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@ufficio del preside | winr♥y #prequest#05

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    « sheet - 19 - charm's teacher - rebelpawah - pensieve »
    Una lettera. Era solo una lettera. E allora perché le mani continuavano a tremarle? Perché sentiva il cuore graffiare nel petto, tale la forza con cui sbatteva contro le costole? Deglutì, Maeve Winston, ormai conscia che una lettera non era mai solo una lettera. Con le parole, ed una Corvonero avrebbe dovuto saperlo, si costruiscono imperi, storie, interi universi. Con le parole si ricorda ai posteri che un passato è esistito realmente, e che continuerà ad esistere nonostante sia passato. Era stata una lettera, quasi del tutto identica a quella che stringeva fra le dita, a riferirle che i suoi genitori erano spariti. Non c’è nulla di più infido di una lettera: non puoi non aprire la busta, ma quando l’hai aperta non puoi tornare indietro. Con le parole, si spezzano le persone. Si piegano quasi fossero anch’esse di carta, sgretolandosi come pergamena antica. La bionda alzò gli occhi al cielo, imponendosi di non far crollare quel delicato castello che, nel giro di quasi un anno, era riuscita a costruirsi attorno. Le mura erano più per allontanare che per proteggere, ma finchè il castello esisteva, nulla aveva importanza. Ma come poteva, l’insegnante di Incantesimi, sapere che sarebbe bastata una lettera a far crollare tutto? Se avesse saputo quale peso avesse un cuore, non l’avrebbe mai aperta; perché mai, mai, l’aveva sentito così concreto, mai ne era stata tanto schiacciata. L’aveva sentito frantumarsi sotto le dita, briciola dopo briciola, finchè non ne era rimasto più nulla. Aveva finto di riaggiustarlo, limitandosi a coprire con toppe per non mostrare l’informità di un petto cavo, ed era andata avanti. Aveva scioccamente pensato che quella, in un modo un po’ perverso, potesse comunque essere considerata vita. Aveva scioccamente pensato che un cuore non lo avesse più. Quante volte poteva ben spezzarsi? Quante volte, per Merlino, poteva stroncare il fiato del suo proprietario, condannandolo ad una breve, ed al contempo infinita, esistenza vuota? A quanto pareva, non era quantificabile. Ma come le avevano insegnato fin da piccola e come aveva potuto osservare con i suoi stessi occhi, i Winston non si arrendono mai; Maeve Winston, nello specifico, aveva deciso di fingere che tutto andasse bene fintanto che non ci avrebbe creduto ella stessa. Voleva farlo per Dakota, per Lilian, per Deimos. Voleva farlo per gli studenti al castello. Voleva farlo per la sua mamma, il suo fratellone, il suo papà. Maeve voleva farlo per tutti, eccetto che per sé stessa. La vera Maeve, quella celata allo sguardo altrui, era rimasta ancorata ai ricordi. Aveva cessato di esistere nel presente, e nonostante i fiori protendessero verso il futuro, le radici continuavano a trascinarla verso terra.
    C’era quel sorriso. Un sorriso tutto particolare, impacciato ed al contempo bellissimo, che l’aveva fatta sentire speciale. Maeve, in quel sorriso, si era sempre piaciuta tantissimo. Avrebbe voluto meritarlo, quel sorriso; avrebbe voluto meritare quello sguardo di sottecchi, che fuggiva non appena lei alzava gli occhi. Non aveva capito quanto fosse importante per lei vedersi attraverso gli occhi di Ethienne Leroy, finchè il ragazzo non era cambiato. E lei lo sapeva, lo sapeva, che era sempre lui. Lo sentiva sulla pelle, come un profumo persistente. Eppure, non era del tutto lui. Non c’era quel senso di… ingenuità, di bontà, di sogni infranti. Non c’era quel dolore che li aveva accumunati. Non c’era il ragazzo che l’aveva abbracciata, in Irlanda, sussurrandole sciocche parole vuote all’orecchio. Ma era lì, non poteva essersene andato. Non poteva averla abbandonata, non anche lui. Aveva cercato di non preoccuparsene, di fingere che nulla fosse accaduto. Ma Ethienne, Elizabeth e William non potevano fingere: non erano più. Fine. Aveva pensato che fosse tutto perduto. Aveva pensato tante cose, Maeve.
    Ma poi c’era stata quella lettera.
    “Grazie, Maeve Winston, per ogni tuo sorriso, per ogni tuo sguardo. Grazie per ogni tua parola gentile, grazie per avermi dato la possibilità di conoscerti almeno in parte. Grazie per avermi regalato attimi di felicità che non avrei mai sognato di meritare, grazie per avermi dato la forza di andare avanti anche quando non sapevo se ne sarei stato in grado. Perchè vedere la tenacia e la forza con cui affronti la vita mi ha permesso di capire che nonostante tutte le brutte sorprese che il destino ci riserva arrendersi non è fra le opzioni da prendere in considerazione. Grazie, Maeve Winston, per aver donato un briciolo di speranza ad ragazzo che aveva perso tutto, perfino se stesso. E se oggi non dovesse andare come spero, come tu mi hai insegnato a sperare, se domani quando aprirai gli occhi troverai lo stesso mondo malato in cui viviamo oggi, vorrei che sapessi che non sei mai stata sola, perchè anche quando non ci facevi caso, anche quando per te non ero altro che un’ombra, io ci sono sempre stato e ti ho sempre amato. Ti amo, Maeve, e mi pento di non avertelo detto prima. Ti amo e spero che tu non lo verrai a sapere da questa lettera, perchè ti amo e vorrei dirtelo a voce. You are not alone, i am here with you.”
    Premette con forza le mani sulle palpebre abbassate, soffocando un gemito. Frustrazione? Dolore? Rabbia? Paura? Tutto e molto di più, in quella smorfia che le aveva distorto le labbra sottili. C’era tutto in quel suono che nessuno avrebbe udito, e che ancora le faceva vibrare le ossa. Scivolò con lentezza a terra, rileggendo la lettera da cima a fondo. Cosa aveva fatto? Oh, Dio. Lei non era la ragazza della lettera, non lo era mai stata; Ethienne Leroy aveva visto una Maeve che non esisteva, era stato solo un errore. Uno stupido, e sciocco, errore. Quanto avrebbe voluto vedersi come la Ragazza descritta nella lettera, assomigliarle almeno un po’. Ma lei era solo … lei. Maeve Winston mai avrebbe potuto essere un motivo per il quale andare avanti, o un modello a cui aspirare; o meglio, non per persone come l’Ethienne Leroy che lei aveva conosciuto. Maeve più di tutti si era arresa, più di tutto; per tutti e per tutto. E l’amava, ma non era possibile. Doveva essersi sbagliato, non poteva amarla. Maeve Winston non poteva meritare quell’amore, tanto quanto mai aveva meritato i suoi sorrisi, ed i suoi sguardi di sottecchi. Come mai aveva meritato quel sentirsi speciale, quando di speciale non aveva mai avuto niente. E ancora non sapeva cosa fosse, quel peso nel petto. Un cuore non avrebbe dovuto pesare così tanto, Maeve lo sapeva; poteva anche non essere una Medimaga, ma non sarebbe stato proprio possibile. Occupava così spazio, così tanto spazio, che pensò di non averne altro a disposizione. Dove sarebbe finita, lei, se quel peso avesse continuato a schiacciare tutto il resto? Cosa sarebbe rimasto? Respira, respira, respira.
    Rivoleva Ethienne Leroy. Rivoleva, egoisticamente, Ethienne Leroy. E non per la Resistenza, non per il bene di lui; Maeve lo voleva per sé stessa. Maeve lo rivoleva indietro, perché voleva vedersi di nuovo attraverso i suoi occhi. Voleva imparare come assomigliare un po’ di più alla Ragazza nella lettera. Lo rivoleva indietro, perché voleva sentire che la amava. Non sapeva… non sapeva. Non sapeva, né mai aveva saputo, tante cose. Ma era tanto chiedere che gli ridessero indietro il ragazzo che, a Natale, le aveva dedicato una canzone? Non era sola, così le aveva detto. Non era sola, così le aveva ribadito. E allora perché faceva così freddo? Respira, respira, respira.
    Non si era nemmeno resa conto di essere uscita dal suo ufficio, di aver imboccato il corridoio in direzione delle scale. Non aveva neanche ancora realizzato di star facendo una sciocchezza. Quello era esattamente il motivo per il quale Maeve Winston non avrebbe mai potuto essere un buon membro della Resistenza: era troppo egoista. Prima o poi, l’avrebbero capito anche loro. Prima o poi anche Dakota avrebbe smesso di guardarla come se lei potesse realmente proteggerlo, e come se lui dovesse fare lo stesso con lei. Maeve rivoleva Ethienne Leroy, così da potergli dire che lei non valeva la pena. Lo rivoleva capricciosamente davanti a lei, solo per ricordargli quanto poco lei meritasse un uomo come lui. E voleva fargli la ramanzina. Proprio lei, che era già tanto sapesse da che parte era girata, voleva fargli una paternale.
    Perché lui non gliel’aveva mai detto, ed avrebbe potuto cambiare le cose. Magari lei sarebbe stata la Ragazza della Lettera, e lui non sarebbe cambiato. Avrebbe potuto essere tutto diverso, in quel momento. Non avrebbe avuto le guance arrossate ed i capelli scompigliati, mentre picchiava con forza il palmo contro la porta dell’ufficio del Preside. Non avrebbe avuto la camicia spiegazzata ed i pantaloni neri storti sulla gamba sinistra. Non avrebbe avuto uno schizzo di inchiostro sulla guancia, se solo lui gliel’avesse detto.
    Sarebbe andato tutto diversamente, se solo Ethienne Leroy avesse detto a Maeve Winston prima, molto prima, che l'amava.
    Maeve Winston
    « Yeah, I think that I might break Lost myself again and I feel unsafe »

    © psìche, non copiare.
     
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    « sheet | 21 | Strategy's teacher | deatheater | pensieve »
    L’orologio rintoccò e una voce che aveva imparato a riconoscere si intromise nei suoi sogni, facendolo svegliare di soprassalto. Ethienne Leroy si mise a sedere di scatto, sollevando il volto dalle scartoffie, e si stropicciò gli occhi con i pugni chiusi. Dannazione, gli era successo di nuovo. Dandosi una spinta con i piedi si allontanò dalla scrivania e si alzò dalla sedia, chiamando con un ringhio l’elfo domestico che, oramai abituato, si presentò pochi secondi dopo già con una tazza di caffè fra le mani. Ethienne gliela strappò via dalle dita raggrinzite e lo cacciò con un gesto della mano, troppo di cattivo umore per pensare anche solo per un secondo di dare retta all’elfo. Quando fu di nuovo solo, si concesse di lanciare uno sguardo fuori dalla finestra. La giornata era uggiosa, una di quelle giornate di fine estate che sembrano voler fare di tutto per alimentare la malinconia del periodo appena passato. Ma Ethienne non era malinconico: lui era solo arrabbiato. Con se stesso, con il mondo. Con Elaine, con Maeve, con tutti. Con il suo subconscio, soprattutto. Sognava Maeve Winston da anni, da quando l’aveva vista seduta in sala comune quella prima volta, ma mai così spesso come nell’ultimo periodo. Sognava di Maeve Winston perchè sapeva che non sarebbe mai potuta essere davvero sua. Sognava di lei perchè, in qualche modo, questo riusciva a farlo stare meglio. Ma non in quell’ultimo periodo. Non in quegli ultimi sogni. Non da quando Elaine era tornata nella sua vita.
    Abbassò lo sguardo sulle braccia, che sembravano ancora bruciare del tocco delle due donne, e si sorprese a non vedere le lunghe strisce rossastre lasciate dalle loro unghie. Poteva ancora sentire il loro tocco sulle spalle, sul volto, sul petto. La loro risata, un misto di scherno e rabbia, le loro parole sussurrate capaci di farlo sentire un verme. E lui, Ethienne Leroy, si era sentito davvero un verme. Lui, che era capace di cose che voi umani non potreste neanche immaginare avrebbero fatto rabbrividire quasi tutti coloro che conosceva. Lui, che quella notte era stato mandato in missione ed aveva ucciso brutalmente un gruppo di babbani che si erano avvicinati troppo ad uno dei loro edifici di controllo. Lui, si era sentito un verme. Loro l’avevano fatto sentire un verme, loro l’avevano umiliato, schernito, graffiato. E lui, per lunghi minuti, si era davvero quasi sentito in colpa per ciò che aveva fatto, ed era questo che lo faceva arrabbiare più di ogni altra cosa. Finì il caffè in un sorso, e lanciò con forza la tazza contro il muro dall’altra parte della stanza, mandandola contro l’orologio a pendolo che la Undòmiel gli aveva regalato per natale, che si frantumò in diversi piccoli pezzi. Lentamente, Ethienne fece qualche passo, fermandosi a pochi metri dalle macerie dell’orologio, lo sguardo fisso su uno dei pezzi, probabilmente, un ingranaggio, che continuava a girare incurante del disastro attorno a lui. Imperterrito, come un uragano, l’ingranaggio volteggiava sempre più veloce, più veloce, ed Ethienne si incantò a guardare quel movimento. Tutto attorno a lui era rotto in un milione di piccoli pezzi (cit) ma lui doveva trovare la stessa forza di quell’ingranaggio. Doveva continuare a girare e girare e girare fino a quando tutto attorno a lui non fosse diventato sfuocato, indistinguibile. Strinse i denti, c’era solo una cosa di cui aveva bisogno in quel momento. Fece un passo avanti, verso la porta, e con la suola della scarpa pestò con forza l’ingranaggio cercando di porre fine alla sua corsa ma non si accorse, mentre usciva in fretta dallo studio chiudendosi la porta alle spalle, che l’ingranaggio stava continuando a girare anche più veloce di prima.
    Aveva ascoltato le tre parole dell’orologio talmente tante di quelle volte, che oramai aveva preso a non farci più caso. La verità è figlia del tempo, ripeteva in continuazione il pendolo, ed Ethienne aveva la sensazione che quello fosse un messaggio per lui, che Arwen avesse voluto comunicargli qualcosa, ma non era riuscito a capire cosa e ben presto quel gioco l’aveva stufato. Chi, meglio di lui, poteva sapere il significato di quelle parole? La verità è figlia del tempo, Ethienne Leroy lo sapeva bene. Scese diverse rampe di scale, fino a quando non arrivò alla sala delle torture. Aveva bisogno di fare del male a qualcuno, sentiva il bisogno di vedere del sangue ardergli nelle vene. Sapeva che, in quel caso, sarebbe stata l’unica cosa che l’avrebbe aiutato a calmarsi un minimo. Entrò nella stanza, trovandola stranamente affollata. Salutò i presenti con un cenno del capo, avvicinandosi ad un tassorosso del quarto anno, appeso per i polsi al soffitto della stanza. I capelli, di un biondo così simile a quello di Maeve e di sua sorella, gli ricadevano sul volto tumefatto, gli occhi chiusi con le lunghe ciglia a sfiorare le guance ancora paffute di bambino. Dormiva, il ragazzo, ignaro di ciò che presto gli sarebbe successo. Ethienne non sapeva perchè si trovasse lì, e a dire il vero poco gli importava. Gli bastava che avesse lo stesso colore di capelli di coloro che l’avevano torturato in sogno. Era questa la colpa del ragazzino, e per questo avrebbe pagato. Prese una ciocca di capelli del ragazzo fra le dita e tirò forte, facendogli drizzare la testa e svegliandolo bruscamente. Lo vide boccheggiare per lo spavento ed il male, e non riuscì ad impedire ad un mezzo sorriso di farsi largo sul suo volto. «Buongiorno, Platten» sussurrò, stringendo sempre più forte i capelli del ragazzo fra le dita. Il ragazzino strinse i denti, evidentemente intenzionato a non fargli capire quanto in realtà stesse soffrendo, ed Ethienne si lasciò scappare una risatina, mostrandogli il piccolo pugnale che teneva fra le mani. «Vediamo quanto resisti» sussurrò, prima di calare la mano sul suo braccio, tracciando una lunga linea che ben presto si colorò di sangue.
    Non si rese conto del passare del tempo, Ethienne, ma quando uscì dalla Sala delle torture, i vestiti puliti e ordinati come quando vi era entrato, sembrava esattamente la stessa ora di quando vi era entrato. Il lato positivo di giornate come quella, che erano in grado di fermare il tempo per qualche ora, che erano in grado di creare l’illusione dell’infinito. Si sentiva più calmo, anche se la rabbia non era passata. Non vedere Maeve per qualche tempo gli era sempre pesato, ma aveva sempre avuto la certezza che gli sarebbe bastato chiudere gli occhi per trovarla di nuovo nei suoi sogni. Ma in quell’ultimo periodo, non era Maeve che trovava nel sonno. Era qualcun altro, con le sue sembianze. Qualcuno che si divertiva a farlo sentire male, qualcuno che si divertiva a fargli male. E a lui, Maeve, mancava terribilmente. Gli mancava vederla camminare per i corridoi, con il suo incedere da regina, gli mancava vedere i suoi rari sorrisi spontanei, gli mancava sentire l’odore del suo shampoo quando per caso si fermavano a scambiare qualche parole priva di un vero significato. Gli mancava, chiudere gli occhi e riuscire a sentirla ancora fra le braccia come quando l’aveva stretta dopo la battaglia sulla scogliera. Gli mancava lei, punto.
    Se la prese comoda, per tornare al suo ufficio. Sapeva che l’aspettava una montagna di carte da compilare, e la voglia di rimettersi a lavorare era pari a zero. Fece il giro lungo, lasciando vagare i pensieri, nel cuore la speranza di vederla camminare per i corridoi, ma arrivò alle scale che portavano a suo ufficio leggermente deluso. Salì due gradini alla volta, come faceva da quando era bambino, ma all’ultimo si bloccò. Senza rendersene conto si ritrovò a trattenere il respiro e il suo cuore prese a battere ad un ritmo irregolare. Perchè lei era lì, bellissima con i capelli scompigliati e una guancia sporca d’inchiostro, che batteva con forza contro la porta del suo ufficio. Si prese qualche secondo per guardarla, per stamparsi in testa l’immagine di lei così scarmigliata, ma sempre così bella, poi salì l’ultimo gradino e fece un leggero colpo di tosse. Nonostante dentro di lui vi fosse una tempesta di emozioni, dal suo viso non traspariva che una leggera sorpresa. «Buongiorno, Winston» esordì, in tono calmo, la voce leggera, quasi un sussurro. «posso aiutarti in qualche modo?»
    Ethienne Leroy
    « And if there's love in this life, there's no obstacle »

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    Maeve batté la mano contro la porta una, due, tre, cento volte. Forse era durato solo un secondo, forse solo un millennio; non che avesse importanza. Il palmo cominciò a bruciarle subito, ma lei neanche ci fece caso. Sapeva di star commettendo un errore, lo sapeva perfettamente, ma non riusciva a fermarsi. Era come ritrovarsi improvvisamente sul ciglio di un burrone, e volontariamente, saltare. Ma quel salto, Maeve Winston, avrebbe dovuto farlo molto prima. Le persone che la circondavano continuavano a fare uno strano ed alquanto perverso gioco, nei suoi confronti: si intrufolavano nella sua vita in punta di piedi, senza far alcun rumore, e sceglievano un luogo speciale –solo loro- dove lasciare un segno, non dissimile ad una firma sul muro. Una firma indelebile, come un tatuaggio impossibile da modificare o cancellare: non esistevano tecniche abbastanza sofisticate, per quel tipo di tatuaggio. Non c’era nulla in grado di cambiare il segno che una persona lasciava su qualcun'altra, indipendentemente dalla situazione che si creava in seguito. Un segno era una cosa alquanto importante, che certamente non era permessa a tutti; era riservata a pochi, e quei pochi eletti neanche si rendevano conto di quanto quella firma, un solo segno, potesse cambiare profondamente il proprietario. Per loro era una firma, per gli altri poteva diventare un tutto. Così, senza nulla da dire, da salvare, da rimediare, da cancellare. Se quel segno era stato lasciato, non andava mai via. E allora perché, perché tutte le persone che si insinuavano nella sua vita, finivano con l’andarsene? Così, senza nulla da dire, da salvare, da rimediare, da cancellare. Se ne andavano e basta, come se il segno fosse solo una ferita che necessitava di tempo per guarire. E, bisognava ammetterlo, in taluni casi doleva come una ferita profonda, inferta direttamente al petto. Ma si sa che ogni ferita profonda lascia una cicatrice. L’ennesimo segno.
    Chinò il capo, Maeve Winston, mentre il petto si alzava ed abbassava troppo rapidamente. Non sapeva cosa aveva da dire, ad Ethienne Leroy. Non lo sapeva davvero, eppure era lì, e non aveva alcuna intenzione di andarsene. Voleva aspettarlo, e vederlo. Vederlo davvero, non per quello che mostrava d’essere. Maeve era sempre parsa come una ragazza superficiale, anche se in cuor suo sapeva di non esserlo mai stata; nel caso del preside di Hogwarts, però, il dubbio le sovveniva. L’aveva mai guardato realmente? Aveva mai guardato davvero, o si era limitata ad osservare incantata il suo stesso riflesso? Battè un ultima volta sulla spessa porta di legno, lasciando ricadere il capo una seconda volta. Mio Dio, cosa stava facendo?
    "E se oggi non dovesse andare come spero, come tu mi hai insegnato a sperare, se domani quando aprirai gli occhi troverai lo stesso mondo malato in cui viviamo oggi, vorrei che sapessi che non sei mai stata sola, perchè anche quando non ci facevi caso, anche quando per te non ero altro che un’ombra, io ci sono sempre stato e ti ho sempre amato."
    Non so cosa tu abbia sperato, Ethienne Leroy; non so cosa tu, o Will, o Liz, abbiate fatto. Non so cosa tu abbia imparato, da me, che la speranza ho dovuto cercarla negli occhi altrui. E, oh, Eth. Non sono mai stata sola? Perché, se tanto hai detto di amarmi, non sei qui con me? Dovresti esserci, dovresti dirmelo, dovresti avermelo detto. Anche io ho fatto una scelta entrando fra i ribelli, ma non avrei mai sacrificato te. Perché tu l’hai fatto? Dovevi essere egoista, Ethienne Leroy. Dovevi esserlo quanto lo sono io in questo momento. Dovresti esserci perché io non ci ho mai fatto caso, e vorrei averlo fatto. Dovresti esserci perché non me l’hai detto, e vorrei l’avessi fatto. Dovresti esserci ancora, per me, anche se io non lo merito. Dovresti ancora abbracciarmi, dicendomi che tutto andrà bene. Perché quando sei te, a dirmelo, posso perfino crederci.

    Qualcuno attirò la sua attenzione schiarendosi la gola, e Maeve si volse appena per guardare oltre le proprie spalle. Voleva così intensamente da far male, che ci fosse qualcosa da dire. Voleva che ci fosse ancora qualcosa da fare, ma non era rimasto niente. L’unica cosa che aveva, in quel momento, era un futuro che mai avrebbe visto la luce. E quel futuro era ancora stretto nel suo pugno, con la grafia disordinata di Ethienne Leroy. “Buongiorno, Winston” La sua era stata davvero una pessima idea, poco degna di una Corvonero e più adatta ad un incauto Grifondoro. Eppure, nemmeno rendendosi conto dell’errore fatto, Maeve se ne pentì: lui aveva detto che c’era stato, per lei, ed era giunto il momento di ricambiare; Eth per lei era stato un’ombra discreta, Maeve aveva intenzione di essere la luce che divampa dopo una lunga notte. Era così stanca di fingere, così stanca di quell’inganno che tutti si azzardavano a definire realtà. Aveva scelto la Resistenza perchè voleva cambiare le cose, non essere cambiata; non le importava dei rischi che avrebbe corso, sapeva di dover fare qualcosa. Stretta nel suo pugno, c’era una tacita richiesta d’aiuto, e non una qualunque. Gli occhi azzurri di Maeve non poterono celare parte di quel risentimento, mentre incontravano lo sguardo altrettanto chiaro -ed al contempo così buio, chi l’avrebbe mai detto che il ghiaccio potesse bruciare così tanto?- del preside. Era così calmo, lui. Tranquillo, nella sua ignoranza. Lui non sapeva cos’aveva lasciato, non sapeva quali segni indelebili fossero impressi su Maeve Winston. Era cieco, non poteva più vederli; e nonostante la cosa avesse dovuto perlomeno addolcire la sua occhiata, non fece che renderla ancora più affilata. “Preside” Rispose con tono apatico, ma che a stento tratteneva il turbine di emozioni. Come poteva, proprio lui fra tutti, essere così… Scosse il capo, Maeve, più a sé stessa che all’uomo. “Posso aiutarti in qualche modo?” Avrebbe potuto aiutarla in dieci, cento, mille modi. Avrebbe dovuto farlo, ma ancora non lo sapeva. “L’hai già fatto” Rispose in un sussurro sincero, senza mai distogliere lo sguardo dalla sua figura. Era difficile mantenere la voce distante, nascondere quanto vederlo l’avesse turbata, e nel contempo mascherare le gote imporporate dalla rabbia e dalla fatica che quel gesto le aveva, e le stava, comportando. E il dolore, quello che ormai la accompagnava sempre, e che era tornato a farsi vivo ruggendo più forte di prima. Il suono distorto di una corda spezzata e di un musicista che ancora si affannava a cercare una sinfonia. La cosa che più faceva male, era che lui non avrebbe capito. Ora è il mio turno. “Dobbiamo parlare” Secca, più per timore che la voce potesse spezzarsi che per vera intenzione di mostrarsi brusca. Si avvicinò di un passo, ma non osò muoverne un altro. Rimase lì, immobile ed in sospeso. “Tu…” E in quel tu riaffiorò, pian piano, lo spirito combattivo mai realmente assopito di Maeve Winston, quello che l’aveva aiutata a risalire ogni volta che aveva temuto di affogare. Strinse le mani a pugno, mordendosi l’interno della guancia. “Sei un codardo, Ethienne Leroy. E sei uno stronzo. Ecco” Assottigliò le labbra, stringendosi nelle spalle. “L’ho detto” Un altro passo, uno solo, ma era sempre più vicina. “Come hai potuto…” La voce si era fatta nel mentre ancora più bassa, e vibrava talmente tanto da parere un ringhio. Sapeva a cosa stava andando incontro. Lo sapeva perfettamente. E si disse che non avrebbe dovuto correre quel rischio, per Wynne e Dakota e Deimos e Lilian. Si disse che non avrebbe dovuto correre quel rischio, per la Resistenza.
    Ma Maeve Winston era egoista.
    Alzò la mano destra, e non per accarezzare il viso del ragazzo. Alzò la mano per concretizzare quella rabbia, e quella frustrazione, e quel dolore. Alzò la mano con l’unico intento di tirare uno schiaffo sul volto del Preside della scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts, e solo perché l’aveva lasciata da sola pur affermando di amarla.
    Maeve Winston era egoista, e voleva vederlo reagire; fare qualcosa, qualunque cosa. Svegliati, svegliati, svegliati svegliati svegliati svegliati.
    Maeve Winston
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