Ghost town

bran x jack

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  1. /psychosis
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    brandon keith lowell || metamorphosis • 30 y.o. • dysfunctional • defective muggle
    « SAW ALL OF THE SAINTS LOCK UP THE GATES I COULD NOT ENTER »
    Gli avevano detto che bastava veramente poco, ma non aveva mai realmente ascoltato quelle parole. Quasi catatonico, a malapena osservava coloro che proferivano tale verbo, preferendo fissare un punto indefinito sulla parete bianca di fondo, lasciando che le immagini sfocate degli psicologi si muovessero indefinite sotto i suoi occhi. Passivamente assorbiva le diagnosi di uomini e donne che millantavano di occuparsi del suo caso senza mai recepirle. Frasi vuote, gettate al vento. A cosa serviva dirgli che bastavano parole chiavi, immagini, suoni, ad inibire la sua coscienza, ad annullare il suo io e ad attivare dei processi cognitivi che differivano dal suo normale pensiero, se era già inibito, già annullato? Come potevano illudersi, o illuderlo, che sotto gli psicofarmaci, sotto la patina di cemento che si era andata a creare tutt’attorno a Brandon Keith Lowell, questo potesse comprendere appieno il significato delle loro voci, il valore di quegli ammonimenti e precauzioni? Quanto poteva restargli di quelle avvertenze, di quei consigli, se dopo ogni seduta era costretto ad annebbiare la propria mente con quelle capsule? Ricordava solo quelle, talvolta. Ricordava solo i colori ed i nomi, ripetuti allo stremo delle proprie capacità, quasi fossero una malsana filastrocca, per troppo tempo. Blu, Lorazepam. Gialla, Geodon. Azzurra, Trilafon. A volte, nemmeno quelle. C’erano enormi vuoti che il trentenne non saprebbe definire, perché di fatto non si trattavano di memoria. Erano lì, impressi nella sua mente. Esistevano e al contempo era come se non fossero mai esistiti. Brandon sapeva di averli vissuti, eppure in certi momenti riteneva possibile che avesse trascorso dieci anni del suo arco vitale in una sorta di coma vegetativo, incapace di prendere vere e proprie decisioni dettate dalla sua volontà, trovando difficile adeguarsi a quello stile di sussistenza innaturale. Tuttavia aveva visto tutto, aveva sentito ogni cosa: il periodo nell’istituto psichiatrico era reale, era stato il Lowell a non esserlo per tutto quel tempo. Rari erano stati i casi in cui poteva affermare di essere ridisceso da quell’innalzato piano di irrealtà nel quale viveva. Generalmente, quando ciò si verificava, accadeva sempre in prossimità dell’orario delle medicine, quando l’effetto delle precedenti era vicino alla loro fine; generalmente, se ciò si verificava, tutto gli piombava addosso come se poco prima non ci fosse affatto. Lo sconforto, la solitudine, il senso di colpa. Non poteva impedir loro di gravare impetuosamente sulle sue spalle, costringendolo a terra, le spalle al muro ed il respiro rotto dai singhiozzi. Non poteva.
    Non aveva potuto quando la festa di Capodanno si era conclusa, dopo che i suoi fratelli se ne erano andati da quella villa, l’uno non degnandolo di uno sguardo, né tantomeno riconoscendolo, l’altra odiandolo visceralmente. Non era riuscito a sopportarli quella sera, come non ci era riuscito un mese dopo. Con il senno del poi, sicuramente Keith avrebbe indugiato un po’ di più, ci avrebbe pensato più volte prima di trascinarsi fino ad Hogsmeade verso la fine di gennaio. Con quali propositi, poi? Cos’è che voleva fare, osservando da lontano la combriccola di studenti di Hogwarts muoversi allegramente nella cittadina magica? «Non ti azzardare a cercare Nathaniel, o a parlare a qualsivoglia dei miei amici, o giuro su Dio che ti uccido. Dì un’altra parola, e ti denuncio alle autorità: non dovresti essere qui» Ricordava ancora le parole della sorella, avevano bruciato la sua pelle così ferocemente che finita l’euforia della festa aveva dovuto strapparsi di dosso l’abito elegante, temendo di prendere fuoco: l’unica cosa che ribolliva, tuttavia, non era quel segno invisibile sul petto lasciatogli da Jericho ma il sangue. Un sangue sporco, impuro, il suo, che era colato sulle nocche delle mani la notte del primo giorno del duemilasedici, dopo che tra i tremori aveva preso a pugni la parete della sua stanza fin quando non ne aveva più le forze. Un sangue malato, contaminato, quello che chiazzava la carta da parati antiquata, ancora fresco. Un sangue maledetto quello che scorreva nelle sue vene, nelle sue e in quelle dei portatori di quei due nomi che aveva ripetuto finché aveva avuto voce, quella come tante altre notti prima. Aveva creduto che sarebbe riuscito a rivederli, che stavolta avrebbe potuto parlare con il fratello, che lui l’avrebbe sostenuto. L’aveva sempre fatto, dopotutto: perché non quella volta? Come poteva non capirlo che loro erano tutto ciò che gli restava, tutto ciò che voleva con sé? Aveva tenuto fede alla promessa inespressa fatta alla sorella, non si era avvicinato a nessuno, né aveva cercato Nathaniel: non ve n’era bisogno, sapeva esattamente dove trovarlo se avesse voluto. Non poteva però negarsi quell’uscita, inconsapevole di quanto gli avrebbe fatto male vederli insieme, vederli felici nella folla; inconsapevole di quanto il fatto di non aver intravisto Aveline l’avrebbe potuto desolare: era l’unica persona che forse comprendeva quel che stava passando, l’unica che poteva aiutarlo. Li aveva visti sereni, entrambi. Non felici: la felicità dei Lowell era sempre nascosta da una patina di mainagioia incancellabile, chiedere di riconoscere la felicità sui loro volti sarebbe stato utopico. Non sembravano tristi, sconsolati, devastati da un qualsiasi dolore che Brandon non aveva intenzione nemmeno di immaginarsi. Stavano bene, e ne era contento. Stavano bene, ma senza di lui. Jericho sembrava a suo agio con quel ragazzo, e Bran non lo riconobbe finché non ne sentì l’identità: Jack Hades, il figlio di quelli che furono i vicini di casa dei Lowell, molto tempo addietro.
    Gliel’avevano detto, che bastava poco per far scattare l’interruttore. Immagini, parole, suoni.
    Ma Brandon era solo curioso, quella sera, quando si era intrufolato clandestinamente nell’abitazione degli Hades, cercando solo Dio sapeva cosa. Voleva solo conoscere il ragazzo che aveva visto in compagni della sorella, capire che tipo fosse. Mentre sfogliava le foto dell’adolescente, tutto quello che voleva era capire se poteva fidarsi di lui, vicino a Karma: era il suo fratellone, dopotutto, era suo dovere in quanto tale assicurarsi il benestare della giovane. Non aveva idea che vedendo quelle foto, che carpendo i sorrisi della bambina in sua compagnia, il sangue avrebbe ribollito più rabbiosamente, che il respiro si sarebbe fatto più pesante e frequente, che sarebbe arrivato ad annullare sé stesso. Erano solo foto, solo ricordi.
    Si muoveva, ma non era lui a controllare il suo corpo. Osservava i viandanti, ma non era Brandon Lowell a vederli, non era lui a seguire l’andamento malinconico del giovane per le vie di Hogsmeade. Non era stato lui, nella via più buia della cittadina, a prenderlo per le spalle e farlo scontrare contro il muro violentemente. Non era lui, ma lo era sempre, comunque, in un angolo nascosto della mente. Poteva percepire il pomo d’Adamo di lui muoversi febbricitante contro il proprio braccio, leggere negli occhi di lui lo stupore e forse la paura: Brandon stesso sarebbe stato terrorizzato da un uomo che, lontano da tutti, aggrediva, che premeva il braccio contro la trachea mentre la mano libera lo tratteneva per il maglione. Sentiva il suo respiro sul volto, caldo ed in pieno contrasto con la brezza gelida che fischiava nella strada, ma non era importante. Solo una cosa gli premeva sapere, in quel momento. «Dov’è lei?» chiese, la voce irriconoscibile così come probabilmente il suo stesso aspetto ma bassa. «Dimmelo!» sbraitò, improvvisamente, liberando la gola di lui. «Dov’è mia sorella?» Lo sentiva ancora, come una reminiscenza del suo ultimo incontro con lei, il bruciore sulla mascella. E voleva condividerlo, in quel frangente: se era tanto legato alla ragazza, perché non l’avrebbe dovuto accettare, Killian Jack Hades? Avvertì la guancia di lui sotto le nocche, sentì queste bruciare come l’ultima volta che aveva preso a pugni il muro della sua camera. Questa volta, però, il sangue sulle dita non era il suo.
    sheet || pensieve || code by ;winchester


    Edited by m e p h o b i a - 5/1/2017, 00:55
     
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  2. #(Jack)daniels
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    17 - ravenclaw - catafratto - neutrale - bad day - #alcoladdicted
    Aveva bisogno d’aria. Aveva bisogno d’uscire da quelle stanze, da quei luoghi dove ogni dannato ricordo ora richiamava il viso perlato di lei. Doveva andarsene , trovare un altro posto dove riuscire a svuotare la bottiglia di liquido trasparente risultasse più facile, dove nessuno potesse chiedergli cosa aveva, perché si comportava in modo strano. Non aveva fiato da sprecare e nemmeno tempo per stare a sentire i suoi compagni corvonero che noncuranti giocavano a carte nella sala comune , solitamente si sarebbe unito volentieri a loro, avrebbe introdotto ogni sottospecie di giochino alcolico per rendere il tutto più divertente ma quella sera, quella sera aveva soltanto bisogno d’aria. Non era da Jack abbattersi, non era da Jack lasciare la bella Arabells Dallaire seduta sul divanetto blu accanto al fuoco, arrivare davanti alla porta degli Hufflepuff per poi non bussare con tre sonori battiti mentre la voce scandiva un «Tesoroo è pronta la cenaa» indirizzato a Jeremy. Non era da Jack ricercare la solitudine, proprio lui che aveva costantemente bisogno di qualcuno affianco che gli ricordasse perché la vita fosse bella , perché era meglio fumare e sbronzarsi piuttosto che lasciarsi cadere dalla torre di astronomia. Non gli interessava se qualcuno lo avrebbe visto lasciare la scuola o utilizzare il passaggio segreto che conduceva a Hogsmeade, non gli interessava se, al suo ritorno, sarebbe stato sbattuto per l’ennesima volta nella sala torture… che importanza poteva avere? Cosa poteva contare per lui Hogwarts? Ora che aveva scoperto la verità, ora che Jericho Lowell gliela aveva sbattuta in faccia senza un minimo di tatto, Killian non poteva fare altro se non soffocare la propria rabbia ed i sensi di colpa bevendo, cercando di dimenticare ciò che sua sorella aveva fatto, ciò che lui aveva fatto. E rideva di se stesso, di come la bionda fosse riuscito a giocarlo, e rideva per non permettere alle lacrime di inumidirgli le guance, per evitare di sbattere i pugni contro il muro fino a sentire la pelle lacerarsi e le dita formicolare insensibili. Non poteva dare la colpa ai catafratti se era stato cieco di fronte alla realtà dei fatti, se si era innamorato per l’ennesima volta della ragazza sbagliata, di una ragazza che voleva stringere tra le braccia ma che non poteva avere. Era sua sorella. Aveva giurato di proteggerla, di non permettere a nessuno al mondo di farla soffrire ed alla fine era stato proprio lui ad assumersi quella colpa. Era accaduto tutto troppo in fretta, un incontro fortuito quello di Jack che, in una sera come tante, se ne stava seduto nella sala grande sovrappensiero, preoccupandosi per quella sorella scomparsa che non si faceva più viva da mesi, che non aveva voluto rispondere al suo messaggio. Un raggio di sole, quello era stata per lui la bionda dai grandi occhi di cristallo, aveva creduto che, con la giusta dose di droga fortuna e charme, sarebbe riuscito a conquistarla, a presentarla a tutti i catafratti come “quella giusta” una ragazza con cui provare ad essere serio per una volta nella vita. E ci aveva provato l’Hades, aveva provato ad essere più responsabile , meno ubriaco, più gentile e sempre sorridente, sembrava proprio che fosse soltanto suo quel raggio di sole, sembrava che la parola “noi” fosse giusto ad un metro di distanza, pronta per essere afferrata. Aveva sempre creduto nel futuro Jack ma nemmeno tutta la sua voglia di prendere ogni tipo d’avvenimento sul ridere, lo avrebbe salvato da quel colpo… c’era sempre stata Jericho, lo aveva visto, lo aveva sentito soffrire, lo aveva lasciato fare senza bloccargli le mani, senza impedire alle sue labbra di bramare e raggiungere quelle di lei. Perché? Se lo era chiesto una infinità di volte il corvonero ma non aveva osato porre l’interrogativo alla Lowell, non voleva vederla, non sarebbe più riuscito a guardarla come un fratello, come il Killian con cui aveva passato praticamente tutta la vita. Sentiva che si era rotto qualcosa tra loro, che era venuto a mancare quel legame di fiducia, su cui solitamente si costruiscono le relazioni e nonostante fosse passato del tempo, la mente del ragazzo continuava a rievocare la scena in cui Jericho si presentava al mondo. Sentiva ancora il terreno mancare sotto i propri piedi, il respiro venire meno, bloccato dal nome della bionda che rapidamente si confondeva tra gli studenti in gita… come aveva potuto? Perché? Lowell. Aveva sempre temuto Jack che prima o poi lei sarebbe tornata ad essere una di loro, che la sua vera famiglia riemergesse dall’oscurità per portargliela via e così era successo. Dov’erano finiti i ricordi? Dov’erano finiti tutti quegli anni in cui avevano giocato, e urlato, e pianto insieme? Lowell. Era tornata a identificarsi in quel cognome, gli Hades erano diventati semplicemente il passato, qualcosa da forse dimenticare o nascondere agli occhi di tutti. Era rimasto solo Jack, non ricordava nemmeno da quanto non provasse quella sensazione, posò le labbra sulla bottiglia lasciando scivolare il liquido trasparente giù per la gola… bruciava.
    Non sapeva neanche da quanto stava camminando per le vie di Hogsmeade, non sapeva perché si trovasse lungo la dark street, uno dei luoghi meno raccomandabili della cittadina ma sinceramente non gliene importava anzi, per qualche istante pensò di sedersi su un muretto e svuotare completamente la bottiglia, qualcuno poi sarebbe andato a recuperarlo oppure il mattino seguente se ne sarebbe tornato al castello barcollando come suo solito. La tentazione di fermarsi e mandare a fanculo l’universo era veramente forte ma alla fine decise di fare il bravo ragazzo e continuare a camminare, finché ci riusciva sapeva d’essere sobrio quel che bastava per ritornare ad Hogwarts prima di giorno, dopotutto aveva promesso a Jeremy che non avrebbe commesso cazzate senza di lui o senza i catafratti. Raggiunse la fine dell’ennesimo vicolo, osservò la sua fedele compagna d’avventura sigillandola con il tappo in modo da non disperdere l’aroma d’anice, aveva camminato a sufficienza, i pensieri gli offuscavano ancora la mente ma erano molto più leggeri , poteva anche andarsene a dormire con la certezza di riuscire a prendere sonno. Prese la via del ritorno Killian, il passo leggermente incerto, le mani ben infilate nelle tasche del capotto, non riuscì a capire l’esatta dinamica di quel che gli accadde pochi secondi dopo ma rabbrividì con la sensazione d’essersi messo nei casini e senza sapere nemmeno come. Un uomo o forse, un giovane più grande di lui di qualche anno, senza troppi complimenti lo sbatté contro il muro, bloccandolo e premendogli il braccio all’altezza della gola «ma che cazz…» si lasciò sfuggire l’Hades mentre incontrava lo sguardo del suo aggressore. «Dov’è lei?» Cosa? Lei chi? Che diavolo voleva quel tizio? Non aveva flirtato con nessuna ragazza Jack, era impossibile che avesse sfidato qualche macho man per contendersi una bella bionda. «Dimmelo!» continuò lo sconosciuto di rimando, liberandolo dalla presa alla karate kid per permettergli di respirare, il corvo diede due amari colpi di tosse, non riusciva a capire perché quel volto gli risultasse familiare, forse aveva già fatto rissa con il tipo qualche anno addietro ed ora voleva vendicarsi, forse pure lui era ubriaco ed aveva bisogno di prendersela con qualcuno esattamente come Jack. «Non so di cosa stai parlando» esclamò confuso mentre rimaneva appoggiato al muro per evitare di cadere, gli aveva fatto fare un infarto prendendolo alle spalle… avrebbe potuto morire per un arresto cardiaco. «Dov’è mia sorella?» A quell’ennesima domanda senza senso Killian rimase immobile mentre un immaginario punto di domanda compariva sopra alla sua testolina stile fumetto… che cavolo avrebbe dovuto saperne lui? Prima che potesse replicare con un simpatico “e io che ne so?” il simpatico ragazzo che aveva di fronte pensò bene di sfogare la sua rabbia repressa sferrandogli un pugno che l’Hades quasi nemmeno provò ad evitare, era troppo sbronzo per calcolare le tempistiche e la velocità con cui quella mano gli sarebbe arrivata dritta in faccia. Gemette scivolando a terra fu costretto a reagire, a riflettere, chi mai poteva cercare una sorella e prendersela proprio con lui chiedendo spiegazioni? Nessuno. Nessuno a parte Henderson ovvio ma stava ad Hogwarts e poteva controllare Jer molto da vicino, soltanto allora però le parole dette dalla bionda durante la gita sembrarono prendere un senso… Rabbrividì nuovamente Jack ma non per il freddo o per il colpo subito, era stato peggio, no, la sua perplessità sembrò dissiparsi mentre nella sua testa riecheggiava la voce della sua Jericho «ho un fratello psicopatico e uno psicolabile: uno è Henderson, salutate Henderson, ma vi lascerò indovinare quale dei due» possibile che…? No, si rifiutava a credere ad una simile eventualità, non voleva nemmeno provare ad immaginare che quello di fronte a lui fosse l’altro. Eppure la domanda era sensata, eppure quel volto combaciava con quello di un ragazzino molto più giovane che Jack aveva intravisto nei giornali dell’epoca, quando la piccola Jericho era diventata parte della sua quotidianità. Jeremy dove cazzo sei. Bells perché mi lasci affrontare queste situazioni da solo? Sai che non so mai come comportarmi… Arci dici che dovrei ucciderlo senza pietà? Oppure Oscar suggeriscimi.. cosa diavolo dovrei dirgli? Non penso che fare lo sguardo del cucciolo ferito servirebbe a qualcosa… quello vale solo per Todd. Con una mano si pulì il volto dal proprio sangue, (finché era suo non c’erano problemi) rimase in silenzio per qualche istante, incredulo, indeciso se ricambiare il trattamento subito o se dar fiato al suo dubbio ma non era un impulsivo, non lo era mai stato Jack, in quelle situazioni era raccomandabile far prevalere il lato sensato e non l’istinto, forse per quello era finito tra i corvonero e non nei grifondoro. S’alzò in piedi andando ad osservare meglio il giovane, sperava solo che scuotesse la testa, che dicesse “yolo no sono uno stronzo che non sa con chi prendersela perché la vita va di merda” lo avrebbe compreso, forse gli avrebbe perfino offerto da bere ma in cuor suo Killian già sapeva che non sarebbe finita esattamente così «Lowell?»

    killian Jack Hades [ sheet - pensieve ]
    Say oh, got this feeling that you can't fight, Like this city is on fire tonight
    [ code by psiche ]
     
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  3. /psychosis
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    brandon keith lowell || metamorphosis • 30 y.o. • dysfunctional • defective muggle
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    Era lui: Brandon Keith Lowell sapeva di essere ancora sé stesso, nonostante si sentisse assente, lontano, incatenato da qualche parte che non riusciva a raggiungere. C’era, lì dentro; si percepiva, intrappolato in quel limbo dal quale, lo sapeva ormai bene, non aveva vere vie di fuga, ma non poteva davvero fare alcunché. In stasi nel suo stesso corpo, non riusciva a fare altro se non lasciarsi manovrare da quelle emozioni che, continuava a ripetersi, non potevano essere sue. Nessuna lo era mai; non si spiegava come potesse provare una rabbia così potente verso quel giovane, che nulla gli aveva fatto, come una tale ferocia che Bran non aveva mai osato indirizzare verso nessuno potesse risultare tanto selvaggia. Non riusciva a concepire, il metamorfo, per quale motivo non riuscisse ad avere il controllo dei propri gesti e pensieri, delle proprie parole, costretto in quel non essere ambiguo. Vedeva, ed al contempo non sapeva osservare; sentiva, e al contempo la voce strozzata dell’Hades rimbombava nella sua testa, assumendo toni ovattati, levigati ed inudibili. Voleva, ma non voleva, lasciarlo stare. Il Lowell, in un ipotetico caso dalle sfumature reali e normali per la sua persona, non si sarebbe di certo comportato in quel modo, approcciandosi in una maniera disumana, bestiale; era un tipo pacifico, il trentenne, che la violenza l’aveva sempre disprezzata e temuta, tenuta quanto più possibile lontana dalla mente –se, possibile. Era arrabbiato, quello sì, ma non con il diciassettenne: oh, aveva così tante cose per le quale essere alterato, per le quali avrebbe volentieri incendiato un intero palazzo per puro sfogo, giustificandosi con l’effettiva difficoltà nel gestirsi. Non l’avrebbe fatto davvero, comunque: a) non era quel tipo di psicopatico; b) non voleva farsi rinchiudere nuovamente, però insomma, il concetto era quello. Semplicemente, voleva conoscerlo: lontano dal mondo per così tanto tempo, Brandon non aveva idea di come agire, quali fossero le convenzioni sociali. Aveva vissuto di libri, di documentari e dei racconti altrui per diciassette anni, e per tredici non l’aveva praticamente fatto, passando da Azkaban, al manicomio, ai laboratori; per quanto potesse osservarli, per quanto volesse essere un essere umano normale, come tutti loro, non ne era in grado. Aveva paura di sé stesso, il Lowell, timoroso di quello che poteva fare nonostante volesse credere, e far credere, che era tutto sotto controllo, quando evidentemente non era così, non lo era mai stato né mai lo sarebbe stato. Voleva sapere chi era quel giovane sorridente nelle foto con Jericho, voleva sapere come era stata con lui, con loro, per tutti quegli anni. Voleva entrare nella vita della sorella, perché era consapevole –date le stesse parole di lei-, che sarebbe stata la giovane a risultare meno propensa al perdono: chiamatelo sesto senso, ma era abbastanza certo che Nathaniel sarebbe stato meno restio ad una riappacificazione –il fatto che non ci avesse ancora parlato, tuttavia, lo limitava non poco nel dimostrare tale teoria, ma non era importante. Lui lo conosceva, sapeva com’era fatto: quanto poteva essere cambiato in tredici anni? tanto Jack, secondo il magonò, sarebbe stato sicuramente ben felice di parlargliene, di raccontare i trascorsi della ragazza di tutto quel tempo al fratellone rinchiuso da qualche parte nel mondo, perché no? Non era quel tipo di persona, era tanto bravo nel ripeterselo giorno e notte da risultare davvero convincente, anche con gli altri; e bastava guardarlo davvero, mettere da parte tutti i pregiudizi sulla sua persona, ignorare tutto quello che su di lui era stato detto, tutto quello che per anni aveva macchiato la sua identità per capire che non avrebbe mai potuto far del male ad una mosca. Con quelle intenzioni, nobili per quanto socialmente imbarazzanti e discutibili, l’aveva avvicinato dopo tutto quel tempo passato nell’attesa che uscisse da Hogwarts da solo. E qui, ancora, potrebbe sembrare più psicopatico di quello che in realtà non è: approcciarsi ad una comitiva di adolescenti era fuori discussione per il trentenne, l’avrebbero sicuramente deriso, nessuno gli avrebbe dato retta, e non avrebbe concluso nulla. I gruppi lo terrorizzavano da che ne aveva memoria, o almeno quelli talvolta descritti nei film che aveva sempre idolatrato: aveva notato, trovando conferma nei tomi di psicologia che assieme a molti altri libri a caso aveva costretto i genitori a comprare per alleviare almeno in parte quella reclusione forzata in casa, come l’unione di particolari soggetti potesse essere dannosa per l’individuo solitario, soprattutto se questo, socialmente parlando, non viveva una situazione facile. Peraltro il Lowell, se vogliamo aggiungere altra carne al fuoco, nel caso i Catafratti avessero iniziato una battaglia tra gang, non aveva una gang con la quale rispondere –ancora non conosceva né Eugene né i Paccavengers (non tutti almeno) e dubitava che gli Hamilton avrebbero preso le sue parti; doveva decisamente farsi degli amici fortuna che poi c’è il Grande Oblivion.
    Poteva non sapere come fare, poteva sbagliare in molti modi il metamorfo nel comunicare con Jack Killian Hades, ma di certo non aveva alcuna intenzione di aggredirlo: l’idea non gli aveva nemmeno sfiorato le sinapsi; perché avrebbe dovuto? Era grazie a lui, e alla sua famiglia, se Jericho era cresciuta bene, dopotutto. Voleva solo ringraziarlo, Brandon Keith Lowell.
    Era quello il problema. Bastava così poco, avrebbe dovuto saperlo. E lo sapeva, ma non credeva sarebbe successo. Ci sperava, una volta incontrati gli occhi scuri del giovane mago, che sarebbe rimasto lui, che non sarebbe successo nulla. Lottava, continuamente, contro quegli impulsi che non gli appartenevano, e lo stava facendo anche in quel momento. Non sei tu, non sei tu, non sei tu. Non vuoi fare del male, non vuoi fargli del male, non fargli del male: sai come va a finire.
    «non so di cosa stai parlando» Rise, un suono fastidioso e prolungato, anomalo. Non era lui: a quanto sarebbe servito continuare a ripeterselo? Ma ci credeva. I tratti erano sfocati, i ricordi altalenanti, e la risata a volte si incastrava in gola; tutto quello gli faceva credere, distinguendo ancora la figura dell’Hades e chiedendo a questo informazioni sulla giovane Lowell, di essere ancora lì. Quanto sarebbe durato questo stallo, non poteva dirlo. Dio!, non sapeva nemmeno se poteva riprendersi, mentre la realtà, sottile carta vetrata, sfuggiva dalle dita, lacerando sempre un po’ di più di prima. «Lowell?»
    La mano, celere, prima ancora che nessuno dei due potesse avvedersene, attanagliò la gola del corvonero, spingendolo contro il muro. Era sempre bastata una sola parola, a farlo stare meglio. Lowell era quello che si ripeteva tra le asettiche e pallide pareti della sua cella, Lowell era tutto quello che lo legava a qualcosa, quando qualcosa non c’era. Una risposta del subconscio, un processo mentale tanto complicato da averlo sempre lasciato perplesso, a tal punto da reputare che perderci tempo, che studiarlo, non gli avrebbe comunque schiarito le idee, che non avrebbe messo al proprio posto in ordinate cartelle gli sporadici appunti della sua vita. Era un click impercettibile che nessun altro poteva sentire, ma se veniva prestata la giusta attenzione si riusciva ad intravedere un lieve cambiamento nella fisionomia: le labbra da serrate si facevano più morbide, i muscoli si rilassavano, le rughe sulla fronte si distendevano. L’efficacia, però, richiedeva tempo: passava ore a sbattere la testa contro il muro, a stringere le gambe al petto fino a che i muscoli non facevano male, e se lo ripeteva così tante volte che alla fine il suo stesso cognome gli suonava strano alle orecchie. «sì…» Strinse le dita attorno al collo dell’Hades, ancora più forte, sentendo quasi l’energia di questo venir meno; poteva sentire nitido il pulsare della carotide, senza capire perché questo rallentasse. Difettoso, disfunzionale, non sapeva quale etichetta più potesse essergli adatta: in ogni caso, non aveva idea di cosa il proprio potere gli permettesse di fare. Fino ad allora si era limitato a travestirsi da Rea o da Fremello dentro casa, il resto gli sfuggiva completamente. Di certo, non era consapevole di star assorbendo l’energia del giovane. Bran l’Esploratore alla scoperta della Metamorfosi. «…e no» continuò, avvicinandosi con un sorriso maniacale al viso di Jack. «avanti, non voglio farti del male» Simpatico, vero? «rispondi alla domanda, da bravo» Ma non voleva davvero; non riusciva a fermarsi, non teneva le redini di sé stesso e sapeva, Keith, di rischiare da un momento all’altro di lasciare il posto a chissà chi. Era un terno al lotto, una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro, e l’unica vittima sarebbe stata il giovane. Lui non voleva che questo accadesse, ma gli altri? Se ne sbattevano il cazzo; cosa accadeva quando subentrava un’altra personalità, non lo ricordava, ma in ogni caso dubitava gli sarebbe piaciuta, qualsiasi cosa avesse fatto. «e ripetilo» un sibilo, freddo, niente di più, all’orecchio di Jack. Finché ci riusciva, finché poteva, ci avrebbe provato, nonostante la tenaglia si stringesse sempre di più, la voce secca e canzonatoria che non lasciava trasparire quella supplica, lasciandolo passare per un pazzo. «Lowell: ripetilo»
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2 replies since 20/2/2016, 02:41   309 views
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