We're both broken in our own little ways

for Lydia (cit.)

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    Jayson Matthews ( ) - 18 - Muggle - #neutralasfuck - telekinesis ( )
    « We're broken, but we fit together just right » (#teamalzheimer)

    Ehi Stilinski, pidocchio, dici a me?
    La giornata di Jayson era cominciata cosí. O, almeno, la parte spiacevole. L'altra, che definire piacevole sarebbe comunque un'esagerazione da guinness dei primati - sempre e comunque #mainagioia - l'aveva passata sotto la doccia prima e a lezione con Nathaniel poi. Viveva ancora a New Hovel, nella stanza che gli avevano riservato non lontano da Xavier, ma le sue cose erano gia impacchettate. Non che avesse molto da portare con sé, ma vedere quei sacchi abbandonati sul pavimento gli faceva comunque un certo effetto. Soprattutto perché, nonostante continuasse a chiederselo giorno dopo giorno, non riusciva ancora a capire quale forza mistica lo avesse spinto ad accettare la proposta di Rea. Stava davvero facendo armi e bagagli per trasferirsi a villa Hamilton? Qualcosa gli suggeriva che in quella casa avrebbe imparato molto, e non solo sul proprio potere e come utilizzarlo per uno scopo: era come se li conoscesse, senza davvero ricordarli. Rea, Amos... Gemes. Quel Gemes Hamilton capace di irritarlo anche solo con uno sguardo, quel Gemes Hamilton al quale non riusciva a smettere di pensare - #GAAAAAYYY #JEMES -. C'era qualcosa, ben celato nella mente di Jay, che lo collegava a tutti loro, e vivere fianco a fianco era forse l'unico modo per fare chiarezza. Credici, Jay. Ammesso poi che riportare alla luce certi ricordi fosse di per sé un fatto positivo, just saying.
    Eniuei, il ragazzo si era guardato bene dal mettere al corrente chiunque di quel cambiamento radicale, a partire da Stiles, passando per Xav e terminando con il professor Henderson. Con i primi due si trattava semplicemente di mera mancanza di occasioni: da quando era stato rapito e sbattuto senza troppi giri di parole nel labirinto, non aveva visto nessuno dei fremelli. Meglio, si era tenuto volontariamente alla larga, necessitando di tempo per mandar giú la faccenda e possibilmente dimenticarla. Merlino, quanto desiderava raccontare loro tutto! Non aveva dubbi che i due gli avrebbero creduto sulla parola, nonostante gli alibi creati ad arte dai tizi che avevano organizzato quell'immensa stronzata sceneggiata, ma coinvolgerli era fuori discussione. Quanto a Nate... Non é tuo dovere dirglielo, Freds. Non gli devi niente. Ma la voce si sbagliava. Di grosso. Doveva a Nathaniel piú di quanto fosse disposto ad ammettere e per qualche ragione sentiva che metterlo al corrente del suo trasferimento a villa Hamilton fosse importante, ma non ci era riuscito. Aveva passato un'ora in quell'aula, osservando l'uomo mentre questo gli spiegava come il suo potere potesse svilupparsi, una volta acquisita la giusta dose di controllo, senza riuscire a spiccicare una parola sull'argomento. La presenza di Lydia, oltretutto, non lo aveva aiutato affatto: non riusciva a concentrarsi con lei presente, figurarsi iniziare una conversazione cuore a cuore con quello che ormai considerava a tutti gli effetti il suo mentore. Sí, ma voi a Henderson non ditelo eh.
    Ed é cosí che la parte decente della giornata si era conclusa: con un saluto mesto e inequivocabilmente colpevole, il sopracciglio inarcato di Nate e il profumo dei capelli della Hadaway nelle narici. Jay aveva abbandonato l'aula in fretta e furia, provando l'intenso desiderio di ridere - Con un po' di impegno e tanto allenamento potrai utilizzare il tuo potere per teletrasportarti, Jayson! - e quello di sotterrarsi da solo in una buca profonda, finché quell'inica parola abagliata gli era sfuggita dalle labbra. Fanculo . Era rivolta a se stesso, su questo non potevano esserci dubbi, ma i due tizi di fianco ai quali era appena passato senza nemmeno vederli, non sembravano aver afferrato il concetto.
    Ehi Stilinski, pidocchio, dici a me?
    Here we fucking go.
    Jayson si voltó, ruotando su se stesso quel tanto che bastava per inquadrare i due ben piazzati nel mezzo del corridoio. Indossavano divise nere con stemmi e cravatte verdeargento, ma il ragazzo non faceva discriminazione tra le case: con Karma andava d'accordo, no? E comunque gia nel momento in cui posó gli occhi nocciola su di loro capí dove avrabbe passato il resto della mattinata. Fino a qualche mese prima, quando Stiles ancora frequentava il castello e le lezioni dell'ultimo anno, Jay si sarebbe limitato ad abbassare la testa, stare zitto, prendere la sua buona dose di botte per evitare che il fremello potesse essere tirato in mezzo in un successivo momento. Ma Andrew non doveva tornare al castello e non avrebbe subito rilercussioni. Inoltre.. inoltre sentiva una voglia matta, quasi disperata, di rispondere. Basta farsi mettere i piedi in testa, Freddie . Giá, basta Freddie, chiunque tu sia. Aveva subito troppo, negli ultimi tempi, sentendosi impotente di fronte a qualcosa piú grande di lui, per passare oltre ad un momento del genere senza nemmeno provare a guadagnarsi l'ingresso alla sala torture. Forse per una volta poteva andarci alle sue condizioni, prendendosi qualche soddisfazione. Ti sembrava che parlassi con te? E mi vedi girare con addosso la divisa dei Tassorosso? chiese, inarcando le sopracciglia, senza distogliere lo sguardo da quello che aveva parlato per primo O magari oltre che idiota sei anche cieco . Concluse con un sospiro rassegnato, quasi provasse dispiacere per la condizione di sottosviluppato del Serpeverde. Il quale, preso alla sprovvista quasi quanto il suo compagno di avventure, non tardó ad assumere le mille sfumature di un tramonto sul mare (?). Rosso, rosa acceso, a tratti violaceo.
    É uno degli altri due, Dom. Uno di quegli schifosi esperimenti che stanno con Henderson Per lo meno l'altro sembrava piú sveglio. Jayson avrebbe potuto - avrebbe voluto - concentrarsi su uno dei due e mandarlo a sbattere contro la parete di pietra. Sentiva i palmi delle mani che prudevano, il cuore in improvvisa accelerazione, il respiro breve e a corto di ossigeno. Ma il nome di Nate bastava a frenare anche gli istinti piú feroci: il giovane Matthews non era uno stupido e sapeva come giravano le le cose ad Hogwarts con il nuovo preside. Se avesse ferito uno studente, la colpa sarebbe ricaduta sul professore che era responsabile di aiutarlo a controllare il suo potere. Sempre meglio schifoso esperimento che cerebroleso con la faccia da maiale come voi due. #BOOMBITCHES. Almeno qualcosa da raccontare a Stiles per renderlo fiero adesso ce l'aveva. Ebbe giusto il tempo di terminare la frase e godersi il retrogusto dolciastro delle parole scelte con cura, prima che un pugno diretto nello stomaco gli risucchiasse tutta l'aria dai polmoni. Puff, come non ci fosse mai stata. Tossí piegandosi in avanti, senza riuscire a levarsi dalla faccia un sorriso che non sapeva nemmeno di poter mostrare. Jayson non sorrideva. Lo faceva sentire stupido, un vero beota. Ma in quel momento non sembrava intenzionato a smettere. Uno schifoso esperimento ostile, Boyd. Il preside Sicla é stato chiaro in proposito.
    Non ebbe bisogno di sollevare la testa per sapere che ormai stavano entrambi sogghignando. Si sfregavano le mani, consci di poter sfogare i propri istinti sadici su di lui come su tanti altri prima, sapendosi protetti dall'alto. Beh, che giustizia del cazzo. Perché non ve ne andate tutti e due a farvi f-- Ah, Morgan, cosa avrebbe dato per finire la frase! Ma la punta di uno scarponcino glielo impedí, impattando direttamente contro il suo viso. Non sentí nemmeno la vampata di dolore, solo un ronzio improvviso invadergli la testa, poi il buio. Jays's out, plebei . Mentre flippava via, e i due serpeverde lo trascinavano di peso, sentí ancora la voce. Quella che insisteva a chiamarlo con un nome che non gli apparteneva. Con qualcosa di diverso che Jayson non poteva riconoscere, non in quello stato.
    Almeno ci siamo diverti, non é vero Freddie?
    Sì Gemes, ci siamo divertiti #OOPS.

    Riaprí gli occhi, lentamente, portato nuovamente a galla non tanto dal dolore, quanto dall'odore. Quello che aveva imparato a conoscere quando si trovava nei laboratori: sangue, sudore, paura. La sala delle torture ne era pregna, satura. Subito dopo arrivó la sensazione di avere mille spilli conficcati in ogni singolo muscolo, anche se a dolergli piú di tutto era ancora quella parte del viso -naso e bocca - colpita dallo stivale. Aveva giá altre ferite, tutte superficiali, all'altezza del torace. Abbassó la testa, per quanto glielo permetteva la posizione in cui l'avevano bloccato e il sangue che colava dal labbro, osservando con sguardo quasi distaccato quei segni rosso vivo sulla pelle fin troppo pallida.
    Che bagashi .
    the heart is deceitful above all things,


    Edited by mephobia/ - 14/1/2018, 17:01
     
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    annie moreau lydia hadaway ( ) - 19 y.o - the girl who doesn't exist - amnesiac
    « We are one in the same Oh you take all of the pain away Save me if I become My demons »
    V’era sempre quel momento, un momento specifico, nel quale ci si accorgeva che stava per accadere qualcosa. Lydia lo percepiva come un sussurro sulla nuca che le faceva drizzare i peli sulle braccia, elettrico. Il battito cardiaco pareva improvvisamente assente, un suono con il quale si imparava a convivere sin da neonati, impercettibile ad un orecchio abitudinario e necessario quando non c’era. Una mancanza, come se il mondo stesse trattenendo il respiro. V’era sempre quel momento, un momento solo, nella giornata della Hadaway nel quale esisteva solamente lei in tutto l’universo, solo il suo petto che s’alzava ed abbassava per pura abitudine, nonostante non avesse necessità di respirare. Il tempo si fermava, lasciandola scivolare fra le proprie pieghe come un ospite indiscreto. Avanzava, tremante, sapendo che era l’unica cosa che poteva fare; avanzava, perché riconosceva in quella fissità una finzione. Non era reale. Non è reale, Lydia. Eppure non poteva trattenersi, la rossa, dallo stringersi le braccia al petto. Manteneva il capo chino, lo sguardo fisso sui propri piedi, consapevole che se l’avesse alzato avrebbe visto qualcosa di molto, molto brutto. Saperlo non lo rendeva più facile, o più gestibile. Come una preda che conosce l’ora esatta in cui il predatore busserà alla propria porta, l’aspettativa le generava più angoscia dell’atto stesso, impedendole di riflettere in maniera lucida. Avrebbe dovuto esserci abituata, a quel palpito d’oscurità dietro le palpebre socchiuse. Avrebbe dovuto essere avvezza al bisbiglio del buio, a quella voce che solamente lei riusciva ad udire. Avrebbe dovuto smettere di rabbrividire ogni volta che percepiva gli occhi delle ombre sulla propria pelle, smettere di soffocare singhiozzi ogni qual volta ne percepiva le impalpabili dita sul volto. Avrebbe dovuto smettere di avere paura: non è reale, Lydia. Ma come poteva esserne certa? Se razionalmente era sicura si trattasse di allucinazioni, non c’era niente da vedere sentire percepire, non poteva dire lo stesso del proprio istinto. Perché lei vedeva sentiva percepiva, e quando erano i propri sensi ad ingannare, la linea che divideva l’astratto dal concreto e la realtà dall’illusione si faceva più sottile, meno marcata. Invisibile. Forse, quella divisione, neanche esisteva. Guarda, Lydia. Deglutì, stringendo le labbra fra i denti con forza. No. Il no di una bambina la quale diceva ai genitori che non avrebbe guardato sotto il letto, nonostante loro le avessero assicurato che non vi fosse nulla; il no di chi sapeva che il loro nulla, sarebbe stato il proprio tutto. Solleticava i palmi con le unghie, ritmicamente, ancorandosi a quel contatto quasi ne fosse andata della sua vita. Non un respiro, non un battito, non un passo che fossero diversi dal suo. Poggiò la mano sulla maniglia, spingendo. Non un rumore, non un profumo, non un movimento che fossero diversi dal suo. Gocce cremisi sul pavimento, sui muri, sulle basse poltroncine; tracce scarlatte sulla scrivania, sui vetri dal quale filtrava una luce color ciliegia. Ed il primo passo, quel primo passo dove il piede s’appiccicava insistente alla pietra, trattenendolo con la viscosità del liquido dal quale era ricoperta.
    E quei corpi, lasciati a marcire da uno sguardo disattento; quei ragazzi, quegli occhi che Lydia Hadaway aveva imparato a conoscere giorno dopo giorno, mese dopo mese, aperti su un futuro che non gli apparteneva più
    . Le unghie continuavano a grattare i palmi, i denti a stringere le labbra, le palpebre incapaci di serrarsi rendendola cieca a quell’orrore. Lei doveva vedere. Lei doveva sentire. Lei doveva percepire. Impallidì, facendo scivolare i polpastrelli sulla superficie più vicina, ritraendo tremante la mano: ed era lì, quella striscia che del petalo di una rosa aveva solo il colore. Il respiro si spezzò sempre allo stesso punto, a metà strada fra i polmoni e la trachea, costringendola ad inspirare con più voracità, costringendola a singhiozzi più languenti. Un animale in trappola, La Hadaway; e la trappola, era la sua stessa mente. Ed eccolo l’universo che ricominciava a respirare, a muoversi, ad esistere. Ed eccolo il punto fisso ch’ella andava cercando, in quel mondo di caos nel quale non riconosceva neanche il proprio riflesso. Qualcosa di fermo, d’immobile, che risaltava sul fondo di uno scenario che andava scemando, lasciando spazio alle mura in pietra, al sapore di rame sulle labbra e la lingua. Ed eccoli lì, quegli occhi caramello, così diversi e uguali. Un respiro, e anche quell’aria rarefatta a Lydia pareva pura; e nel peggio, cominciava ad andare meglio. Guarda, Lydia. Questo è reale.

    Stava camminando priva di meta per i corridoi del castello, quando la rossa udì qualcuno correre alle proprie spalle. Sembrava trafelato, e quando la Hadaway sentì i suoi passi troppo vicini, si spostò lateralmente così che potesse proseguire la sua corsa e… aspetta. Si irrigidì, abbassando lo sguardo nocciola dapprima sulla mano stretta attorno al proprio polso, per risalire poi lentamente sul braccio e giungere infine ad una cravatta blu bronzo. Non conosceva il ragazzo dai tratti delicati e lo sguardo limpido, quindi di certo non poteva comprendere il motivo della preoccupazione nella sua espressione. Fu rapido lui a ritirare la mano, quando comprese di non essere gradito. «Hadaway? L’assistente di Henderson?» Lydia annuì, inarcando entrambe le sopracciglia. Si rendeva conto di essere troppo fredda, si rendeva conto che il giovane non meritava la linea dura dipinta sulle proprie labbra. Paranoia. Reticenza. «Stiles… Cioè, non Stiles, uno degli altri. L’hanno portato dalla Jamicla, io non posso entrare ma…» Che strana lingua andava parlando? Cos’era uno Stiles? E la Jamicla? Deve aver sniffato qualcosa ad Erbologia, forse cannella. Pensò fra sé, non riuscendo a trattenere un sorriso soddisfatto per quel brandello di ricordo suo, della sua vita; parole udite con le proprie orecchie, racconti di cui aveva riso lei. Quel passato recente che cominciava a diventare storia: la breve storia di Lydia Hadaway. All’interrogativo nel suo sguardo, lui rispose con un’occhiata allusiva alle persone che la circondavano, quindi tentò un approccio più umano. Solo in quel momento Lydia notò le occhiaie, il taglio sulla guancia, la divisa stropicciata. Solo allora percepì su di lui l’odore del sangue della Sala delle Torture, con una poco simpatica stretta alla stomaco che la fece meccanicamente indietreggiare. «Mi chiamo Jack. C’è un ragazzo nella Sala delle Torture…» La Hadaway si strinse le braccia al petto, assottigliando le palpebre: Sicla. Odiava Erin Sicla, in maniera sincera e viscerale. Il fatto che fosse la torturatrice ufficiale del castello non aiutava per l’immagine già negativa che la rossa aveva di lei; odiava i bulli, odiava i soprusi, e soprattutto odiava chi toccava i suoi ragazzi. «Maledetta» Sibilò, alzando lo sguardo per capire in quale parte del castello si trovasse. Una volta che si fu orientata, posò nuovamente gli occhi chiari su Jack, rivolgendogli un breve sorriso. Non potè nascondere la scintilla di rabbia, così come non potè impedire alla propria voce di suonare accusatoria ed irritata. «Vai in infermiera, Jack. E … grazie» Si diceva grazie? Era quello che ci si aspettava dicesse? Corrugò le sopracciglia, dirigendosi a passo deciso verso la Sala delle Torture. Cercava sempre di proteggere i ragazzi di Henderson, invitandoli a non fare stupidaggini –perlomeno non in pubblico-, ma i pregiudizi erano così radicati che bastava respirassero un po’ troppo forte per i gusti dei maghi, che la condanna era già decisa. Come potessero non comprendere, o non ammirare, quel dolore e quella forza, era per Lydia un mistero. Gli studenti erano inconsapevoli ancore nella sua vita, ed il minimo che poteva fare era assicurarsi che tornassero a casa sani e salvi. Almeno loro.
    Fu lì, nel corridoio che avrebbe portato alla porta in legno della Sala, che accadde. Il terrore che impregnava quelle strette mura in pietra, divenne concreto sotto gli occhi di Lydia; divenne finzioni, e divenne realtà. Divenne futuro, e divenne il possibile. I polpastrelli lungo la parete, il capo chino; cercava una forza che non possedeva, limitandosi ad andare avanti. Continuare a camminare, perché il tempo avrebbe ricominciato a scorrere; continuare, perché c’era qualcuno che, malgrado tutto, aveva bisogno di lei. Il buio, la luce, la paura, il dolore, il sangue: era tutto reale, era tutto passato. Erano frammenti di ricordi che non sapeva di possedere, era un qualcosa che latente attendeva il momento propizio per spezzarla definitivamente, lasciando solo i frammenti di un’ombra. Un altro passo, ancora uno. La maniglia era lì, ma erano anche i demoni che cercavano di farsi strada attraverso i suoi polmoni, membra troppo deboli per trattenerli ancora a lungo. Perché proprio in quel momento? Non poteva attendere solo un altro po’? Voleva una vita normale, Lydia Hadaway. Voleva solo una vita normale. Il pallore innaturale faceva risaltare la chioma color fragola, intrappolata in una coda ordinata dalla quale sfuggiva qualche ciocca ramata. Ma tutto quel non esistere ed al contempo esistere semplicemente cessò, cadendo come polvere in una clessidra, quando un altro petto cominciò ad alzarsi e ad abbassarsi insieme al suo. Diede voce al proprio sospiro con voce sottile, lasciandosi sfuggire un sorriso grato –gratitudine che il ragazzo non avrebbe potuto comprendere. Era reale. Era l’unica cosa reale. Poi capì cosa l’aveva strappata a quel mondo, comprese cosa l’avesse realmente trascinata a terra, consapevole di ciò che la circondava. Aggrottò le sopracciglia muovendo i primi cauti passi verso il giovane; l’aria compatta, pesante. «Jayson?» Bisbigliò appena, trattenendo a stento il rimprovero sulla punta della lingua. Quando si chino davanti a lui, indecisa su dove posare lo sguardo fra le varie contusioni di Jay, non v’era più traccia di quel biasimo, Jamicla, eh? Pensò con astio, mordendosi la lingua. Prese delicatamente il volto di Jayson fra le proprie mani, ben attenta a non fargli male. L’ultima volta che l’aveva tenuto così, era stato alla festa e… e davvero non era il momento di pensarci, o per l’amor del cielo di arrossire come una pudica dodicenne. «È tutto okay» Mentì, annuendo fra sé mentre cercava di mostrarsi almeno un briciolo competente. Cioè, non Stiles, uno degli altri. Solo allora la frase smozzicata dal Corvonero ebbe un senso per Lydia. «Ti farò uscire di qui» Continuò, più per tranquillizzare sé stessa che Matthews, mentre il cuore cominciava a batterle con forza nel petto. Prese la bacchetta, osservandola qualche secondo; così estranea, così sbagliata nella propria mano. Perché? «Alohomora» Mosse solo le labbra, poco incline a riflettere su quella riluttanza nella propria magia, e quando le manette (?) si aprirono si avvicinò al corpo di Jay, stringendolo appena per accompagnarlo a terra.
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    Jayson Matthews ( ) - 18 - Muggle - #neutralasfuck - telekinesis ( )
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    Il dolore gli permetteva di pensare. La sofferenza garantiva una concentrazione difficile da trovare con altri metodi, naturali o meno: perché ingollare litri di caffeina, piallarsi di ginseng o imbottirsi di vitamine B quando si poteva tranquillamente ricorrere alla cara e infallibile tortura? L'importante era rispettare dosi e tempi di somministrazione, come con ogni buon farmaco che si rispetti. Un pugno nello stomaco o un calcio in faccia creavano stordimento, più che raccoglimento di pensiero, e il picco di dolore veniva raggiunto con una velocità sconsigliata per l'obiettivo richiesto (?). Ma l'effetto redbull provocato da una lama sottile sulla pelle, beh, quello era tutto un altro paio di maniche.
    Nei laboratori Jayson aveva avuto modo di fare l'abitudine, a quel tipo di sedute, ma da un po' di tempo l'idea di avere la mente sgombra e al massimo della lucidità possibile non era esattamente idilliaca: sapeva che, potendovisi soffermare sopra, il suo cervello sarebbe andato automaticamente alla sensazione provata a Villa Hamilton. Si sarebbe impuntato sul perchè e per come sapesse, con certezza matematica, di conoscere Gemes, pur non ricordandosi del ragazzo. Lo avrebbe torturato, nel tentativo di scavare a fondo, attraverso una memoria sfilacciata che Jay proprio non riusciva a rimettere insieme. Avete mai provato a completare un puzzle (#mlmlmlml) pur sapendo in partenza che alla fine vi mancheranno dei pezzi? Può diventare frustrante, e molto. Allora per quale assurdo motivo cominciarlo, vi chiederete. Perchè a volte è impossibile farne a meno. Le persone si buttano senza pensare in imprese disperate dalle quali non possono minimamente sperare di uscire vincenti, ogni santissimo giorno. E il giovane Matthews, ex-Hamilton e biondo frugoletto, non era da meno. Più si incaponiva sulla soluzione, sul disegno completo, più questa gli sfuggiva via, lasciandolo con l'amaro in bocca, un vuoto dentro, un peso sul cuoVe. E pensare che prima di essere rapito e portato nel Labirinto, si era quasi messo l'anima in pace, confortato dalla presenza di Stiles e Xav nella sua breve, nuova vita. #FML
    Dov'e Sicla? Chiamatemi la Sicla, almeno lei sa fare il suo lavoro... #Jaicla #wat ... teste di wurstel. Gli venne da ridere, per qualche strano motivo (?), ma il solo accenno a stendere le labbra non fece altro che riaprire quello inferiore nel punto in chi poco prima vi aveva impattato lo stivale del Serpeverde. Poco male: non doveva preoccuparsi di sporcare di rosso la sua bella divisa tristemente nera e grigiolina, assolutamente in tono con le pareti del castello. La camicia bianca e il golfino che di solito indossava quando andava a lezione avevano giá fatto una fine ingloriosa, buttati in un angolo della stanza senza alcun rispetto. Riuscí persino a sollevare la testa, per godersi appieno l'effetto che quelle ultime parole stavano ottenendo. I ghigni assetati di sangue dei due serpeverde si erano trasformati, deformati , sotto il peso di un ricordo. Un affronto, mai del tutto dimenticato. Nemmeno Jayson avrebbe potuto cancellare quel momento, il primo incontro con Stiles, la prima - di tante - figafuga con il fremello lngo i corridoi del castello per sfuggire ad una banda indemoniata di pelati simili a wurstel. Per l'appunto.
    Dacci un taglio, Freds. La voce, quella che ormai rappresentava una costante nelle sue giornate, quella che apparteneva chiaramente a Gemes sebbene il ragazzo non se ne rendesse ancora conto - un Gemes piú giovane, quasi un bambino - gli riempí la testa con un tono di ammonimento del tutto nuovo. E, allo stesso tempo, familiare: non era la prima volta che qualcuno gli suggeriva piú o meno pacatamente di chiudere la bocca, abbassare la cresta. Parlo di Frederick, ovviamente. Con Jayson non so era mai posto il problema del "dire cose fuori luogo e tirare troppo la corda". Anyway, fece per l'ennesima volta quello che la vocetta sussurrava al suo orecchio, togliendosi il sorrisetto divertito dalle labbra mentre richiudeva la bocca, ma comunque un attimo troppo tardi: il wurstel piú grosso e piazzato, con la sua faccia paonazza, era giá scattato in avanti, con il palmo della mano destra pronto a proiettare la testa di Jay contro il qualcosa (?) di ferro al quale era stato legato, posto alle sue spalle. BOOM (SHAKALAKA). Giusto perché non si sentiva abbastanza rintronato, dopo calci e pugni in pieno viso. Sentí il contraccolpo partire dalla base della nuca e riperquotersi lungo tutta la colonna vertebrale, mentre la vista si offuscava per una frazione di secondo. Resisti ancora un po', per Morgan. Solo un po'.
    Pensi di essere divertente, pidocchio? Io ti spacco--. Cosa? Il naso? No, quello era probabilmente giá rotto, un vero peccato considerata la perfezione di quella piccola opera d'arte. Il fondoschiena allora? Molto piú probabile, anche se forse il termine rimasto impronunciato sulle labbra del serpeverde sarebbe suonato un tantino diverso. Mi dispiace per il pubblico da casa, ma il resto della frase sarete costretti ad immaginarvelo. Tutto per colpa del secondo wurstel, che con una mossa strategica aveva distratto il compagnuccio di giochi stringendogli una mano attorno al braccio. Morgan santissimo, che coppietta. Lascia perdere .. Vuole Sicla, chiamiamogli Sicla. E magari anche Larrington, vediamo se fará ancora battute dopo. Eh giá. Piú piccolo e piú intelligente, su questo non c'erano dubbi. Bravo wurstel 2, tu si che ne sai. Fu quello il momento peggiore per Jay: dover tenere lo sguardo fisso sui volti dei due serpeverde, tentando disperatamente di non cambiare espressione, di non vacillare. La prospettiva di farsi un altro giro di giostra insieme ad Erin e James gli aveva svuotato improvvisamente lo stomaco, il contenuto risucchiato attraverso un buco nero (? #wat). Poteva sopportare di essere pestato da gente inesperta ed arrabbiata, ma la Jamicla sapeva dove colpire. Quali nervi scoperti stuzzicare. E non sto parlando solo di torture fisiche, okay? Bravi, andate a chiamare mamma e papá. Perché non sei un vero Hamilton se non t'ammazzi per avere l'ultima parola. Peccato che le parole gli uscirono dalle labbra spaccate con meno convinzione rispetto alle battute precedenti, perdendo in parte il loro effetto sarcastico.
    I due serpi si allontanarono, ignorando l'uscita patetica, e Jay riuscí a sentire le loro voci quando, appena fuori la porta socchiusa, ruggirono entrambi contro qualcuno che doveva essersi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non poteva saperlo, ma si trattava dei suoi salvatori, per cosí dire. Il respiro gli sfuggí svuotando i polmoni nel momento in cui le figure sparirono, lasciandolo solo con il suo dolore e i pensieri accavallati gli uni agli altri, attorcigliati come viticci cresciuti senza controllo. Te l'avevo detto di chiudere la bocca, Freddie. Oh, ma stai zitto. gorgoglió, letteralmente, sputando subito dopo il sangue scuro che gli si era accumulato sotto la lingua dopo il primo colpo al viso. Si era trattenuto dall'espellerlo subito, solo per non dare ai wurstel anche quella soddisfazione. Sí, lo so, che schifo . A quel punto, l'unica cosa che il ragazzo poteva fare era aspettare. Aspettare l'arrivo della Jamicla, stringere i denti per evitare di mettersi a piangere come un marmocchio e poi tornare a casa. A casa, giá: non New Hovel, dove lo attendevano sacchi simili a quelli della spazzatura pieni di vestiti cacciati dentro alla rinfusa, libri vari sulla storia della magia e un gatto figlio di (satana), ma Villa Hamilton. Come ho giá detto, il dolore aiutava a concentrarsi. Permetteva di fare un sunto, scovare i pro e i contro di ogni situazione, arrivare alla soluzione del problema. Cosa che Jayson aveva appena fatto, accettando - finente? - quello che l'istinto gli suggeriva arrendendosi allo stesso. Si guardó intorno, per quanto solo il movimento rotatorio della testae del collo fosse giá di per sé una tortura, soffermando lo sguardo un istante di troppo sulla serie di strumenti aguzzi che i torturatori utilizzavano sui poveri sventurati come lui. Avrebbe potuto utilizzare il suo spesso inutile potere e appropriarsi di un'arma. Ma per fare cosa? Se avesse tentato di ferire Erin, o chi per lei, la situazione sarebbe solo peggiorata. Per Jay ma anche per Henderson, di questo ne era sicuro.
    Stava ancora fingendo di progettare la sua fuga, pur sapendo di non poterla mettere in atto ed di essere destinato ad un'altra oretta di piacevoli convenevoli, quando la porta della sala si aprí, con un cigolio. Di giá? No, no non sono pronto. Datemi ancora un minuto per estraniarmi o svenire, dipende. Fu il primo, tristissimo pensiero che gli attraversò la mente annebbiata, mentre gli occhi seguivano la figura farsi avanti nella penombra. Non era Erin. Tantomeno Larrington. La riconobbe dal profumo ancora prima di vedere chiaramente i suoi tratti delicati farsi piú nitidi man mano che si avvicinava. Perché gli faceva questo? Con tutte le persone presenti nel castello a quell'ora, possibile che a raccattare quel che rimaneva di lui fosse proprio l'unica dalla quale non voleva farsi vedere ferito? Spezzato, piú che altro. Debole e vulnerabile. L'aveva guardata soffrire in silenzio, Lydia. In ogni singolo momento in cui lei pensava di non essere vista e si lasciava sormontare dall'angoscia. Durava un attimo, un battito di ciglia, una frazione di secondo che molti si lasciavano sfuggire - piú o meno volontariamente -, ma non Jayson. Poteva anche essere #alzheimer al cento per cento quando si trattava di se stesso e della sua vita, ma per i dettagli aveva buon occhio. Ricordava tutto, anche l'espressione infelice della Hadaway quando riemergeva a fatica da quei suoi brevi blackout. Dopotutto, il ragazzo conosceva bene la sensazione: apnea. Mancanza si respiro, pareti che si stringono, pesi che schiacciano. Solo che non aveva idea di cosa fosse a scatenare tali reazioni nella rossa. Né aveva mai avuto il coraggio di chiederglielo e condividere con lei il proprio malessere. Sempre per tornare al punto di partenza: odiava farsi vedere sconfitto fino a quel punto. «Jayson? Tutto okay?» Avrebbe voluto risponderle che sí, era tutto okay, che non doveva preoccuparsi. Ma soprattutto, avrebbe preferito che Lydia avesse mantenuto quel tono di rimprovero fino alla fine, invece di trasforformarlo in dispiacere, nemmeno fosse un cucciolo maltrattato da salvare. Forse lei lo vedeva davvero in quel modo, o forse si trattava solo di una sua paranoia - Carpe diem, Freds. E non aggiungo altro. -, ma la sostanza non cambiava. Si sentiva un vero cretino.
    Sto bene. Sto bene, me la sono... le mani di Lydia gli si posarono sulle guance, fresche e leggere, sollevandogli il viso quel tanto che bastava perché potessero guardarsi negli occhi, abbastanza da mozzargli il fiato in gola per un lungo, esasperante momento. Era passato troppo tempo dall'ultima volta che Jay si era perso in quegli occhi verde bosco, ora così vicini da poter persino riconoscere pagliuzze dorate nelle iridi. Sarebbe stato meglio senza il sangue che colava nei suoi, di occhi, ma non si può volere tutto dalla vita, giusto? ..me la sono cercata. concluse, recuperando un po' di amor proprio con un'alzatadi spalle, distogliendo repentinamente lo sguardo dal viso della Hadaway, felice e al tempo stesso deluso - #bipolareistheway - quando lei si allontanó di un passo, agitando la bacchetta e tutto il resto. Questi maghi, avevano un trucchetto per ogni santissima occasione. I ferri che gli bloccavano i polsi si aprirono all'istante, tanto che per poco Jayson non finí dritto disteso: dopo quasi un'ora appeso come un salame le gambe diventano un accessorio superfluo. Riuscí comunque a mantenere l'equilibrio, per pura grazia del caro vecchio Morgan, evitando cosí di aggiungere la beffa ad un danno alquanto considerevole di suo. Le mani di Lydia lo raggiunsero ancora una volta, dita delicate e apprensive contro la pelle nuda del torace, un braccio stretto attorno alla vita. Si ritrovó nuovamente ad osservarla, mentre lo aiutava a stare in piedi e camminare, inspirando quel profumo che conosceva a memoria, sentendosi meglio. Possibile? Lydia Hadaway faceva miracoli, almeno quando si trattava di un certo ragazzino con la faccia piena di nei e la demenza senile galoppante. Non.. non dirlo a Henderson distolse lo sguardo, concentrandosi sull'ingresso della sala angusta, al quale andavano avvicinandosi con lentezza esasperante ...per favore. Non voglio tirarlo in mezzo. Passó il dorso della mano sulla bocca, ritrovando la pelle macchiata di sangue quasi secco e qualche striatura piú vivida. Sebbene non potesse metterci la mano sul fuoco, il giovane Matthews era convinto che Nathaniel avrebbe finito per dire la cosa sbagliata intervenendo in sua difesa, inimicandosi i nuovi capi di Hogwarts. A pensarci bene, nemmeno la Hadaway stava compiendo un'azione priva di conseguenze. Misero piede nel corridoio dei sotterranei, dove nonostante l'aria in circolo fosse scarsa, Jay riprese finalente a respirare. Nemmeno si era accorto di aver imitato i movimenti della rossa, passando il braccio sinistro attorno alle sue spalle,per ricevere sostegno Potevi lasciare che finissero. Me la stavo cavando bene... Ma grazie di essere venuta a salvarmi il culo, btw.

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    Riusciva quasi a percepire i sussurri sofferenti di tutti coloro che avevano fatto visita a quella stanza. Era come se la Sala stessa trasudasse inquietudine, esasperata dall’odore ramato del sangue e dai gorgoglii spezzati di chi cercava di respirare nonostante non vi fosse ossigeno a cui attingere. La prima volta che aveva sentito parlare della Sala delle Torture, un accenno casuale fatto dalla Davis a lezione di divinazione, Lydia non aveva compreso strano. Non era certa di cosa quel termine, in effetti, significasse, eppure aveva percepito un brivido lungo la schiena, le braccia deturpate bruciare come se le ferite fossero state fresche. Tortura, Lydia non lo sapeva, ma era ciò che aveva accompagnato ogni sua giornata per un anno intero. Tortura era ciò di cui aveva vissuto, stipata in una cella dalle sbarre rinforzate, quando ancora aveva memoria di chi fosse, di quanto avesse perso. Finchè era stata sola, in quel braccio dove le sue grida tornavano senza tanti complimenti al mittente, Annie aveva premuto il volto inumidito dalle lacrime contro il freddo metallo, chiedendo cosa avesse fatto di male per meritarsi un simile trattamento. Aveva sempre vissuto nella bambagia, la solita ragazzina viziata per compensare le lacune affettive; lì aveva freddo, aveva fame. Non aveva mai conosciuto la sofferenza, Annie Moreau, e quello era stato semplicemente troppo. Quando avevano cominciato ad usarla come un burattino, dimentichi che sotto la carne vi fosse un cuore pulsante, aveva abbandonato ogni speranza. Nessuno verrà a salvarti, Annie. Aveva cominciato a perdere il senso del tempo, rimanendo a fissare per minuti, ore, giorni la parete spoglia della cella, fin quando non le capitò un vicino: Drake, detto anche il caparbio. L’aveva osservato trafficare sulla serratura, giorno dopo giorno, senza mai azzardarsi a parlare. Non è reale, si ripeteva. È solo un’altra tortura. Diffidente di natura, non poteva che essere intimorita dall’uomo: v’era una scintilla, nel suo sguardo, che Annie ricordava essere stata anche sua. Ma quel luogo, la luce, la risucchiava; la schiacciava sotto chili d’ombra, finchè nessun raggio riusciva più a trovare uno spiraglio. Sala delle torture, e Lydia Hadaway pur non comprendendo, l’aveva sentito. Incuriosita e timorosa, s’era trascinata in silenzio fino all’aula millantata dalla docente. Sudore, sangue, lacrime: indietreggiò repentina, tornando sulla retta via, cercando di dimenticare. Perché lo facevano? Non aveva fatto domande, temendo ripercussioni sulla sua persona, ma per lei era stato un concetto difficile da digerire. Una bambina che, ingenuamente, si domanda a cosa servano le scarpe. Settimana dopo settimana, mese dopo mese, aveva cominciato a farci l’abitudine. Non era più un dettaglio fuori dalla norma, ma anzi ordinaria amministrazione. Quando la Davis aveva lasciato Hogwarts a causa del taglio personale, Lydia aveva trovato impiego con Henderson: se pensava che gli studenti di Hogwarts fossero sciocchi a sfidare le leggi del castello, ancora non aveva capito con cosa aveva a che fare. Come aveva scoperto con gli studenti di Nate, le punizioni spesso venivano inflitte senza motivo apparente; semplici pregiudizi, sgarri alle persone sbagliate. La Hadaway non era contraria alle leggi del mondo magico, né vi trovava qualcosa d’assurdo in quel Regime, ma la sala delle torture? Quello, ragazzi miei, era un altro discorso. Perché poteva anche non ricordarlo, ma conosceva il dolore. Fidato amico di ogni notte. Se, al momento, pensava di soffrire -perché non riusciva a dormire, a respirare, a ricordare- era solo perché non aveva memoria dei Laboratori. Quello era il dolore, ingiustificato ma con un fine. La sala delle torture non era poi diversa da ciò che i ragazzi avevano vissuto all’interno dei Laboratori: biasimavano la resistenza per i loro mezzi, cogliendo l’occasione per sbattere in prima pagina le mostruosità compiute dai traditori, e poi erano i primi ad offrire trattamenti non dissimili ai propri ragazzi. Era quello, proprio quel concetto, che le sfuggiva. Si era posta, metaforicamente parlando, come paladina della giustizia; fidata amica di Erin Sicla, non si lasciava sfuggire l’opportunità di fregarle le vittime da sotto al naso, rimandandole di corsa al loro dormitorio –o al luogo a cui spettavano. Non si metteva mai contro i torturatori, ma l’accanimento terapeutico era troppo perfino per lei; in quel modo riusciva a scamparla, seppur non potesse completamente privare gli ospiti di quella sala del dolore da essa causata. Arrivava troppo tardi, sempre troppo tardi. Nathaniel cercava di metterli in guardia, ma i suoi metodi lasciavano al quanto a desiderare: «ahi, hai fatto cadere una penna? Spero tu abbia un debole per le bionde, la Sicla ti aspetta. Ahah, no scherzo. Forse. No, davvero, non andare, ti stavo prendendo in giro» E toccava sempre a Lydia, sospirando afflitta, il compito di spiegare a quei giovani che ogni insubordinazione, perfino un tono di una nota più alto, metteva in allarme i maghi; gli esperimenti non erano alla stessa altezza, obbligati a camminare a capo chino e labbra serrate. Lo intimava spesso e volentieri a lezione, ammonendoli con severe occhiate: non hanno ragione, ma sono loro a decidere. Adattatevi, per favore.
    Ma, evidentemente, non era abbastanza.
    «Sto bene. Sto bene, me la sono...» r u fuckin kiddin me. Non ritenne opportuno rispondere, considerando che la sua era stata, a prescindere, una domanda retorica. Stupida, più che retorica, ma non diciamolo in giro. Sospirò piano, cercando di capire da che parte cominciare. Morgan Santo. Sibilò fra i denti, aggrottando le sopracciglia quasi, empaticamente, condividesse il medesimo dolore. Una di quelle espressioni che sorgono spontanee, incontrollabili, a specchio. Passò le dita ad asciugare il sangue ancora fresco sul viso di lui, mentre negli occhi verdi si intervallavano rabbia, disappunto, preoccupazione e tristezza. D’altronde, la tristezza raramente lasciava del tutto lo sguardo della Hadaway, ormai così concreto da essere parte integrante dell’iride quanto il colore. «..me la sono cercata» se non fosse stato conciato così male, probabilmente l’avrebbe schiaffeggiato. Invece si ritrovò a mentire, riflettere ad alta voce mentre cercava una scappatoia: andrà tutto bene; ti farò uscire da qui. Del resto avrebbero avuto tempo a sufficienza quando tutte le ferite fossero guarite, per fare i conti. Era così difficile da comprendere non attirate l’attenzione? Assottigliò le palpebre, mordendosi le labbra strette fra i denti, quindi cercando –inutilmente- di essere delicata, lo liberò dalla stretta delle manette. Non sapeva dove stringere senza farlo soffrire ulteriormente, ma non poteva lasciarlo lì; si passò la lingua sulle labbra, mentre una parte di lei –quella più nascosta, quella che non ricordava d’avere ma esigeva d’esser sentita- le riportava ciò che le aveva detto Jay, me la sono cercata, completandolo con un e allora acab te lo meriti. Non che avesse mai preso seriamente quel suggerimento. Lo aiutò a camminare, guardando dove mettevano i piedi per evitare d’inciampare, cercando con le dita una parte di pelle che non fosse stata vittima delle angherie di… di chi? Jamicla? Non sembrava tipico di Erin e James, loro avevano una certa classe. «Non.. non dirlo a Henderson» Non alzò neanche lo sguardo, continuando imperterrita a camminare: prima fossero usciti, prima avrebbero potuto parlare. Seriamente, non dirlo a Henderson? «..per favore. Non voglio tirarlo in mezzo» per favore. Perché era così importante, per Jayson Matthews, che Lydia non dicesse al suo professore del trattamento subito? Nate non avrebbe potuto fare niente, avevano entrambi le mani legate, ma … forse… insomma, valeva sempre la pena tentare. Di sicuro lei ci avrebbe provato, parlandone anche con il Papa se necessario. Di cosa aveva timore, Jay, che Nate si mettesse nei guai? Era il suo lavoro, il minimo che potesse fare per loro. Ma ancora, testardamente, non rispose, aumentando però di proposito la stretta sul fianco di lui – rimpiangendolo poco dopo, di fatti seguì subito un «perdonami» appena sussurrato. Allungò il braccio con il quale non sorreggeva Jayson verso il pomello della porta, la distanza pareva essersi dilatata come nel peggiore degli incubi, e quando entrambi furono fuori da quel luogo di perdizione, tornò a riempire i propri polmoni. Anche il ragazzo sembrava aver appena reimparato a respirare, e dall’espressione sembrava non essere particolarmente piacevole. Strinse i pugni, Lydia, facendosi solo una domanda: perché? al contempo non riusciva a smettere di lanciargli occhiate di sottecchi, attenta che non perdesse i sensi o solo Dio – ed un infermiere/medimago/guaritore diligente sapeva cosa. In quanto a pronto soccorso, non era particolarmente ferrata. Ah, sul resto sì? Touchè, touchè. «Potevi lasciare che finissero. Me la stavo cavando bene» Scherzava, vero? Si voltò rapidamente verso di lui, alzando entrambe le sopracciglia con aria scettica. Lo squadrò dal basso verso l’alto, tornando agli occhi caramello con una smorfia sempre più cinica a deformare le labbra rosse. «stai zitto and let me save your life» sibilò, semplicemente, continuando a camminare. Inspirava profondamente, gonfiando e sgonfiando i polmoni con una lentezza innaturale, cercando di sbollire quell’impeto di rabbia –cristallino, però, negli occhi nocciola. Proseguì lungo il corridoio, fermandosi solamente quando giunsero ad un punto cieco, invisibile a chiunque avesse avuto l’ardire, o la sfortuna, di passare da quella parte del castello. Si portò un dito alle labbra, intimandogli nuovamente di tacere, mentre con delicatezza lo aiutava a scivolare a terra, la schiena contro il freddo muro in pietra di Hogwarts. «non puoi andare in infermeria, è il primo posto dove ti verranno a cercare» sibillina e professionale, rialzandosi senza neanche guardarlo. Fece capolino con la sola testa oltre il luogo sicuro, cercando di cogliere i passi dei torturatori o chi per esso. Tornò da Jayson, chinandosi di fronte a lui; piegandosi in avanti, lo obbligò nuovamente a guardarla. «si può sapere cos’hai fatto? L’avevo detto chiaro e tondo, fate attenzione. non vivi neanche più qui, è così difficile rimanere fuori dai guai per le poche ore passate al castello?» bisbigliò seccata, impugnando nuovamente la bacchetta. Fece apparire qualche benda ed un disinfettante –come? Magia #wat-, ma non essendo mai stata abile in medimagia, non aveva la più pallida idea di cosa dovesse fare. «matthews…» implorante, ma nuovamente distaccata con l’uso del cognome, il quale greve scivolò dalle labbra di Lydia. Doveva ricordarsi, costantemente, che era un suo studente. Ma chi voleva prendere in giro? Non era quello il problema di Lydia, non lo era mai stato; se nuovamente aveva eretto delle difese contro di lui, era perché sapeva, vedeva che troppo spesso, in sua presenza, minacciavano di vacillare. Senza quelle, chi era Lydia? Non lo voleva sapere, e sicuramente non lo voleva Jay. Non vedermi, non guardarmi per favore. Farà solo più male, quando capirai che non c’è nessuno. «chi è stato?» domandò, inzuppando una benda nel disinfettante, indecisa su qualche fosse la ferita più grave. Lentamente, quasi temendo gesti troppo azzardati, passò prima sul viso, eliminando ogni traccia di sangue secco. Voleva curarlo, ma non sapeva come; voleva aggiustare quella ferita negli occhi caldi, ma come poteva qualcosa di spezzato limare i bordi di un taglio? Farà solo più male; impotente, di nuovo. Sempre. «non volevo aggredirti, mi dispiace…» appena un soffio dalle labbra carnose, concentrata com’era nel suo compito. «…ma resti comunque un idiota» eppure, suo malgrado, sorrise nel dirlo. Sincera, senza dubbio, ma non potè celare completamente l’affetto in quelle parole. Perché poteva negarlo quanto voleva, Lydia, ergendo muri spessi fatti d’insicurezza e realtà falsata, ma un legame c’era.
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    Jayson Matthews ( ) - 18 - Muggle - #neutralasfuck - telekinesis ( )
    « We're broken, but we fit together just right » (#teamalzheimer)

    Il maschilismo indica la presunta superiorità dell'uomo sulla donna, tradizionalmente connessa con gli attributi della virilità. Jayson Matthews non aveva la più pallida idea che potesse esistere una tale corrente di pensiero, e anche se ne fosse venuto a conoscenza, sarebbe stato in disaccordo. Il fatto che Lydia fosse accorsa a salvargli la pelle, mentre lui da bravo fesso se ne stava in sala torture a prenderle di santa ragione, andava più che bene. Che siano le principesse a salvare i poveri disgraziati in pericolo, di tanto in tanto! Persino Frederick, il fu Hamilton Junior, la pensava allo stesso modo. Le donne forti, indipendenti e capaci di tenergli testa gli erano sempre andate a genio, forse perchè in qualche modo lo tenevano ancorato al ricordo che aveva di sua sorella. Spesso se la immaginava, cresciuta e bellissima, testarda e risoluta: doveva per forza possedere tali qualità, altrimenti come sarebbe sopravvissuta ai loro genitori? Freddie non poteva credere che l'avessero piegata. Era semplicemente una considerazione inaccettabile. Quel fuoco lo aveva avvicinato ad Annie, bruciandogli la pelle e il cuore quando ormai pensava di non averne più uno, facendolo cadere nell'unica trappola che ogni Hamilton tentava disperatamente di evitare: l'amore. L'affetto per qualcuno, il legame oltre i tornaconti e i profitti personali. Annie Moroe.
    Come, non vi ho detto che si conoscevano da prima? Che il Karma, nella sua immensa bastardaggine, si era divertito a farli incontrare nel posto più impensabile, unendo due anime affini per poi strapparle una all'altra, cancellandole entrambe con un colpo di spugna solo per poi rimettere insieme i pezzi. Pezzi incapaci di riconoscersi, Jay e Lydia, ma che combaciavano perfettamente. Il ragazzo ancora non poteva saperlo, ma gli scherzetti del Destino sarebbero andati ad aumentare, invece del contrario. Come se andare a vivere con suo fratello senza sapere che Gemes fosse suo fratello non risultasse già abbastanza crudele. Aspettate che nell'equazione si aggiungano anche Charmion e Raine, poi ne riparliamo. Anyway, tutto questo era per dire che a Jayson non bruciava l'idea di essere soccorso dalla Hadaway, quanto più il modo con cui si era cacciato in quel pasticcio di dimensioni bibliche. Wurstel1 e Wurstel2 lo avevano provocato, come sempre accadeva tra le mura del castello, ma fino a quel momento Matthews era sempre riuscito a resistere. Metteva a tacere l'impulso di rispondere a tono, abbassava testa e sguardo sul pavimento, accettava le conseguenze dell'essere diverso. Perchè bastava quello, di solito, per ottenere una punizione. Ma sarebbe stata una punizione tutto sommato blanda, forse avrebbero persino deciso di lasciarlo perdere, se solo fosse rimasto zitto. Jay lo sapeva, ma le parole gli erano rotolate direttamente dal cervello fuori dalla bocca, senza che il ragazzo potesse minimamente provare a fermarle. Una mossa stupida. Che aveva finito per coinvolgere anche l'assistente di Nate, ovvero l'ultima che il ragazzo volesse tirare in mezzo. Mostrarsi bisognoso di aiuto era una cosa, farle capire che aveva di fronte un idiota, un'altra. Quante volte, a lezione, si era raccomandata di non fare sciocchezze? Di mantenere un basso profilo, tentando quanto più possibile di apparire invisibili? Che non voleva dire per forza adattarsi alle angherie o considerare tali barbarie come giuste punizioni per essere nati sbagliati: si trattava di sopravvivere. Erano solo ragazzini, chi più chi meno, e dovevano pensare come prima cosa a rimanere tutti interi. Un avvertimento che Jay aveva preso alla lettera, fino a quella mattina quando un crescente spirito di ribellione gli aveva rimescolato lo stomaco torcendo quest'ultimo come un panno da strizzare. A pensarci bene, avvertiva quel sentimento ingombrante già da giorni, settimane persino: era stato il Labirinto, ad accenderlo. Solo una scintilla, ma era bastata.
    Sollevò lo sguardo, perdendosi nella propria immagine riflessa in quelle iridi tanto particolari, lucide di una preoccupazione che il ragazzo sentiva di non meritarsi. E i pensieri flipparono via, insieme al dolore, anche se solo per un istante. Per quel lasso di tempo, infinitesimale, ci fu solo il verde che si mescolava alla nocciola di quegli occhi troppo grandi, le lentiggini a far capolino su naso e guance, il rosa tenue delle sue labbra. Ci fu il ricordo del loro sapore, quando le aveva unite alle proprie, durante la festa. Ci fu la voglia di provare ancora, e ancora, e ancora, fino ad averne abbastanza. Un istante lungo una vita, prima che le dita della Hadaway lo riportassero alla realtà premendo contro il suo sterno, lì dove un pugno bene assestato e rabbioso era calato a svuotargli i polmoni. Digrignò i denti, lasciandosi sfuggire un gemito di dolore dalle labbra spaccate. «Perdonami» Ormai di fronte alla pesante porta che divideva la sala torture dal mondo esterno, ormai ad un passo dall'evitare i giochetti della #jamicla. Lydia Hadaway lo stava salvando e non si sarebbe mai dovuta sentire in dovere di chiedere scusa per aver premuto con troppa forza in un punto dolorante del suo corpo. Fu tentato di dirglielo, esprimere ad alta voce quel pensiero semplice e lineare, ma quando c'è di mezzo l'orgoglio difficilmente il cuore ha la meglio: mentire sembrava la soluzione più ovvia, così come dirle che se la sarebbe cavata bene anche senza il suo intervento. Ma non ci credeva nemmeno lui.
    Motivo per cui si lasciò zittire senza aggiungere altro, preferendo concentrarsi sul proprio respiro per diminuire quanto più possibile il dolore che gli attanagliava le membra intorpidite ad ogni passo. Quantomeno, erano fuori dal buco maleodorante di paura e sofferenza nel quale si era praticamente andato a ficcare di sua volontà, ma li attendevano ancora lunghi corridoi immersi nella penombra e scalini che Jayson non era certo di poter salire, non in quello stato. Riusciva giusto a tenersi in piedi, e questo solo grazia all'appoggio che Lydia gli forniva sostenendo il suo peso con il proprio corpo minuto, alla faccia della virilità maschile. Lydia... possiamo fermarci un secondo? Gli veniva da vomitare, ma quell'informazione preferì ometterla. Ora che l'adrenalina entrata in circolo nel corpo a causa della paura e della rabbia stava velocemente scemando, le fitte provenienti soprattutto dalle ferite al volto ripresero a pulsargli dentro la testa come una pallina di gomma fatta rimbalzare con troppa forza. Faticava a respirare dal naso, il sangue colato nell'occhio destro gli faceva vedere poco o niente, sembrava che ogni centimetro di pelle stesse andando a fuoco, senza bruciarsi realmente. Se fosse svenuto, proprio in quel momento, non se lo sarebbe mai perdonato. Un sospiro di sollievo, quando l'assistente di Henderson decise di accontentarlo fermandosi in un punto del corridoio apparentemente celato a chiunque vi passasse, una sorta di punto cieco, più per assenza di alternative che per fargli un favore. Jayson sapeva, lo poteva percepire dal suo sguardo e dalla vibrazione nella sua voce, quando fosse arrabbiata, e avrebbe scommesso tutto quello che aveva - ben poco a dire la verità - che se avesse potuto continuare a farlo camminare causandogli un po' di sana sofferenza, l'avrebbe fatto. Ma portarsi appresso un peso morto e privo di sensi non avrebbe giovato nemmeno a lei. «Non puoi andare in infermeria, è il primo posto dove ti verranno a cercare» Oops. Non si era ancora soffermato sul pensiero del dopo. Ovvero, una volta tornati nella sala in compagnia di Erin e James, cosa avrebbero fatto di due Serpeverde non trovandolo dove l'avevano lasciato? Lo avrebbero certamente cercato in lungo e in largo, con il solo scopo di non prendersi anch'essi una punizione esemplare per esserselo fatto scappare da sotto il naso. Si lasciò scivolare a terra senza commentare, grato di non avere alcuna ferita anche sulla schiena, la quale si appoggiò contro il muro di pietra alle sue spalle, avvertendo distintamente i muscoli di braccia e gambe cedere al contatto con il pavimento freddo. «Si può sapere cos’hai fatto? L’avevo detto chiaro e tondo, fate attenzione. non vivi neanche più qui, è così difficile rimanere fuori dai guai per le poche ore passate al castello?» Era una domanda legittima.
    Peccato che Jayson non avesse una risposta chiara da darle. Avrebbe dovuto cominciare dall'inizio, raccontando innanzitutto cos'era capitato in quei due giorni passati nel Labirinto, e già solo questa prima parte risultava proibitiva. Anche ammettendo di poterla saltare, rimaneva il fatto che non aveva idea di come spiegare a Lydia che da settimane ormai sentiva delle voci, nella testa. Lo spingevano a reagire invece di lasciarsi scivolare addosso le provocazioni. Gli annebbiavano la mente, e in alcuni momenti smetteva di sentirsi se stesso. Smetteva di essere Jayson Matthews per diventare una persona sconosciuta, qualcuno più forte, spregiudicato, facilmente infiammabile. L'esatto opposto di quello che era sempre stato, da quando aveva riaperto gli occhi trovandosi nei laboratori. Mi dispiace... un sussurro a fior di labbra, in modo che solo lei potesse sentire, abbastanza vicina da costringerlo ad abbassare lo sguardo, ferito dalla rabbia della rossa e dalla consapevolezza di quanto avesse ragione Sono stato stupido e ho esagerato. Possiamo... possiamo lasciar perdere? chiese, infine, trovando quel briciolo di amor proprio necessario a risollevare la testa, incrociare il suo sguardo. Avrebbe fatto meglio a tenete la testa bassa, rivolta al pavimento. Forse era il dolore a rendere più nitida ogni cosa. Ad aumentare la quantità di ossigeno nell'aria, trasformando ogni respiro in un passo verso il Nirvana (?). Che in pratica è come dire che improvvisamente si sentì del tutto strafatto, leggero, altrove. Era Lydia. L'unica droga che Xavier non sarebbe mai stato in grado di procurarsi. Era quel nome pronunciato come una supplica, un inutile tentativo di scavare un fosso tra di loro. Era il respiro di lei trattenuto a stento mentre si chinava per pulire le macchie di sangue incrostato dal suo viso. Non importa, davvero. Anche se avesse saputo i nomi dei due Serpeverde - e non li sapeva -, cosa sarebbe cambiato? Probabilmente avrebbe solo peggiorato le cose, se la Hadaway si fosse messa in testa di cercarli e dirgliene quattro. Non voleva tirare in mezzo Nate, ma ancora meno desiderava che gli occhi di quella gente si puntassero su di lei. Ormai il danno era fatto, sebbene non credeva di aver imparato del tutto la lezione: sarebbe riuscito a tenere la bocca chiusa, la prossima volta? Ritrovandosi di fronte i due Wurstel, avrebbe chinato la testa e cambiato strada?
    Oh, io ne dubito, Freddie Accennò un sorriso sghembo, soffrendo in silenzio quando il labbro inferiore spaccato si tese nel gesto, inghiottendo a vuoto aria che sapeva di sangue. La voce aveva ragione, ancora una volta, il che non faceva altro se non aumentare la rabbia che provava nei suoi confronti, non potendola indirizzare verso qualcosa di concreto. Quel bambino impertinente chiuso nella sua testa sembrava conoscerlo meglio di quanto Jay conoscesse se stesso e, sebbene ci volesse davvero poco, la cosa non gli andava giù. Per niente. Abbassò le palpebre quando la benda intrisa di disinfettante gli sfiorò la base del naso, punto che forse più gli doleva, per risparmiare a Lydia lo spettacolo dei suoi occhi lucidi, grosse lacrime di dolore come bolle in procinto di scoppiare, che riuscì a stento a trattenere prima di sentirle rotolare sulle guance. Coraggio Jayson, un po' di palle. «non volevo aggredirti, mi dispiace… ma resti comunque un idiota» Come darle torto. Era un idiota per aver permesso a quei due bagashi di provocarlo, ed era un idiota perché di fronte a lei sembrava incapace di esprimere pensieri o sentimenti così come li sentiva. Non aveva peli sulla lingua, Jay, quando si trattava di dare la propria opinione a qualcuno, spesso nemmeno richiesta, ma quando si trattava di Lydia Hadaway ogni frase gli sembrava inappropriata. Stupida, banale. La osservò di sottecchi, mentre le sue mani passavano delicate dal viso alle ferite inferte al torace, tagli superficiali che bruciavano nemmeno vi avessero versato sopra sale e limone. Non accadrà più. Perchè usare la verità ormai è troppo mainstream.
    Non poteva prometterglielo, eppure lo stava facendo comunque. Sarebbe stato disposto a dirle qualunque cosa, se fosse servito a farla preoccupare di meno, a toglierle un peso dal cuore, una responsabilità in più. Fu costretto a bloccarle la mano, stringendo le dita attorno al suo polso con un movimento secco del quale si scusò subito dopo, accennando un sorriso imbarazzato, mentre sistemava meglio il proprio corpo adagiato sul pavimento. Scusa, fa un male cane E tanti saluti alla virilità, giusto? Non che gliene fregasse niente in quel preciso istante. Sentiva la sua pelle a contatto con la propria. Il profumo alla vaniglia dei capelli ramati invadeva l'aria circostante. Avrebbe voluto baciarla, come Lydia aveva baciato lui alla festa, ma l'istintivo movimento della testa in avanti si bloccò giusto un istante prima di raggiungere il suo viso, lasciando tra loro una distanza minima, irrisoria. Ho ancora quel biglietto, da qualche parte. Quello del party, ricordi? Quando ci siamo baciati, ricordi? Un bigliettino magico, sul quale era scritta la penitenza toccata a Lydia. Il bigliettino che Jayson aveva conservato, per poterlo utilizzare di nuovo. Fino a quel momento, inutile specificarlo, non si era mai nemmeno azzardato a tirare fuori l'argomento, convinto quasi al cento per cento che la Hadaway avesse rimosso la serata. Soprattutto se continuava a considerarlo solo uno studente come tanti altri, ne più ne meno.
    Perchè, Freddie, tu come vuoi essere considerato?
    The fuck shuld I know.

    the heart is deceitful above all things,


    here we go con un post dove NON SUCCEDE ASSOLUTAMENTE NULLA (?) #wat #alzheimer
     
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    « We are one in the same Oh you take all of the pain away Save me if I become My demons »
    Posò la mano a palmo aperto sul freddo muro del sotterraneo, lasciando che quella sensazione si ripercuotesse lungo tutto il braccio. Un gesto distratto, quasi fosse stata sua intenzione carpirne il battito, quasi avesse potuto. Chiudendo gli occhi, Lydia Hadaway cercò di capire in quel breve ed effimero respiro, dove avesse sbagliato. Non per Jay, o almeno, non solo. Sembrava arrivare sempre troppo tardi, mettere il proprio piede su territori dove qualcun altro aveva già camminato, e calpestato, ed imbrattato il pavimento di sangue e ricordi. Sembrava capitare sempre nel posto giusto al momento sbagliato, come se non fosse stata sincronizzata correttamente alla nascita. Una sensazione che si trascinava appresso da anni, da Annie. Ovunque avesse mai guardato, c’era sempre stato un mondo ai propri piedi, un impero eretto da altri per altri. Poteva abitarci, girarne le strade ed accomodarsi su letti dalle coltri dorate, ma non sarebbe mai stato suo, o per lei. Era la vita di qualcun altro, la famiglia di qualcun altro, il viso di qualcun altro. Perfino un pedone sulla scacchiera poteva giocare un ruolo importante; e lei, Annie e Lydia, non erano mai stati neanche quello. La figlia indesiderata, la sorella inopportuna, il sorriso quando tutti piangevano e le lacrime quando gli altri ridevano. Era sempre andata al contrario, Annie Baudelaire; e Lydia, Lydia Hadaway, ne ripercorreva gli stessi, sciocchi, passi, senza neanche rendersi conto di star commettendo il medesimo errore per la seconda volta, privata di ogni bagaglio di esperienze che potesse darle la giusta direzione. Avrebbe voluto dire che non aveva importanza, rivolgere a Jayson Matthews il solito sorriso di circostanza; avrebbe voluto augurargli ogni bene, ed avrebbe desiderato che non le importasse così tanto. Perché doveva essere diverso? Avrebbe voluto mentire, abitudine a cui era ormai fin troppo avvezza, assicurandogli che non c’era alcun problema. Ma c’era. Così strinse più forte le palpebre, la fronte poggiata sull’avambraccio. Era come se le mancasse parte del vocabolario, l’intrinseca capacità di dar forma a pensieri tramite parole concrete. Rimanevano appesi sulla lingua, strizzati fra i denti serrati fra loro, ad affogarla come acqua in una tormentata giornata di pioggia. Mi dispiace. Sarebbe stata una menzogna affermare che Lydia, o chi per essa, fosse solita udire quelle due semplici parole. A nessuno era mai interessato abbastanza perché potessero dispiacersi, o almeno non per lei. Di lei, spesso e volentieri. Eppure erano solamente quattro sillabe, in un sussurro così flebile che le aveva raggiunto appena le orecchie, come la carezza più delicata – o lo schiaffo più meschino. Si lasciò sfuggire un sospiro, le palpebre semi aperte in modo da poter guardare Jay. A conti fatti, era sempre così fra Jayson e Lydia: quando uno dei due guardava, l’altro distoglieva lo sguardo. Non era volontario, o almeno non era voluto, ma entrambi, senza rendersene conto, sapevano che c’erano cose che l’altro non avrebbe dovuto vedere. Perché? Non avrebbe dovuto essere così. Lydia avrebbe voluto obbligarlo a guardarla, fargli comprendere che non c’era nulla che dovesse nasconderle; che non c’era nulla che non avrebbe accettato di vedere nelle iridi caramello, che avrebbe amato comunque ogni parte, di lui, perché l’aveva già fatto. Ma non lo sapeva, capite? Non lo capiva, sapete? Non aveva alcuna idea su come avrebbe potuto dire una cosa del genere senza suonare patetica, o sciocca; non riusciva neanche a pensarlo senza sentirsi patetica o sciocca, figurarsi ammetterlo ad alta voce. Per cosa, con esattezza, gli dispiaceva? Per quei maledetti cinque minuti durati più di due anni? Beh, come scuse fanno un po’ schifo, Hamilton. Si morse la lingua per evitare di dire qualcosa, qualunque cosa, che avrebbero rimpianto entrambi. In ogni caso, che avesse lasciato prevalere Lydia o Annie, avrebbe detto qualcosa di sbagliato.
    Succedeva sempre.
    La cosa più assurda, era che non si arrabbiava da tanto, da troppo, tempo. Aveva paura, spesso –sempre-, un terrore non dissimile a ghiaccio nelle vene. Capitava s’infiammasse, senza un motivo particolare, e quella furia asettica scemasse lasciandola più vuota di prima. Vuota, perché quello lo era ogni giorno. Non sapeva, non aveva mai saputo, cosa fosse quel silenzio straziante dentro al proprio petto. Perfino ad Annie era sempre mancato qualcosa, accentuatosi poi in quel guscio privo di contenuto ch’era diventata Lydia. E quella rabbia, dopo quelle che le parvero vite, la fece sentire reale. Se poteva arrabbiarsi, allora significava qualcosa - doveva significare qualcosa. La cosa più assurda, era che in quella commistione di mestizia e nostalgia, c’era l’agrodolce sapore di una casa che aveva dimenticato, di colori di cui non aveva più memoria, di profumi che non le marchiavano più la pelle, e di due insistenti quanto fastidiosi occhi verdi (o sono azzurri? O sono grigi? Fremells fingi che LydiAnnie lo sappia, perché Sara non lo sa) al di là di spesse sbarre di metallo. Nostalgia di qualcosa, di qualcuno, che non aveva mai avuto.
    Certo che la vita era proprio una commistione di wat e mainagioia non indifferente per la rossa chioma della francese, Baudelaire o Hadaway che fosse. Si sentiva un po’ Al.
    Solo che le sue gioie si spaccavano benissimo da sole senza aiuto dalla regia (TIPO NON SO, PACCARE FREYA – ah non è successo? Beh, Lydia più o meno non dimentica/dimenticherà. Occhio).
    « Sono stato stupido e ho esagerato. Possiamo... possiamo lasciar perdere? » Era rimasta ad osservarlo, senza realmente guardarlo, per una manciata di secondi. Lydia non lo sapeva ma la sua mente, istintivamente, sentiva ancora la necessità di tradurre l’inglese in una lingua a lei più affine, trasformando i suoni in quelli cui lei era maggiormente abituata. (questa, ovviamente, è la visione ottimistica; la realtà era che la maggior parte delle volte, non capiva una ceppa – o come in quel caso, non voleva capire). Si morse l’interno della guancia, mettendo finalmente a fuoco il volto di Jay, i segni lasciati dal sangue raggrumato ed il gonfiore delle percosse ricevute. Una parte di lei voleva curarlo il prima possibile, ignorando ogni possibile conversazione per rimandarla a più tardi (“fra cinque minuti, magari”), mentre l’altra, sadicamente, voleva che soffrisse e percepisse ogni più piccola ferita. Quando era diventata così… stronza?
    Cinque minuti prima.
    «no» rispose secca, senza avere il tempo di collegare il cervello alla bocca per impedire a quella semplice sillaba di suonare troppo brusca, altro sale sulle ferite. Inspirò, l’amaro languore di tutto ciò che nella sua vita non aveva mai avuto il tempo di dire. Quando ho detto che arrivava sempre tardi, a partita già conclusa, non era solo un modo di dire: Annie si era persa tanti addii, come Lydia si era persa tutti i bentornata riservati a qualcuno che non ricordava di essere stata; Annie si era persa tutti i grazie, come Lydia era arrivata troppo tardi per dare un senso ai non c’è di che negli occhi di chi per lei, per Annie, in un modo o nell’altro, c’era stato. Poteva aver ricominciato, e poteva aver raccolto, in quegli anni, qualche parola riservata solo a lei, non a chi era stata; probabilmente era successo, ma Lydia Hadaway non era mai stata pronta ad accoglierli sinceramente. Perfino con Nathaniel, NATHANIELHENDERSON, si sentiva sempre leggermente a disagio, come se da un momento all’altro potesse alzare l’uncino (quale uncino?) verso di lei con un sorriso sghembo per dirle: «ah-ha! Ti stavo prendendo in giro» (ovviamente, perfino nel suo immaginario, Nate si sarebbe rammaricato di aver usato un uncino perché impedito, così, a schioccarle una pistolettata con tanto di baaaang; non sarebbe riuscito neanche ad appiccicarle una stellina in fronte, e questo avrebbe rovinato a dismisura il suo fragile e lunatico umore da bonaccione: se credete che Nathaniel Henderson non potesse mai sinceramente arrabbiarsi e cominciare a divenire terrificante, non l’avete mai visto mentre cerca di staccare le stelline you tried dalla carta adesiva). la parentesi più lunga ed inutile di sempre, NATE TI AMIAMO.
    Cosa stavamo dicendo?
    «Non importa, davvero»
    Fu la prima a distogliere lo sguardo, portandolo nervosamente sulla benda sporca del sangue di Jay. Non capiva (di nuovo, strano) perché dovesse intestardirsi così tanto a voler lasciar perdere. Perché non poteva lasciare che Lydia s’aggrappasse all’unica cosa che le era rimasta? Perché non poteva semplicemente essere un altro studente che aveva bisogno del supporto dell’assistente, senza rendere tutto più complicato? Che poi, in realtà, non sarebbe stato complicato affatto: non era di certo il primo, e non sarebbe stato l’ultimo, a rimanere evasivo sulle risposte, senza mai mettere un punto agli interrogativi di Lydia. Ma lui, lui, non poteva. Perchè? Era quello il nucleo della questione, il nodo che le stringeva fastidiosamente la gola impedendole di formulare una frase completa e di senso compiuto. Quando tornò a disinfettare le ferite, lo fece con meno delicatezza, ma senza risultare –troppo- rude. Poteva non essere soddisfatta del suo comportamento, ma non voleva davvero fargli male.
    Non ancora, aspettate qualche mese. (o anno #wat)
    «no, non possiamo lasciar perdere. Forse a te non importa, ma a me sì» ribattè piccata, corrugando le sopracciglia. Con uno sforzo notevole, ma che fece apparire come una cosa naturale, osservò il suo operato senza azzardarsi a cercare gli occhi di lui. Di nuovo, non sarebbe suonato così ambiguo e sferzante se l’avesse detto a chiunque altro. Sarebbe stata solo la naturale inclinazione di Lydia Hadawaty a prendersi cura di loro, come cercava di fare con ogni mezzo sorriso sbocconcellato a lezione. Forse non erano in tanti a prestarle attenzione, ma era piacevole sapere che se qualcuno l’avesse fatto, per una volta, avrebbe trovato un volto amico. Ci teneva, così tanto da far male. Un attaccamento quasi malsano, per qualcuno che neanche conosceva.
    Però era diverso, e lo sapevano entrambi. Lo era da prima della festa di quell’estate, lo era stato da subito. Perché lui l’aveva sempre vista, anche quando nessun altro guardava. E lei lo sapeva. « Non accadrà più » Lydia si ritrovò a ridere, una risata breve e spezzata che la obbligò a fermarsi a metà di un movimento. Quando credeva di star impazzendo, si era sempre sbagliata: era già folle da un pezzo. «già…» rispose grondando ironia come caramello sui pancake, il sorriso affatto divertito ed al contempo esilarato a brillarle negli occhi chiari. «…probabilmente morirai prima. in un certo senso hai ragione. Questo:» indicò sé stessa e le bende, per poi tornare a guardarlo con le rosse sopracciglia inarcate. «non accadrà più» oh, ma io ve lo giuro: di solito era molto più delicata, vantava più tatto, ed era decisamente più gentile. Sentiva caldo, e non sapeva se fosse per la semi sfuriata, per la vista del sangue, o… no beh, lo sapeva. Ma le piaceva credere di non saperlo, così, per rimanere ancora un poco nel suo mondo di unicorni. Sentì il proprio battito accelerare, mentre istintivamente si irrigidiva sotto la presa decisa, o almeno quanto potevano permetterglielo le sue condizioni, della mano di Jay sul proprio polso. Non si era neanche accorta di aver trattenuto il respiro, finchè uno sbuffo non uscì leggermente strozzato dalle labbra socchiuse. Nascose nuovamente i propri occhi dietro le palpebre abbassate, le labbra strette fra loro. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, fece scivolare la propria mano in modo da intrecciare le dita a quelle di lui. «Ho ancora quel biglietto, da qualche parte. Quello del party, ricordi?» Strinse piano, gli occhi ancora chiusi –incerta se si stesse nascondendo da lui, o da sé stessa. La bocca secca ed i pensieri vuoti, se non per il caldo contatto della pelle del telecineta contro la propria. « mi dispiace » ripetè in un bisbiglio appena accennato lydia more like ari. Le dispiaceva per così tante cose, che non sapeva neanche da che parte avrebbe dovuto cominciare. Ma un punto di partenza avrebbe dovuto trovarlo, prima o poi; e quello era un momento, buono come un altro, per lasciar entrare qualcuno nella propria corazza, facendo ruzzolare al suolo qualche smembrata briciola di mattone. Perché lui? Perché Jayson Matthews? Perché Lydia Hadaway l’aveva scelto prima ancora di rendersene conto. Non erano neanche più solo Annie e Freddie; erano qualcosa di più, ed erano qualcosa di meno. Mai abbastanza, e sempre troppo. «non so cosa mi sia preso» continuò in tono trasognato, con una voce quieta come il cielo prima di una tempesta. Erano così vicini, che sarebbe bastato un pensiero più intenso degli altri a farli avvicinare. Misurò ogni parola con lentezza, sentendole lasciare le proprie labbra con dolce ritrosia, come briciole di zucchero. « c’è qualcosa che non va, in me » ammise con lo sguardo fisso sulle loro mani, inumidendosi le labbra. «se potessi…» essere una ragazza normale, sana, per te cercherei di esserlo. Se potessi trovare una colla in grado di aggiustare i pezzi, ci proverei. Se potessi semplicemente essere, lo sarei. Scosse il capo, mentre con il pollice disegnava distrattamente e nervosamente piccoli cerchi sul dorso della mano di Jay. «c’è qualcosa di sbagliato» addolcì la frase con un sorriso spezzato al quale non riuscì a credere neanche lei. Chinò la testa, lasciando che la coda scivolasse da un lato del viso. Era abituata a nascondersi dietro la fitta cortina di capelli ramati, ed esserne priva la fece sentire ancora più sciocca di quanto già non si sentisse. Ci mancava solo che cominciasse a piangere, poi poteva pregare per un maledetto meteorite. «non riesco…» a respirare, a ricordare. Dio, non riusciva neanche a vivere. Come poteva spiegare gli improvvisi cambi di umore? Come giustificare quel senso di distaccata freddezza che non era mai riuscita a reggere, quando Jay era nei paraggi? Ad Annie Baudelaire avevano insegnato che l’amore era una debolezza, e come tale non avrebbe mai dovuto avere voce, o nome, in capitolo. Lydia Hadaway si ritrovava con sentimenti propri e pensieri altrui, in un corpo familiare ma sconosciuto. Incastrata in una vita vissuta a metà; le dispiaceva, perché non poteva permettere a nessuno di rimanere incastrato in quell’esistenza spezzata. Soprattutto, nessuno lo meritava. Si strinse nelle spalle, come se quel gesto potesse riassumere tutto ciò che non aveva detto. « Possiamo... possiamo lasciar perdere?» domandò, citando l’interrogativo posto dallo stesso Jay poco prima, accennando un vuoto sorriso nella sua direzione. Si azzardò perfino a ruotare brevemente gli occhi, giusto per alleggerire quel fardello che pareva gravare pesante su entrambi. A quel punto, che senso avrebbe avuto ammettere anche il resto? Parlare degli spettri non faceva che renderli più reali, abbastanza da permettere loro di trascinarti nuovamente nel buio.
    Lydia nel buio non ci voleva più andare.
    E le dispiaceva, perché certo che ricordava. Ma non avrebbe augurato a nessuno una Lydia, figurarsi a lui.
    Sciolse la presa sulla sua mano, raddrizzando nuovamente la schiena. Priorità, priorità. «posso portarti da Wynne, la Guaritrice; dovrebbe essere ancora al San Mungo. E non diremo a Nate della tortura» concesse. si schiarì la voce raccogliendo le bende, tornando la professionale assistente di Henderson, un sorriso brillante e vacuo quanto una lampadina al neon. Il modo migliore per nascondere qualcosa? Metterlo in piazza, e poi indirizzare l’attenzione sul fantastico giro in traghetto.
    Nate lo faceva sempre quando diceva qualcosa di inopportuno.

    Un giorno, Lydia Hadaway avrebbe capito che Nathaniel Henderson non era decisamente la persona più appropriata alla quale ispirarsi. Chiaramente, non quel giorno.

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    Tutto sommato, gli era andata bene.
    Che pensiero infimo ed egoista: provare quel brivido di piacere all'idea che fosse stata proprio Lydia a trovarlo, invece di uno studente o un professore qualunque. Anche se la aveva ovviamente delusa, cosa facile da leggere riflessa nelle iridi color bosco. Bosco, perché al loro interno vi si trovava ogni sfumatura del verde mescolata a quelle del cioccolato, come foglie secche cadute sul terriccio umido. Impossibile individuare una sola tonalità, nemmeno osservando con attenzione, cosa che Jay sicuramente stava facendo. Vicino, abbastanza da avvertire il respiro di lei sulla pelle mentre tamponava una delle molteplici ferite - per sua fortuna superficiali - inferte dai Serpeverde al torace. Sarebbe bastato poco, in termini di distanza, per cancellare completamente quest'ultima e mettere a tacere le urla frustrate del suo cuore, martellante e impazzito nel petto, pronto ad esplodere da un momento all'altro nel totale silenzio di quel corridoio sotterraneo. Se lo sentiva rimbombare fin nelle orecchie, cosi forte e intenso da coprire persino la voce. Ormai diventata compagna di vita, ma al momento stranamente silenziosa. Ma gli mancava il coraggio, come sempre. Piccolo, debole Jayson, che deve farsi salvare e non è nemmeno in grado di aprire la bocca per dire quello che pensa davvero. Quello che prova. Perché doveva essere cosí difficile?
    Questo Henderson non gliel'aveva mica spiegato.
    La mano della Hadaway tremò impercettibilmente sotto le sue dita, e il telecineta reagì stringendole più forte, un gesto dettato dal desiderio di impedirle di allontanarsi da lui, da loro. Se Lydia avesse fatto un passo indietro in quel preciso momento, forse non avrebbero avuto un’altra occasione. Anzi, di questo Jay ne era sicuro, una piccola certezza dentro un mare infinito di #wat. « mi dispiace » Per quanto tempo avevano entrambi trattenuto il respiro? Sembravano passati minuti, persino ore, quando al contrario solo pochi secondi erano passati dilatandosi, cambiando la percezione stessa dello spazio in cui si trovavano. Magia o teoria della relatività, forse Einstein direbbe che si trattano della stessa cosa. Scosse la testa, riprendendosi al suono della sua voce, spostando le iridi color caramello per seguire il movimento di quelle labbra piene delle quali ancora ricordava il sapore. Sapevano di frutta, sapevano di buono. Sapevano di qualcosa che aveva dimenticato, ma rimaneva sotto la superficie, come tanti altri ricordi e sensazioni, mai del tutto cancellate. C’erano una moltitudine di cassetti, nella testa di Jayson Matthews, alcuni chiusi a chiave, altri semplicemente accostati. Negli ultimi mesi era riuscito, anche suo malgrado, ad aprirne qualcuno, facendosi travolgere da immagini sfocate, odori e colori, grandiosi mal di testa e una quantità indefinita di nuove domande, senza poter dare risposta a quelle vecchie. Non ci teneva particolarmente a forzare i cassetti ancora chiusi, perché anche in quel caso vinceva la paura: e se dentro vi avesse trovato qualcosa di terribile? Se la sua vita precedente fosse stata ancora più mainagioia di quella attuale? *hystericalfakelaugh*
    « c’è qualcosa che non va, in me ».
    E qui signori vorrei aprire una piccola parentesi e parlarvi di How I met your mother. Sì, lo so, apparentemente non c’entra niente, ma è il post di chiusura e rob ci tiene a raccontarvi questa cosuccia. C’è una puntata in cui Robin deve scegliere tra Barney e un altro tizio, ma non sa come fare. Crede di amare entrambi, o comunque ha troppa paura per prendere una decisione definitiva: da una parte c’è l’amico, quello che più le somiglia, forse il primo uomo che ha amato davvero. Dall’altra c’è uno psicoterapeuta che sembra avere tutto sotto controllo, il suo esatto contrario. Così, per cercare di fare luce sui propri sentimenti, va prima da uno e poi dall’altro, e pone loro una semplice domanda: perché mi ami? Sono un totale disastro. Lo psicoterapeuta le risponde che lei si vede come un disastro, ma in realtà è una donna perfetta e prima o poi lo capirà. La fa sentire al sicuro, ma è una fottuta bugia. Perché quando sei un casino di persona, come Robin Scherbatsky o Lydia Hadaway, rimani un casino di persona. Sapete cosa le risponde Barney? I guess… ‘cause you’re almost as messed up as I am. Perchè sei un disastro quasi quanto me. Perchè le persone perfette non esistono e noi siamo la cosa più lontana dalla normalità, ma il bello è che possiamo essere un casino insieme. « Lo so. Ti vedo. » rispose, annuendo piano senza mai distogliere lo sguardo dal suo, anche quando quello della rossa si rivolse alle loro mani unite, le dita intrecciate. Fu quelle che il ragazzo sollevò, portando il palmo destro di Lydia a poggiarsi contro il proprio torace nudo e segnato dalle torture subite, proprio nel centro. « Qualcosa non va, anche qui dentro. Ma non so come fare a sistemarlo. O forse non dobbiamo.. sistemarlo, dico. Sistemarci. » Forse possiamo essere un casino insieme.
    Suonava stupido, quasi infantile, ma per la prima volta da quando la conosceva le stava parlando a cuore aperto. Da quando conosceva chiunque, a dir la verità. Provava terrore vero, Jayson Matthews, ma si sentiva anche stranamente calmo, in pace con il mondo. Era lei a infondergli quella tranquillità, con il suo tocco lieve e il profumo alla vaniglia che dai capelli ramati si sprigionava rendendo l'aria attorno a loro più leggera, respirabile. Non gli sembrava nemmeno più di stare sdraiato su un pavimento freddo, con la schiena nuda poggiata contro il muro di pietra ruvida. Le ferite pulsavano di un dolore distante anni luce, appartenevano ad un altro corpo, forse persino ad un'altra vita. « Possiamo... possiamo lasciar perdere?» Chinò il capo in avanti, per non dare modo a Lydia di vedere quanto quel sorriso, sebbene appena accennato, potesse influenzare i movimenti incontrollati del suo stesso viso, le labbra dischiuse e leggermente piegate verso l’alto. Non voleva essere così prevedibile, ma lo era: avvertiva le sofferenze della ragazza e si sentiva impotente, percepiva il suo sollievo e un peso opprimente gli liberava lo stomaco. Non poteva più guardarla senza provare quello che provava lei, il che era – a dir poco – traumatico. Ma di tornare indietro non se ne parlava neanche. Avrebbe potuto baciarla, ma anche un rimbambito senza memoria come lui sapeva che un gesto di quel genere, nel momento che stavano vivendo, sarebbe stato inopportuno, forse persino deleterio. Così si limitò a poggiare la fronte contro la sua, gli occhi socchiusi, un istante infinitamente lungo per permettere a se stesso di riprendere fiato, tornare con i piedi per terra. Riagganciarsi al presente, senza lasciarsi trascinare via. Immagino di poter fare questo sacrificio. Dai, Jay che tentava di fare il simpatico, roba da segnare la data su un ipotetico diario segreto. O sul calendario che Stiles sicuramente teneva appeso alla parete della sua stanza per segnare ogni avvenimento riguardante i fremelli, importante o meno.
    Alla fine, per lui erano tutti importanti.
    Preferiva non insistere, sebbene quella fosse la prima volta che i due riuscivano a parlare di qualcosa che andasse oltre le lezioni di Henderson e i consigli per controllare il potere e imparare ad utilizzare la telecinesi nel migliore dei modi. Dopotutto, quello poteva anche essere stato un piccolo passo per un uomo, ma si trattava di un grande passo per l’#ALZHEIMER e, con un’ondata di positività che solo Lydia poteva infondere in un concentrato di mainagioia e tristezzaapalate come il giovane Matthews, arrivò persino a pensare che da quel momento in poi forse la strada sarebbe stata più facile. Parlare con lei, iniziare un discorso senza sentirsi un cretino, magari – MAGARI, dopo due anni – anche dirle una volta per tutte quanto si sentiva perso se non poteva vederla. Adesso non diventarmi patetico, Freddie. La presa sulle mani della Hadaway si allentò, mentre la voce tornava a fare capolino nella sua testa, di nuovo alla ribalta. Non gli era mancata per niente. «posso portarti da Wynne, la Guaritrice; dovrebbe essere ancora al San Mungo. E non diremo a Nate della tortura» A Jayson mancava giusto quello, una ramanzina da parte di Nate. E ancora non gli aveva detto che stava per trasferirsi a villa Hamilton, altro punto sul quale, poco ma sicuro, il professore non sarebbe stato d'accordo. Non sapeva bene perché, diciamo una sensazione. Ogni volta che pronunciava la parola Hamilton lo vedeva sobbalzare, anche solo impercettibilmente, come se per lui quel nome equivalesse ad una pentola bollente dimenticata sul fornello acceso, toccata per sbaglio. Avrebbe dovuto spiegargli il motivo di tale decisione e, ancora una volta, il telecineta si sarebbe trovato nell'impossibilità di rispondere ad una semplice domanda: come tante altre cose, non lo sapeva. Grazie... ah! quanto si sentiva nudo, senza il calore del suo corpo accanto a sé. E lo era, nudo, privato della camicia che era parte integrante della sua divisa priva di stemmi e colori, ma fino a quel momento sembrava non essersene accorto. Anche di essere venuta a prendermi. L'aveva detto, alla fine. Dandole la schiena nel tentativo di rimettersi in piedi e approfittando di quel movimento per non doverla guardare negli occhi, lasciarle intuire che aveva molto altro per cui esserle grato. E in quell'altro nuotavano cose che nemmeno era in grado di ricordare, promesse infrante e speranze disilluse.
    La loro storia andava oltre il vedersi l'un l'altro per come erano davvero, andava oltre il conoscersi quando ancora non conoscevano se stessi, andava oltre ad una supplica sussurrata nel buio, «non dimenticarmi», e la disperazione di una menzogna, «non lo farò». Solo, non gli era dato di saperlo. Non ancora.

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