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Banchetto di inizio anno (x gente)

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    char(ea)lotte hamilton ( ) - 25 - Slytherin- team hamilton - the illusionist
    «You know there's nothing here to make us stay And in the darkness you will see the sun»
    Un sorriso dolce, vagamente timido mentre gli occhi scivolavano a terra alla ricerca di un appiglio; la voce era appena un sussurro, ma ben udibile alle orecchie del ragazzo al suo fianco. I capelli le nascondevano parte del viso, ma chiunque avesse visto quella piega delle labbra si sarebbe sentito in dovere di ricambiare, impossibile fare altrimenti: effetto Hamilton, anche se non propriamente di quell'Hamilton in particolare. «Giampiero, giusto?» Imbarazzata da quelle lacune nella propria memoria, come se il non ricordare rendesse meno importante, o incisivo, il proprio interlocutore. «Posso sedermi?» Solo alla fine alzò gli occhi verso Xavier Stevens, lasciando che trasparisse dalle iridi color cioccolato una scintilla. Breve, poteva essersela immaginata?, ma era li, cristallina a chi avesse voluto coglierla.
    Mi chiamo Charlotte Hamilton, ho quasi 25 anni, una sorella, un fratello, un cane. Sono cresciuta a Presteigne, in Inghilterra, mi piace il verde.
    Forse.
    Ops, I did it again.

    Quattordici anni. Erano passati quattordici anni da quando Rea Hamilton si era lasciata alle spalle la sua famiglia, senza un biglietto d'addio o un ultimo bacio sulla fronte. Era semplicemente sparita, com'era giusto che fosse. Ed erano quattordici anni che non vedeva la gemella, Charlotte. Quella gemella così stupida da essere caduta nella tana del Bianconiglio volontariamente, catapultata in un mondo che non le apparteneva; un mondo che in un paio di mesi l'aveva già spezzata, ricomponendola in modo sbagliato. E perché? Perché Charlie, in Rea, ancora credeva. Ed ecco cosa succedeva quando si amava senza ritrosie, con la completa fiducia che solo qualcuno di davvero buono poteva riservare nei confronti di quel mondo: si perdeva tutto. Rea aveva ritrovato sé stessa in quella malvagità, Charlie si era smarrita. Vagava nel limbo del passato di cui riusciva a rimembrare i contorni, ed ancora pensando alla sorella vedeva quella bambina dal nastro rosso ed il sorriso scaltro di chi riusciva sempre a rimediare la fetta di torta più cremosa. Oh, Charlie, sempre così dannatamente ingenua. Accarezzò delicatamente il profilo della ragazza addormentata, stupendosi come quando erano piccole di quanto, pur essendo identiche, fossero diverse. Perfino nel sonno da Charlie traspariva serenità, il suo respiro tranquillo un pendolo a scandire notti che, talvolta, parevano infinite. Un tempo Rea riusciva a calmarsi solamente quando c'era Charlotte, punto di riferimento sul quale sintonizzare il proprio battito. Un tempo era stata la sua ancora, quando ancóra c'era stata una tempesta dalla quale salvarsi. Prima che quella tempesta diventasse Rea, non più vittima ma carnefice. Seria, senza un'ombra di malizia ad adombrarle lo sguardo cioccolato, mentre osservava in silenzio la donna che Charlotte era diventata. Si chiese se avesse ancora un pessimo gusto dell'estetica, a giudicare dalla stanza avrebbe detto di si, se ancora fosse priva di senso dell'umorismo. Chissà se ancora temeva il buio, o se nel buio avesse imparato a vedere. Da un anno a quella parte erano entrambe tornate alla vita quotidiana –se così si poteva definire-, eppure mai Rea Hamilton si era degnata di andare a salutare la sorella perduta; rappresentava troppo di quella vita che voleva dimenticare, quelle corde troppo spesse attorno ai polsi e quel vuoto, nel petto, di una bambina precocemente disillusa sulla realtà. Quando ancora cercava una speranza, o credeva ch'essa potesse esistere; quando l'essere diversa era difetto e non pregio. Non aveva desiderato altro che lasciarla nel passato, ricominciando da capo. Purtroppo il destino, beffardo, aveva scelto di prendersi gioco di lei un'altra volta, riproponendole la copia sbiadita di quella che un tempo aveva rappresentato il suo mondo. Una debolezza, ecco cos'era sempre stata ai suoi occhi. Una debolezza che non poteva permettersi. Come sempre Charlotte Hamilton aveva combinato un bel guaio, e toccava alla gemella di poco più grande sistemare la faccenda. A suo modo si sarebbe nuovamente presa cura di lei, sottile consapevolezza che avrebbe tenuto solo per sé stessa, ed in un recondito anfratto intoccabile della propria mente. Qualcosa a cui avrebbe cercato di non pensare, quasi che il non pensarci potesse renderlo meno reale. Rea l’aveva sempre saputo che Charlotte era il suo tallone d’Achille. Quando erano bambine, ogni volta che trasgrediva le regole e veniva scoperta, si prendeva la colpa al suo posto: da Charlie nessuno se lo sarebbe aspettato, ma Rea? Un altro conto. L’aveva sempre saputo che, nolente più che volente, sarebbe finita così.
    Quello era il motivo per cui la odiava. «Ti aggiusterò» Fu appena un bisbiglio, le dita che dolcemente sfioravano i morbidi capelli di Charlotte. Ed era vero, avrebbe aggiustato le cose una volta per tutte, in modo drastico e definitivo. Quella mattina aveva fatto visita a Burns, un giovane che lavorava al suo stesso livello al Ministero. Tirocinante, apprendista, non ne aveva idea: giovane e manipolabile, tanto le bastava. Non aveva neanche dovuto usare il suo potere per convincerlo a fare ciò che ella desiderava, beandosi del naturale dono di essere Rea Hamilton. Bastava sempre così poco, che quasi non valeva più come divertimento. Quasi. «Puoi farlo, per me?» Probabilmente le avrebbe promesso anche la luna se fosse stato possibile per lui raggiungerla, mentre Rea accarezzava con le labbra la delicata pelle del collo, risalendo sulla mandibola. «Io... N-non...» posò le dita sulla sua bocca, stringendo lievemente per intimarlo a tacere. Quella parola, no, Rea la digeriva mal volentieri. Non voleva certo irritarla, giusto? «Non se ne accorgerà nessuno. È solo un fascicolo, piccolo così» Soave, persuasiva senza ricorrere alle illusioni -almeno non quelle che le avevano così gentilmente donato- mentre mordeva con dolcezza il labbro inferiore del giovane per misurare la sottigliezza del fascicolo di Charlotte Hamilton. Un vero peccato che poi, ahimè, avrebbe dovuto liberarsi di lui. Doveva trovare un piccolo ed adorabile telepatico che svolgesse qualche altrettanto piccolo ed adorabile lavoretto per lei, non poteva continuare a sfruttare i ministeriali per poi farli misteriosamente sparire. Forse. «Ripeti dopo di me» Burns annuì, le mani della Hamilton che si allacciavano dietro la sua nuca. «Palmer. Reiher» Rispettivamente il capo dei cacciatori, nonché suo rispettabilissimo superiore, e la biondina che si occupava di New Hovel. A Henderson avrebbe pensato lei, non appena avesse ritenuto opportuno tornare ufficialmente al mondo dei vivi. Nate era un altro tasto dolente al quale preferiva non dedicare attenzioni; una delle poche persone, se non l'unica, ad averla accettata per quel che era, senza aspettarsi da lei che mutasse da un momento all'altro, o che in fondo fosse qualcuno che non era. Lo dimostrava di rado, ma andiamo: era impossibile non affezionarsi a lui, perfino per una come la Hamilton. Ed era esattamente quello il motivo per il quale ancora, dopo un anno, non si era fatta sentire. Nessuno capiva mai l’esigenza di Rea di mantenere le distanze, buon Dio, e testardamente si infilavano nella sua esistenza come erbaccia selvatica; poi passava lei, per cattiva, quando le strappava via. E dire che sarebbe stato uguale se li avesse lasciati attecchire, morenti in un terreno poco fertile. Non c’era vittoria, in quella battaglia. «P-palmer. Re-eiher» Solo al concludersi di quel simpatico teatrino, Rea Hamilton si concesse un sorriso, nascosto nel collo del suo nuovo amico. «Ci vorrà un po' di tempo. Almeno due o tre settimane» Si morse la lingua irritata, ma quando si ritrasse non presentava traccia di quel fastidio. Easy, tanto tra due settimane persone mistiche mi rapiranno e mi porteranno in un Labirinto, non ho fretta. «Mi farò sentire» Senza trattenersi oltre, si rialzò con aria sbrigativa dalla scomoda posizione nella quale si era seduta, e gli rivolse un occhiolino. Il ragazzo si stava però facendo più sicuro, forse vagamente conscio, finalmente privo della cattiva influenza della donna, di ciò che la Hamilton realmente gli stava chiedendo. Credendo forse, illuso, di avere un qualche potere su di lei a causa del favore richiesto. Sostituibile: una parola, mille significati. «Non mi dai neanche un bacio?» Quanta tenerezza. Avrebbe anche risposto con un secco no ed una cinica inarcata di sopracciglia, ma doveva ancora tenerselo buono. Sì, qualunque cosa volesse Rea lo otteneva con lo strabiliante potere della seduzione, mai una volta che si fosse limitata al mero per favore. Il buon Morgan le aveva fatto un dono, chi era lei per decidere di non usarlo? «Suvvia, a una donna piace farsi desiderare» Ew. Accompagnò la frase con l’espressione più pudica del suo repertorio, presa in prestito alla vergine santissima in persona. Come potessero ancora crederle, falsa come una Prada sul lungomare, era per ella un mistero.

    Poco prima di cena, si era presentata davanti all'appartamento di Charlotte. Non aveva mai fantasticato sul loro incontro, lasciava quel compito a Charlie, e non avrebbe di certo cominciato in quel momento… Principalmente perché si sarebbe trattato di un incontro unidirezionale. Aveva bussato, invisibile, e quando lei le aveva aperto, non si era neanche disturbata ai convenevoli: sgusciata all'interno della casa senza farsi vedere, aveva atteso che chiudesse nuovamente la porta, per poi stringerle un polso. Di solito preferiva un altro genere di contatto, ma di solito non si trattava del sangue del suo sangue. Non era schizzinosa, ma sarebbe stato vagamente inquietante. «Secondo me, hai sonno. Tanto sonno. Perché non ti riposi, Charlotte Hamilton?» Carezzevole e densa come miele sulla pelle, nelle vene, su palpebre sempre più affaticate. Avrebbe potuto prendersi più tempo, indagare su chi la sorella avesse incastrato per andare al banchetto assieme a lei, ma -incredibile- perfino Rea aveva dei limiti che non aveva alcuna intenzione di superare. Infantile e capricciosa, ma non voleva parlare con Charlie. Le ricordava tutto ciò che avrebbe potuto essere, ciò che mai sarebbe stata; il passato che si era lasciata alle spalle, ed il futuro che non avrebbe potuto avere. I suoi sbagli, i suoi fallimenti. Le braccia dei loro genitori attorno alle sue spalle, la figlia giusta, mentre sigillavano la stanza di Rea con la bambina ancora all’interno. Lei...Morgan, che fastidiosa sensazione. Un prurito sul palato. Con i pugni troppo stretti e le braccia rigide lungo i fianchi scosse il capo, guardandola mentre si infilava, ancora vestita, sotto le lenzuola. Quando si viveva più di metà della propria esistenza con la certezza di essere dei mostri, e di aver perduto ogni briciolo d’umanità, bruciava come fiele un cuore che ricominciava a battere.
    Era solo contenta di non essersi vista riflessa nelle iride scure della gemella, perché sarebbe cambiato tutto. Perché anche Charlie avrebbe visto che i loro genitori avevano ragione, ma… per quanto razionalmente desiderasse proprio quello, c’era una parte –infinitesimale- che le pregava di non farlo. Lasciaglielo credere, Rea. Lasciati esistere, almeno nella sua memoria. Era proprio lì che risiedeva il problema: memoria. Quelle due parole aleggiavano ancora nell'aria, appese per inerzia alle labbra di Rea: ti aggiusterò. E, come raramente accadeva, era sincera.
    Drastica? Sicuramente. Vedeva una sola opportunità, una sola via d’uscita. A volte bisognava solo imparare a giungere a compromessi con una vita che lasciava poco alla contrattualità, imparare a strappare se non un , almeno un forse. Non doveva piacerle per forza. Forse, e dico forse, le sarebbe piaciuto che le cose andassero diversamente. Dato che non era in suo potere cambiarle, poteva almeno scegliere il futuro. Futuro che, nello specifico, non prevedeva le Hamilton.

    Ora, poniamoci il primo quesito della giornata: perché? Perché lo stava facendo? Mentre sollevava con leggero ribrezzo gli abiti della giovane, imprecando fra sé, se lo domandò anche lei. In che razza di roba infilava il loro bellissimo corpo, la sua ingrata gemella? Eppure, se voleva passare per Charlotte Hamilton, doveva adeguarsi. Ci sarebbero stati modi più semplici e meno invasivi per partecipare al banchetto d'inizio anno tenutosi al castello di Hogwarts, ma nessuno sarebbe stato così utile (o divertente): per scoprire i segreti delle persone, i loro punti deboli, doveva mimetizzarsi. Per essere una di loro, Charlotte era un mezzo più che idoneo: tutti, purtroppo, la amavano. Sperava che le sue amicizie fossero tutte superficiali, perché di chiacchiere fra best friend ne avrebbe fatto volentieri a meno. Il perché ritenesse opportuno partecipare ad un evento del genere, era così scontato da risultare imbarazzante doverlo specificare: si respirava aria di novità, e solo le persone mediocri si accontentavano di notizie di seconda mano quando potevano coglierle di proprio pugno. Aveva sorrisi da valutare, parole da pesare, intrallazzi di corte da comprendere: si diceva conosci il tuo nemico, giusto? La sua era una situazione particolarmente delicata, ed in quanto tale esigeva anche le più delicate maniere: inganni sottili tessuti da dita che un tempo le erano appartenute quanto le proprie, dietro ad uno sguardo simile ma non identico. Nessuno avrebbe dubitato di Charlotte la smemorata, mentre per quanto riguardava Rea era più… complicato. L’ultima volta che aveva messo piede al castello, li aveva tenuti in scacco con un giochino davvero divertente, ed aveva concluso la serata – ed i giorni a seguire- nelle segrete dei sotterranei. Che suscettibili, vero? Lo pensava anche lei. quella sera avrebbe dovuto essere di turno al ministero, dove ironicamente lavorava come cacciatrice, ma Gemes si era gentilmente offerto di fare doppio turno, e di essere reperibile anche al suo posto. Davvero adorabile, ora rimaneva soltanto che lo scoprisse anche lui: se l’avesse avvertito, gli avrebbe rovinato la sorpresa. «Charlie, perché ci vuoi così male?» Lagnò ad una stanza sorda, sollevando un abito a fantasia floreale davanti allo specchio. Storse il naso lasciandolo ricadere a terra, già irritata da quei vestiti scialbi che tanto sembravano piacere alla sua consanguinea. Alla fine optò per il meno peggio, ossia un semplicissimo vestito lungo fino alle ginocchia di un acceso rosa salmone, con qualche frufru di pizzo che avrebbe piacevolmente evitato, accompagnato da un paio di tacchi neri: Charlotte o non Charlotte, su certe cose Rea non cedeva. Sorrise al suo riflesso, passando le dita fra una chioma incredibilmente liscia ed alquanto insapore, se non per quell’artificioso effetto disordinato che la gemella amava creare quando, confusa, si trascinava ciocche color cioccolato all’indietro. Imitò i suoi gesti, cercando di liberarsi della vena di divertita malizia ogni qual volta sorrideva. Morgan, dove la prendeva tutta quella dolce innocenza, Charlotte? Dovette esercitarsi per diversi preziosi minuti, ma il risultato fu più che soddisfacente: morbida in ogni smorfia, con quella vena di semplicità che a Rea era sempre mancata; capace di attirare l’attenzione altrui con una sola risata cristallina, l’ombra di allegria priva di cinismo negli occhi scuri. Uno sguardo attento avrebbe potuto vedere Rea dietro quei movimenti, le sopracciglia lievemente inarcate ed un retrogusto dolce amaro sulla lingua. Per sua fortuna, le persone erano troppo distratte da loro stesse per occuparsi di lei –o meglio, di Charlie.
    Un ultimo sguardo alla gemella che sapeva avrebbe dormito per ore, il tempo necessario di farle inumidire le labbra con qualche indiscrezione succulenta, e Rea uscì dallo squallido appartamento di New Hovel nel quale ella viveva.
    Poteva essere definito in tanti modi, quel particolare momento. Una coincidenza, un segno del destino, una presa per i fondelli divina; le diverse culture avevano una concezione tutta loro di quell’esatto, specifico, istante. Infido bastardo il passato, non era forse vero? Non importava quanto sangue, sudore, lacrime e terra vi riversassi sopra, nella speranza di lasciarlo gocciolare nell’oblio. Non importava quanti pensieri morissero prima di giungervi, a quegli anni che troppo spesso si desiderava dimenticare; non importava quante notti a strizzare le palpebre ed a stringere le labbra fra loro impedendo a quel flebile ed alquanto patetico grido di fuoriuscire. Non importava quante battaglie si fossero combattute per giungere al punto d’arrivo, perché lui rimaneva sempre lì, monito per quei giorni che passato non sarebbero mai stati. Ricordi che s’intestardivano ad essere qualcosa di più: un groppo in gola, un battito accelerato, una dannata fitta allo stomaco. Ricordi che Rea Hamilton, per l’amor del cielo, non voleva né mai aveva voluto. Così tanto, per diventare ciò che era; eppure bastava sempre così poco per distruggere l’illusione: uno schiocco più disinibito delle dita, e tutto scivolava lasciando solo il nucleo originale. Non si poteva fuggire, ecco cosa le ricordava quel passato; non puoi essere qualcun altro, le gridava nelle orecchie. Se avete una vaga idea di cosa significhi essere privati di ogni cosa, ed imparare a vivere di quel nulla nello sterno, saprete comprendere il dolore quando in quel nulla s’infila, a forza, un battito. E un altro, e un altro ancora, in quel buffo susseguirsi chiamato essere umano. Non poteva permetterselo: non un concetto così difficile da intendere, giusto?; non lo voleva, che Dio l’abbia in gloria, non lo voleva. Le piaceva quel che era diventata, nel bene e nel male. Le piaceva essere odiata ed amata in egual misura, desiderata e temuta spesso contemporaneamente. Era Rea Hamilton, una storia che iniziava ad Hogwarts e che, per tutti, non aveva mai avuto diverso incipit. Non per Nathaniel, non per gli Spankman, non per Charlotte, non per Gemes. Una storia che aveva disseminato a chi, per propria fortuna –o sfortuna, ma a suo parere era indubbiamente della prima che si trattava- era incappato sul suo percorso, lasciando una fetta a ciascuno di loro: chi vedeva la sorella, chi l’assassina, chi la perdizione, chi casa. Così doveva rimanere. Charlotte aveva scombussolato i suoi piani, come prevedibile, ma era inoffensiva: il tacito accordo fra loro era così tacito, che non si parlavano da più di una decade.
    Quegli occhi azzurri, cambiavano tutto.

    Si disse che ci avrebbe provato un’ultima volta. Una sola, e poi si sarebbe arresa, lasciandosi scivolare addosso ogni parola, ogni sguardo, ogni insulto. Aveva solo sette anni, ma aveva già capito di essere sbagliata. Perversa. A sette anni un bambino cominciava a comprendere la realtà che lo circondava, od almeno a coglierne l’essenza. Indossava un vestitino grigio sporco, più grande del corpo troppo magro che racchiudeva. Ad ogni movimento le spalle rimanevano esposte alla calda quanto debole luce delle candele poste sui comodini, le quali fiocamente illuminavano i contorni di una bambola apparentemente spezzata. Una corda spessa legava le caviglie della bambola ai piedi del letto, mentre le mani –legate fra loro- giacevano abbandonate in grembo. Ci aveva provato, ad alzarle ancora una volta. Ci aveva provato ogni giorno. Quella bambola aveva un nome, o almeno: quella bambola ricordava d’averlo avuto, un nome, solo che nessuno lo usava più. Doveva essere lei a ripeterselo ogni notte, prima di prendere sonno, per timore di dimenticarlo: Rea Hamilton. Rea Hamilton. Rea Hamilton. Aveva solo sette anni, e già odiava il tono lamentoso con il quale la voce non più squillante le graffiava una gola roca dal pianto. «Mamma, ti prego. Fa male» Era l’ultima volta, poi avrebbe smesso. «Non chiamarmi madre» Era peggio delle corde, peggio della fame, o del freddo. Rimase a fissarla mentre, lentamente, ogni cosa scivolava via. «Amos, fila in camera tua!» Il sibilo di sua madre divenne un gracchiare acuto e concitato. Solo allora lo vide: due occhi azzurri, trasparenti come cristallo, di un bambino che da poco aveva superato un anno. Aveva sempre reputato gli occhi di Amos Hamilton terribilmente buffi, sin quando da neonati li spalancava gridando suoni inarticolate mentre cercava di aggrapparsi ai suoi capelli, e Rea se ne allontanava ridendo. Ci provò, a sorridergli confortante, dopotutto gliel’aveva promesso: sarò la tua sorella preferita. Lui riusciva a vederla, quella bambina; era troppo piccolo per darle un nome, ma lo sapeva. Peccato non ci fosse più nulla da vedere.

    I bambini l’avevano sempre vista per quel che era: la gemella, la sorella maggiore, la ragazzina dello specchio. Negli occhi di Charlotte, di Amos, e di Shia, Rea riusciva a vedersi; il sorriso appena accennato che subito raggiungeva lo sguardo curioso, l’energia che sprigionava da ogni poro e che, immancabilmente, spingeva gli adulti a ridere ed a posarle una mano sulla testa, quasi che quella mano bastasse a contenerla. Non c’erano riusciti.
    E Rea Hamilton, era diventata Rea Hamilton.
    «Oh, ti sei fatto male? io proprio…» Uscendo si era letteralmente scontrata con un ragazzino, dettaglio che in circostanze normali non meriterebbe neanche d’essere accennato. Avrà avuto… diciassette anni, ad essere generosi, e nulla che potesse subitaneamente attirare l’attenzione di una ricercatrice quale la Hamilton. Eppure, certi occhi erano difficili da dimenticare. Indelebili, indipendentemente da quanto si desiderasse il contrario. E Rea, state pur certi, l’aveva voluto. Quei capelli biondi, sottili quanto i suoi. Se solo fosse stato possibile, avrebbe pensato… troppo assurdo perfino per lei. Anche Amos? Sarebbe stato così ironicamente bastardo, da essere troppo esilarante. Allora perché percepiva quell’irritante peso sul petto? Incespicò d’un passo, fortuna voleva che fosse Charlie e non Rea, mentre un sorriso incerto le incurvava le labbra. Strinse impercettibilmente i pugni con veemenza, lasciando che nulla di quanto stesse pensando trasparisse. Che sciocca. Di certo non poteva essere Amos Hamilton, Amos era un babbano. Come Charlie. E Shia era magonò, ricordi? Vogliamo parlare di Gemes?
    Buon Dio, Hamiltons, ma che cazzo!

    Gli stessi occhi, identici a quando era appena un bambino ed iniziava a camminare con le proprie gambe. Gli stessi, spalancati nella medesima espressione di stupore e confusione. Lo stesso sorriso falso di chi ancora voleva far credere che tutto andasse bene. Perché anche Amos in Rea aveva creduto.
    Come Charlie, avrebbe pagato quell’ingenuità. Funzionava così, con Rea Hamilton.

    «… non ti avevo visto» Concluse, chinando il capo in segno di scuse prima di defilarsi. Lo stesso errore, ancora e ancora. Si lasciò scivolare attraverso New Hovel, approfittando di quella mezz’oretta prima dell’incontro con Henderson –o chi per esso- il quale li avrebbe portati al castello. Si guardò attorno, lieta che la gemella avesse problemi di memoria così da non dover fingere di ricordare persone che mai aveva visto; ricambiava in maniera calorosa ogni saluto volto alla sua direzione, stringendosi nelle spalle con espressione dispiaciuta quando, sinceramente, ammetteva di non sapere chi fossero. Per quanto fosse bellino quel quartiere, come turista non era particolarmente interessata all’habitat quanto alla fauna, ed in particolare a… trovato. Capelli rossi, vestiti di seconda mano, sorriso carico di fiducia nell’umanità: un Weasley Raimond Vianell. Prima di avvicinarglisi, estrasse dalla piccola pochette la boccetta che aveva ricevuto alla festa di qualche mese prima, lacrime empatiche. E che lo show abbia inizio. «Io, non so… sento tutte queste voci, e…» I singhiozzi la scuotevano completamente, mentre le mani nervosamente stringevano grandi ciocche di capelli color cioccolato. Non provò neanche ad asciugare le lacrime, reprimendo anzi un sorriso nel constatare che anche gli occhi del prefetto erano umidi. Riuscì a farsi invitare nella sua stanza, leggermente meglio –ma neanche troppo- rispetto a quella di Charlie.
    E che lo show finisca. Non aspettò neanche che la porta fosse completamente chiusa, prima di aprire una mano davanti al petto di RaiRai. «Perdonami la rudezza, non ho tempo per i convenevoli. Mi serve la lista degli abitanti di New Hovel, ora» Avrebbe potuto usare la persuasione. Buon Dio, avrebbe anche semplicemente potuto chiedere.
    Un giorno, neanche troppo lontano, un uomo domanderà a Rea Hamilton se lei, lei fra tutti, senta qualcosa. Rea si limiterà a sorridere, lasciando che la risposta sorga da sé come una fenice dalle proprie ceneri. Se avesse avuto modo di vederla in quel momento, Al, forse avrebbe avuto il punto del suo interrogativo. Ma così non era, e la Hamilton sarebbe sempre rimasta l’enigma irrisolvibile, il quadro del quale si ammiravano le fattezze senza riuscire a comprenderne il senso dall’interno.
    C’era chi al dolore reagiva soffrendo, chi con rabbia, chi con grida lacere nella notte. C’era chi sceglieva l’alcool, le droghe, il piacere carnale che adombrava la mente da ogni pensiero lucido. La mora reagiva al dolore con altro dolore, faceva soffrire perché la propria sofferenza scemasse in quel mero piacere ricavato dai mugolii altrui. RaiRai sentiva il petto in fiamme, lacerato da una mano invisibile che ne apriva lo sterno, graffiando la carne nuda. Era reale? Non lo era? Poteva essere meno reale solo perché la ferita non era visibile? Lei sorrideva, grata dell’agonia del prefetto di New Hovel. Sorrideva perché in troppi avevano creduto in qualcuno che mai era esistito, ed ancora sorrideva perchè la realtà non era reale quanto un illusione.
    Ed infine, sorrise leggendo i nomi. Era lì, nero su bianco.
    Amos Hamilton.
    Era la sua condanna e la sua redenzione. Se il destino voleva farsi beffe di lei, oh, doveva conoscerla davvero poco. Con Charlie non aveva avuto alcuna possibilità di sistemare le cose, scoprire chi fosse diventata e, soprattutto, fin dove avrebbe potuto spingersi e spingerla. Amos era un’altra occasione, e raramente la Hamilton falliva due volte. «Cosa sai di lui?» «…Cercava qualcuno» «Chi?» Un sibilo dolce sulla pelle, nettare su una ferita invisibile.
    «Rea. Rea Hamilton»
    Una smorfia soddisfatta, mentre lasciava la presa su Raimond. Game on, brodino.

    Un sorriso dolce, vagamente timido mentre gli occhi scivolavano a terra alla ricerca di un appiglio; la voce era appena un sussurro, ma ben udibile alle orecchie del ragazzo al suo fianco. I capelli le nascondevano parte del viso, ma chiunque avesse visto quella piega delle labbra si sarebbe sentito in dovere di ricambiare, impossibile fare altrimenti: effetto Hamilton, anche se non propriamente di quell'Hamilton in particolare. «Giampiero, giusto?» Imbarazzata da quelle lacune nella propria memoria, come se il non ricordare rendesse meno importante, o incisivo, il proprio interlocutore. «Posso sedermi?» Solo alla fine alzò gli occhi verso Xavier Stevens, lasciando che trasparisse dalle iridi color cioccolato una scintilla. Breve, poteva essersela immaginata?, ma era li, cristallina a chi avesse voluto coglierla. Che coppia, Rea e i fremelli –indipendentemente da quale dei tre. Sarebbe stato davvero troppo assurdo se avesse dovuto sfidare uno dei due in un duello semi mortale, vero? Si accomodò senza attendere risposta, il sorriso sempre più marcato. Che avesse un piano, era così scontato da essere regalato nei cestini a tutto un euro fuori dall’Esselunga. «Un uccellino mi ha detto che il ragazzino, quello là, sta cercando Rea. Puoi aiutarlo?» Gli indicò Amos con un cenno della mano, sbattendo languidamente le ciglia nella direzione di Giampiero. Fremello di fuoco non mentire, sai di volermi bene, xoxo. Impudentemente aveva pure alzato gli occhi, cogliendo due tenere bambine intente a cercare i suoi occhi con grandi e smaglianti espressioni felici. A denti stretti ricambiò l’affetto delle due, maledicendo Charlie per essere sempre così… Charlie. Plebe. Però doveva ammettere che erano davvero carine, chissà che potessero anche rendersi utili.
    P.s. Bello il Sicla sul Trono di Spade – death is coming, sorry Cole, it’s fate not luck-, belli i suoi colleghi sul podio, aw guarda un Nate selvatico, tutto fantastico, buono il cibo, che palle il ghetto, che schifo i poveri, Charlie vi manda un bacio ciao.
    the heart is deceitful above all things,
     
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  2. narcissistic cannibal
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    « sheet - 19 - Torturatore - Mangiamorte - pensieve »
    Hogwarts aveva appena riaperto i battenti ed il solo pensiero di vedere nuovamente tutte quelle facce, ancora ed ancora gironzolare per quei larghi e squallidi corridoi, quei lineamenti privi di senso e che al cospetto di James significavano anche molto meno, faceva insorgere in lui un disgustoso senso di nausea, il tutto non era neanche lontanamente cominciato che egli si era già stufato.
    La triste realtà era che purtroppo in quella scuola ammettevano chiunque, era questo il grande problema che la affliggeva e secondo la sua più modesta e più corretta opinione, la stava trascinando sempre più in basso facendole perdere di credibilità, fortuna che c'era stato lui a porla ad un livello superiore, ma adesso che nessuna casata aveva l'onore di accoglierlo, era tutto calato nuovamente in un baratro buio, non c'era un controllo qualità o qualcosa di simile per i nuovi arrivati e neanche per coloro che vi erano rimasti, alcuni di loro meritavano l'esclusione, altri addirittura di essere cancellati dalla storia, banditi, trucidati, insomma qualsiasi cosa che li avesse potuti tenere lontani dalla sua vista. Almeno avrebbero potuto chiedere a lui di fare un esame di ammissione, James si sarebbe fatto avanti con grande piacere, almeno si sarebbe risparmiato la fatica di distruggere qualche ragazzino oppure si sarebbe negato il diritto di divertirsi un po', era una buona idea ma in realtà era davvero combattuto riguardo questo progetto che aveva in mente.
    D'altro canto quel luogo non era più di sua competenza, giusto? Dopo aver completato i suoi esami, poteva finalmente voltare pagina ed iniziare la sua nuova vita, non sarebbe stato più costretto ad incontrare tutti quegli studenti, a dover subire passivamente tutto quel falso e disgustoso farsi compagnia, tutti coloro che lo avevano odiato potevano tirare un sospiro di sollievo e tutti coloro che lo avevano amato potevano compiangerlo, ah, vero, questi ultimi non esistevano... Una volta in punizione tutti quegli sgorbi insignificanti non avrebbero visto mai più la faccia di James Larrington attenderli nella sala torture, aveva provocato dolore a molti di loro, li aveva visti piangere, disperarsi, era quasi esaltato nel rimembrare simili occasioni come fossero derivanti da feste gioiose feste natalizie, dolci ricordi che sperava fossero altrettanto amari per le sue vittime, eppure adesso era tutto finito, i giovanti studenti potevano tirare un sospiro di sollievo, James Larrington non avrebbe più imposto loro la giusta punizione...
    Sbagliato, molto, molto sbagliato, ecco, per tutti coloro che davvero ci avevano creduto, James era felice di annunciare una bella notizia, uno scoop da prima pagina della Gazzetta del Profeta, era appena iniziata la parte migliore, avrebbe continuato a vivere quelle giornate nel castello, certo, ma da un punto di vista totalmente differente, la grande novità era che James Larrington era diventato ufficialmente un torturatore e non un semplice assistente. Non che prima facesse meno paura o che prendesse quel lavoro meno seriamente sia chiaro, ma il suo potere era aumentato e questa era l'unica cosa che avrebbe reso la sua permanenza ad Hogwarts come una piacevole vacanza ai Caraibi, aveva atteso quel momento da molto tempo e finalmente ci era riuscito ed era ancora lì, vivo e presente, come un incubo ricorrente era rimasto a perseguitare chiunque ne fosse stato meritevole o affinché tutti lo fossero ed ovviamente perché tutti non riuscissero a dimenticare il suo nome, nome che di sicuro non poteva essere considerato così breve, ma c'era tutto il tempo del mondo perché alla fine ognuno potesse recitarlo come una filastrocca, in fondo il sangue che un umano possiede nel suo corpo è davvero tanto e perché velocizzare quel processo quando James poteva prendersela con calma e vederlo scorrere goccia per goccia mentre attuava le sue meravigliose e sfrenate bramosie?.
    Le grandi novità però non arrivavano da sole, era da tempo che come una statua di granito si fissato sulle porte della sala Grande, a braccia conserte, rivolgendo un falsissimo sorriso amichevole a tutte le matricole che per la prima volta mettevano piede al castello, tratteneva a fatica il disgusto e la voglia di sorridere alla loro disarmante innocenza, aveva iniziato a raccogliere persino qualche sorriso innocente e sperava che nessuno li avrebbe messi subito in guardia sulla sua reale identità, era più divertente farglielo scoprire una volta troppo tardi.
    Il suo sguardo tuttavia, oltre ad ammirare la maggior parte della feccia che prendeva posto in quella grande stanza, si era soffermata sulla sedia riservata al preside del posto, e si, c'era una grande sorpresa, più grande di quanto egli potesse mai immaginare, non vi era più Leroy ma dopotutto Hogwarts cambiava più presidi di quanti specchi cambiava James giornalmente, il nuovo aveva un non so ché di familiare, una faccia già vista e fu per questo che James fermò uno dei passanti, un tizio del castello che sembrava sempre essere informato riguardo qualsiasi cosa.
    Lo strattonò per la spalla trascinandolo a sé e poi gli indicò con un cenno della testa il preside:-Chi è il nuovo?-, balbettò per rispondergli ma fortunatamente era a conoscenza della sua identità:-Non è di queste parti, ma da come ho capito lo chiamano Cole Sicla, qualcosa del genere...-, James aprì gli occhi sorpreso mentre un leggero sorriso conforme alla sua precedente falsità iniziò ad allargarsi sul suo volto, conosceva quel nome e non prometteva nulla di buono, squadrò l'uomo con aria minacciosa come se quella notizia fosse colpa sua, ma lo lasciò andare ben presto, c'era una persona che doveva essere informata e che di certo non avrebbe preso bene la notizia.
    Salì l'interminabile rampa di scale fino a raggiungere il luogo dove era certo che l'avrebbe trovata ed in effetti nella sala torture non vi era nessun altro se non Erin Sicla, entrò e con passo leggero si portò proprio davanti a lei cercando di annunciarle la notizia ma tenendola un tantino sulle spine, quando alla fine sganciò quelle parole la reazione di Erin fu quasi prevedibile:-Tuo fratello Cole-, non c'era nessun altro Cole Sicla al mondo con un nome differente e ne aveva sentito fin troppo parlare da quella bocca per non aver riconosciuto quel volto in quel contesto. Cercò di rimanere serio ma non ce la fece, era a conoscenza del fatto che quella era una pessima notizia ma quando vide Erin non rivolgergli altre parole ma strattonarlo per uscire velocemente da quella stanza ed affrettarsi a vedere quella situazione con i propri occhi non riuscì a fare a meno di sorridere ancora alquanto divertito.
    Più volte aveva compreso che nella famiglia Sicla c'erano molte controversie, molte faccende complicate che la rendevano davvero strana, James non si era mai interessato fino in fondo a quel caso, guardava tutto con occhio esterno ma si interessava alla questione solamente perché il tutto riguardava in prima persona Erin, ma egli non riusciva a considerarsi come toccato personalmente da quello che ruotava attorno a quel nome, James era semplicemente curioso di tutta la follia che ne sarebbe potuta scaturire ma niente più, d'altronde aveva rinunciato alla sua di famiglia, non riusciva a comprendere neanche lontanamente alcune di quelle questioni.
    Si ritrovò dunque da solo, all'interno di quella stanza, respirò a fondo guardando le mura di ciò che era e sarebbe stato il suo luogo preferito, la luce del sole ne illuminava le pareti facendole risplendere, quel luogo era talmente pulito che neanche un granello di polvere avrebbe avuto il coraggio di trovarsi al suo interno, vi era aria fresca, respirabile, una stanza davvero accogliente se non fosse stato per ciò che conteneva, doveva ammettere che in quelle condizioni quel luogo era disgustoso, quasi si vergognava a vederlo ridotto in quello stato ma ben presto tutto sarebbe cambiato.
    Iniziò ad ammirare le pareti con aria quasi sognante, serviva assolutamente una mano di vernice, magari un bel rosso sangue di studente era l'ideale e poi vi era troppa luce, di certo non doveva spiegare niente a nessuno, anzi al buio lavorava anche meglio e tutto quel pulito gli faceva accapponare la pelle, voleva sentire l'odore di marcio, del sudore, del sangue restio che si appiccava al pavimento macchiandolo fino a che le lacrime di altri malcapitati non sarebbero arrivate a lavarlo via, ottimi propositi per il nuovo impiego insomma.
    Finalmente quel posto era diventato suo e ne era più che felice, sarebbe rimasto lì volentieri ma per quanto non impazzisse all'idea, doveva presenziare al banchetto, dopotutto non voleva che qualcuno ci fosse rimasto male per la sua assenza, fece qualche passo per abbandonare quel luogo ma qualcosa lo fece rimanere per altro tempo fermo, si trovava giusto a qualche metro dalla porta quando voltandosi verso il muro, riflessa sull'elsa di una spada che nel corso dell'anno sarebbe stata usata per i suoi scopi, c'era la sua immagina, come di consueto quindi perse qualche minuto intento a risistemarsi i capelli e ad ammirarsi, gesti quotidiani che comunque non poteva negarsi.
    Arrivò dunque in ritardo al discorso del nuovo preside ma giusto in tempo per esibirsi in un piccolo inchino rivolto alla folla una volta che quello pronunciò il suo nome annunciandolo come torturatore, una degna entrata in scena per James Larrington che ascoltò tutto il discorso in silenzio, il Sicla non sembrava affatto malvagio se non fosse stato per l'astio che Erin covava nei suoi confronti l'avrebbe persino giudicato apposto.
    Una volta che ebbe terminato il suo discorso, James dovette trovarsi un posto a sedere, eppure quella si stava rivelando un'impresa davvero difficile, di certo voleva accomodarsi almeno lontano un chilometro dai Grifondoro e rivolgendo le spalle ai Tassorosso affinché la loro vista non guastasse l'appetito di Larrington, dunque optò per quello che sembrava il tavolo destinato proprio a lui anche se al momento non riusciva a vedervi Erin, sperava quindi di sedersi in solitudine dato che non avrebbe tollerato una compagnia differente.
    Però c'era qualcosa da fare prima, qualcosa che doveva essere fatto dato che aveva atteso quel momento per troppo a lungo e dopotutto i Grifondoro erano stati i suoi compagni per tutti quegli anni, non scelse dunque un percorso più breve che prevedeva di evitarli, affatto, il suo tragitto comprendeva obbligatoriamente il fatto di dover passare accanto ai suoi vecchi compagni, di certo da ex grifo non poteva farsi mancare l'occasione di augurargli tutto il meglio e magari perché no, anche di vincere la coppa delle case quell'anno.
    Con passo decise costeggiò quindi il tavolo dei Grifondoro, alcuni lo guardavano storto consapevole del fatto che James in tutto quel tempo non aveva fatto nient'altro che odiarli, altri erano anche sorpresi del fatto che James camminasse accanto a loro scuotendo il pugno a mezz'aria come per voleri incitare, ma non era quello che facevano di solito? Passavano le giornate a parlare i quanto dover essere i migliori quindi James tifava per loro, voleva far sentire che avevano il suo appoggio, continuava ad esultare in silenzio passando in rassegna tutti i loro volti fino a quando il suo disgusto non divenne troppo ed una volta raggiunta la metà di quella tavolata, alquanto stufo di quella sua sceneggiata schiantò velocemente e con diverse reazioni di sorpresa dei commensali, il suo pugno sul tavolo dove quelli avevano iniziato a mangiare.
    Un suono brusco ma non così possente accompagnò quel suo gesto che fece vibrare i bicchieri e saltare di qualche millimetro i vassoi del cibo scuotendo quel legno, mentre il suo petto si era adesso arrampicato sul tavolo alla ricerca degli sguardi dei presenti, la sua mascella faticava a restare chiusa da quanto voleva mostrare i denti che per tutto il rancore volevano palesarsi quasi in un ruggito, li guardò uno ad uno, mentre la rabbia accecava il suo sguardo e con la stessa cattiveria pronunciò quelle parole affinché i grifondoro attorno a lui riuscissero a sentire chiaramente:-Grazie a voi ho passato degli anni infernali...-, sputò quella sentenza con disprezzo per poi continuare:- Ma vi prometto, che quest'anno avrò la mia completa vendetta...- allontanò la sua testa e il suo volto iniziò ad abbandonare quell'espressione crudele verso una più divertita che lasciva trapelare qualcosa di sadico, con un piccolo ghigno:-Vi aspetto tutti in sala torture...-, si voltò poi di scatto verso uno di quei Grifondoro constatandone la sua reazione spaventata, e poi tornando per un attimo serio:-Ci divertiamo un po'...-, e di nuovo poi quel sorriso che alla fine terminò in una breve risata soddisfatta mentre i suoi occhi si puntarono in quelli dello studente innocente:-Eh?!-.
    Si scostò da quella marmaglia ma prima spazzolò con le mani la parte del petto venuta lontanamente a contatto con loro, di certo non voleva che qualche microbo si fosse attaccato a lui, ci teneva ad essere sempre splendente ed incontaminato, non avrebbe avuto pietà di loro e quell'anno aveva i pieni poteri per fare tutto ciò che la sua mente riusciva a concepire, aveva ragione, ci sarebbe stato da divertirsi.
    Riprese dunque il suo cammino verso il tavolo a lui destinato, non era felicissimo di far ancora parte di quell'evento ma almeno si era allontanato dai Grifondoro e poi, il tavolo dove aveva deciso di accomodarsi non gli sembrava tanto male.
    La sua attenzione infatti fu catturata da una donna, anche lei sembrava avere un volto a lui familiare, non l'aveva mai vista da quelle parti ma non se ne sorprese, era un volto nuovo che aveva di certo qualcosa da dire, e di sicuro non l'aveva mai vista all'interno di quel castello altrimenti se ne sarebbe accorto in tutti quegli anni, per quanto egli detestasse volti nuovi, quella donna era l'unica che avrebbe giudicato interessante tra i presenti, di certo non apparteneva a quella massa indegna, lei possedeva qualcosa di concreto, di diverso, quel tocco di distinzione che la faceva avvicinare a persone come James, e le impressioni di Larrington non sbagliavano mai in quell'ambito.
    Decise dunque che sarebbe stato corretto presentarsi, magari le sue aspettative potevano essere persino soddisfatte e poi, in assenza di Erin, doveva comunque ingannare il tempo in qualche modo, per torturare altre persone ci sarebbe stato un intero anno scolastico, non c'era fretta.
    La vide seduta in solitudine, probabilmente per la volontà di non volersi mischiare alla folla, era davvero un peccato che non avesse compagnia, si portò dunque al suo cospetto avvicinandosi lentamente, ed ancora in piedi si rivolse a lei con tono amichevole e con voce piena esibendo un cenno di capo come per volersi scusare dell'intrusione:-Non vorrei interrompere nulla...-, esibì un breve sorriso mentre James iniziò a ricambiare lo sguardo della donna che adesso aveva almeno qualcuno con il quale conversare,:-Non ho mai visto il suo volto all'interno di queste mura, lei non è di queste parti, sbaglio?-, prese un respiro e mentre guardava gli occhi della donna continuò il discorso:-è davvero un peccato che l'abbiano lasciata sola, d'altronde spero che non fondi le sue opinioni basandosi sempicemente sulla pochezza della maggior parte delle persone qui presenti, non la biasimerei d'altronde ma sa, abbiamo di molto meglio, non si preoccupi-, non sapeva il motivo che lo stava spingendo a parlare in quel modo, tuttavia gli sembrò opportuno rivolgersi a quella persona in un modo garbato, era difficile che in quel posto si fosse verificato un evento del genere ma ci teneva a fare persino una bella figura e poi era davvero uno scempio che altri non si fossero interessanti all'accoglienza di ospiti che possedevano una certa dignità.
    Poi parlando lentamente e soffermandosi sulla parte destinata al suo nome, con tono fiero aggiunse:-Oh, mi perdoni non mi sono ancora presentato... Io sono James Albert Brian Benjamin Jonathan Larrington, ma lei può chiamarmi come meglio desidera-, la sua schiena si mosse in avanti assieme alla sua testa in un breve ed accennato inchino e con un leggero sorriso quasi soddisfatto, poi rimase ancora piedi, ad attendere la risposta della donna e soprattutto che Erin fosse uscita fuori dal suo nascondiglio, non ci teneva troppo a sedersi senza di lei.
    James Larrington - Sick, Sick, Sick

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    Spero di essere Todd

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    Ian Todd Milkobitch ( ) - 16 - Ravenclaw - neutrale - loser - mascotte
    « There's nothing wrong with being a loser, it just depends on how good you are at it »
    Ciao a tutti, se ancora non mi conoscete, mi presento: io mi chiamo Todd. In realtà preferisco Ian, ma nessuno sembra ricordarsi di questo nome, preferendo parole più eleganti e creative come sfigato, loser o ranocchio, rigorosamente nelle giornate che posso definire positive.

    Ma diciamoci la verità, Todd di momenti positivi, dentro quella scuola - ma anche fuori - ne aveva avuti ben pochi, specialmente da quando Run aveva deciso di andarsene e lasciarlo con Jeremy. Aveva davvero combinato un bel guaio quell'estate, ed ancora non poteva credere di averlo fatto! Jer da allora lo ignorava con grande stile, e come se non si fosse sentito già abbastanza solo senza sua sorella, adesso senza di lui era davvero finito in una voragine di solitudine. Non che prima di quell'estate i loro rapporti fossero così idilliaci, ma subire così il suo silenzio era straziante.
    Scusa Jer, io non volevo Ci aveva provato a calmare le acque, ma niente, lui lo ignorava, eppure quando quell'estate aveva sbagliato non lo aveva fatto pensando che la situazione tra di loro potesse incrinarsi così, non voleva offenderlo o ferirlo in qualche modo, non lo avrebbe mai voluto. Todd, lo capisci che voglio sta solo? Rispondeva Jeremy con freddezza e gli richiudeva la porta in faccia. Todd, così facendo rimaneva diversi minuti a vedere il proprio volto coperto dal divieto che lampeggiava il suo nome “Vietato entrare per Todd”. Non gli piaccio vero? Diceva alla sua immagine sulla porta che continuava a ridere, ma cosa aveva da ridere? Era solo. E' sempre un piacere parlare con te disse guardando la porta. Era tornato in camera ed aveva passato il resto del pomeriggio a leggere e giocare a scacchi da solo. Una vera e propria gioia in pratica, ma ci era abituato. Aveva giocato da solo fino all'età di otto anni, quindi era come tornare indietro nel tempo, col solo fatto che un amico l'aveva, era alla porta al fianco. Dai Todd, ci sono io disse Miky, lui era sempre lì con lui, era il suo migliore amico, per non dire l'unico. Solo lui era rimasto al suo fianco nel crescere.
    Dici che sono presentabile? Ian si guardava allo specchio e cercava di sistemare i capelli, aveva la divisa in ordine, come sempre ed amava vederla stirata. Un nodo alla cravatta e infine gel nei capelli. Ma era inutile quelli erano così...così, rossi. Chissà come sarà il nuovo preside disse poi per voltarsi verso il ragazzo, che al contrario di lui non indossava la divisa. Doveva fare il solito ribelle, e controcorrente.
    Sei perfetto e dai andiamo. Voglio vedere le matricole spaventate dalla professoressa Queen. disse appunto Miky, era sempre con lui, anche ad Hogwarts, ma evitava di farsi vedere dagli altri. Più che altro erano loro che non lo vedevano, era invisibile. Non invisibile come lo era Todd che, anche se poteva essere visto in realtà nessuno mai lo considerava, Miky era proprio immaginario. Altro segno evidente dell'instabilità mentale di Milkobitch, era così solo. Il viaggio sul treno lo passò beatamente addormentato in un angolo di una carrozza, nella speranza che nessuno gli facesse qualche scherzo e gli andò di lusso! Che stesse iniziando l'anno con il piede giusto?
    Arrivato ad Hogwarts, salì le scale d'ingresso con il gruppo di Corvonero, compresa Arabells Dallaire, che non aveva visto l'anno precedente. Pensava si fosse trasferita in Francia, invece vederla lì fu un piacere, era così bella e sembrava anche averlo guardato, ma era possibile?! Non appena arrivati alla Sale grande, sentì un brivido percorrergli la schiena, era sempre emozionante tornare ad Hogwarts nonostante i tempi difficili almeno non si sentiva solo. Varcata la soglia portò lo sguardo al tavolo dei Tassorosso intravedendo Jeremy. Sorrise, spiccava tra tutti ed era bello come sempre. Notò anche gli altri studenti, in particolare si soffermò su Sheridan, doveva ammettere che era davvero molto bella (quanto stronza). Spesso evitava di guardarla, perchè aveva paura che se questa se ne fosse accorta avrebbe potuto cavargli gli occhi. Eppure in quel momento non riusciva a desistere dal guardarla, era talmente concentrato su di lei da non rendersi conto che il gruppo si era fermato. Così facendo andò a sbattere con la fronte sulla schiena di un compagno, ed inutile dire che quello scantenò una reazione a catena. Todd si sbilanciò e cadde all'indietro su una panca che traballò, fino alla cima. Questa a sua volta, spostandosi colpì un candelabro accesso, la candela cadde e qualcuno la spense prima che la tenda, messa in una posizione di sfiga strategica, prendesse fuoco. Milkobitch si inizia bene l'anno... disse freddo il professore Icesprite. Aveva appena sfiorato una bella tortura appena arrivato ad Hogwarts, doveva guardarsi intorno, stare attento. Ma sembravano tutti così felici e presi dalla notizia del nuovo preside che vide Icesprite recarsi altrove, accantonando per il momento qualsiasi pensiero. Sospirò. Poi qualcuno gli diede una botta alla spalla Ehi Bitch stai attento Era Arciqualcosa, anche lui serperverde. Non c'era più Jason Maddox a fare lo stronzo, ma c'erano altri che avrebbero continuato il lavoro sporco al posto suo, per questo non si poteva dire che fosse salvo, anzi. Guardò versò Jeremy, ma questo aveva proprio deciso di ignorarlo. Beh come biasimarlo, lui avrebbe fatto lo stesso al suo posto. Andò a sedersi e ascoltò il discorso del nuovo preside. Non sembrava come Leroy, e neanche come Callaway, era molto molto peggio, dal discorso che intavolò, quei due ultimi anni sarebbero stati i peggiori della sua vita, come se non fosse già abbastanza complicato per Todd chiamarsi Todd.
    Poi arrivò il momento del banchetto, e cibo fu. Basta pensieri, non voleva più pensare a quanto fosse sfigato e quanto si sentisse solo, ora mangiavano ed erano tutti insieme, si convinse che poteva essere un anno positivo. (Certo come no, illuso Milkobitch).
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    Niamh Ayla Lynch ( ) - 18 y.o. - ex Gryffindor - rebel - journalist
    « You're gonna miss me so bad when I'm gone »
    Non riusciva a spiegarselo molto bene, anzi, faceva difficoltà persino a concepirlo. Una persona, un oggetto, un luogo, qualsiasi cosa si può dare per scontato, anche i propri poteri, qualsiasi cosa che ti faccia stare bene, ma poi cosa c’è dopo, quando questa cosa sparisce, lasciandoti in mano nient’ altro che sabbia? Niente, il vuoto, o almeno così pensava la ragazza. Ognuno è diverso, così come le reazioni a qualsiasi tipo di trauma, eppure pensava di conoscersi, almeno abbastanza da prepararsi. Prepararsi a cosa, poi? La vita non era sempre una certezza, ma di certo lo era la morte. Puoi essere chiunque, un dottore, un personaggio importante, o anche solo un semplice studente, ma rimani sempre un umano e quindi soggetto alla malattia, o al Fato. In certi casi anche solo a te stesso. Inga era stata la causa stessa della sua morte, non era stato di certo il Destino a buttarla in quel lago, era malata, chissà da quanto tempo, ma nessuno se n’ era accorto. Niamh, troppo impegnata a giudicare, ad abbassare lo sguardo, non ci aveva fatto caso. Andrei, troppo impegnato a tradire la moglie, ad evitarla, non ci aveva fatto caso. E quanto le persone che ti circondano non si prendono cura di te, la colpa a chi è imputabile? La ragazza scuoteva la testa, si ripeteva che avrebbe potuto fare di più, anzi, che era colpa sua. Dava sua madre per scontata, e quando era scomparsa lei non era ancora pronta, non si era preparata e anzi, non era stato affatto come la prima volta. Se quando era morta sua sorella era troppo piccola per comprendere pienamente quello che stava succedendo, in quel momento, a diciotto anni, era più che consapevole. Se prima preferiva piangere, ora non riusciva a respirare, sentendo il petto schiacciato da qualcosa, l’ aria attorno a lei farsi sempre più pesante, e poi cominciava il panico. Ormai faticava persino ad uscire di casa, spaventata, troppo confusa persino per guardare in faccia qualcuno, si ripeteva ogni giorno che avrebbe dovuto superarlo, e aveva tutti i mezzi per farcela. Ma era la sua testa il nemico, e come faceva a sconfiggere se stessa? Avrebbe tanto voluto avere una cura, o anche solo smettere di pensare, forse a quel punto avrebbe potuto tornare a vivere. Non del tutto, certo. Non senza di Dakota, o di Hugo. Doveva ammettere che era piuttosto difficile crescere, e ancora di più abituarsi a un nuovo mondo, senza tutte le sicurezze che ti eri costruito precedentemente, gli amici, o anche solo l’ idea di un’ altra stupida e monotona giornata. Era pazzesco di come in quei tre mesi la sua vita fosse letteralmente cambiata, aveva dovuto affrontare i M.A.G.O, la perdita della madre, di Hogwarts e la prospettiva di dover trovare un nuovo lavoro, un altro porto sicuro. C’ era quella piccola parte di lei, la bambina undicenne dai grandi occhi azzurri, che non voleva crescere, non senza Dakota o i suoi amici. Il Rosso si sentiva tradito, abbandonato, e gliel’ aveva fatto capire perfettamente, come poteva la Nakota smettere di esistere, da un giorno all’ altro? Non poteva, o almeno così si ripeteva ingenuamente, sarebbero rimasti amici per sempre, come si erano promessi. Ma come tutte le cose, neanche l’ amicizia era scontata. Ogni volta che lanciava uno sguardo alla loro foto, se ne rendeva conto.

    « Sono stato a Londra. » "a cercare i miei genitori." concluse mentalmente. « E in America, prima a New York e poi in California ma non per divertirmi, cioè, lascia stare » a volte Hugo avrebbe voluto che tutte le persone possedessero il suo potere almeno non avrebbe dovuto spiegare che era triste durante quei discorsi. In verità alcune notizie le aveva avute: era riuscito a racimolare qualche vecchio giornale che parlava del padre "L'azienda di ricerca e sviluppo farmaceutica ScienceB apre la prima fabbrica, dopo il debutto dei laboratori a Londra, in Gran Bretagna a Glasgow." "Grandi scoperte farmaceutiche grazie all'americano Joseph Boobs" e cose del genere, Hugo era stato pure a Glasgow ma non aveva trovato nulla o meglio non aveva cercato a fondo forse per paura di sapere la verità. "Sparito figlio di Joseph Boobs" questo era l'articolo che leggeva di più, parlava di lui, del suo passato, di quando era sempre felice. « Scusa se non ti ho chiamato » non l'aveva cercata durante l'estate, era stato troppo occupato a cercare la sua famiglia e cercare di sopravvivere e per lui era difficile stare da solo.

    Era scomparso, di nuovo. Anche per Niamh era difficile stare da sola, eppure non l’ aveva abbandonato. Mai, neanche una volta, aveva pensato che quella fosse la soluzione ai suoi problemi. Ma lui, semplicemente, non la pensava allo stesso modo. In realtà non gli aveva dato molti indizi per capire, un giorno c’ era e l’ altro la camera che occupava era vuota, la ragazza meritava qualcosa di meglio di un letto sfatto. Tutti quegli anni andati a puttane, e aveva davvero incominciato a chiedersi se valeva così poco, era così insignificante? Nessuno si era fatto problemi a lasciarla, a voltarle le spalle, lei non era la costante di nessuno. Lucas? Si aspettava che prima o poi avrebbe fatto la stessa cosa. Aveva solo bisogno di sicurezze, che nessuno gli avrebbe dato. E allora perché vivere, tentare di riallacciare i rapporti con qualcuno? E alla fine di tutto era arrivata alla conclusione che rimanere sdraiata su quel letto a vegetare era la soluzione giusta. Morgan, e non se ne faceva un problema. Non riuscire a scoprire l’ identità di A, o a rimettersi in pari con Grey’s, quelli erano i problemi della vita, e anche gli unici che si sentiva in grado di affrontare e di conseguenza l’ unica vita che aveva avuto durante l’ estate e man mano che il primo settembre si avvicinava l’ obbligo di rimettersi in sesto si faceva pressante, come quella vocina fastidiosa che non si riesce a sopprimere. Non le era passata, come non le era improvvisamente tornata la voglia di vivere, ma continuava a ripetersi che non avrebbe risolto niente, così si era alzata dal letto e aveva cercato di riprendere a vivere. Anche quando era per strada, circondata dal rumore della città, i pensieri riuscivano a prevalere non dandole tregua, persino quando era al supermercato si sentiva schiacciare, non riuscendo a respirare, e voleva solo correre via e rifugiarsi a casa. Due mesi non bastavano per guarire. Due mesi non bastavano per farla tornare quella di prima, perché anche quando era con Lux lei non riusciva ad essere la stessa Niamh, ma solo la sua ombra.

    Guardava davanti a sé, senza prestare particolare attenzione alle parole dei due al suo fianco, oltre che essere annoiata dalla loro conversazione era nervosa di dover tornare ad Hogwarts, e poi pensare che quella sarebbe stata l’ ultima serata non faceva che metterle addosso una nostalgia che le impediva persino di aprir bocca. Era passato davvero un anno? Sembrava impossibile, quasi come uno scherzo, eppure le lancette dell’ orologio, così come le pagine del calendario, erano andate avanti, lasciandola spiazzata davanti all’ inarrestabilità del tempo. Era più vecchia, più matura? Di certo era cambiata, forse in peggio. Morgan, perché aveva avuto l’ idea di accompagnare Lucas? Le stava facendo male, e di certo non stava migliorando la sua situazione. Lì ogni luogo era accompagnato da un ricordo, da Dakota, ma soprattutto da Hugo, il quale non avrebbe più potuto sentire i suoi problemi, consolarla, come sarebbe stato utile in quel momento, Lucas non era Hugo, tantomeno Dakota, lo amava certo, ma non era la stessa cosa. Avrebbe potuto struggersi per tutta la serata, ma la vista del rosso le causava diversi problemi di concentrazione. Non riusciva a capire che cosa fare, e stando lì ferma sembrava leggermente ritardata. Un passo dopo l’ altro, non c’ era nessuna fretta, e ancora prima di formulare un piano d’ azione si ritrovò davanti a Dak, lo fissò per un paio di secondi, chiedendosi che cosa gli passasse per la mente, era sorpreso, felice? Alzò la mano per salutarlo, da brava ragazza problematica, sfoggiando un sorriso creepy, avrebbe voluto parlargli ma il suo orgoglio la teneva ancorata a quella distanza, se ne sarebbe pentita tra cinque minuti, come al solito. E in effetti fu così, tanto che non riuscì a prestare molta attenzione alle parole del preside, di sicuro non era come Leroy, ma don’t worry, tanto tra un anno anche Sicla sarebbe scomparso in una magica nube rosa. «Allora? Di questo passo quanto può essere Hogwarts considerata casa?» sussultò quando Lucas si avvicinò al suo orecchio, evidentemente era troppo occupata a fare la pedofila, misurò le parole, per non sembrare troppo acida, tuttavia un velo di cattiveria riuscì a trasmetterlo comunque «ringrazia che non ci siamo più noi al loro posto, e poi penso che sopravvivranno, neanche Leroy o Callaway erano dei santi» c’ era stato un certo periodo in cui Leroy era stato un buon preside, ma poi dopo quella notte era cambiato, così come suo fratello, che non era ancora riuscito a tornare lo stesso, anzi, ormai poteva dire di conoscerlo? Sembrava un’ altra persona, molto più simile a Maddox che a Will, e anche se cercava di non odiarlo per quello che era diventato, stava diventando difficile. Capiva di essere la sorella minore, eppure cercava di porgli dei divieti: niente droga, niente erba, non bere troppo, prova a non fumare così tanto, ma lui era testardo e non le dava retta. Si stava lentamente rovinando e la cosa peggiore era che ne era perfettamente consapevole, e Niamh restava lì a guardarlo, impotente, come sempre. «Comunque sono molto positivo su questo preside, mi piace» scosse la testa, non aveva molta voglia di pollo arrosto, quanto più di qualcosa di più semplice, come il purè, c’ era? Sicuramente, bastava solo cercare bene «sono d’ accordo, da quello che ho sentito sta prendendo il benessere della scuola molto a cuore, mi piace» le sembrava più un nazista, ma non sembrava molto intelligente spifferarlo a tutti, ringraziava solo che quelli non erano più problemi suoi.



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    Edited by sex on the piastrella - 29/11/2015, 13:56
     
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    « I couldn't get you out of my head if I wanted to.» - pensieve

    L'estate era finita, e per la prima volta Hope non era così contenta di tornare a Hogwarts; Shane, Niamh e Stiles si erano diplomati, l'avevano lasciata sola, come avevano fatto in precedenza Lucas e Maeve, insomma come avrebbe affrontato l'anno scolastico in quella tana di leoni? Anzi erano avvoltoi, che aspettavano la morte altrui per poi scagliarsi sulle carcasse degli studenti. Andiamo Mills, ora esageri, ci sarò io con te no? aveva detto Xavier, con quel sorrisetto che la innervosiva come non mai. Che poi, era contenta di sapere di avere il ragazzo con lei lì, ma lui non sarebbe stato sempre al castello e non avrebbero frequentato le stesse lezioni, quindi in realtà quanto spesso lo avrebbe visto? Sarebbe stata davvero molto dura la vita la dentro.
    Per non parlare che avrebbero avuto un nuovo preside, Cole Sicla; non era abbastanza avere Erin come professoressa e torturatrice in quel posto? Ovvio che no, in fondo non si è mai abbastanza infelici per sentire ancora dolore. #wat? . Leroy era sparito, non che prima fosse molto presente, da quando aveva perso la memoria non era più stato quello di una volta, ma come preside non era male, anzi , per Hope era stato il migliore, mentre con Sicla si preannunciava un anno di torture e dolore, lo sapeva. La resistenza e ribelli sarebbero stati messi a dura prova. Sbuffò ed indossò la divisa, legò i capelli biondi in una coda, che era sempre la miglior scelta per apparire ordinata. Improvvisamente sentì qualcuno alle spalle Hope, splendida come al solito sei pronta? era sua madre che le annunciava che arrivata l'ora per andare a king's cross. Il baule era pronto, e Jen vi era seduta sopra, in attesa. Non se ne sarebbe mai andata senza di lei. L'accarezzò Avrò te al mio fianco disse dolce mentre la gatta le faceva le fusa. Peccato che se ne sarebbe andata in giro appena arrivati e l'avrebbe rivista come minimo per le vacanze di natale. Probabilmente avrebbe visto molto più spesso Shane, ed era tutto dire, visto che anche lui non c'era più a Hogwarts.
    Hope non fare tardi, il treno non ti aspetta lo sai? continuò sua madre, ovviamente, era la tipica frase che usava da quando era arrivata la lettera . Ma negli anni precedenti aveva sempre avuto Shane che le metteva fretta, quell'anno era diverso. Chissà che fine aveva fatto, lo aveva visto per quelle due settimane di vacanza insieme subito dopo i MAGO. Erano stati in Francia dai parenti della ragazza. Lo aveva visto ammaliato da sua zia Claire e per quei giorni che avevano dormito lì. Sia la nonna che la zia gli avevano fatto fare cose che difficilmente Shane avrebbe potuto fare se fosse stato casa sua. Il vantaggio era di essere una veela, il fascino irresistibile per chiunque, anche per uno scontroso e musone come il suo migliore amico. Ma a parte a quello, era stata davvero una bella vacanza. Erano stati bene, come non lo erano stati da tempo, anche per il fatto che non avevano più segreti e potevano parlare veramente tutto. Poi erano tornati in Inghilterra, e lei era andata da Xavier, sapeva che non poteva muoversi molto, avevano trascorso del tempo insieme ed erano stati bene, anche se non era molto sicura di quello che provava il ragazzo, scherzava sempre con lei e non mostrava mai quello che provava davvero. Non che Hope fosse migliore, ma nell'ultimo periodo era diventata più dolce con lui, lo aveva capito che si era presa una cotta no? Forse la stava prendendo in giro, soprattutto dopo la festa, dopo quel famoso bacio. Forse pensava che lei fosse una di quelle ragazzine che ...non voleva neanche pensarci. Corse per le scale ed insieme ai suoi arrivarono alla stazione. Vide molte matricole, spaventate , pensare che anche lei era stata come loro, invece adesso era all'ultimo anno. Sospirò e salì sul treno, si mise seduta in carrozza insieme ai suoi compagni di casa, compreso Jeremy, lo vide quasi evitare il fratello. Vide Todd, solo, fu dispiaciuta.
    Il resto del viaggio lo passò a chiacchierare, raccontare delle vacanze, come se niente fosse, possibile che nessuno si rendesse conto che tutto tutto era solo una menzogna? Vivere nella paura non era normale. Lei sapeva che c'era qualcosa di migliore oltre a quel vivere, era diventato il suo obiettivo, scoprire la verità insieme a Deimos, e magari una volta fuori da Hogwarts poteva dedicarcisi davvero.
    Non appena furono arrivati al castello si diressero subito verso la Sala grande per lo smistamento delle matricole e il discorso del preside come ogni anno, con l'unica differenza che c'era Sicla quella volta. Non era molto positiva al riguardo, conosceva la famiglia e non erano famosi per diffondere allegria e gioia nel mondo, si poteva dire che era il contrario. Infatti il discorso che fece non fu molto incoraggiante, almeno per lei, magari per qualcuno come la professoressa Queen, era davvero un bell'inizio d'anno.
    Guardò in direzione del tavolo dei muggle, intravide Xavier, con quella sua aria da strafottente stampata sul volto, ma era bello davvero, per fortuna non sembrò notarla, o sarebbe morta dalla vergogna se nel voltarsi avesse visto proprio lei fissarlo e magari vedere nel volto della ragazza un sorriso ebete. Hope smettila si disse da sola, come se la coscienza di Hope le imponesse di tornare a essere la ragazza seria che era. Sospirò e tornò a seguire il discorso, dopo lo smistamento, del nuovo preside. Dopo di che iniziò la cena.


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  6. Rubinrot.
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    MackenzieTargaryen
    ❝What's the point in playng a game you're gonna lose?❞
    Non c'è tempo, credimi. scosse la bionda testina, facendo muovere i lunghi capelli con convinzione, cercando di persuadere pure me. Cosa potevo fare se non alzare le sopracciglia e rivolgerle un sorrisetto divertito? Avevo passato la intera estate in quella casa, le mura in legno e i pavimenti bianchi, i tanti tappeti persiani posizionati apparentemente a caso un po' in tutte le stanze, quegli oggettini così inquietanti che avevano tutti, ma proprio tutti, una storia super interessante da raccontare. Letteralmente. Perché erano loro a raccontarmela. Eva era una ragazza meravigliosa e così era la sua "umile dimora", così come l'aveva definita lei stessa appena avevo varcato la soglia di quell'appartamento due mesi prima. C'eravamo conosciute poco prima del Fairytail Party, ma eravamo entrate in confidenza in un lampo. Mi sembrava di conoscerla da sempre e lei diceva di sentire lo stesso. Mi aveva invitata da lei un pomeriggio per un thé e una cosa tira l'altra...sì, forse avevamo corso un po' troppo, ma dal mio punto di vista ne era valsa totalmente la pena. Eravamo diventate inizialmente ottime amiche: passavamo tutte le sere a ridere davanti a delle stupide commedie mangiando pop corn alla cannella al caramello, che poi puntualmente tiravamo l'una contro l'altra e non mangiavamo mai. Leggevamo libri l'uno accanta all'altra e ci aiutavamo nello studio a vicenda. Poi una sera, avevamo bevuto un po' troppo e c'eravamo trovate sdraiate a letto a chiacchierare di questo e quello...ed era arrivato un bacio. Era il mio primo vero bacio, ed è stato magico. Mi girava la testa forse più per colpa dell'alcool, non mi sentivo più le gambe la posizione non era propriamente comoda, ecco...Non mi sembrava nemmeno di essere nel mio stesso corpo. Ed è triste da ammettere, ma in quel momento avevo pensato all'unica persona che non doveva passarmi per la testa. Occhi azzurri, stupendi e profondissimi. Simili a quelli di Eva, sì...ma non erano i suoi. Capelli lunghi, lisci...castani. Jericho. Io e Eva avevamo deciso di ufficializzare la cosa solamente due settimane prima dell'inizio della scuola. Non ero né eccitata né triste al riguardo: mi faceva poter riempire il mio tempo di nuovo con il tran tran quotidiano, ma non mi sarebbe dispiaciuto continuare a vivere come avevo fatto in quei due mesi, all'insegna della spensieratezza e del divertimento. Potresti...potresti tornare, se ti va. Mi aveva detto la sera prima dell'inizio della scuola, mentre stava preparando le valigie. Io le tenevo la vita e le baciavo delicatamente il collo, godendo del suo meraviglioso profumo. Miele e noci. Io avevo mugolato qualcosa di simile ad un sì, ma non ero sicura che la nostra storia sarebbe durata tanto quanto l'anno scolastico. Già allora mi sembrava precaria, ma volevo convincermi del contrario. Volevo convincermi del fatto che non fosse stata una semplice avventura. Qualcosa per distrarmi dal fatto che non sentissi più Jer da mesi e che ormai avevo perso le speranze. Quella mattina invece, facendo colazione entrambe in biancheria intima - lei in più rispetto a me aveva una semplice maglietta bianca più grande di lei addosso - mi aveva detto quella frase che tanto mi aveva divertita. Si portò la tazza di latte alle labbra, appollaiata com'era sulla sedia era dannatamente adorabile. Ma possibile che in due mesi non aveva ancora capito che con me il concetto di tempo era relativo? Arriveremo in tempo, Ev. Te lo prometto. Tu intanto inizia a vestirti.

    Mack, dobbiamo per forza? Appena fuori dai grossi portoni della Sala Grande, circondate da gente che andava e veniva, Eva non sembrava più così convinta di voler festeggiare il nuovo anno scolastico del quale aveva tanto parato in quei due mesi. Si mordeva il labbro inferiore nervosamente, stringendo i pungi. Io le presi semplicemente la mano, guardandola dritta negli occhi. Non importava a nessuna delle due che lei fosse in possesso di una bacchetta ancora funzionante, semplicemente non ne parlavo. Pensavo che fosse perché lei pensasse che parlandone sarei potuta stare male, ricordando ciò che mi ero persa. Ma io davvero ero andata avanti. Quasi. Le schioccai un bacio sulla guancia. Ci vediamo dopo. mi diressi verso il tavolo dove riuscivo a vedere più volti conosciuti...tra cui quello di Jer. Feci finta di niente, come mi suggeriva l'istinto. Sarebbe stata una lunga serata...

    sheet 17 Wizard Cronocinesi Ribelle pensieve
    ©#epicwin



     
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  7. #kaylyn
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    Kaylyn Lewis ( ) - 21 anni - ex-Ravenclaw - neutrale - bibliotecaria
    « La vita è una rosa dove ogni petalo è un’illusione e ogni spina una realtà »
    Durante l’estate non era rimasta a Hogwarts. Per forza, c’era solo Malfoy in quella scuola e lei non ci teneva a restare con uno che ha la faccia da stupratore. E poi puzzava. E comunque, non sapeva nemmeno se era permesso. Insomma, durante l’estate Kaylyn aveva speso i suoi bei soldini guadagnati dal lavoro di Bibliotecaria. Eh, non è che guadagnasse chissà che cosa, ma qualcosa la guadagnava, e quel qualcosa era bastato per fare un giretto in Italia e Grecia. Aveva dovuto vivere in Bed&Breakfast con camere prenotate su siti alquanto inaffidabili e a prezzi più che stracciati, come i peggio poveri. Però quegli ostelli esistevano davvero e aveva davvero le camere prenotate. Si era impadronita della Fiat appartenuta a suo padre e aveva deciso di punto in bianco di scendere tutto lo Stivale in macchina. Si era fermata a Venezia, Firenze, Roma, Milano, Torino. In tante città, insomma, mano a mano che scendeva, fino ad arrivare a Reggio Calabria e scoprire che si doveva prendere un traghetto per raggiungere Palermo. Visitata la Sicilia, scese in Grecia. Aveva tenuto da parte i soldi che aveva guadagnato col suo lavoro senza mai usarli per due anni (esclusa qualche piccola spesa). E tutto sommato quel viaggio non le era costato tantissimo. Si era solo pentita di esserci an data da sola, sarebbe stato meglio andarci con qualcuno.
    Ma con chi? Si sentiva tremendamente sola in quell’ultimo periodo. Chbosky non sarebbe più stato a Hogwarts per il prossimo anno scolastico, tanto per dirne una. Ci era rimasta tipo malissimo, ma va bene. Aveva comunque qualche amico a Hogwarts, e le piaceva stare lì. Le piaceva lavorare in Biblioteca, davvero. Solo che c’erano così tante persone inquietanti, e le voci di corridoio che affermavano che Leroy se ne sarebbe andato. Certo, non era più buono come una volta, ma poteva capitare di peggio (e infatti così è stato #neverajoy). E poi Cassandra, la sua migliore amica, era puff, svanita, volatilizzata, senza tracce, da un giorno all’altro. Non riusciva a contattare la Zabini da secoli. Almeno aveva Lydia e Maeve ed entrambi sono pg di Sara, la cosa è preoccupante con cui parlava spesso. E poi Aveline, o Ave, o Avis, come amava chiamarla. Era un nome così bello, e quella ragazza era così tenera! Sembrava timida e spaventata, ma Kay sapeva che era forte. Del resto, aveva pure i capelli rossi #wat. Ci parlasva spesso, anche perché la piccola Ave stava quasi sempre in biblioteca. E poi c’erano quegli altri studenti... tipo… mh… sì, loro… insomma…
    Kaylyn si portò un dito sul mento. Non riusciva proprio a ricordarsi i nomi. A volte aveva perdite lievi di memoria, sì. Tipo prima stava facendo una non meglio specificata cosa, solo che poi s’era messa a pensare alla sua estate e ai suoi amici, e a cose, e s’era dimenticata cosa stava facendo. Si guardò allo specchio, senza riuscire a spiegarsi perché fosse vestita in modo elegante. N on ricordava neanche che giorno fosse, ma ricordava che era importante. Quindi se se lo sarebbe ricordato, avrebbe ricordato perché si stava vestendo. Erano quelle volte in cui cadeva in un posso senza fondo e finché non cercava di frenare la caduta profondava nell’ansia e nell’inquietudine. Un calendario segnava con un grosso cerchio rosso la data del 1 settembre. Ma certo, sì, e il primo settembre!

    E allora?
    Sotto il numero c’era scritto “Banchetto Hog…”. Kaylyn inclinò il capo, cercando di decifrare i caratteri in sanscrito. Che tra l’altro aveva scritto pure lei. Scrivere senza occhiali comportava rischiare di nscrivere in modo insensato e scrauso, inventando un nuovo alfabeto. E a volte anche una nuova lingua. Lingua kaylyna, suonava pure bene. “…Hogwarts”. Ah.
    E perché c’è il banchetto?

    Vi risparmio il resto del pomeriggio. Vi basti sapere che lo passò tutto a chiedersi cosa fosse quello, perché quello, “e allora?”, ecc. A volte, oltre ad essere smemorina, riusciva a diventare ignorante. Cioè, stupida. Ma forse era solo perché aveva ancora addosso il sapore dell’estate, e agognava ancora alla nullafacenza fisica e mentale che essa portava. O forse era scema e basta, non lo so. Comunque riuscì a finire di vestirsi, congratulandosi per aver scelto delle scarpe con tacchi non a spillo. Altrimenti sarebbe stata una tragedia, sissignore. Non appena entrò a Hogwarts, dopo essersi Smaterializzata a Hogsmeade e aver fatto inviare i propri bauli via Gufo, si diresse ovviamente in Sala Grande. Era in ritardo. Ops. C’era già un gran vociare, e molti studenti, e luci, e cose, e quello, e candele fluttuanti, e aria di festa yeeh, e tante cose. No spe’, quale aria di festa? Guardò il nuovo Preside. Serio e diritto, sguardo freddo e inflessibile. Però era bello.
    Ovviamente la Lewis non poteva risparmiarsi figure di merda nemmeno il primo giorno di scuola. Si scontrò inavvertitamente contro un corpo mobile e solido. E morbido. «Scusa!», esclamò subito attirando l’attenzione del tavolo degli Esperimenti. Iniziamo bene. Guasrdando con chi si fosse scontrata, riconobbe Amos e vide la sua felpa a terra. Mise il broncio. «Amos, fa freddo. Devi metterti la felpa, perché te la sei tolta?». Il suo faccino era copsì tenero, non poteva non preoccuparsi come un’amorevole mammina. Recuperò la felpa da terra e gliela infilò, noncurante del fatto che stava trattando Amos come un bambino di due anni. «Ora va meglio», disse soddisfatta e schioccò un bacio sulla guancia di Amos. «Ci vediamo più tardi, ho visto che stanno arrivando gli studenti», gli disse e, fatto un occhiolino, si allontanò in fretta per occupare il proprio posto al tavolo di assistenti e personale del castello lanciando un «Buona sera a tutti» generale.
    Proprio due minuti dopo entrarono le matricole, che vennero Smistate. Poi il Preside lanciò un Silencio, cosa che indispettì Kay, e poi parlò di cose brutte, di torture, che facevano tutti schifo, che ora aveva più scuse per punire la gente, che Hogwarts era una specie di convento di clausura. Fine. Credo. Ah, sì, e che dovevano fare i bimbi bravi, altrimenti lui avrebbe fatto il cattivo. E buona cena a tutti. Ah, aveva pure detto come si chiamava, ma Kaylyn l’aveva già dimenticato. Spostò lo sguardo alla ricerca di Maeve e alzò il braccio, salutandola. Non riuscì a trovare Aveline, si disse che l’avrebbe vista al limite il giorno dopo. E l’assenza di Chbosky era confermata, cosa che le fece un poco passare l’appetito, ma si fece forza e prese una cotoletta, mettendosela sul piatto, mentre una parte di sé voleva gustare nuovamente la pizza che aveva mangiato quell’estate a Napoli.
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    annie moreau lydia hadaway ( ) - 19 - Slytherin - amnesiac - mi chiedi troppo
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    Passò più volte le mani fra i capelli ramati, districando le ciocche per portarle dietro le orecchie. Aveva passato ore davanti all’armadio indecisa su cosa indossare, nonostante fosse consapevole del fatto che nessuno fosse realmente interessato al suo abbigliamento. Non solo era pressoché una sconosciuta, ma addirittura l’assistente di Nathaniel Henderson. C’era chi li compativa per l’ingrato compito, e chi li riteneva feccia tanto quanto gli Esperimenti a cui cercavano, in qualche modo oscuro ai più –compresa Lydia- di insegnare qualcosa. Che cosa nello specifico, non era dato saperlo: teoricamente si trattava di conciliarli con il loro potere, di modo che sapessero gestirlo; in pratica, Lydia pensava che ci fosse molto di più. Ad un occhio esterno poteva non sembrare, ma Nate –o almeno, questo pensava la Hadaway- cercava di insegnare loro che la speranza, seppur flebile, esisteva ancora; potevano ancora avere una vita, anche se non delle più normali. Forse non quella che avevano sognato, ma potevano andare avanti. Lo faceva a suo modo, una maniera molto particolare e sottile da cogliere dietro quel sorriso sghembo, ma lo faceva. Si preoccupava per loro quando a nessun altro importava, ed era la cosa che più Lydia ammirava in lui (ovviamente non ne aveva mai fatto parola, gestire l’ego di Henderson era già complicato senza ch’ella lo alimentasse ulteriormente). In molti nel Mondo Magico non approvavano quella novità, ma alla Hadaway non era mai importato: solamente quand’era con loro, babbani e maghi speciali, riusciva a sentirsi a casa, nel posto giusto ed al momento giusto. Sentiva che c’era un legame, qualcosa che andava al di là del passato che aveva dimenticato. Erano il loro presente, quei ragazzi, e neanche si rendevano conto di quanto facessero per lei. Non che lei l’avesse mai dimostrato, rimanendo anzi sempre sulle sue. Riservava loro sorrisi cordiali, si mostrava disponibile, ma sempre… distante, e senza neanche farlo apposta. Si trattava di una sorta di protezione: non poteva permettere che si avvicinassero troppo ad una persona che neanche esisteva, che non aveva memoria d’esser mai vissuta. Non aveva alcun senso. E lei, dal canto suo, aveva paura. Un terrore ingiustificato a razionale di scoprire, dietro il loro sguardo ferito, la stessa cicatrice che segnava i suoi. Strinse le dita fra loro, camminando nervosamente di fronte al grande specchio della camera al Paiolo Magico. Continuava a ripetersi di trovarsi una casa tutta sua, un appartamento da dividere con qualcun altro –ma chi? Non conosceva, ancora dopo un anno, quasi nessuno-, ma rimaneva comunque incastrata in quel buco, incapace di prendere realmente l’iniziativa e di abbandonarlo. Non era affezionata a quella stanza, tutt’altro, eppure non riusciva ad allontanarsene. Era l’unica realtà che aveva conosciuto, l’unica casa, e per quanto poco le piacesse, spesso era l’unica cosa ad impedirle di andare alla deriva. Con il correttore coprì le scure occhiaie sotto gli occhi, unico segno di quanto poco la ragazza riuscisse a dormire. Si svegliava nel cuore della notte con un grido strozzato nel petto, senza una ragione apparente; gli incubi le segnavano le palpebre abbassate, lasciando tagli invisibili ma concreti. Per non parlare di quando, aprendo gli occhi, si risvegliava in luoghi casuali, ben lontani da dove si era addormentata. E c’era quel vuoto insistente, quella parete bianca nei propri ricordi che le impediva di vedere, soffocando nell’oblio tutto ciò che era stata. Un dolore fisico, letteralmente: non erano rare le volte in cui al mattino si ritrovava nuovi lividi o graffi, senza ricordarsi cosa, o come, li avesse procurati. Perfino la pelle a volte sembrava non appartenerle, forse perché troppo grande rispetto a quel poco che conteneva. Non c’era niente, in Lydia, neanche una parvenza di speranza. C’era solo quella strisciante ed inequivocabile sensazione di già visto, appendice troppo sottile da afferrare per comprenderne la portata. Ricordi così sbiaditi che definirli ricordi era ridicolo; e Lydia, Lydia Hadaway, non voleva neanche sapere. Di nuovo v’era quella paura di scoprire qualcosa a cui non era preparata, una vita diversa rispetto a quello che si era immaginata. Una famiglia diversa –l’aveva, una famiglia?- un sorriso diverso, una Lydia che non era neanche Lydia. Non voleva ascoltare chi la chiamava Annie, e di quella Annie non voleva sapere nulla. Se nessuno l’aveva ancora cercata, significava che era il genere di ragazza per il quale non valeva la pena. Lei voleva valere, almeno per qualcuno. Era tanto chiedere una persona, una sola, che sentisse la sua mancanza? Che prima d’addormentarsi si chiedesse dove lei fosse, se stesse bene? Era tanto sperare di essere considerati? Probabilmente sì. Così si limitava a trascinarsi dietro quella vita fatta d’ingannevoli illusioni, sorrisi appena accennati e sguardo più sicuro di quanto mai fosse stata in vita sua. Cercava, mattone per mattone, di costruirsi una vita, come un bambino che ha appena imparato a giocare con i Lego. Così sola da far male, anche –se non soprattutto- quand’era in mezzo agli altri. Avete presente quel buco allo stomaco quando, per la strada, vi rendete conto di non essere altro che una macchia di colore sulla tela di un pittore distratto? Quando guardandovi attorno non vedete che scie rapide, udite parole appena sussurrate, e vi rendete conto che quel quadro non vi appartiene? Quella, esattamente quella, era Lydia Hadaway. Ed incomprensibilmente, l’unico posto in cui riusciva a sentirsi normale, visibile, era con gli studenti di Henderson. Anche loro si sentivano come lei? Non poteva saperlo, perché mai gliel’aveva domandato.
    Si diede un pizzicotto sulle guance troppo pallide, spostando i lunghi capelli scuri tutti da un lato del viso. Indossava un semplicissimo abito nero che non presentava alcun fronzolo, così da evitare di attirare l’attenzione. Parliamoci chiaro, in contesti normali alla Hadaway –forse? #bipolare- piaceva avere gli occhi su di sé, ma ad Hogwarts si sentiva sempre giudicata, e gli sguardi diventavano da curiosi solamente indiscreti. Lei gonfiava il petto d’orgoglio e camminava a testa alta, ma a stento si tratteneva dal piazzarsi al centro della scena gridando a tutti loro che non c’era niente, niente, da guardare a quel modo. Non erano apprezzamenti, erano solo… la reputavano un fenomeno da baraccone. O almeno, questo era ciò ch’ella percepiva, paranoica e melodrammatica come solo una persona con la coda di paglia poteva essere. Qual era la sua coda? Molto semplice: aveva fatto credere a tutti loro di essere qualcuno che non era, e se per molti era semplice fingere, per lei non lo era affatto. Non dopo che i sorrisi si erano fatti più calorosi, le domande più interessate, le mani sulle spalle più frequenti. Ma come, come ella poteva dir loro che non sapeva chi fosse? Come, quando in lei dovevano vedere una guida? Era stata tentata, in passato, di parlarne con Henderson, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Aveva timore che potesse licenziarla, e quel lavoro era l’unica cosa che le impediva di impazzire.
    Lisciò l’abito con un sonoro sospiro, costringendo le labbra ad incurvarsi verso l’alto. Non aveva traccia di trucco, se non per il gloss rosato che le colorava appena la bocca carnosa. Il tacco, seppur non troppo alto, slanciava le gambe sottili di Lydia, e scure come l’abito facevano risaltare la carnagione (troppo) chiara della ragazza. Strinse la bacchetta, sentendola quasi sbagliata come ogni volta che la impugnava, ma diligentemente fece il suo dovere presentandosi all’ora esatta –quale? Ah boh, sh- davanti a New Hovel, laddove vivevano gli studenti maggiorenni. Porse loro una bellissima forchetta, un fantastico cucchiaio ed un mestolo davvero magnifico, stringendosi nelle spalle. «Queste sono le passaporte che vi porteranno davanti al castello. Aspettate che ci siano tutti, varcheremo i cancelli insieme» Come al solito finse una sicurezza che non possedeva, celandosi dietro gli ordini diretti di Nate con un sorriso forzato. Non sapeva mai come porsi nei loro confronti –o nei confronti di chiunque altro-, quindi preferiva rimanere sul professionale. Non appena le fu possibile senza apparire maleducata, abbassò lo sguardo sui propri piedi, imbarazzata all’idea di poter incontrare gli occhi caramello di Jay. Non lo vedeva dalla festa di quell’estate, e… Era stato strano, si era sentita diversa ciao Oscar, e ne era oltremodo imbarazzata. Non dal bacio in sé, quanto dalla sensazione che aveva provato quando aveva stretto il viso di Matthews fra le proprie mani, come se il chi fosse stata #sonotodd?, il non avere memoria, il non esistere non avessero più importanza. Scrollò il capo, lasciando ai ragazzi le Passaporte per smaterializzarsi nel punto dove sapeva sarebbero ricomparsi. Ed era già lì ad attenderli, quando loro –chi elegantemente, chi rotolando- piovvero dal cielo. Li condusse presso Different Lodge, dove come dei bravi scout raccattarono anche i minorenni ospitati dalla struttura. Si morse con forza il labbro inferiore, quindi si decise a fermarsi, obbligando anche loro ad immobilizzarsi prima di entrare. Perché l’aveva fatto? Deglutì, roteando gli occhi verdi su ognuno di loro. «Pare…» si schiarì la voce, dandosi un contegno. «Che ci siano alcune novità, addirittura un cambio nella presidenza. Mentirei se dicessi che la cosa non vi tocca, quindi voi… Fate attenzione, okay? Per favore» Cercò di suonare confortante, rivolgendo loro un sorriso sincero. Avrebbe voluto ricordargli che erano speciali, che non dovevano abbassare lo sguardo perché non avevano nulla in meno rispetto ai maghi; avrebbe voluto dirgli che non meritavano nulla di quello che era loro successo, ma il solo pensiero di quella disarmante sincerità la metteva poco a suo agio. E poi, per chi erano tutti quei pensieri? Per loro, o per sé stessa? Entrambi. Erano per entrambi. Sperò che con quella lieve ma accorata richiesta, avessero percepito anche solo un minimo di tutto ciò che non riusciva a dirgli. Avrebbe preferito che fosse Nate ad accompagnarli, così che facesse qualche stupida battuta la quale riuscisse, nella tristezza generale, a tirar su il morale; riusciva sempre a sdrammatizzare, a rendere tutto più semplice. Lei non ne era in grado, semplicemente. Ci provava, ma non era quel genere di persona. Forse era esagerata, forse era l’unica preoccupata per l’anno a venire ed a nessuno di loro importava un accidente di quello che i maghi pensavano di loro.
    Ecco il motivo per il quale Henderson sarebbe stato più adatto ad aprire la grande porta in quercia, accompagnando nella Sala Grande tutti loro. Li invitò ad accomodarsi al tavolo che avevano loro riservato a lato della stanza, lontani da tutti gli altri. «Non fateci caso» Sussurrò carezzevole a chi di loro vedeva a disagio sulla propria sedia, cercando per l’ennesima volta di suonare incoraggiante.
    Il discorso del preside non aiutò certo nell’impresa. #graziecole #mainagioia #eddaje
    Aveva preso posto al tavolo degli assistenti, strategicamente #wat vicino a Nobuo, uno studente di Henderson che contro ogni aspettativa era riuscito ad avere un lavoro proprio ad Hogwarts. Pigliatevi questo, maghi da du spicci. «Complimenti, collega» Alzò il calice nella sua direzione non appena Cole Sicla finì di parlare, rivolgendo anche una supplichevole occhiata a Henderson seduto alla tavolata dei professori.
    Ti prego, Nate, chiudi quella bocca o ci sbattono tutti e due fuori dalla scuola a calci nel culo. Un sorriso a denti stretti, mentre alzava il bicchiere anche verso di lui. Ed eccolo lì, che parla. Come non detto. Addio Hogwarts, è stato bello. Salutò anche i pochi –sadstory- che riconobbe seduti ai tavoli: la sua bff Erin, ahahahahahhailpresideèunSiclal’horealizzatooramoriremotutti, la bibliotecaria nonché cugina, ma alzheimer is the way Kay, Phobos, e… Ah, già finito?
    Che tristezza. Quanto avrebbe dato per potersi sedere al tavolo con gli Esperimenti, possibilmente appiccicata a quella tenerezza infinita di Aveline, il più lontano possibile dal fremello, e… ah, sono finiti anche qua i conoscenti di Lydia. Piango? Piango.
    Ciao.
    #ciaocooperscuginichenonricordo #ciaocharlieamicadialzheimernontroppocharlie #ciaoarcifratellino #ciaohopechenonmicagaperchèhagiàtroppiamici #ciaoashleychenoncisei #ciaopipol.
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    Spero non mi vogliate censurare il sogno di Karma, vi chiedo perdono in ogni caso ma è fatta così questa poraccia AHAHAHA
    Chi ho citato ewe
    -Stiles (obv) #fissata
    -Shane #onceslytherinalwaysslytherin
    -Niamh #prociopawa
    -Nicole #thuglife
    -Daky #dajechetevojobene
    E boh, credo basta <3 Ceroc di taggarvi poi (?)


    Karma Montgomery
    ❝So why is my heart broke?❞
    Non riuscivo a smettere di fissarle la stupenda appendice nasale. Insomma, era perfetta. Era impossibile fosse un dono di madre natura. Quel cosetto bianco doveva essere per forza di plastica, pelle e plastica, lavoro di un ottimo chirurgo. Perché nei lavori di chirurgia estetica ci mettevano in mezzo pure della vera pelle, no? Boh....e quindi alle Bahamas, quando siamo arrivati, lui ha detto che forse per il matrimonio era troppo presto. E allora io... alzai una mano per zittirla. Continuavo a non riuscire a guardarla negli occhi verde acqua, così come non c'ero riuscita la sera prima e quella prima ancora e quella prima ancora. Quel dannato naso aveva un grandissimo potere su di me. Senti Brenda, mi dispiace per Anthony, ma davvero, non so cosa dirti. E se non esco subito di qui rischio di perdere il treno... sospirai con tono piatto, mentre lei mi rivolgeva un'occhiata comprensiva accompagnata da un sorrisetto che tirava le sue grosse labbra rosse talmente tanto da farmi temere che sarebbero scoppiate da un momento all'altro. Pure quelle dovevano essere state gonfiate, per forza. Hai ragione cara, ti chiedo scusa. E' che sei stata qua per tutta l'estate... gesticolava con veemenza, il labbro inferiore tremolante e le lacrime agli occhi.Meno tre settimane. la corressi, alzando agli occhi al cielo. La mia novella sensibilità aveva bisogno di maturare ancora un po', forse.Meno tre settimane, hai ragione. Ma, Carmen... Uno sbuffo.Karma.Certo, Karmela...In ogni caso, mi sono affezionata a te. Sei stata tanto d'aiuto coni clienti nel periodo più affollato dell'anno... Se una quarantina di clienti possono dirsi tanti nella settimana di Ferragosto in una locanda in centro. Non l'avevo scelta mica per le cinque stelle, io, eh. Ma un posto dove stare lo dovevo pur trovare, perché il mio vecchio metodo, come già tante volte ho ripetuto, non mi si addiceva più. Avevo dato fondo ai miei risparmi - che risparmiavo per cosa, poi? - per stare in quella topaia, dove le coperte ti pungevano le gambe e tutto sapeva di naftalina e a pranzo e cena c'era sempre la solita sbobba. Le lampadine si spegnevano e riaccendevano totalmente random, la luce del sole non entrava là dentro dal lontano '82 e probabilmente nella cantina c'era morto qualcuno. Nonostante questo, avevo comunque dovuto dare una mano alla proprietaria - che evidentemente aveva investito nel suo aspetto fisico piuttosto che nella locanda - che in qualche modo mi ero fatta amica per assicurarmi uno sconticino. Brenda, ti prego...taci. Tornerò l'anno prossimo. Allora, quanto ti devo? Si mise a ticchettare su una dannata calcolatrice -perché usi una calcolatrice nel mondo magico, donna?- pigiando i bottoncini con quelle sue lunghe unghie laccate di rosso, mentre io fissavo il soffitto pieno di muffa. Le quasi tre settimane da Stiles erano state le uniche durante le quali i miei polmoni avevano potuto immagazzinare aria sana.Tesoro, in totale mi devi 1250 galeoni. Tirai fuori le monete, contando in fretta e furia. Ero in ritardo, in terribile ritardo. E avrei tardato ancora di più perché il baule pesava terribilmente ed io lo dovevo portare da sola. Un sorriso al primo passante e assicurargli che avrei saputo come ripagarlo? Un anno prima, forse. Ma se solo ci pensavo nella mia mente si palesava lentamente un volto. Uno splendido volto. E mi sentivo morsa dai sensi di colpa, totalmente ingiustificati. Io non sono tua, tu non sei mio. Posai tutto quello che avevo su quel bancone, presi il baule e corsi fuori da quella baracca schifosa, mentre la bionda platinata Brenda ancora urlava qualcosa per me ormai incomprensibile, ero troppo distante. L'anno prossimo ci si trova un lavoro e si dorme in un posto decente, cara la mia Carmela.

    Non so come ma papà era riuscito a trovarmi. Mi erano arrivate per tutta l'estate lettere da lui. Il mittente non c'era scritto sopra, in modo che io fossi costretta ad aprirle prima di strapparle. In ogni caso quel momento non tardava poi così tanto: mi bastava riconoscere la sua calligrafia e in mano non mi rimanevano che dei minuscoli coriandolini bianchi e neri. Non sapevo cosa stesse facendo, dove vivesse, con chi aveva ancora rapporti e con chi no e per lui era la stessa cosa nei miei confronti, con la differenza che a me non fregava un cazzo e a lui evidentemente sì. Non si era mai preoccupato a tal punto da venirmi a cercare personalmente, in ogni caso e questo me la diceva lunga. Mentre camminavo spedita verso la King's Cross pensavo a quello che mi aspettava dall'altra parte del muro di mattoni. Un altro anno di "prefettura" non si sa bene in che modo acquisita, droghe, alcool...niente sesso? Dio, sarà un anno dannatamente lungo. Ma quel dannato ragazzo non ha certi istinti? Non sono brutta...vero che non sono brutta? Merlino, stupido lui, mi fa diventare paranoica. studio, di tanto in tanto.Qualche risatina da parte di studenti giovani ed inesperti che non sapevano che mettersi contro la Montgomery era un errore e si sarebbero dunque trovati con un occhio nero prima della metà del primo semestre. Ah, la bella solita vita ad Hogwarts. Con qualche piccola, notevole differenza. Oltrepassai il muro e avanzai tra la folla a forza di "Permesso", "Scusate" ed una buona dose di gomitate. Per miracolo riuscii a salire sul treno e mi diressi verso il vagone di Prefetti e Caposcuola. Una volta tirata la porta scorrevole dello scompartimento, rimasi ingenuamente delusa. Mi aspettavo di incontrare un certo sorriso sarcastico. Avrei mandato a farsi fottere il mio carattere di merda e la paura di ciò che gli altri avrebbero potuto pensare e mi sarei seduta sulle sue ginocchia, per poi iniziare a chiedere agli altri come erano andate le loro vacanze. Avrei dato una gomitata amichevole ad un certo amante dello sterco e gli avrei proposto una nuova partita a carte, avrei preso amorevolmente in giro una certa pazza con gli occhi azzurri. Nessuno di loro, logicamente, si trovava lì. E io mi feci scappare un sospiro che più somigliava ad un singhiozzo. Vedi di non fare la cretina, eh Karma? Vedi di non fare la cretina. Quello che vidi invece fu una chioma castana accompagnata da un paio di occhi azzurri, ma aveva un'aria del tutto più intelligente rispetto alla ragazza che avrei voluto sfottere con affetto. Ripensai alla topaia dov'ero stata per tutta l'estate e rabbrividii al solo pensiero di che cosa avrebbe potuto tirare fuori da quella boccuccia quella se lo avesse saputo. Nicole Cooper. Ugh. Ruba tassi ricca sfondata, puah. Se c'era qualcuno che proprio non sopportavo, quella ero lei. Ma siccome ero una menefreghista di prima categoria, mi sedetti proprio accanto a lei. Magari le avrei dato anche fastidio e non avrebbe potuto che farmi piacere. Mi guardai intorno e per la prima volta in vita mia pensai che forse quel sentimento di estrema malinconia Giuro, non scherzo. #imieifeels che mi opprimeva poteva essere condiviso. Sentimento. Sentimenti. Affetto? Malinconia? Amore? Amicizia? Ugh. Ero diventata una debole. Una schifosa debole. E a dimostrazione del fatto che lo ero diventata, quando quel dannato rosso mi si avvicinò per offrirmi dalle caramelle, io non solo accettai senza dire una parola, ma mi alzai anche. Lo guardai dritto negli occhi con astio e, infine, lo strinsi tra le mie braccia per qualche secondo. Grazie Dakota. Lo strinsi più forte e sussurrai, questa volta.Tira fuori quest'episodio una sola volta e posso giurarti su Salazar Serpeverde che la tua vita è finita. Lo lasciai andare e gli dedicai un sorrisetto. Poi mi girai verso tutti gli altri.Ho il ciclo, okay?! sbottai senza pensarci troppo, per poi lasciarmi cadere di nuovo sul posto. Non era vero, ma dovevo dare - e sopratutto darmi - una giustificazione per tutto quello che mi stava succedendo.

    Mi baciò dietro all'orecchio destro una, due, tre volte. Si spostò poi verso il collo seguendo un percorso ideato da lui, che io approvavo in pieno. Non lo avrei mai fato così esperto e sicuro di sé. Non mi era mai capitato di imbattermi in una persona che avesse il controllo della situazione...in quella situazione. Ero io che prendevo le redini. E invece, proprio con lui, ero quella che seguiva i movimenti dell'altro. Mi lasciai scappare un piccolo gemito. Volevo arrivare al dunque e subito, ma lui aveva deciso di farmi agonizzare nel desiderio molto lentamente.Piano piccola, piano. Mi morsi il labbro inferiore, cercando di trattenermi dal saltargli addosso. Non ce la facevo più. Avevo aspettato un anno e non potevo più farcela. Ti prego... lui si fermò per un istante per guardarmi con un'espressione divertita. Poi divenne improvvisamente serio e riprese a baciarmi il collo. Dillo ancora. Probabilmente il mio labbro avrebbe cominciato a sanguinare da lì a poco. Infatti, ecco, sentivo proprio in quell'istante il tipico sapore metallico in bocca.Ti.prego. feci una pausa tra la prima e la seconda parola che mi sembrò interminabile, ma mi veniva terribilmente complicato parlare. Era un desiderio mai provato, il mio. Non per intensità. Ma per...qualcosa che non potevo spiegare. Mi prendeva da dentro, dalle profondità del mio animo e mi scuoteva incessantemente. Ovviamente non poteva essere qualcosa di casto, ma io lo percepivo come la cosa più pura che avessi mai provato. Perché il mio non era solo desiderio. Era anche amore. Iniziò a sbottonarmi la camicetta, con una lentezza inconcepibile. Mi baciava il collo, le spalle, il petto. Riuscì a togliermi la camicetta ed arrivò a baciarmi la pancia. Mi sfilò i pantaloni con un rapido gesto. Mi osservò a lungo, distante da me pochi centimetri, scuotendo la testa e sorridendo. Non gli chiesi spiegazioni, le mie labbra erano sigillate. Si sfilò a sua volta la maglia e i pantaloni che indossava, facendomi pesare ogni istante. Ci liberammo infine degli ultimi capi d'abbigliamento rimasti sui nostri corpi. Era il momento. Il momento era arrivato. E lui era... Il treno si fermò bruscamente ed io mi svegliai riprendendo fiato, come se dormendo fossi stata in apnea. Mentre prendevo grossi respiri sentivo le mie guance diventare sempre più tardi. Fuori dal treno, gli studenti del primo anno erano già scesi ed in fila pronti a dirigersi verso il loro smistamento. ...Stiles Stilinski, ma certo! Ora ricordo. E cosa fa, adesso? sbuffai prendendo il mio bagaglio, per poi lanciare un'occhiataccia a Nicole. Poraccia, non aveva nessuna colpa...ma vabbé, ci stava, dai. Scesi giù di fretta, fregandomi di qualsiasi regola dovessi seguire o che so io. Iniziamo l'anno per bene.

    Seduta al tavolo dei Serpeverde, applaudivo annoiata le matricole, osservando il mio nuovo compagno di prefettura da breve distanza: era seduto giusto qualche posto alla mia destra. Ero circondata da più volti sconosciuti che conosciuti e la cosa mi destabilizzava non poco. C'era già chi chiedeva con tono lamentoso dove fosse il cibo e se solo avessi capito da dove proveniva quella voce avrei fatto zittire la suddetta persona con un solo sguardo. Che casino. Il casino che c'era al banchetto d'inizio anno non c'era durante nessun'altra occasione ad Hogwarts. Durava una buona mezz'ora, quella confusione infernale, di solito. Ma non quella sera. Una voce pacatam terribilmente pacata, zittì tutti.Silencio. mi girai con espressione interrogativa verso a dove sedevano i professori, ala della sala grande che non avevo degnato di uno sguardo. Non ero già costretta a sorbirmi la loro presenza viva, o no? L'uomo davanti a me era...terribilmente affascinante. I miei sensi di colpa insensati si tramutarono in una sensazione alquanto particolare. Mi chiesi se Stiles, vedendomi in quel momento, sarebbe stato almeno un po' geloso. Probabilmente no. Buonasera, studenti e docenti di Hogwarts.Sono lieto di dare a voi tutti il bentornato in questo castello per il nuovo anno scolastico. A dir la verità, non esattamente a voi tutti, ma purtroppo abbiamo l’obbligo di accettare chiunque qui. Aprii lentamente la bocca, che mi obbligai a richiudere immediatamente. Non ci credo, l'ha detto. Ma aspetta un attimo...ma quindi questo dovrebbe essere...il Preside? tentai di ricordare dei discorsi fatti l'anno precedente sul preside Leroy ma niente...la mia memoria non era poi così buona.Ethienne Leroy, che è stato il Preside di questa scuola l’anno precedente, come molti di voi sapranno ha deciso di lasciare l’Ufficio, così il Ministero ha dovuto trovare un valido sostituto disposto a ricoprire questo seggio vacante. Il mio nome è Cole Sølv Sicla, e gli stessi professori e regole, regole, regole e sono noioso e vi metto altre regole, nepotismo e regole mi sa che Karma non ti puoi drogare e regole e torture e regole e non sono poi così tanto attraente. Applausi e cibo. Non ho più tanta fame.
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    Arthur N. De Lamort Greengrass ( ) - 21 - Ex Corvonero - #Mangi - Sweet boy
    « you've done nothing at all to make me love you less »
    Erano ancora giorni felici, quelli. Stancanti, ma felici. Il lavoro non mancava di certo, mi spremevano ben bene in ufficio.La sera prima ero tornato a casa da lavoro particolarmente stanco. Mi ero buttato sul divano che ormai era smollato e faceva un rumore tremendo ogni volta che qualsiasi cosa che pesasse più di venti chili ci si posava sopra. Fissai a lungo il soffitto, non avevo nemmeno fame, lo stomaco chiuso dalla stanchezza. L'avete presente quella sensazione, no? Beh, in ogni caso, nella mia mente annebbiata dalla stanchezza si fece spazio tra tutto quel casino, come al solito, mio fratello.
    Lo avrei visto sicuramente il giorno dopo, al banchetto di inizio anno al quale mamma ci aveva invitati - ricordare gli anni della scuola? No, grazie. Ma era da tanto che non stavamo tutti e tre insieme...- , ma non potevo aspettare. Volevo abbracciarlo e sentire la sua voce e farmi raccontare nuovi successi, nuovi incredibili racconti della sua meravigliosa vita. Il mio punto di riferimento, la mia stella polare. Presi una pergamena e scrissi veloce un biglietto per invitarlo da me a cena. Se c'era lui a farmi compagnia, anche in quella situazione avrei mangiato un tacchino intero. Ciao Mike! Scusami se ti disturbo, sicuramente sarai super occupato. Mi farebbe in ogni caso piacere averti a cena, è tanto che non ci vediamo. Così creiamo un piano di azione per domani...ti rendi conto, tornare a scuola dopo tutto questo tempo? Non ce la posso fare senza di te. Un abbraccio. Arthie. Feci un fischio ed arrivò subito Boone, il gufo che mamma mi aveva regalato per la laurea in Piscomagia. Quel gufo era una vera scheggia e non mi avrebbe deluso. In un' ora, il mio messaggio sarebbe stato recapitato.

    Non mi arrivò mai una risposta. Sentii semplicemente la chiave girare nella toppa e mi illuminai riconoscendo il suo passo. E poi, solo lui e mamma avevano le chiavi di casa.<b>Mike!
    mi avvicinai alla porta non appena questa venne aperta da mio fratello gemello, che mi affrettai a salutare con un abbraccione. Lo sentii irrigidirsi, come sempre faceva davanti ai miei grandi gesti d'affetto...ma riuscivo sempre a farlo sciogliere almeno un po'. Mi staccai da lui solo ad un suo colpo di tosse, per sorridergli ed invitarlo ad entrare e non rimanere sulla soglia. Lui mi rispose con un mezzo sorriso, per poi chiudere la porta dietro di lui e seguirmi verso la cucina. Ci divertimmo molto quella sera. O, almeno, dal mio punto di vista. Mangiammo pollo e patatine, che avevo preparato con le mie stesse mani senza il minimo aiuto della magia...ci tenevo che fosse tutto perfetto.Gli parlai del lavoro, di come mi faceva sentire speciale poter aiutare le persone e ascoltai lui, che, come sempre, aveva un mucchio di cose super interessanti da raccontarmi. Anche l'aver pulito il bagno se raccontato dal mio Michael sembrava l'attività più divertente del mondo. Ci fermammo a chiacchierare, discutere, ridere, anche, fino a tarda notte. Avrei tanto voluto invitarlo a dormire, per sentire ancora il ritmo del suo respiro regolare cullare il mio sonno come quando eravamo piccoli..mi mancava terribilmente abitare con mio fratello, che sentivo ogni giorno più lontano da me. Avevo una vera e propria adorazione per lui...non si era capito? In ogni caso, ci demmo appuntamento la sera dopo a scuola, dove avrei avuto l'illusione che fossimo ancora legati come lo eravamo quando studiavamo ad Hogwarts. Quando la porta si richiuse ed io rimasi solo, sentii una grande sensazione di vuoto dentro me, che ignorai completamente crollando sul divano, sfinito, in un sonno profondo.

    In realtà la mamma non ci aveva invitati quella sera al banchetto di inizio anno. Lei ci andava perché ci doveva andare, ovviamente, essendo insegnante. Michael ci andava...boh, non so perché ci andava in realtà. Forse per fare bella figura o ber far fare bella figura al ministero e far capire a tutte quelle giovani menti che se uscivano bene da quella scuola e si facevano il culo potevano diventare belli e potenti come mio fratello. Io ci andavo perché volevo passare una serata in compagnia delle due persone alle quali tenevo di più al mondo. Non avevo pensato che forse non c'era posto per me. Che magari io non mi sarei dovuto trovare là, dunque non avrei trovato posto dove sedermi ed avrei fatto la figura del fesso come al solito. Che magari la mamma si sarebbe arrabbiata con me, l'avrei delusa e sarei tornato a casa piangendo perché tanto di dignità io non ne avevo mai avuta. Così ero tranquillo mentre entravo in Sala Grande, perfettamente indisturbato perché ben mimetizzato tra tutti quegli studenti. Già. Chi ci faceva caso ad un ventenne che dimostrava metà dei suoi anni? Andai a sbattere contro parecchi studenti, mentre cercavo di attirare l'attenzione della mamma, seduta dall'altra parte della Sala. Mamma!Ehi, ciao mamma! sentii qualche risatina femminile e mi resi conto che parecchi studenti mi stavano guardando divertito.
    Diventai rosso come un peperone e mi affrettai a sedermi al tavolo dei Corvonero, dimenticandomi di essermi diplomato anni fa e che quello non era più il mio posto. Me lo ricordò lo sguardo stranito di uno studente del secondo anno. Mi guardai i vestiti e mi resi conto di non essere in divisa e di aver compiuto ventidue anni il mese prima, quindi mi alzai e mi scusai con il ragazzetto. Vidi un paio di colleghi di Michael e andai verso loro. Avrei finto di essere un dipendente del ministero, alla fine...Mi mancava terribilmente quel posto. E stare a contato con i ragazzi mi piaceva un sacco. Fu allora che mi venne in mente quella fantastica idea. Oh, il discorso del...preside? Quello è il preside? chiesi ad un perfetto sconosciuto alla mia destra, che mi squadrò da capo a piedi per poi fare una risatina. Tornai del colorito di un peperone, mentre osservavo il giovane.Silencio. io lo conoscevo. Aveva giusto qualche anno più di me, frequentavamo la scuola nello stesso periodo. Era...Serpeverde, sì. Era proprio carino, allora. E lo era ancora, nelle vesti di Preside. Incrociai le braccia ascoltando attentamente le sue parole. Mangiamorte perfetto, amante delle torture e delle regole rigide. A mamma doveva piacere un sacco. Quando diede il via al banchetto, io continuai a guardarlo cercando di ricordare di più sul suo conto, mentre mi abbuffavo di quel cibo che tanto mi era mancato.
    the heart is deceitful above all things,
     
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  11. …Heartless?
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    Oliver Abrasax-WP ( ) - 18 - Telepatia - Neutrale - gay represso(?)
    «you should hear my heart: is it beating
    Più o meno, stavo dormendo. O almeno. Volevo fingere di star dormendo. Pretendevo di essere addormentato. Non vi succede mai? Vi svegliate, fissate il soffitto per qualche secondo e vi rendete conto di essere svegli. La cosa non vi va bene, ma sapete che non riuscirete a riaddormentarvi, quindi chiudete di nuovo gli occhi e vi convincete del fatto che state ancora dormendo, nonostante ormai riusciate a distinguere ogni singolo rumore al di fuori della vostra stanza. No? Mai successo? Ah. Come i vecchi, i bambini e le persone tristi avevo il ritmo sonno/veglia un po' irregolare. Mi ero svegliato alle quattro di mattina, avevo girato per casa facendo ben attenzione a non svegliare nessuno, perché probabilmente sarebbe stata l'ultima cosa che avrei fatto: la maggior parte dei membri della mia nuova fameglia...famuglia...beh, avete capito, per quanto simpatici parlavano fin troppo per i miei gusti. Ero uscito di casa senza far rumore e mi ero fumato una sigaretta in tutta tranquillità, nel silenzio più assoluto. Faceva un certo freschetto: il naso e le guance mi erano diventati completamente rossi e non sentivo più le orecchie, ma tutto sommato non mi dispiaceva più di tanto. Ero rimasto lì a pensare fino alle sei, ero risgattaiolato dentro e mi ero chiuso un' altra volta in camera. Mentre tutti gli altri si svegliavano e scendevano a fare Oliveeeeeeer! La colazioooooneeeeeNon ho fame, grazieeeeeee! Scendo dopooooooo!, io rimasi in camera a scrivere sul taccuino che mi avevano regalato il Natale prima. Era un bel taccuino, sì. Proprio un bel taccuino. Insomma, un pensiero tira l'altro, una pagina tira l'altra, mi ero addormentato di nuovo e mi ero fatto un bel riposino...fino a sera. Pensai che gli altri non dovevano essersi preoccupati più di tanto: passavo un sacco di tempo in camera mia e mangiavo poco, poi quella sera mi sarei riempito come un tacchino al banchetto di inizio anno, quindi forse mi ero fato un favore saltando il pranzo. Quando quindi mi svegliai una seconda volta, anche se non avevo alcuna voglia di svegliarmi, ormai il danno era fatto. Aprii quindi gli occhi definitivamente, accorgendomi con disgusto che avevo sbavato su due terzi del cuscino. Bleah. No, Nathan, non sono vere! Un attimo. Era la voce di Idem. Lo sapevo! IO LO SAPEVO CHE SI ERA RIFATTA LE TETTE!
    Mi alzai di scatto dal letto e aprii la porta di fretta, scaraventandomi quasi verso la camera di Idem pronto a puntare il dito contro di lei e dire "Ah-ah! Lo sapevo!" Ma quando arrivai sulla soglia della sua camera, mi resi conto che parlava di un boa di piume giallo canarino - mi ero sempre chiesto, poi, perché si chiamasse boa. I serpenti non hanno le piume, eh. - e che la mia sorellona acquisita era pronta per qualsiasi gay pride. Meno male che c'è qualcuno che mi sostiene qui! Non mi aveva notato, dunque feci che tornare sbuffando verso la mia camera, incrociando nonna Seti durante il tragitto. Perché mi guardava sempre il quella maniera? Emh...buona sera... riuscii a dire mentre lei mi salutava con un cenno del capo...e una pacca sul sedere. Mi chiusi un'altra volta in camera, buttandomi sul letto. Idem intanto rappava. Scossi la testa ridacchiando tra me e me. Quella famiglia era svitata da impazzire e aveva su di me uno stranissimo effetto. Mi stavo convertendo in un vero e proprio Withpotatoes e la cosa mi spaventava alquanto. Stasera c’è il banchetto a Hogwarts. Mi ha invitato Damian! Spalancai gli occhi. Santo cielo, quindi veniva pure lei! Mi alzai e mi vestii in fretta e furia. Un paio di pantaloni random, una maglietta bianca e una felpa rossa che non era decisamente mia, probabilmente di Isaac, ma chi se ne fregava, oh, se l'aveva lasciata in camera mia valeva la regola del territorio*(?). Non potevo andare con Idem perché sicuramente si sarebbe fermata a parlare con metà Hogwarts e io proprio non avevo voglia di:Ciao, sono Oliver, sono una specie di fratello di Idem, sai com'è fatta, eh eh eh già, già, ci si vede. Scesi quindi le scale in fretta e furia e urlai un saluto. La famiglia c'era abituata a queste mie uscite, ormai. Io esco, a dopooooo Quell'anno ancora non sapevo se sarei potuto rimanere con i WP o se mi sarei potuto trasferire nel complesso di casupole del New Hovel ma, ehi, c'era tempo per scoprirlo, no?

    *regola da me inventata per la quale se qualcuno dimenticava qualcosa in camera e non veniva a riprenderselo entro 24h, diventava mia. Crescendo in un'orfanotrofio il concetto di "mio" e "tuo" prende delle strane pieghe.

    Una volta arrivato in Sala Grande, riconobbi molti visi a me familiari. Idem doveva aver finito con i millemila saluti, quindi potevo tranquillamente andare a sedermi con lei. Almeno avrei avuto qualcuno accanto del quale sapevo qualcosina di più rispetto al solo nome. Mi accorsi mentre mi avvicinavo a lei che c'era pure Isaac. Mi concessi quindi un sorriso.
    Due membri della mia famiglia in un colpo solo, grande. E poi avrei fatto arrabbiare Isaac perché indossavo la sua felpa, il che mi avrebbe reso felice. Far arrabbiare la gente era terribilmente divertente. Ero distante solo di qualche passo dai due quando tra me e i miei nuovi familiari si interpose un omone che non avevo mai visto prima. Dove credi di andare? Alzai un sopracciglio ed incrociai le braccia, scocciato. Da...mio fratello e mia sorella? dissi in tono sarcastico, indicandoli con un dito. Il tipo fece una risatina per poi guardarmi dritto negli occhi.Sì, certo. E io sono la nuova professoressa di Erbologia. Congratulazioni per la carica. Dissi tranquillo, mentre il tipo tornava subito serio. Mi indicò un tavolo dove c'erano altri ragazzi che avevo visto a lezione di controllo dei poteri. Il tuo posto è là. Sbrigati a raggiungerlo, prima che mi arrabbi. Mi avviai verso quel tavolo sussurrando insulti a denti stretti. Non avevo voglia di iniziare male il nuovo anno scolastico.


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    Archibald Dominique Leroy ( ) - 15 - Slytherin - catafratto
    « qua potrei ficcarci una citazione figa in english o fare come Daddy e bazinga »
    Arci, Arcie, Archibald, o come sarebbe piaciuto a lui Dom ma noi non lo chiameremo mai così, perchè siam bagashi inside, passeggiava tranquillamente per le vie di Diagon Alley con un coro di uccellini che gli facevano da colonna sonora, sorridendo ai passanti e agitando la manina in gesto di saluto, perché lui era felice della vita e la vita era felice di lui #wat... troppo pallonara? D’accordo, rettifichiamo: non filava di striscio i passanti, se non per evitarli, e in effetti, se proprio vogliamo essere pignoli, il suono che si sentiva era più simile a quello di traffico cittadino e urla; in più, tecnicamente, non stava neanche propriamente camminando a passo tranquillo, quanto correva, disperatamente, per la propria vita. Esattamente, Archibald Dominique Leroy fa la sua prima comparsa in scena mentre scappa, proprio come gli è degno. Ma non siate così malvagi nel ritenerlo un codardo: sareste scappati anche voi, se foste stati inseguiti.
    «Piccolo @#fgd#!!òwç#@! [1] Ti insegno a rubare nel mio negozio! Incarceramus!»
    [1] testo censurato in rispetto degli occhietti innocenti che leggeranno queste poche righe.
    Fiato grosso dovuto alla fuga, Arci schivò l’incantesimo infilandosi in un vicolo; era un azzardo visto che conosceva poco la città e non sapeva se e dove sarebbe sbucato percorrendolo, ma se era come credeva più veloce di quella palla di lardo, sarebbe arrivato alla fine della stradina prima di lui... e infatti, continuando a correre si ritrovò di nuovo su una tratta principale piuttosto trafficata. Rallentò il passo, si infilò il mantello che prima teneva in mano tirando su il cappuccio, e si mischiò alla folla con un sorrisetto beffardo, lanciando uno sguardo alla refurtiva che teneva un mano per assicurarsi di non averla rovinata.
    Ora. La situazione era questa: Arci proveniva da una famiglia babbana, d’accordo? I suoi genitori che definiremo “adottivi” non erano degli sbarbatelli poracci, ma avevano il piccolo problema di non avere in casa grandi quantità di soldi maggici, che il buon Dominique non avrebbe quindi potuto fottere prendere in prestito tranquillamente dalle riserve nascoste nei cassetti poiché inesistenti. In più, loro l’avevano messo in punizione per nonsisaqualemotivo, lo avevano privato di liquidità dandogli i soldi contati (da scambiare alla Gringott) per comprarsi il materiale scolastico, e il piccolo serpeverde (perché Arci era un bravo serpeverde, che ai suoi fosse andato giù o meno) aveva dovuto ricorrere ad altri metodi per procurarsi il pacco che teneva fra le mani. Alcuni lo avrebbero definito rubare ma andiamo, chi usa al giorno d’occhi più certi brutti termini? Si dice prendere in prestito senza sicurezza di restituzione (?). ... e siamo sinceri, Arci amava il brivido di rubare e fare qualcosa di così illegale eppure innocente. Chiariamoci: era un quindicenne, non la nuova Rea Hamilton (non era ancora abbastanza sexy e favoloso per quello), ed era anche troppo impegnato a odiare il mondo e a fare la vittima per mettersi a compiere qualche gesto davvero da super villans... ma non era esattamente uno stinco di santo, neanche.
    Non si guardò indietro, continuò a camminare per un po’ fino a raggiungere una panchina, e arrivato lì si sedette a gambe incrociate, finalmente aprendo cautamente la carta che avvolgeva il libro dal valore di un centinaio di galeoni più di quelli che teneva in tasca. Un libro vecchio, polveroso, ma che fra le sue mani sarebbe stato di sicuro ben più apprezzato che nella vetrinetta di un collezionista. Un libro di tarocchi e magia nera, chiaramente.
    Usò la carta per foderare la copertina e nascondere il pentacolo che faceva lì capolino, in modo che passasse più inosservato e non si rovinasse, poi, dopo averlo sfogliato con gli occhietti a forma di cuore, lo ripose nella borsa. Un ottimo “acquisto”, indubbiamente... era un vero peccato non poter condividere la sua gioia con nessuno, però.
    Si rialzò per proseguire il giro della città alla ricerca dei veri libri che avrebbe dovuto comprare per l’anno scolastico, visto che l’estate stava finendo ed era ora di tornare a Hogwarts, e sebbene si perse più volte cercò di non pensare troppo agli anni precedenti in giro per Diagon Alley; al sorriso sicuro e contento di Ethienne che sempre l'aveva accompagnato, ai suoi gesti trattenuti ma che non tradivano l’emozione nel far vedere al piccolo Dom qualche bizzarreria in giro per le vetrine... La tradizione di fare il giro prima dell’inizio della scuola con Ethienne continuava da anni, e quella era la prima volta che Arci si ritrovava completamente solo (perché nessun altro aveva voluto). “Dove sei, Eth? Che cazzo stai facendo, e perché non sei qui con me?”. Se ne era andato senza davvero salutare, dopo mesi in cui si era comportato da stronzo megalomane, e Arci poteva atteggiarsi da cinico insensibile, ma alla fine era davvero solo un quindicenne a cui mancava suo fratello, e che aveva rischiato le peggio torture per procurarsi uno dei libri più attendibili che contenevano, a quanto aveva capito, le istruzioni per un incantesimo antico e di magia nera per ritrovare le persone (aveva provato a procurarselo già dopo la sparizione di Chris, ma fortunatamente era comunque “tornato” prima che Arci potesse fare alcunchè). Non era sicuro avrebbe davvero funzionato, perchè troppo spesso quei libri cos vecchi contenevano baggianate, ma non riusciva a stare ancora con le mani in mano, non dopo aver casualmente scoperto quei documenti dell’anagrafe del fratello, il quale aveva inutilmente tentato di nascondergli.
    Eth aveva sicuramente scoperto qualcosa sulla sua vera famiglia. Eth era diventato un bastardo e poi se ne era andato... non poteva essere una coincidenza, no? E invece sì bazinga Arci, bazinga.
    Continuò il giro in giro, tornò a casa (roteando gli occhi e sbuffando nel vedere i suoi genitori così sollevati; santo Morgan, aveva quindici anni, non era più un bambino! Dovevano proprio smetterla di preoccuparsi per così poco fanculo mamma ho 12 anni!1), finì di prepararsi la valigia... tutto normale, tutto come gli anni precedenti... solo che era in piena pubertà, e odiava un po’ di più la gente, e ce l’aveva un po’ di più con i suoi amici che l’avevano smollato l’anno precedente, raccontandogli sicuramente un mucchio di palle su tutto. Si poteva capire dalle cartoline appese ai muri, dalle lettere di Oscar, Chris... era successo qualcosa fra i gemelli e Bells, qualcosa che era collegato alla sua partenza per la Francia, e nessuno sembrava volergli spiegare cosa; come a vendetta, ancora Arci non aveva raccontato a nessuno di Eth e di quello che aveva scoperto; se loro potevano avere segreti, poteva averli anche lui, gn; avrebbe ritrovato il suo fratellone da solo.
    E forse era per quel gesto infantile che sull’Hogwarts Express, un paio di giorni dopo, non si sedette con loro, pur trovandoli e vedendoli attraverso la porta a vetri.
    Arabelles era lì, direttamente dalla Francia, a fare la civetta con Blaze... e se certo, era felice del suo ritorno, Dom non poteva che essere anche incredibilmente incazzato. Un “ciao” sarebbe stato gradito, ad esempio.
    Pensò di entrare e interromperli; punto primo, perché Bells e Wendy erano zona proibita: il vero amore non esiste, e se Oscar si fosse preso una cotta per lei alla fine si sarebbero mollati in qualche modo, e il gruppo si sarebbe distrutto rovinando la bellissima amicizia che tutti condividevano appasionatamente; punto secondo Arci era geloso. Non perché voleva essere lui sotto Blaze (anche se... nah, ok, lasciamo stare, la regola del “non ti slinguazzo se siamo amici” valeva anche per lui) o sopra Lies, ma perché il loro tipo di rapporto era così speciale... ma alla fine non entrò, proprio per questo motivo, vergognandosi di quanto appena pensato da bravo ragazzo complessato qual era.
    “Sono proprio un coglione. Odio essere un adolescente lunatico e bipolare
    ”. Ovvio che loro avevano un rapporto speciale, lo sapeva fin da quando li aveva conosciuti, e decidendo di essere loro amico aveva accettato fin da subito questa cosa; doveva proprio smetterla di fare la primadonna anche se gli riusciva così bene essere favoloso.
    Si sistemò il colletto della camicia, mimando un ciao attraverso i vetri che loro non avrebbero visto, e cercò un altro posto. Avrebbe potuto sedersi un po’ vicino a chiunque, da Gas che dormiva in uno scompartimento pieno di primini, ai suoi compagni di casata (il mitico due della Crew separato? Che razza di stregoneria era?) , ma alla fine optò per uno scompartimento praticamente vuoto, perché non voleva comunicare o stare con altra gente viva. Per fortuna, Todd dormiva. Erano circaquasiforse amici, di quelli che ad Arci piaceva sfottere senza pietà ma a cui in realtà voleva bene (?), e condividevano la tremenda tortura di non venir chiamati come desideravano (a parte che il bel (?) serpeverde non ricordava com’è che voleva venire chiamato Milkionebitch, ma gli pareva di ricordare che era un altro nome orribile), più di così... ah e conosceva anche il fratello sfigato Jeremy, praticamente poteva anche arci considerarsi di famiglia #wat
    Quindi si sedette, tirò fuori il libro comprato *ammicc ammicc* e fu solo dopo più di mezz’ora che si rese conto che il ragazzo accanto a sé stava dormendo così beatamente che non avrebbe detto “beh” per un colpo di cannone. Così, molto innocentemente, Arci recuperò una penna babbana e, con molta attenzione, gli scrisse sulla fronte: «Sono Todd?!» #pernondimenticare.
    Poi tornò a leggere più soddisfatto della vita.

    Arrivato ala stazione di Hogsmeade, e finalmente sbollito il sentimento di rancore verso i catafratti, li salutò come se non ci fosse un domani, sorridendo come un idiota ad ogni loro frase e racconto e COLPO DI SCENA! BELLS CI VEDEVA! Ma Gas l'aveva capito? No perchè arci davvero, non capiva se il Tibaldi fosse deficente o facesse solo finta a volte; lo amava ma lo confondeva
    «Scherzi?». Si dimenticò dei segreti, dello snobbamento, e di tutto, felice solo che finalmente la sua migliore amica potesse vedere quanto era figo apprezzare la bellezza dei colori e del mondo, come sempre si era fatta descrivere. Si finse deluso per non poter più fare battute sulla vista di Arabells, come sul fatto che non si fossero praticamente visti da mesi, ma non poteva nè voleva del tutto nascondere l'entusiasmo per una notizia simile anche se non avrebbe più potuto spiarla di nascosto mentre si cambiava, sad story bro («Aspetta, domanda essenziale... come mi trovi? Sono bello come pensavi? Sono stupendo vero? Si lo so, non dirlo. Non serve»). Baci qui abbracci lì, impose la sua presenza con loro tutti almeno sulle carrozze dei thestral, ridendo e scherzando come se nulla fosse cambiato. Anche se era cambiato tutto, almeno per lui.

    A Hogwarts li lasciò a malincuore dividersi a due a due per prendere posto sulle giuste tavolate, buttandosi sulla panca Serpeverde accanto a Ty e Balth e salutandoli giusto quel po’ per bastava per non sembrare un mega stronzo che non apprezza i suoi compagni di casata (non che non gli piacessero quei due anzi ci sarebbe stata anche una bella botta #ops a parte a Ty, Ty era bagasho #ops ma gli ci voleva sempre un po’ per ricordarsi che era fiero di essere serpeverde e non corvonero come Ethienne). Scrutò il nuovo preside senza sapere cosa pensarne, e quando iniziò a parlare decise che DINDINDIN lo odiava. Grande colpo di scena, eh? Ma era così ovvio che avrebbe odiato qualsiasi sostituto di Eth, che probabilmente avrebbe potuto dire qualsiasi cosa, anche che era un hippie avrebbe regalato a tutti gli studenti la promozione. Senza contare che non sbagliava era imparentato con Balthazar, il che avrebbe reso loro i nuovi intoccabili... ma che mainagioia era?
    Si buttò sul cibo per non inveire contro il mondo, alzando il calice alla ricerca degli sguardi dei Catafratti in un gesto di buon inizio anno #morelikeNathaniel, e incrociando per la prima volta da quando l'aveva conosciuta lo sguardo anche di Lies. Finchè fosse stato con loro, alla fine sarebbe andato tutto alla grande... vero?

    the heart is deceitful above all things,




    Oh che bello il primo post AHAHAHAHAHHAH no. Devo tornare a scrivere in prima come la scheda sennò non mi trovo #wat
     
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    La rabbia appena s'era quietata ( ma restava, sotto la pelle; certo, magari nascosta dai crampi allo stomaco e dalla fame che la stava portando a cibarsi con gusto, ma sempre lì... perché se c'era una cosa che Belladonna sapeva fare bene, era alimentare l'ira ) e con più ragione la strega s'era messa a valutare le parole di quello che poteva essere un suo cugino, effettivamente. Il discorso aveva lanciato delle ombre che l'avevano incuriosita: purtroppo era sempre stata molto lontana dalla realtà magica dell'Inghilterra, e da privatista non aveva mai ben capito cosa volesse dire andare in una scuola di magia; come i suoi genitori, era sempre stata dell'idea che essa volesse dire “omologazione” ad una popolazione magica che per i tre quarti era composta da gente incapace e/o indegna. Nella maggior parte dei casi andava bene l''e'... per questo motivo e forse molte altri mai si era valutata l'idea di mandarla in qualche scuola ( e una famiglia benestante come quella Cavendish era sempre riuscita a tenere i propri pargoli sotto quella campana in vetro grazie ai galeoni che erano una delle poche cose che non mancavano mai in quella casa ).
    Belladonna ci pensò su: in fondo non aveva vissuto una vita molto differente da quella che il nuovo preside stava imponendo con tono autoritario ai suoi studenti, esclusa la sottile minaccia di una Sala delle Torture. Mai una volta era stata punita, e forse perché mai una volta in vita sua aveva permesso che ciò avvenisse; mai una volta che avesse fatto qualcosa di estremamente sgradevole, mai una volta che avesse trasgredito le regole. Insomma, a conti fatti, Belladonna era davvero stata una ragazzina sì piena di sé, ma così coscienziosa da non aver mai peccato. Di nulla. Fu allora che un altro Sicla s'era affacciato nel discorso del nuovo preside, accompagnata dalla carica di... torturatore? Era tale? Alzò un sopracciglio leggermente interdetta, posando quel poco che restava della coscia-Phobos.
    Erin Sicla. Non era avvezza ai nomi stranieri sinceramente, ma il suono duro del 'Sicla' quasi stonava con quello più aulico di 'Erin'; si chiese chi fosse lì in mezzo, dove fosse, se Hogwarts nascondesse altre perle della sua famiglia e se fosse il caso o meno di disturbarsi per andare a presentarsi al suo parente che giusto in quel momento era andato a sedersi in mezzo ad un gruppo di adulti. Insegnanti? Guardie? Oddio, se ne aspettava dopo tutto quel monologo che le aveva messo più appetito man mano che continuava, senza impedirle comunque di continuare a cibarsi ( maleducatamente, forse ).
    Le voci tornarono a levarsi dai tavoli distanti abbastanza da evitarle gli schizzi di cibo ma ancora troppo poco per non riuscire a guardare con un'espressione contratta i ragazzini, terrorizzata all'idea che qualcuno di essi potesse fare qualcosa di bambinesco; qualcosa che Belladonna non potesse prevedere, qualcosa che andasse al di là delle sue conoscenze. Qualcosa, qualunque cosa. Anche uno striminzito sorriso con la bocca piena di cibo tritato. Nonostante però l'allegria per il ritorno, Belladonna provava qualcosa di decisamente più familiare: un'aria cupa, pesante, gravarle proprio sulle spalle che teneva dritta sebbene il peso di quel macigno che sì, le era terribilmente familiare. Le ricordava un passato da cui era appena uscita, un 'io' che sperava lontano dall'impressione che dava adesso di sé anche a quei piccoli parassiti intestinali l'effetto era lo stesso. Si leccò le dita distratta, continuando a guardare il cibo di fronte a sé con lo stomaco all'improvviso chiuso.
    -Non vorrei interrompere nulla...-
    «Allora non dovresti» aveva decretato senza nemmeno alzare lo sguardo, riconoscendo in quella voce quella di un uomo più vicino ai venti che alla sua età. Si voltò lentamente mantenendo un'espressione attonita che andò cancellandosi quando sotto gli occhi le capitò la figura di un giovane prestante, alto, affabile; si sostituì un sorriso accattivante e gentile, e nello stesso modo la leggera nota indifferente che aveva avuto nel tono di voce svanì «meno male che non c'era nulla da interrompere.» Stranamente le era venuto spontaneo mostrarsi dispiaciuta per quella prima osservazione che, diversamente da come sarebbe potuto sembrare, non voleva essere poi così scorbutica come sarebbe di certo apparsa alle orecchie di un altro essere umano. Non c'era un motivo particolare, Belladonna era così: passava da momenti di puro disinteresse verso il comune genere umano ad altri di profondo interesse, e spesso e volentieri bastavano davvero un bel fisico e una nota accattivante nella voce per trasformarla. -Non ho mai visto il suo volto all'interno di queste mura, lei non è di queste parti, sbaglio?-
    Ormai il cibo aveva perso interesse e Belladonna osservava quel ragazzo mantenendo il sorriso che avrebbe voluto essere cordiale, ma che sulle sue labbra pendeva per una silenziosa malizia; annuì quindi, facendogli poi segno di accomodarsi ad uno dei tanti tutti posti liberi del suo tavolo mentre portava il calice alle labbra e cancellava dal palato il sapore del pollo. Acuto, non poté non sentirsi apprezzata per il fatto che qualcuno l'avesse notata in mezzo a quella marmaglia; qualcuno che, fortunatamente, riusciva a non farle venire voglia di prendere la prima finestra del castello e buttarcisi contro. «E' la mia prima volta ad Hogwarts. Sono una primina, non si vede?» ironizzò allargando quel sorriso quasi da pesce-cane.
    Il ragazzo continuò -è davvero un peccato che l'abbiano lasciata sola, d'altronde spero non fondi le sue opinioni basandosi semplicemente sulla pochezza della maggior parte delle persone qui presenti, non la biasimerei d'altronde... ma sa, abbiamo di molto meglio, non si preoccupi- «purtroppo-» e prese un respiro piuttosto controllato «-il mio primo incontro qui non è stato uno dei migliori» un'occhiata andò dritta dritta a conficcarsi nel petto di Phobos, piantandosi mentre nemmeno si rendeva conto che la sua mascella era andata a contrarsi in una smorfia che stonava col sorrisetto di molto prima... tuttavia non se la sentì di raccontare al ragazzo di come quello avesse giocato coi suoi “sentimenti” ( pseudo... sentimenti... proto-emozioni, o qualcosa del genere; aveva letto davvero qualcosa a riguardo ), di come l'avesse ingannata e si fosse preso gioco di lei anche a distanza di metri, al riparo dalle sue maledizioni. «Spero di potermi rifare col secondo» e la strana contrazione sparì dal suo viso, lasciando spazio a quel sincero sorriso che sfoggiava nelle occasioni più disparate. Quella poteva essere una.
    -Oh, mi perdoni non mi sono ancora presentato... Io sono James Albert Brian Benjamin Jonathan Larrington, ma lei può chiamarmi come meglio desidera.- Ok. Per un attimo Belladonna restò immobile, approfittando di quell'inchino per valutare la situazione. Era una presa in giro? “Giacomo Alberto Beniamino Gionata e... Brian... forse Bruno? No dai, resta così secondo me...«Belladonna Cavendish, piacere di conoscerti James» perché in quel momento era l'unico che riusciva a ricordare con una certa chiarezza. «Oddio, e non darmi ancora del 'lei' o potrei morire di infarto» tornò a guardare davanti a sé con aria sconsolata, felice di essere uscita da quell'età che aveva davanti ma affranta dal fatto che ogni due per tre qualcuno le ricordasse l'avvicinarsi della senilità. Sti stronzi. Solo in quel momento riportò alle memoria un particolare che la fece voltare leggermente confusa, di scatto: perché, in quel marasma di nomi, non aveva inizialmente captato quelli più importanti. James Larrington, adesso lo riconobbe bene.
    «Quindi sei uno dei due torturatori. Sei uno studente?» non che se ne intendesse più di tanto, ma quel ragazzo ai suoi occhi aveva un'età indefinita... poteva benissimo essere un adulto, così come uno dell'ultimo anno. E magari lì, per sadismo, erano gli stessi studenti a torturarsi fra loro. Dio, questa era una cosa che la eccitava nel profondo. E bravo il cugino/nipote. Un'altra domanda andò a formularsi sulle sue labbra non appena il suo cervello riprese a lavorare senza sostare sul bel giovane, poteva chiedere di quella, o quel, Erin Sicla.
    Tuttavia fermò la lingua, affogando la domanda in un altro sorso di quella bevanda che le era piuttosto nuova, dissetante e forte. Ad uscirle fu ben altro «immagino non sia facile la vita qui, col costante fiato sul collo e le minacce di una punizione per qualsiasi sciocchezza adolescenziale» posò il bicchiere e si allungò verso il ragazzo, mostrando ora sorriso ferino ed esaltato «questa cosa mi fa impazzire.» E proprio non le passava per la testa di poter sembrare abbastanza inquietante con quell'espressione e le cose che diceva con una leggerezza allarmante. Era fatta così, e in fondo era sicura che allontanare i pisciasotto le convenisse più che avvicinarsi gli stolti.

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    Mi chiamo Amos Hamilton, una volta avevo due sorelle e dei genitori, ora non ne sono più molto sicuro.

    Anche definito come il Jon Snow dei poveri (cit.), Amos non sapeva molte cose. A dire la verità sembrava essere parecchio confuso dalla vita, prima di entrare nei Laboratori non si trovava un gradino sopra il ritardo mentale, mentre ora diciamo pure che era lì. Non ha mai voluto essere diverso, semplicemente è capitato, senza che supplicasse nessuno. A dir la verità ad Amos piaceva la monotonia, memore di quello che succedeva a quelli diversi non si era mai sforzato di eccellere in niente, rimanendo invisibile per la maggior parte dei suoi conoscenti, aveva recepito il messaggio in modo sbagliato, evidentemente. «Oh, ti sei fatto male? io proprio non ti avevo visto» anche quando non ne aveva alcuna intenzione, riusciva a passare inosservato, che talento naturale. Aprì la bocca con l’ intenzione di scusarsi, ma le parole non riuscirono mai ad uscire, strozzate in gola. Erano passati anni da quando aveva incontrato quegli occhi, e pensava che ne sarebbero passati altrettanti prima di riuscire a dimenticarsene, eppure il Fato doveva avere qualcosa di diverso in mente, giusto perché era un sadico bastardo. I genitori l’ avevano educato talmente bene che neanche sua sorella sembrava riconoscerlo, quanti anni erano bastati, quattro? O forse era successo qualcosa di più grave, e se si trovava in quel posto doveva essere così, quindi era come lui? Avrebbe voluto chiederglielo, così come se era riuscita a rintracciare Rea, ma la sorella di defilò, senza dedicargli più di cinque secondi. Avrebbe potuto seguirla, riempirla di domande, ma scelse di restare lì, immobile, cercando di convincersi che non ne valeva la pena, che non aveva bisogno di lei.

    Mi chiamo Amos Hamilton, una volta avevo una sorella e dei genitori, ora non ne sono più molto sicuro.

    Non era quel tipo di fratello, anzi, tra Hamilton sembrava essere quello più buono, quello che potevi schiavizzare quando ti faceva comodo, quello da usare per testare gli esperimenti culinari è una volta avevano persino provato a mettergli un collare, fortuna che si era ribellato perché in caso contrario la sua situazione sarebbe stata drammatica. Charlie invece sembrava essere diventata il tipo di sorella che una volta andata via di casa desiderava lasciarsi il passato alle spalle, come biasimarla, se per un fortuito caso avesse incontrato Rea (#trollevelrea) avrebbe agito diversamente, tanto per iniziare, si sarebbe presentato per evitare fraintendimenti; se Charlie dopo quattro anni si era scordata di lui figuriamoci cosa ne avevano fatti quattordici. Decise che il livello di mainagioia era arrivato alle stelle, contando anche il fatto di non aver ricevuto informazioni utili sull’ altra gemella. Morgan, gli sembrava di cercare un fantasma e la cosa era davvero frustrante. Maledetta Rea Hamilton, perché doveva sempre fare la bagasha?

    Banchetto, lo chiamavano. Per lui era più uno dei tanti modi per sentirsi diverso, e lo metteva terribilmente a disagio, non era una buona cosa, lo faceva sentire sporco, inadeguato, come d’ altronde doveva essere. In quella sala, Rea aveva trovato la normalità, e forse vivendo tra i maghi era riuscita ad eliminare quel senso di colpa che gli Hamilton avevano cercato di inculcarle sin dalla più tenera età, ma lei era forte, come però non riusciva ad essere lui. Avevano lo stesso sangue, e allora perché erano tanto diversi? Avrebbe dovuto trovarla per chiederglielo, perché lui non ce l’ aveva una risposta. Morgan, non sapeva niente, ed era così frustrante, ora capiva come si sentiva Jon Snow e no, non era piacevole. Era nuovo di quell’ ambiente e l’ unica cosa positiva era che nessuno poteva scambiarlo per un ritardato, almeno, non ancora, ma la sua occasione si era presentata, proprio al suo fianco. Un ragazzo che doveva avere la sua età, e che per qualche ragione gli sapeva tanto di casta, un po’ come metà delle persone che incontrava, si era avvicinato a lui e fidatevi se vi dico che era un evento straordinario. Amos si stava trasformando in una quindicenne alle prese con la sua prima cotta, il cuore aveva incominciato a battere forte, le mani tremavano e sentiva le farfalle nello stomaco, no, il ragazzo non voleva sbattersi sul tavolo il fremello di fuoco, aveva solo una paura boia. «Senti ragazzino, mi hanno detto che stai cercando Rea, sia chiaro, ha cose più importanti da fare che incontrarti» fece una pausa, lanciandogli uno sguardo che non seppe interpretare, forse si stava trattenendo dall’ ucciderlo «ma puoi trovarla qui » tirò fuori una penna da chissà dove e scarabocchiò un indirizzo sul tovagliolo, si sporse cercando di leggere meglio, la grafia era comprensibile, anche se non aveva idea di dove si trovasse il posto, in quel momento non gli interessava, aveva finalmente ottenuto quello che voleva e poco importava se Rea non l’ avrebbe riconosciuto, aveva una seconda occasione, e non aveva intenzione di sprecarla.

    the heart is deceitful above all things,


    È corto e fa schifo skste, non posso produrre di meglio a quest' ora
     
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  15. thane.
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    Joel "Thane" Doe
    Pull away your eyes, there's nothing left to hear.
    I'm alone, but I know everything you fear
    Thanatos - 30 - Spia - Death Eater- Project Armaggedon
    Era nel suo ufficio, ogni pavor specializzato sembrava averne uno. Non era nulla di speciale: troppo piccolo per contenere molto più d’una scrivania ed un paio di sedie, troppo freddo per poterlo definire ospitale. In effetti, il suo aspetto ricordava più quello di una cella, ma Thane pareva non essere toccato dalla cosa. Se ne stava lì, immobile, a guardare i muri appoggiato contro il legno duro del tavolo sgombro. Aveva usato un incanto di adesione permanente per disporre in bell’ordine i fogli del fascicolo che gli era stato consegnato contro le pareti. Leggeva.
    Nella sua mente le parole si riordinavano e trovavano un senso, quasi come se i suoi occhi si limitassero a scannerizzarle. Progressivamente il discorso si ampliava e, prendendo respiro, si finalizzava. Ogni lemma si accatastava ad un altro, con metodo, fino ad edificare una struttura gotica e slanciata verso l’alto. Era solo dati: nomi, numeri e norme. Un obbiettivo, un termine ed un personaggio da interpretare. Gli era bastato prendere in mano quella cartella per comprendere che finalmente la Rosewood aveva deciso d’assegnarli un incarico pesate. Quel plico di fogli, dopo tanti altri pesi piuma, era pesante. Ciò significava che il numero di informazioni d’apprendere era maggiore e che il fine non sarebbe stato affatto a portata di mano. Finalmente la Rosewood cominciava a fidarsi di lui. La nuova missione, in effetti, rappresentava la svolta in quella che gli aveva assegnato l’Anonimo. Stava mettendo radici.
    In quella posizione si trovava ancora, oltre un’ora dopo, quando lo mandarono a chiamare. Edith Lagrange, Capo del Consiglio e membro della Vecchia Guardia, lo aveva richiesto come accompagnatore per l’evento con cui il nuovo preside di Hogwarts sarebbe stato aggiornato. Rinsavito, come improvvisamente di nuovo presente a se stesso, cominciò a prepararsi. I suoi gesti, misurati ma rapidi, lo portarono a dirigersi verso il più vicino dei servizi, dove poté utilizzare il bagno e assicurarsi d’essere in ordine. Lo specchio gli rimandava il solito riflesso. Bello ed accondiscendente.
    Strinse il nodo della cravatta, stirò la giacca e si ravvivò i capelli passandovi una mano: non lo si poteva di certo ritenere adeguato ad una cena così importante, ma in fin dei conti il suo compito era limitarsi ad accompagnare la donna.
    Si erano già incontrati, prima d’allora, e fu un piacere rivederla. Lei, mecenate di giovani talenti, gli aveva fornito pieno accesso alla sua serra, dove gli era stato concesso di impratichirsi con la sofisticata arte dei veleni. Molto di ciò che aveva appreso, in quell’ambito, lo doveva proprio alla generosità di persone così ben disposte a condividere le proprie risorse. Per questo motivo, indossò la sua maschera più cordiale.
    La raggiunse nel suo ufficio, la scortò verso l’uscita e fu persino in grado d’ottenere da lei il permesso di sobbarcarsi del peso di una Smaterializzazione Congiunta. Nonostante l’aspetto stanco ed affaticato, la Lagrange non perse l’opportunità di farle qualche domanda: ricordava ancora questa sua peculiarità, il suo essere sempre protesa ad allacciare rapporti e a stipulare alleanze, e sapeva come sfuggirle. Poche parole, il più possibili sterili.
    Si separano sulla porta d’ingresso. Lei raggiunse l’ampia tavolata trasversale dei docenti, lui un posto che gli era stato riservato tra altri adulti che poco avevano a che vedere con quell’iniziativa. Riconobbe, tra gli altri, la Dama Bianca, con cui aveva già avuto modo di conversare, e il Ministro.
    «Non mi sono spaventata, no, me l’aspettavo».
    Gli disse una giovane donna, quando raggiunse la sedia che gli era stata assegnata. Era il momento di tirare fuori il collega sempre bendisposto che era solito essere a lavoro.
    «Mi perdoni» le disse con un sorriso «Non era mia intenzione prenderla di sprovvista». Poi, le porse la mano.
    «Molto piacere, io sono Joel Doe» si presentò, mentre sul viso gli si disegnava un’espressione sospesa tra il divertito e il voler essere cordiale. Espansivo e … semplice.
    «Buon appetito» aggiunse, quando quella si buttò sulle pietanze, pur sapendo che questo non era l'apice delle buone maniere. Non attese molto prima di seguirla, mangiando tutto in abbondanza ma senza strafare e mantenendo un atteggiamento educato.

    DATA
    ATRIUM

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48 replies since 7/11/2015, 02:50   3202 views
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