolare da quell’infinitesimale brandello di speranza, cieca a tutte le possibilità opposte, e decisamente maggioritarie nella riuscita del piano. Che puttana, la speranza. Non facevi in tempo ad accorgerti del fatto che fosse mera illusione, che quella già t’era entrata nelle vene, parte del circolo sanguigno quanto l’ossigeno. Un tempo, Run non aveva avuto niente da perdere. Un tempo, a Run non importava. Ma aveva cominciato a fottersi da sola, con quelle promesse lasciate al vento e mai rivendicate, con quei sorrisi che lasciavano più calore di quanto ella ne tenesse per sé. Si sentiva così… vuota, martire in una guerra che non le era mai appartenuta, vittima semplicemente di essere nata. Di essere nata: non nella famiglia sbagliata, non nel momento sbagliato. La sua nascita era un atto immorale voluto dai suoi nonni materni, che mai l’avevano considerata come una persona. Un obiettivo, un trionfo. Perché avrebbe dovuto importargli che Run volesse andare al college? Che volesse degli amici, una famiglia? Perché avrebbero dovuto tenere conto del fatto che la nipote potesse semplicemente voler tornare a casa? Non era nipote, era Esperimento Gamma. Con i fascicoli non ci organizzavi le fottute cene di natale, al massimo li bruciavi nel camino. Che ne sapevano, loro, che nel suo primo tema su cosa vuoi diventare da grande? ella avesse scritto un bicchiere di whisky, così renderò felici le persone. Che ne sapevano, loro, che al suo ultimo ballo a scuola avesse rifiutato l’invito del capitano della squadra di football per portare quella palletta di amabile lardo nerd che era Gordon. Che ne sapevano, loro, della prima sigaretta fumata nei bagni, e di quello stupido arbre magique che era diventata consuetudine al liceo. Che ne sapevano, loro, di quei pomeriggi passati sull’erba a disegnare il proprio futuro nelle nuvole. Che ne sapevano, loro, della prima volta che aveva cucinato i fottuti biscotti con Todd, rischiando di dare fuoco all’intera cucina. Che ne sapevano, loro, della prima birra che aveva offerto ad un decisamente troppo piccolo Jeremy, con quel sorriso sghembo ed il «sarà il nostro segreto» che divenne solo il primo fra i tanti. E che ne sapevano, loro, di quanto male avesse fatto non essere in grado di salvare l’unica persona su quella schifosa faccia di terra che per lei aveva rischiato tutto. Che ne sapevano, loro, dei Wildcranes. Che ne sapevano, loro, di quei primi sorrisi di sottecchi strappati a Jade; e che ne sapevano, loro, di tutte quelle volte in cui Run aveva stretto a sé Eugene un po’ più forte, quando lui si agitava nel sonno.
    Che ne sapevano, loro, di Heidrun Ryder Crane.
    «che vita di merda» gorgogliò in una triste risata amara, senza preoccuparsi di asciugare le stupide lacrime che scivolavano sulle tempie, inumidendo i capelli. Qualcuno avrebbe ritenuto Run fortunata, ad avere qualcosa – ad avere qualcuno - che rendesse così difficile dire arrivederci.
    Beh, poteva anche andare a fottersi.
    «Se tu vivessi fino a cent’anni, vorrei vivere fino a cento meno uno così non dovrei mai vivere senza di te» Run ruotò il capo continuando a ridere, una malinconia così densa da renderle complicato respirare. Lasciò la bottiglia per stringergli la mano, nascondendovi poi sopra il viso. «tranquillo, non dobbiamo aspettare a lungo» Non sapeva se ridere o piangere, Run. Nel dubbio, fece entrambe. «Non puoi stare nel tuo angolo della Foresta ad aspettare che gli altri vengano da te. Devi essere tu ad andare da loro qualche volta» Ma che se ne faceva il mondo, dei grandi oratori, quando poteva avere lui. Lo sguardo che alzò sugli occhi neri, però, non fu dei più amichevoli. Perché Run non poteva, non poteva fare proprio un cazzo di niente. «magari non voglio nessuno» sussurrò appena, ma non ci credeva neanche lei. Il punto era che voleva troppo, il punto era che voleva tutto. Guardò l’orologio, un brivido freddo a scivolarle lungo la spina dorsale. Non era giusto, non era fottutamente giusto. Aveva una famiglia, aveva degli amici, Gesù! Aveva un tricheco! Perché lei?
    Un minuto.
    Prese il telefono dalla tasca interna del costume, poggiandoselo poi sopra il ventre. «Alcune persone ci tengono troppo. Penso si chiami amore» Scosse il capo sul cemento, donando una nuova risata a quella notte priva di stelle. Si alzò in piedi, rimanendo sul ciglio del tetto con quella risata ancora attorcigliata alla lingua, lo sguardo vacuo e le gambe traballanti. Ignorò volutamente l’affermazione, concentrandosi invece sul rimanere in bilico, un piede sospeso sulla strada diversi, troppi, metri più in basso. «non voglio andare» ammise in un soffio, lasciando trapelare la paura. Un filo, quasi invisibile fra quelle tre parole. Non voleva andare. E non voleva quella soffocante sensazione di responsabilità, quel vuoto nel petto. Aveva perfino smesso di far male, mentre stringeva i denti nel vano tentativo di ingollare la saliva.
    Sentì un rumore alle proprie spalle, verso cui si girò con uno sghembo sorriso. Non c’era più traccia delle lacrime, non c’era più traccia della rabbia, o della disperazione celata nelle iridi verdi. C’era solo quel sorriso, e la mano alzata a fare un cenno di saluto.
    Tre.
    «perché indossi quello stupido costume da treno?» storia interessante, domanda stupida.
    «e tu perché indossi quello stupido costume da umana?» se non avete mai visto Donnie Darko, rimediate.
    Due.
    «sei in trappola» Run reclinò il capo sbattendo le ciglia languidamente. Lo era? Evidentemente, la donna lavorava nel campo da troppo poco. Quella era una delle prime lezioni che aveva appreso nei laboratori.

    «TIRAMI SU» «no» «STO CADENDO» «non mi dire» e dal basso, appesa a quella troppo sottile corda marrone, Gamma aveva incrociato gli occhi scuri di Shot. «non sei divertente» «lo sono, ma non con te» Gamma aveva inspirato profondamente, aggrappandosi alla corda quasi ne andasse della sua vita – ah, no, aspetta: ne andava della sua vita. Lui, bello come il sole, era già arrivato in cima, e la fissava senza battere ciglio. Quasi annoiato, perfino. Intanto, a Gamma stava venendo una sincope. Ma va bene così. «cosa fai quando hai paura di cadere?» Gesù Cristo Buon Signore, ma perché i Dottori non avevano i maledetti test a crocette come tutte le persone normali? Non che Gamma fosse arrabbiata con loro: comprendeva che fosse giusto, era certa fosse giusto. Erano i metodi a confonderla. «mi tengo più forte?» «riprova» «allungo il braccio e trascino a terra con me quella tua faccia da-» «gamma» «non mi scuserò» «allora muori» «SCUSA, TIRAMI SU» «cosa fai quando hai paura di cadere?» sì che da piccola era bionda, ma aveva capito alla prima. Si inumidì le labbra, cercando – inutilmente – di non farsi prendere dal panico. Una flebile consapevolezza penetrò come ghiaccio nelle vene, mentre ruotava gli occhi verdi su Shot.
    Cosa fai quando hai paura di cadere?

    Uno.
    Il telefono vibrò. «ora!» gridò ai loquaci e saggi Pooh, Tigro e Pimpi, compagni di quella notte brava, dando l’ordine perché si lanciassero contro la donna, così da distrarla.
    «sai come si dice in questi casi… ciao treno» le soffiò un bacio, intascando nuovamente il telefono. Inspirò, sciogliendo i muscoli del collo.
    Perché quando hai paura di cadere, puoi solo saltare.
    E Run saltò.

    tre ore prima



    «quindi… ci siamo» disse a sé stessa, alzando gli occhi sul cancello. Shia le aveva dato un’ora di tempo, solo sua, nella quale nessun fottuto Dottore avrebbe potuto rintracciarla. Sessanta minuti, tremilaseicento secondi. Spense la sigaretta sotto la suola con un gesto nervoso, sfregando poi le mani fra loro. L’orologio indicava le due ed un minuto, il che significava che le rimanevano solamente cinquantanove minuti e tremilacinquecentoquaranta secondi. Aveva bisogno di tempo, ma il tempo se ne sbatteva le palle di Run. Fra tutte le persone, tutte le persone, a cui Heidrun Ryder Crane avrebbe potuto chiedere aiuto, stava davvero per bussare alla porta di Gemes Hamilton. Davvero.
    Il rapporto fra Gemes e Run era sempre stato controverso, perfino prima che Run si rendesse conto di aver portato l’Hamilton nei Laboratori. Nei primi cinque minuti della loro conoscenza, avvenuta nel Mistico Labirinto, Heidrun aveva già progettato, e senza nasconderlo ai membri della squadra, almeno due modi in cui ucciderlo. Con il senno di poi, avrebbe dovuto farlo subito: dopo nove mesi dacchè lo conosceva era incinta PLOT TWIST #wat , non aveva più così tanta voglia di farlo fuori. Talvolta si cullava nell’idea di avvelenarlo, o più spesso di prendere il suo adorabile viso per sbatterlo ripetutamente contro il muro, ma si trattava solo di idee, un po’ come il sogno per il quale T Jade in realtà fosse Spaco, il quale per tutto quel tempo aveva fatto da angelo custode ai Reb (!!!). Ma la fastidiosa realtà dei fatti, era che non sarebbe mai riuscita a farlo. Non sapeva perché; sinceramente, non sapeva neanche se fossero amici. Era difficile e frustrante cercare di capire il telecineta, quindi Run aveva smesso di provarci. Gemes Hamilton era il Capitan Raymond Holt personale di Heidrun Crane: non capiva mai se fosse felice, triste, arrabbiato, o se semplicemente stesse dormendo (nah, quello lo sapeva sempre). Era… complicato. Ma era grazie a quella difficoltà se Run aveva scelto lui, e non chiunque altro, per quella missione. Incomprensibilmente a chiunque, perfino alla ragionevolezza di Run, si fidava abbastanza da sapere che non l’avrebbe pugnalata alle spalle. Non perché avesse un animo nobile e puro, figurarsi, semplicemente perché credeva che almeno avrebbe avuto la decenza di pugnalarla di fronte, e con un preavviso del genere: «crane, sto per ucciderti». Secondo Run, quello era il concetto di amicizia di Gemes, fatele causa. Tutti i se di questa teoria, ovviamente, parevano remare contro l’obiettivo finale di Run. Ma lo facevano davvero?
    Saltò sul davanzale della finestra in cui aveva fatto irruzione la prima volta, riconoscendo la stanza di Jayson. Ingombrante, con quel suo bellissimo costume da Bat-treno (Batman era abbastanza ricco da permettersi una Bat mobile, e non un Bat treno?), lasciò la maglia presa in prestito la settimana prima, lavata ma non stirata, sulla sedia. Cercò nelle tasche qualcosa da lasciare come ringraziamento, magari una caramella?, ma trovò solo un’altra canna. Stringendosi nelle spalle, lasciò quella. «grazie, AU bro» (perché tutti sappiamo che in un AU Run e i fremelli sono fratelli) sussurrò appena, uscendo cauta nel corridoio.
    Fuoco. Ghiaccio. Metamorfosi. Luce. Rimase con il fiato in sospeso, la mano sul pomello della porta. Non doveva fare alcunchè: avrebbe semplicemente potuto salutare, passavo di qua!, così. A sfregio. Non sarebbe stato strano, giusto? Cioè, era normale fare irruzione nelle case altrui per salutare il proprio padre. Chi non lo faceva? Deglutì, tentata di aprire. Solo una volta, solo un’ultima volta.
    Ma non lo fece. Sarebbe tornata trionfante fra un paio d’ore, o giù di lì, e allora avrebbe potuto bussare. Quando tutto fosse finito. Ci voleva credere, Heidrun. Ne aveva bisogno. Ritrasse la mano, proseguendo lungo il corridoio. Telecinesi. La gola secca, una muta preghiera a Morgan e Spaco.
    Se avesse dovuto affidare la propria vita nelle mani di qualcuno, non avrebbe mai scelto Gemes.
    Ma non era per la sua vita, che aveva bisogno di lui.
    «hamilton, stai dormendo?» bisbigliò socchiudendo l’uscio.
    Perché Heidrun Ryder Crane non aveva bisogno di qualcuno che la salvasse. Aveva bisogno di qualcuno che facesse ciò che era necessario.
    «non piangerò quando dovremmo lasciarti indietro»
    Ed era proprio su quello, che Run contava.

    - rule #1 never be #2 - code by ms. atelophobia


    Edited by selcouth - 22/8/2016, 15:02
     
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