Heey brother

Emerald e Liam

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  1. (apsychos) Callaway.
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    EmeraldCallaway
    « can you hear the silence? »
    21 | deatheater | sicario | ΆΨΥΧΟΣ | the Black Hole | darkside
    «Guardami!» teneva l'uomo stretto all'altezza della trachea, spalle al muro, quasi lo sollevava dal terreno «Guardami!» ripetè urlando mentre faceva pressione con le dita sulla gola di lui, esattamente nel punto in cui l'ossigeno passava per raggiungere il cuore ed il resto degli organi vitali. Non glielo avrebbe chiesto una terza volta, non avrebbe aspettato un secondo di più , voleva che quell'ennesima vittima alzasse lo sguardo, voleva vedere il buio. Sentiva i muscoli del suo braccio fremere mentre la presa rimaneva ben salda, gli occhi di ghiaccio scagliati contro quelli dell'uomo, altrettanto freddi, altrettanto disumani. Riconosceva quello sguardo, riconosceva quel volto, riconosceva quella pelle rugosa al tatto, quasi inscalfibile dall'esterno. Erano tutti uguali, gli assassini. Soltanto quando la ebbe compiaciuta, quando le loro iridi s'incontrarono, Emerald sorrise divertita, andando a poggiare le sue labbra contro quelle del giovane, ne trasse un lungo bacio, il suo ultimo regalo, prima di staccarsi e farla finita. Un deciso colpo di polso, ed aveva infranto il più fragile tra gli equilibri, un colpo di polso, ed il collo di quella persona senza nome si rompeva come un ramo secco, già caduto dalla pianta. Mollò la presa, il corpo esanime del ragazzo si riversò a terra, gli occhi vitrei spalancati verso il cielo, verso la bionda che estraeva dalla borsetta un liquido igienizzante per le mani e ne versava sulle dita un poco. Quasi le era dispiaciuto interrompere la vita di quel giovanotto ma sapeva troppe cose e chi sa è meglio che venga eliminato. L'aveva seguita, l'aveva spiata, conosceva perfino il suo nome, Emerald, quello che mai rivelava quando si trovava a svolgere il suo lavoro. «Mi dispiace gioia ma tra te e me... » sussurrò squadrandolo dall'alto con un'espressione sollevata, che lasciava trapelare una sensazione di surreale ovvietà. Con una mano recuperò il rossetto violaceo dalla pochette ed, osservandosi allo specchio, lo riapplicò perfettamente sulle labbra, dopo tutto non baciava affatto bene quel tizio. Eliminò il cadavere con facilità, facendolo levitare grazie alla magia oscura fino ad un ponte sul Tamigi e scaraventandolo giù con decisamente poca delicatezza. Tutto era andato come previsto , poteva tornarsene a casa, festeggiare stappando l'ennesima bottiglia di champagne da bere in compagnia di se stessa. Si avviò per le strade deserte di Londra, erano le tre del mattino e quasi nessuno si aggirava per i vicoli illuminati solo da qualche sporadico lampione. L'ombra dava fastidio alla gente, il buio era una delle prime paure che si insinuava nel cuore degli esseri umani, cercavano di starci distanti, d'evitarlo completamente, oppure vi ci si tuffavano a capofitto. Emerald non apparteneva a nessuna di queste due categorie, lei non provava paura o ribrezzo, effettivamente non provava nulla, ma non lasciava nemmeno che l'ombra la usasse trasformandola in un mostro. La Callaway aveva semplicemente scelto di servirsi di quella materia oscura,di quella forza indomabile che gli altri non riuscivano a controllare. Aiutata dal fatto che le sue emozioni erano praticamente inesistenti, l'utilizzo di quella quinta dimensione le risultava estremamente facile, quasi ovvio. Gli stivaletti battevano sull'asfalto delle strade con un rumore appena percepibile, mani in tasca, capelli al vento, quella ragazza di appena vent'anni poteva essere scambiata per chiunque ma certamente non per un sicario. L'apparenza inganna sempre. Per questo Emerald non abbassava mai la guardia, l'unica volta che l'aveva fatto era stata imprigionata nei laboratori, non avrebbe più commesso una simile leggerezza. Arrivò a casa, sfilò le chiavi dalla tasca secondaria della borsa e le inserì nella serratura a doppia mandata, la porta si chiuse alle sue spalle mentre lei metteva dell'altra legna sul fuoco e si toglieva il cappotto abbandonandolo su una sedia della cucina. Dopo una doccia calda, la ragazza recuperò una bottiglia di whiskey e se ne versò un bicchiere, andandosi poi a sedere sul divano, accanto al camino. In quei pochi attimi di assoluto silenzio la bionda ripensava alla sua famiglia, non con nostalgia, non con rabbia ne con affetto, semplicemente li ricordava, riportando alla mente quei brevi anni della sua vita in cui era stata felice, in cui era stata amata. Felicità, amore, cos'erano per lei ora? Dei sentimenti estranei, delle parole che le lasciavano inspiegabilmente l'amaro in bocca. Era stata addestrata per trasformarsi in una strega capace di mantenere il buon nome dei Callaway, in quel senso aveva fallito e non le dispiaceva ammetterlo. Si rigirò l'ametista attorno al dito, quell'anello era l'unica cosa che le ricordava a volte chi era, cos'era stata, com' era arrivata ad essere una perfetta e spietata donna dallo sguardo di ghiaccio, che eliminava una vita dopo l'altra, come se stesse spegnendo le fiamme delle candeline su una torta di compleanno. Ci si faceva l'abitudine, ci si abituava anche a spezzare vite umane, ad essere una specie di Caronte pronto a traghettare le anime condannate all'inferno. L'oscurità era la barca, il mezzo, lei era colei che accompagnava le vittime nell'ultimo viaggio della loro esistenza, quello verso il Black Hole, verso il buio più totale. Avrebbe dovuto prendersi un periodo di vacanza ma il lavoro incalzava, giusto il giorno prima aveva ricevuto l'ennesimo messaggio anonimo con il quale le si dava appuntamento da Madama Piediburro per un altro incarico. Doveva recarsi lì alle dieci in punto del mattino, recuperò l'iphone ed impostò la sveglia, posò il bicchiere sul pavimento e si infilò sotto alla coperta abbandonata ai piedi del divano.
    Avrebbe voluto rimanere a casa e non presentarsi nemmeno in quel locale di Hogsmeade, anzi, avrebbe dovuto concedersi una pausa e cominciare a ragionare sul fatto di prendere posto al Ministero, di avere un lavoro vero che coprisse gli omicidi compiuti sotto le sembianze di Apsychos. S'alzò svogliatamente andandosi a sistemare i capelli e riapplicando il trucco sul viso pallido, una rapida occhiata allo specchio, la borsa nuovamente sotto il braccio ed il giubotto di pelle posato sulle spalle. Era pronta per uscire. Sbattè nuovamente la porta di casa, l'aria gelida del mattino la investì in pieno mentre si dirigeva alla passaporta più vicina, quella che l'avrebbe condotta proprio al centro della piccola cittadina di Hogsmeade. Qualche minuto dopo eccola lì, la bionda muoveva lentamente i primi passi nella piazza pricipale osservando le insegne dei locali che avevano caratterizzato la sua adolescenza. Quando frequentava Hogwarts era solita uscire dalla scuola per recarsi in quel paese, poteva dire di conoscerlo a memoria, ogni viottolo, ogni passaggio segreto. Senza indugiare oltre si avviò nel piccolo locale in cui non entrava più da anni, la prima cosa che notò qundo varcò la soglia del caffè fu l'intenso profumo di cannella e di molte altre spezie aromatiche, fuse allo zucchero caramellato. Prese posto in un tavolino osservando l'orologio battere le dieci esatte, era in perfetto orario, sperava solo che quella non fosse una trappola o qualcosa di simile , in ogni caso era pronta a tutto ma non voleva rovinarsi la manicure fatta giusto il giorno prima.
    role code made by effe don't steal, ask



    Edited by m e p h o b i a - 5/1/2017, 01:04
     
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    Liam fuckin Callaway
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    Qualcosa al mondo non andava.
    Innanzitutto, gli Italie continuavano a moltiplicarsi. Ma non potevano, non so, fare una sterilizzazione di massa? Non c'era una qualche cazzo di legge a limitarne la procreazione? Avrebbe proprio dovuto fare una bella chiacchierata con Aaron. Ma vabbè, quelli v’erano, e c’era poco da fare. Avevano addirittura i sosia, cose che manco ad Hollywood (o meglio, Bollywood: non esageriamo dandogli troppa importanza). Ovviamente però, non poteva bastare ad innalzare il livello di mainagioia: doveva necessariamente esserci qualcosa di ancora più ancestrale, peggiore perfino dell’usurpatore Baudelaire (che poi, che nome di merda era Cole? Ma potevi chiamarti Cole e diventare preside? Non c’era proprio più rispetto), o dell’usurpatrice Bulstrode (non poteva essere una coincidenza che iniziassero tutti con la B; doveva essere una qualche maledizione, qualcosa di dannatamente brutto che aveva fatto nella vita precedente).
    C’era un Callaway. Allora, le regole per la convivenza civile con Liam (ossia per sopravvivergli), non erano troppo complicate: non sfracellargli le palle, non raccontargli noiose informazioni sulla propria vita, non parlargli prima di mezzogiorno, non infastidirlo quando fumava, non fregargli la poltrona da sotto al culo, non chiamarsi Italie, non avere furetti.
    Non essere un Callaway.
    Era chiaro che al mondo ne bastava ed avanzava uno, non necessitava di ulteriori pesi sulla coscienza. Qualcuno, poi, che avrebbe potuto infangare il buon nome della famiglia, macchiando la sua reputazione. Quando si parlava di Callaway, doveva essere automatico pensare a Liam, ed a nessun altro: lui, che per loro era (letteralmente) morto; lui, che era tornato più incazzato di prima, ed ancora (se possibile) più meraviglioso. Bello, indubbiamente, con quei capelli scuri e quel sorriso sadico a curvare le labbra sottili, dove sempre pendeva pigra una sigaretta. Meraviglioso, intelligente, brillante… Non possiamo davvero cominciare la lista dei pregi, diverrebbe troppo lunga. E poi a chiunque lo conoscesse erano doti palesi, che di certo non si sforzava di non nascondere. Chi non lo conosceva, doveva morire. Così, semplicemente. Non fare ammenda del proprio orribile errore, non avere la possibilità di ammirarlo in tutta la sua magnificenza. Sarebbe stato troppo magnanimo donare loro quell’opportunità: se sentendo Callaway qualcuno avesse scrollato le spalle dicendo non conosco, sarebbe sicuramente andato incontro ad una rapida, forse, condanna a morte. Era chiaro, quasi cristallino, che Liam in questo metafisico discorso sulla bellezza dell’essere riconosciuti in un nome, alludesse a sé stesso. Di certo mai, neanche nei suoi incubi peggiori, avrebbe immaginato un ah sì, quella bionda.
    No. Ma proprio no. Chi sei, e come osi avere il mio stesso cognome. Non meriti di respirare il mio stesso ossigeno. Un furto, chiaramente un furto. Di Callaway doveva essercene solo uno, pochi cazzi.
    Ed intendeva rimediare.
    Il fatto che di questa fantomatica Callaway gliene avesse parlato il Non Italie, poi, era ancora più offensivo: lui, che era partito male a causa della faccia, conosceva (conosceva!!) i Callaway prima di conoscere Liam. Un vero affronto. Ancora non sapeva come avesse fatto a non ucciderlo, né perché avesse deciso, addirittura, di fargli da Garante. Era un tipo… a posto? Forse a posto non era il termine più adatto, ma era meno irritante di molte altre persone, il che gli faceva onore. Comunque, torniamo al discorso che più premeva sulla coscienza del giovane irlandese: il Callaway sbagliato. Dopo l’incontro con il suddetto Non Italie («comunque mi chiamo Al» «come vuoi, Non Italie») Liam aveva attivato la propria Dora Esploratrice interiore, iniziando le ricerche su questa plausibile plagiatrice di identità. Sapeva essere molto… persuasivo, Liam Callaway, e su quello non v’era alcun dubbio. Difficile che qualcuno potesse resistere al suo fascino, o alla sua bacchetta. Aveva il Crucio facile, e l’Avada sempre sulla punta della lingua. Non si interessava, né mai l’aveva fatto, abbastanza alla faccenda del giusto e dello sbagliato, o almeno non nel modo che sembrava tormentare molti altri in quel loco. Per lui era normale, se non giusto, uccidere qualcuno che gli dava sui nervi. Perché non avrebbe dovuto? Si trattava di mera supremazia, il più forte schiacciava il più debole: chi era lui per opporsi a Darwin? Lanciava la sfida, sempre: non era colpa sua se era dannatamene più bravo di tutti gli altri, i quali immancabilmente finivano per perire.
    Era un talento naturale.
    Liam e Big Nana (che aveva scoperto avere una passione per le serie gialle, oltre che per le telenovelas) avevano passato diverse ore dietro quel lavoro d’indagine, cercando di trovare indizi che potessero indirizzarli verso la Finta Callaway (e sicuramente finta bionda). Non ditelo in giro, ma era stata Big Nana a trovare l’indizio finale: in molti, sotto banco, parlavano di un misterioso sicario dai capelli biondi ed il sorriso sfuggente. Liam non ci aveva mai fatto troppo caso: non si era mai trovato nella condizione di dover assumere un sicario, gli piaceva svolgere il lavoro sporco di proprio pugno, al massimo si era ritrovato spesso e volentieri dalla parte sbagliata del mirino –ma, sorpresa!, era stato comunque sempre lui a far fuoco. Il fatto che i sicari svolgessero un lavoro illegale, non l’aveva mai turbato: lui era dalla parte della legge, ma se si trattava di uccidere, approvava. Meno persone c’erano su quella Terra, meglio era.
    A meno che il target non fosse lui; anche in quel caso, però, ci scappava il morto, quindi l’equilibrio universale era mantenuto. Questa Finta Callaway utilizzava un nome d’arte, proprio come le sue ragazze al Lilum. Una roba strana, tipo Psoriasi (la malattia, per intenderci). Ovviamente era stata Big Nana a prendere contatti anonimi con Psoriasi, mentre Liam si era fatto beatamente i cazzi suoi sorseggiando caffè ed immaginando come avrebbe potuto ucciderla; l’Avada gli avrebbe dato troppa poco soddisfazione, prenderla a pugni sarebbe stato poco signorile. Il veleno non faceva per lui. Mh, magari avrebbe potuto spararle. Non impazziva per le armi babbane, anzi, ma da quando gli avevano sparato avevano acquisito, ai suoi occhi, un’ironia del tutto nuova. Avevano provato ad ucciderlo con una misera pallottola? Bravih. E ora beccatevi queste, stronzetti, e crepate sul serio. «dille che ci becchiamo da Madama» avevano smozzicato a Big Nana, accendendo la sigaretta con un pigro gesto della bacchetta. Ora, con tutti i posti che avrebbe potuto scegliere… Perché Madama Piediburro? Non ci aveva mai messo piede in vita sua perché gli aveva sempre messo, giustamente e comprensibilmente, i brividi: cuori, cose rosa, angioletti, puttanate, persone, amoreggiamenti. Non era cinico, era realista: preferiva l’aria sensuale e sessuale del Lilum, a quella fottuta ipocrisia in pizzo. E allora perché l’aveva scelto? Perchè non voleva che un Finto Callaway mettesse piede nei suoi posti, mentre quello era territorio neutrale. E poi dare appuntamento ad un sicario apparentemente super cazzuto da Madama Piediburro, era così divertente che, dannazione, Liam si ritrovava a domandarsi perché cazzo non si fosse ancora candidato come presidente degli Usa. Già immaginava il suo discorso: «i have a dream» pausa drammatica. «che moriate tutti» un’altra sospensione ad effetto. «no scherzavo» risate generali. «non è un sogno, è quello che farò fra 3, 2 1…»
    E tutti gli infedeli sarebbero morti sul colpo, una specie di infarto collettivo (ovviamente solo la gente che gli stava sul cazzo, gli altri avevano il suo perdono: non potevano essere meravigliosi quanto lui, certo, ma non era un buon motivo perché morissero. D’altronde era una battaglia che non potevano vincere).
    Ah, che bello sarebbe stato.
    Ma torniamo a noi. Liam Callaway aveva la schiena poggiata contro al muro, una sigaretta spenta stretta fra i denti. Indossava un paio di jeans sacrificabili (in caso avesse dovuto sporcarsi; Big Nana si lamentava sempre di quanto fosse difficile togliere le macchie di sangue, e malgrado non sembrasse, Liam ascoltava sempre le proteste di BN –e solo le sue), una camicia azzurra, ed una spessa giacca nera che arrivava fino al ginocchio. Malgrado Big Nana avesse insistito per fargli mettere una sciarpa, Liam si era categoricamente rifiutato: «il mio problema non è il freddo, señora. Sono le persone, e per loro non mi serve una cazzo di sciarpa. Cavolo di sciarpa: scusa Biggy». Non ebbe bisogno di guardare l’ora, per sapere che erano arrivate le fatidiche dieci. Ebbene sì, la colf della Calles aveva ritenuto opportuno prendere appuntamento prima di mezzogiorno, lasciando Liam esterrefatto: come aveva potuto fargli una cosa del genere? L’aveva messo in una brutta posizione: aveva ucciso per molto meno, ma se nell’impeto del momento avesse ammazzato Big Nana, Aaron (e neanche Liam stesso) non l’avrebbe mai perdonato.
    Nessuno faceva le enchiladas come quella donna.
    Che fatica fingere di essere buoni.
    Gli bastò vederla da lontano per capire che era lei: bionda ossigenata, il passo di chi era convinto di avere il mondo ai propri piedi, sguardo annoiato, abiti da funerale. Che dolce, si era già preparata per il suo. Nel momento in cui gli passò affianco, Liam si accese la sigaretta. Vaffanculo, non sarebbe stato puntuale. Infantile, ma non gli avrebbe dato quella gioia: era un Callaway, lui; era giusto e sensato che la plebe lo attendesse. La osservò prendere posto, notando quanto fosse palesemente un pesce fuor d’acqua vicino alle trine ed i controcazzi smielati di quel posto. Era come vedere The Rock in un negozio di bambole, inquietante e quasi affascinante. Quasi gli dispiaceva di doverla uccidere, quasi. Soffiò l’ultima boccata di fumo dalle narici, spegnendo la sigaretta sotto il piede. Si prese tutto il tempo del mondo, tranquillo come solo un Liam Callaway poteva esserlo, mentre spingeva le due ante di vetro ed avanzava all’interno del locale, sgusciando elegante fra i tavoli. Non ci provava neanche più ad essere perfetto, lo era e basta. L’odore gli fece storcere il naso, ma non si rammaricò della scelta fatta. Anzi, se con un omicidio avesse potuto rovinare la giornata della coppietta di turno, o dell’allegra famigliola giunta per bere cioccolata calda e mangiare dolcetti a forma di cuore, tanto meglio. Scivolò fluido sulla sedia di fronte a quella della bionda, alla quale rivolse il più dolce dei sorrisi, incrociandone i morti occhi chiari. Sapeva che gli occhi azzurri potevano diventare freddi come cieli d’inverno, ma quelli? Oh, ragazzi miei, quelli erano occhi da assassino: si riconosceva sempre qualcuno fatto della stessa propria pasta, sgretolata dagli anni e resa secca dal calore.
    Peccato che lui fosse made in Ireland, e lei made in China.
    «psoriasi, giusto?» poggiò la schiena al sedile della poltroncina, incrociando le braccia sul petto. «o dovrei dire... "callaway" Il sorriso, se possibile, si allargò ulteriormente, lasciando balenare nelle iridi d’ossidiana un barlume di malvagio divertimento.
    - rule #1 never be #2 - code by ms. atelophobia
     
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  3. (apsychos) Callaway.
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    « don't get too close, is dark inside »
    Le dita della donna tamburellarono sul tavolino strisciandone appena la superficie, socchiuse gli occhi iniziando a perdere la pazienza e fu solo una questione di fortuna se non decise di recidere la gola della cameriera che, appena aveva preso posto, s’era avvicinata più del dovuto per chiederle se volesse ordinare. «No» fu l’unica, secca parola che uscì dalle labbra della bionda, dava al suo potenziale cliente altri sessanta secondi per entrare da quella porta altrimenti se ne sarebbe andata, non le piaceva aspettare, non le piaceva avere a che fare con la gente. Rimase a fissare la soglia del locale con aria annoiata, continuando a battere le unghie sul piano sotto i suoi palmi per scandire i secondi. Troppa dolcezza la circondava, troppa calma. Un sorriso privo d’ogni forma di calore comparve sul suo volto perfetto quando, proprio mentre il tempo finiva, faceva il suo ingrasso Liam Callaway, ex preside di Hogwarts, dato per morto e poi ritornato misteriosamente alla vita, oggi come oggi impiegato come consigliere al Ministero della Magia. Mentre s’avvicinava lei si limitò a squadrarlo cambiando posizione, lentamente poggiò la schiena sul retro della sedia e accavallò le gambe, portando infine una mano all’altezza del mento. Non sapeva perché un uomo del genere avesse richiesto quell’incontro, la fama che circondava il Callaway era tale da eliminare i sicari dalla sua lista del personale indispensabile, se non era dunque un appuntamento di lavoro quello a cui stavano entrambi per presenziare, l’unica alternativa venuta in mente alla bionda era sicuramente meno piacevole per ambedue le parti. Se per sbaglio aveva eliminato un suo caro amico, parente o conoscente avrebbe provato a fare la persona carina e, soltanto perché era il consigliere preferito da Sales, forse sarebbe perfino riuscita a scusarsi e a far sembrare il suo rammarico credibile. Nel momento in cui si trovarono faccia a faccia e la donna poté incrociare l’espressione di lui, fu costretta a scartare anche l’opzione della vendetta personale, lo sguardo del Callaway non brillava né di rabbia , né di agognante euforia o smania di sistemare un tornaconto. Era perfettamente freddo, lucido quanto lei che, stuzzicata dal suo modo diretto, non riuscì a trattenersi dal sbattere le palpebre più volte con viso angelico, inarcando leggermente le sopracciglia. Già l’idea d’entrare in affari con un tizio simile non le stava a genio, figurarsi se l’aveva convocata lì per una chiacchierata sul suo lavoro non molto legale ma indispensabile in quella società che faceva dell’omicidio, un metodo di pagamento molto richiesto. «psoriasi, giusto?» Sempre così simpatici i ministeriali, credevano d’essere superiori solo perchè sedevano ad una scrivania e decidevano della vita o meglio, della morte degli altri individui, sempre così affini al dimenticarsi i nomi della gente trattando ogni persona che incrociavano come plebe, come fastidiose zanzare da schiacciare non appena si rendevano visibili. Non che avessero torto, insomma la società andava debellata di certi elementi ma non serviva appendere i manifesti. Il centro della scena doveva sempre essere loro, a loro spettavano le mosse più brillanti, i piani più efficaci, a loro andavano i meriti e i ringraziamenti… Già, grazie dipendenti del ministero, avete fatto tanto per questo paese, gli estremisti avevano reso metà della gente dei mostri da eliminare e il restante delle persone non aveva un quoziente intellettivo abbastanza alto per poter vantare un posto da vivi in quella società. Bel lavoro. Se la ragazza avesse provato qualcosa nei confronti dell’uomo che le stava seduto davanti, probabilmente quella cosa sarebbe stato un sentimento definibile con la parola disprezzo ma visto che Emerald rimaneva a fissarlo senza sentire assolutamente nulla se non il solito vuoto al posto del cuore beh… si limitò a sorridere sarcasticamente udendo il nomignolo usato dal Callaway, facendo finta di non percepire una leggera nota offensiva nella sua pronuncia. «Apsychos» lo corresse muovendo appena la testa, accennando una specie di saluto per non mancargli di rispetto, dopotutto le avevano insegnato le buone maniere, non era stata addestrata da persone qualunque.
    «o dovrei dire... "callaway"?» A quella nuova provocazione del ministeriale, l’espressione già gelida sul volto della bionda divenne ancora più fredda ma non perse quell’elegante, maliziosa raffinatezza che mostrava qualche istante prima. Non sapeva come facesse l’uomo a conoscere la sua vera identità, non aveva dato tempo alla spia eliminata il giorno prima di comunicare con anima viva, il suo corpo marciva ancora sul letto del Tamigi, non c’erano prove, non c’era nulla. «Emerald» sussurrò con voce soave scandendo ogni lettera «Emerald Callaway.» Non avrebbe certamente negato le sue origini, negato la purezza del sangue che scorreva nelle proprie vene, tradito lo stemma di famiglia che portava al dito da tempo immemore. Certo, il suo lavoro poteva definirsi alquanto specifico e particolare ma non infangava la memoria dei suoi cari anzi, rendeva prestigio ai loro insegnamenti, al fatto che, in quegli anni, niente e nessuno era mai riuscito a fermarla dal raggiungere un obiettivo o dal prendersi una vita. Incastrò la lingua sul palato , facendola schioccare dopo qualche istante, era interessante osservare come il ragazzo sembrava fiero della sua scoperta, convinto che il sentire il suo cognome l’avrebbe destabilizzata o portata a compiere gesti non consoni a quell’ambiente. Em non nascondeva che, se quell’incontro fosse avvenuto in qualsiasi altro posto, avrebbe puntato il proprio coltello a pizzicare la gola del consigliere ma , come già detto in precedenza, sapeva mantenere un contegno non era cresciuta in un sobborgo londinese elemosinando per strada. «Mi faccia indovinare» continuò con lo stesso tono, portando le mani a contatto con il tavolino «Ha deciso di rintracciare ogni singolo Callaway e assicurarsi che in 7 milioni di persone rimanga l’unico ed il magnifico» concluse alzando leggermente le spalle, rigirandosi l’anello tra le dita. «Beh buona fortuna, con il suo permesso vado ad ordinare da bere così le lascio un po’ di vantaggio» non aveva intenzione di prenderlo in giro anzi, la sua espressione si fece seria, incomprensibile , solitamente era noioso giocare con la mente delle persone per quello Emerald arrivava subito al momento clou ma con il Callaway era diverso, il suo modo d’approcciarsi la interessava, la intrigava ma di una cosa era assolutamente certa, non potevano provenire entrambi dalla stessa famiglia. #einvece
    20 Y.O | neautrale
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    EMERALD APSYCHOS CALLAWAY
    | if i was you, i'd wanna be me too | ms. atelophobia
     
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    A scanso di equivoci, c’erano due tipi di persona che non piacevano a Liam Callaway: quelle che respiravano, e quelle che non respiravano più. Quando incameravano parte dell’ossigeno che il Signore aveva decretato dovesse appartenergli, ossia tutto quello contenuto nell’atmosfera, lo irritavano per giusta causa – era un furto, il loro; uno stramaledetto furto. Osavano muoversi, con quei loro piccoli piedi insulsi sul suo cammino, setacciando strade che neanche avrebbero dovuto vedere, occupando uno spazio che non era loro destinato. Come avrebbero potuto andargli a genio? E poi i peggiori, quelli che non respiravano. Per quanto, da una parte, ovviassero al problema dei loro colleghi in quanto non necessitavano più di aria, dall’altra lo seccavano per la loro assenza – vedi un nuovo fantastiko modulo da compilare, una famiglia da avvisare della perdita, un funerale in cui fingere rammarico… eccetera, eccetera. Insomma, per Liam non c’era una vera situazione che fosse accettabile, il che di per sé valeva come giustifica per la sua shitty attitude verso chiunque non fosse egli stesso. Non era colpa della gente, neanche l’irlandese si sarebbe spinto così presuntuosamente lontano da credere che ogni errore fosse loro.
    Era colpa di Dio, o chi per esso avesse preso la decisione di metterli nello suo stesso spazio temporale, costringendolo –per forza di cose- ad interagire con loro. Era sicuro, di quelle convinzioni che nascevano dal bisogno di sperare in qualcosa per non impazzire, che in un diverso secolo, in una diversa vita, la terra era stata popolata da esseri che valeva la pena conoscere, e che non sarebbero stati un insulto alla sua intelligenza. Purtroppo per lui, era evidentemente nato nel secolo sbagliato, e quello – quello schifo - era ciò che passava il convento. Di tanto in tanto fra la spazzatura era in grado di trovare qualcuno di non troppo repellente, ma da lì al reputarli suoi eguali, o almeno esseri umani, ne passava di acqua sotto i ponti. Trovava profondamente greve la boriosa arroganza altrui che li spingeva a credere che potessero parlargli senza che fossero stati invitati da lui stesso, figuriamoci utilizzare un tono di commiserazione. Correggerlo, poi? Ma un altro pianeta. Osservò la bionda seduta di fronte a lui senza ribattere al cenno con il capo con il quale aveva perfezionato il proprio nome, anche se in parte ne ammirò l’educata cortesia. Giustificò l’atto con l’alquanto ovvia e naturale biondezza del capello, appurato da anni che fosse un veritiero fattore di idiozia: davvero credeva che non sapesse pronunciare il suo nome in codice? Cos’era poi, un ninja? Strana gente i sicari, rimanere nell’anonimo per togliere la vita a qualcuno. Lui uccideva ogni giorno, ma non aveva ancora avuto la malsana intenzione di cominciare a farsi chiamare Barbabietola da Zucchero. Si morse la lingua, piegando però le labbra nell’ennesimo sorriso privo di spessore, trattenendosi dal ribattere come preferisci, psoriasi solamente perché sarebbe stato terribilmente infantile. Il teatrino della bionda lo lasciò del tutto indifferente, dacchè lui alla cazzata del uno sguardo potrebbe uccidere, non credeva; se avesse voluto mostrarsi granitica per il resto della loro –breve- conversazione, perfetto: per quanto lo riguardava, avrebbe potuto divenire fredda come l’iceberg che aveva tranciato il ventre del Titanic, se l’avesse fatta sentire più a suo agio.
    D’altronde era giusto e lecito che cominciasse ad abituarsi a quella glaciale immobilità, dato che di lì a poco avrebbe dovuto portarsela appresso per sempre. Sbattè le ciglia pigramente quand’ella si presentò con il suo nome completo, le labbra sottili tirate in un espressione che avrebbe potuto esprimere divertimento quanto noia, cruccio dell’interlocutore interpretarlo. «emozionante» commentò apatico, rendendo cristallino quanto poco gliene sbattesse il belino. Poteva chiamarsi anche Fagiolina se la aggradava, il problema era un altro: Callaway. Non gli piaceva che il proprio cognome venisse usato in maniera così degradante e miscredente, una bestemmia sulle rosee labbra di Psoriasi. Schioccò la lingua sul palato chinandosi verso il tavolo, i gomiti poggiati sulla superficie liscia ed il mento posto delicatamente fra le dita intrecciate.
    «Mi faccia indovinare. Ha deciso di rintracciare ogni singolo Callaway e assicurarsi che in 7 milioni di persone rimanga l’unico ed il magnifico» Finalmente, dopo secondi di estenuante rassegnazione da parte dell’irlandese, Emerald (ed in quel nome, ad essere sinceri, credeva poco: andiamo, quale genitore da al proprio figlio un nome del genere? Il secondogenito era forse Topazio?) aveva finalmente detto qualcosa in grado di colpirlo, più interessante di quanto narrato fino a quel momento. Sbattè nuovamente le ciglia senza celare il proprio stupore, piegandosi all’indietro per poggiare nuovamente la schiena al sedile. Allargò le braccia, quindi le lasciò ricadere morbide in grembo, le dita vicino all’impugnatura della bacchetta. «non pensavo che le bionde fossero in grado di pronunciare numeri, figuriamoci contare» con lenta intenzione, sollevò le mani e cominciò a batterle fra loro, un espressione indecifrabile sul viso cesellato. Non sorrise in quell’atto mantenendosi invece profondamente serio ed ossequioso, l’ultimo spettatore di uno spettacolo che da tempo aveva chiuso bottega. «sono impressionato, psoriasi» si schiarì la voce, spaccando l’impassibilità della maschera con uno di quei brillanti sorrisi che da sempre gli avevano spianato la strada, in grado d’illuminare a giorno anche la strada più buia – o di oscurare a notte una città dove il sole non tramontava mai. «emerald» si corresse, chinando brevemente il capo in un rispettoso inchino verso il sicario. Effettivamente, e presumibilmente senza volerlo, gli aveva appena suggerito quello che avrebbe potuto divenire il suo hobby quando si fosse stancato del golf – ebbene sì, giocava a golf. Come aveva fatto a non pensarci prima? Quella s’ che sarebbe stata una sfida affascinante ed intrigante, degna del tempo libero di Liam. Di solito non si sprecava ad uccidere per divertimento, ma sarebbe superficiale dire che non fosse tentato dalla (neanche troppo) velata imbeccata della bionda. Tamburellò l’indice sul labbro inferiore, le spalle strette fra loro ed i muscoli tesi e pronti all’azione. Fu in quel momento, mentre ancora si interrogava sul suo nuovo scopo nella vita come doveva aver fatto Mosè con in mano i dieci comandamenti, che lo vide. Poteva apparire sempre annoiato, disattento ad una realtà che difficilmente era in grado di catturare la sua preziosa attenzione, ma la verità era tutt’altra. Da che aveva memoria, Liam era stato un ottimo osservatore, capace di distaccarsi dalla situazione che stava vivendo abbastanza da coglierne ogni dettaglio con occhio oggettivo, sezionando l’ambiente come avrebbe fatto un forense su di un cadavere. E come avrebbe potuto sfuggirgli l’anello al dito di Emerald? L’aveva inizialmente catalogato come mera frivolezza femminile, relegandolo poi ad incapacità della donna nel svolgere il suo lavoro – perché, andiamo, se voleva rimanere nell’anonimato abbastanza da dover utilizzare un nickname, era stupido portarsi ad un incontro con un possibile cliente un oggetto che potesse darle concretezza. Era un po’ come essere l’assassino e sputare sulla scena della crimine. Quand’ella però lo sfiorò, acquisì un significato del tutto nuovo ai suoi occhi. Innanzitutto, se lo sfiorava sovrappensiero, doveva essere un oggetto al quale era molto legata, e che da tempo immemore occupava quello spazio; bastò quell’insinuazione per farglielo adocchiare con sincero interessamento, e bastò un secondo sguardo perché il sangue gli si gelasse nelle vene.
    Perché Liam, Liam Callaway, conosceva fin troppo bene quel serpente che si mordeva la coda.
    Buon Dio, ma chi era quella donna. Non solo abusava del suo nome, ma era stata perfino così stupida da derubarlo? Lui, o la cugina, o chiunque fosse davvero membro della sua cas(a)ta. Inspirò profondamente socchiudendo gli occhi, una stanchezza soddisfatta ad ammorbidire le membra irrigidite dall’adrenalina. Vide le labbra carnose di Psoriasi muoversi, ma non colse le sue parole. Se prima non gli interessavano, ora gli interessavano ancora meno - e vi assicuro che neanche lui lo credeva possibile. La guardò mentre si alzava e si infilò una sigaretta fra le labbra, segno che stava per succedere qualcosa di molto, molto brutto. Rapido, estrasse la bacchetta e la puntò contro la mano di lei: «accio anello» l’incantesimo di appello era uno dei primi che venivano insegnati a scuola, e come in ogni ambito della vita, Callaway eccelleva in quella materia. Un fluido gesto del polso, la giusta concentrazione e zac, il mondo capitombolava ai suoi piedi implorando perdono per l’essere stato così sciocco da credere di poterlo fottere. In quel caso, il mondo, altro non era che un semplice cerchio argentato.
    L’anello della sua famiglia.
    «a chi l’hai rubato?» domandò semplicemente, rigirandoselo fra le dita. «giusto per sapere se devo offrirti da bere, o ucciderti» si strinse nelle spalle, lanciandole un’occhiata da sopra l’artefatto. «preferisco non spendere soldi in alcool , se so che andrebbe poi sprecato allargandosi sul pavimento nella scura pozza cremisi del tuo sangue» si inumidì le labbra, le palpebre pesanti ed un tono di voce monocorde. «nulla di personale, puro pragmatismo» e l’ombra di un sorriso sulla bocca, lo sguardo a brillare della ferocia che gli era valsa la poltrona sulla quale sedeva, e la sopravvivenza a discapito di tutto – a discapito di tutti.
    - rule #1 never be #2 - code by ms. atelophobia
     
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