Holding out for a hero

elsie !

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    Il parquet tinto di vermiglio, mani troppo piccole per un corpo troppo grande, una domanda confusa ed un sorriso sbagliato. Un volto storpiato dalla sofferenza, un dolore senza origine, una mano calda sulla spalla, biscotti allo zenzero. Un singhiozzo. Un paio di occhi azzurri aperti su una stanza ancora buia.
    Attese in silenzio che la respirazione tornasse regolare, così come il battito che sembrava impazzito. Non era una cosa di cui stupirsi, le capitava tutte le notti. Non era nemmeno un gran problema per Jericho Lowell: gli incubi erano finti, non potevano farle del male. E quei ricordi non erano così nascosti da causare un indescrivibile dolore ogni volta che tornavano a galla, erano più come una scheggia sotto pelle. Sempre presente, sempre fastidiosa, ma si imparava a conviverci. Ormai era passato, ed il passato non poteva essere cambiato. E poi da allora Jericho aveva avuto una bella vita, circondata da persone che le volevano bene. Poteva andare peggio ad un orfana, almeno di fatto, sbattuta in strada alla tenera età di tre anni. Aveva trovato gli Hades, e loro avevano fatto il possibile per lei: una casa, dei vestiti, un amore che non pensava di poter ancora meritare. Le avevano permesso un futuro, donato ricordi migliori con cui addormentarsi la sera. E poi aveva conosciuto Jack. Killian detto Jack, Hades, un anno più grande di lei, un fratello con cui non condivideva sangue ma solo interessi. Erano cresciuti insieme, e lentamente era diventato una parte fondamentale della sua vita, un tassello che la rendeva completa laddove non era che un disegno appena abbozzato. Ma era diventato troppo importante, più di quanto la situazione non meritasse; certamente non nel modo che la situazione richiedeva. E Jericho era fuggita, perché i Lowell erano dannatamente bravi in quello. E come un naufrago si era aggrappata alla fortuna: una boccetta di felix felicis. Cosa mai sarebbe potuto accaderle di male, con una pozione di fortuna liquida? Ma non bisogna fidarsi dell’aspetto dorato, delle promesse impreziosite dal sapore dolce.
    Si alzò dal letto stropicciandosi gli occhi, camminando in punta di piedi fino al bagno per non svegliare Aveline. Guardò la sua immagine riflessa: un estranea dallo sguardo familiare. Era stata fortunata? Il Karma era un bastardo doppiogiochista, e non aveva fatto altro che esaudire i suoi desideri. C’era un vecchio detto a cui nessuna persona di mente aveva mai prestato attenzione, ossia attenzione a quel che si desidera, potrebbe avverarsi. Per lei si era sempre trattato di un adagio sciocco, magari si fossero esauditi! E Jericho, il giorno della pozione, voleva essere un’altra persona. Voleva un’altra pelle, perché quella di Jericho Karma Lowell cominciava a starle stretta, a fare un po’ più male ad ogni movimento. Voleva sapere cosa Jack pensava di lei, capire se in quella sua testa vuota avesse perlomeno compreso quanto lui significasse per la sua esile persona. E cosa aveva ricevuto? Un corpo nuovo, bellissimo. Ed era un po’ come barare, senza contare che, esattamente come un abito, non era in grado di portarlo: poteva essere cambiato tutto intorno a lei, dentro di lei, ma Jer era pur sempre Jer. Una ragazzina insicura con un atteggiamento sempre difensivo, sempre pronto ad offendere prima di essere offesa, sempre troppo fuori dagli schemi per inserirsi sulla scacchiera. Ma i regali non si erano fermati a quello, perché Karma aveva ricevuto anche la capacità di percepire i pensieri altrui, detta comunemente telepatia. Non era controllabile, come la Legilimanzia; non poteva decidere lei quando, come o dove usufruirne. I pensieri degli altri erano sempre insieme ai suoi, perennemente nella sua mente, in un continuo urlare e lacerarsi fra loro. Le persone avevano così tanti sogni, così tante speranze, che le sembrava di averle ereditate ella stessa da ognuno di loro. Non si era mai interessata particolarmente della gente che l’aveva circondata in quegli anni, chiusa orgogliosamente ed egoisticamente dentro il suo bozzolo di semi solitudine. Non ci aveva nemmeno mai provato a capirli, quei sorrisi di scherno o di imbarazzo che aleggiavano sulle labbra dei suoi compagni. E adesso, volente o nolente, non poteva fare a meno non solo di capirli, ma anche di condividerli: dentro di lei convivevano così tante persone, che spesso faticava a trovare sé stessa, a capire cosa lei volesse davvero. Chi fosse diventata.
    Si guardava allo specchio, e non lo sapeva più. La cosa che la faceva impazzire, era il fatto che fosse solo ed interamente colpa sua: lei aveva seguito quella ragazza, lei era entrata volontariamente nei Laboratori, lei aveva accettato. Era stata una stupida, una bambina infantile e capricciosa, ed ora non riusciva nemmeno a riavvicinarsi ai suoi vecchi, per quanto poco numerosi, amici. Non voleva ammettere quanto fosse stata sciocca, non con quelle poche persone con le quale le barriere si erano un poco infrante, un poco abbassate, un poco fuse con le loro. Non voleva che cominciassero ad odiarla anche loro. Voleva iniziare una nuova vita, ma non da sola.
    Jericho Karma Lowell, per quanto si sforzasse di credere il contrario, non era in grado di stare da sola. Così aveva stretto amicizia con Aveline, la rossa che parlava con i defunti. Era così fragile, con quei grandi occhi tristi. Così fragile, eppure così forte dietro il sorriso flebile. Nemmeno a lei aveva avuto il coraggio di dire come fosse finita nei Laboratori, avevano sempre evitato l’argomento; e sapeva che era una strega, non una babbana, eppure la Jodene non le aveva mai fatto domande in proposito. Era per quello che a Jer piaceva tanto la sua compagnia: la accettava così com’era, senza chiedere come lo fosse diventata. Aveva avuto il coraggio di farsi avanti con Megan Lynn, per avere il suo aiuto, sapendo che alla rossa semplicemente non sarebbe importato.
    Fine. Nessun altro, delle sue vecchie conoscenze, sapeva che lei era Jericho Karma Lowell. Aveva pensato che potesse andarle bene così, ma non era vero. Aveva pensato di poterli evitare fino a che non fosse stata pronta, ma era impossibile, perché viveva ancora al castello. Aveva perfino incontrato Jack, aveva sentito i suoi pensieri. Stava cercando Jericho, disperatamente, e lei non era riuscita a dirgli che Jer era proprio lì davanti, che aveva bisogno di lui più di quanto lui non avesse bisogno di lei. La Lowell era stata una Grifondoro, ma il coraggio non era il suo forte. A meno che essere codardi non fosse una specie di coraggio alternativo, in quel caso era davvero un leone.
    Si avvicinò allo specchio, espirando e facendo così appannare la superficie. Ripetè l’operazione finchè questi non fu completamente oscurato, finchè a ricambiare la sua occhiata non rimase che una figura sfocata. E quella era Jericho Karma Lowell, un immagine non ben definita dietro un vetro opaco. Sempre al buio, indossò la divisa che le avevano recapitato il primo giorno in cui era tornata al castello, non dissimile a quella che era stata abituata a portare nei quattro anni da Grifondoro. Quella cravatta grigia, priva di sfumature, e la mancanza del leone sul petto le fecero comprendere quanto le mancasse la sua vecchia, disagiata vita. Non pensava di essere mai stata felice.
    Si era sbagliata.
    La maggior parte del castello stava ancora dormendo, e Jer riusciva a percepire sprazzi dei loro sogni e dei loro incubi. Tentò di ignorarli, ma era pressochè impossibile; decise che la tattica migliore sarebbe stata assecondarli, fingere che fossero anch’essi parte della realtà effettiva che viveva ogni giorno. Accompagnata da quei sussurri e dal rumore dei suo passi, Jericho arrivò alla Torre di Astronomia. Si lasciò andare in un sospiro nostalgico che si spense nel silenzio, una nota melanconica che nessuno avrebbe udito. Quello era in assoluto il suo posto preferito: amava arrivare in cima e poter guardare tutto senza essere vista da nessuno, al di fuori delle stelle. Loro erano sempre lì, silenziose quanto lei. Di giorno erano invisibili, così com’era sempre stata Jericho, ma a quell’ora, quando il cielo si tingeva di quel blu profondo antecedente l’alba, brillavano più che di notte, quasi implorassero di essere osservate prima di sparire nuovamente. Avevano bisogno che qualcuno le guardasse per esistere.
    E Jericho le guardava, come aveva sempre fatto..
    Jericho Karma Lowell - all that I've known fall to the ground without a sound

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    ⋆ ELSIE LUNA BECKETT ⋆
    « Oh, you're in my veins »
    Rosso. Rosso rubino. Era solo questo il colore ricorrente che la mente della giovane Tassorosso stava assorbendo in quel momento. Mentre la sua mente guizzava tra immagini vermiglie e totalmente prive di senso, il suo corpo si rigirava all'interno del materasso, prima a destra, poi a sinistra, senza un apparente motivo. I suoi occhi, serrati come le serrande di un appartamento abbandonato, stavano assorbendo le immagini anche solo apparenti che la sua mente gli figurava dinnanzi. Poi, ancora quel rosso. Acceso, come la fiamma di un drago sputafuoco che si erge al limitare di un bosco. Intorno, solo nugoli di alberi, fitti e difficili da districare. Poi, ecco comparire tra le fronde di un albero un paio d'occhi, dello stesso colore del cielo. Rosso vermiglio, rosso fuoco. Ancora, una pozza scura farsi strada tra due Converse invecchiate dal tempo. Zampillare, come acqua cristallina. Ma al contrario, la sua consistenza non era cristallina affatto, anzi odorava di marcio. Un forte e pregnante odore di cadavere, che si sprigionava da quel liquido scuro. Alla luce, poté ammirarlo ancora meglio. Era completamente rosso, scuro e tremendamente terrificante.
    Elsie si svegliò di soprassalto, tirandosi a sedere sul materasso con un piccolo sobbalzo. Non era la prima volta che si svegliava nel cuore della notte, che la sua mente era tormentata da incubi di questo tipo. Ognuno di essi si concludeva con la stessa pozza scura da ormai lunghe settimane. Che stesse diventando un po' paranoica? Questo era da escludere. Dopotutto, un motivo plausibile a tutta questa suggestione c'era. Le ricerche di coloro che erano al potere continuavano senza sosta, la Resistenza di cui anche suo padre faceva parte ormai da tempo aveva il suo nascondiglio ma era comunque nel mirino del Ministero. La situazione era paradossale, per quanto fosse al contempo strana. Lei continuava a vivere la sua vita da studentessa tra quelle mura, salvata solo dal fatto di essere una Purosangue. Nelle vene dei suoi genitori scorreva sangue puro, sangue magico, ereditato dalla nascita e quindi in nessun modo invalicabile. Questo la faceva apparire "diversa", e per la prima volta in senso positivo. Ma quell'oscura pozza di sangue era forse un presagio di quel che sarebbe successo in futuro? I morti sarebbero aumentati in maniera sviscerata? Oppure, dopo averne visto uno morire per mano di sua madre era diventata così incline al terrore? Molti erano gli interrogativi che annebbiavano la sua mente in quel momento, eppure non li avrebbe risolti restando seduta su quel materasso alla luce della luna. Gli occhi le bruciavano. Dovevano anche essere rossi, dato che non dormiva ormai da qualche notte. Si risvegliava sempre allo stesso modo, e non riusciva mai a riaddormentarsi avendo nella mente ciò che avveniva quando dormiva. Sentiva le palpebre pesanti, segno che quella notte sarebbe forse riuscita a passarla serenamente per quel che ne restava, eppure la voglia di dormire stava pian piano lasciando spazio al desiderio di evasione. Durante i suoi primi anni ad Hogwarts, non aveva mai messo piede fuori dal suo dormitorio oltre l'orario di rientro, anzi... una volta aveva addirittura segnalato al Prefetto della sua casata la presenza di un fuggiasco. Se ripensava a quel giorno, si dava della stupida spia. Poi, col senno di poi, si diceva contenta di aver cambiato modo di agire e vivere quel posto. Alla fine, disertare e marinare la maggior parte delle lezioni non stava costituendo il peggio, ma forse crearsi delle amicizie alquanto pericolose stava facendo il suo corso. Mise giù i piedi dal letto, e zampettò scalza fino al suo baule. Zeyphirine dormiva beata. Era lieta di non averla svegliata, dato che l'ultima volta le aveva rimproverato il fatto di parlar nel sonno. Si stava concentrando parecchio su un compito di Pozioni da portare a termine, dunque doveva avere un sonno così pesante che neanche una carica di Centauri impazziti avrebbe potuto svegliarla.
    Si infilò al volo un paio di jeans dopo averli riconosciuti al tatto, se li infilò rapidamente e poi cercò qualcosa da mettersi su. Con l'arrivo della primavera, gli alberi in fiore e l'aria fresca, avrebbe potuto anche solo indossare una maglia a mezze maniche senza sentire il freddo della notte investirle le parti nude. Prese una canotta logora di colore bianco sporco (o almeno, così ricordava dato che aveva solo quella) e se la infilò nei jeans, lasciandone fuori solo alcune pieghe. Legò i capelli, madidi di sudore a causa del sonno disturbato che aveva avuto, e da sopra infilò un lungo cardigan nero per prevenire l'eventuale frescura ormai notturna. Sperava di non far troppo macello. L'ultima volta che aveva provato ad uscire dal suo dormitorio, per poco non era andata a sbattere contro uno studentello del primo anno che si era perso, aveva dimenticato la parola d'ordine ed era rimasto chiuso fuori dalla sua sala comune. I tassi non erano mai molto coraggiosi, per loro natura. Affidavano più la loro intera devozione alla dea della Sapienza e dell'Intelletto. Peccato che delle volte il Cappello Parlante giocasse sporco, declassandola alla casata peggiore dove far finire gente improponibile,dai nerd alle sfigate. Per fortuna, non era affatto il suo caso, e stava cominciando a capirlo. Stava cambiando il suo modo di vedere le cose oltre che di farle, e così forse non sarebbe più apparsa come la sfigatella di turno, forse quasi l'unica Purosangue appartenente ai Tassorosso. Mentre saliva le scale che l'avrebbero condotta alla torre di Astronomia, ripensò a qualche tempo prima. Quando stava cominciando a cambiare, specialmente una ragazza aveva creduto in lei, le aveva dato modo di pensare se stessa diversamente e non in relazione ad altri. Lowell, chiamata Jericho, una ragazza dal cuore d'oro e dalla simpatia smodata, una Grifondoro con cui aveva legato quasi da subito grazie al loro carattere pressappoco affine. Poi, era improvvisamente scomparsa. Così, nel nulla. Giravano voci, specialmente sul fatto che l'avessero rapita gli alieni o stronzate simili, mentre la Beckett aveva sinceramente provato a chiedersi dove fosse finita la sua gioconda amica, quella con cui passava lungo tempo a ridere e a scherzare, la quale ironia ora come ora le mancava tremendamente. Anche il fatto che stesse raggiungendo la torre non poteva essere un caso... ci erano spesso andate, qualche tempo prima, semplicemente per scambiarsi delle opinioni sulle loro giornate, su come erano andati gli studi. Frequentavano gli stessi corsi avendo la stessa età, eppure sembravano quasi appartenere a due pianeti diversi in certi momenti. Tornare lì le avrebbe fatto ripercorrere i giorni passati, e nonostante la vena malinconica sarebbe stato ugualmente bello. Ma arrivata in cima, proprio quando aveva appoggiato il piede sull'ultimo gradino, aveva visto l'ombra di qualcuno. Che fosse un professore? Si era eclissata nell'angolo per non farsi vedere, quando vide una lunga criniera castana e un portamento femminile alla luce delle stelle. Non poteva essere un adulto... troppo esile. Era una ragazza, che tuttavia non aveva mai visto nella scuola. Era stata davvero poco attenta nell'ultimo periodo. Si schiarì la gola, simulando quasi un colpo di tosse perché si accorgesse di lei.
    «Scusa l'intrusione, forse volevi star sola. Posso anche andar via, se vuoi.»
    Tentò di fare l'accomodante. Alla fine poteva essere l'assistente di una professoressa che non aveva mai visto prima di allora, data la poca frequenza alle lezioni. Oppure era semplicemente una ragazza che aveva visto di sfuggita ma della quale ora non ricordava la fisionomia. Avanzò un tantino incerta, pur rimanendo alle sue spalle, aspettando che le facesse capire se effettivamente era di troppo o se un po' di compagnia avrebbe potuto far del bene ad entrambe.
    #goodgirl ⋆ 16 anni ⋆ witch ⋆ neutrale ⋆ pureblood

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    Jericho respirava piano, quasi avesse timore di disturbare qualcuno. Aveva vissuto la sua intera vita dietro quell’ottica; nascondersi dietro una cortina di capelli fini e scuri, guardare il mondo attraverso le ciocche color cioccolato sperando che nessun altro la vedesse. Aveva finito per diventare invisibile, nessuno faceva mai caso a lei quando si trovava in una stanza. Non era mai stata particolarmente simpatica, o divertente, o gentile, men che meno intelligente. Una ragazza mediocre, così normale da risultare dello stesso colore della parete. Così chiusa in sé stessa, che era difficile persino che qualcuno ci provasse ad avvicinarglisi. Merlino, probabilmente anche i migliori amici di Jack non ricordavano che viso avesse, o forse addirittura non sapevano della sua esistenza. Non se ne sarebbe affatto stupita. Era così piccola, Jericho, come un granello di sabbia nel mare. Era esistita solo negli occhi degli Hades, e di poche altre persone al castello. E lei, in fondo, non poteva impedirsi di voler loro bene, più di quanto non fosse necessario: perché ci avevano provato, perché nonostante tutto avevano cercato di vederla, di distinguerla dal muro di pietra del castello. Non l’aveva mai dimostrato, ma era loro grata di averlo fatto, fosse stato solo per un secondo o per un anno. Oh, non sapeva quale motivo avesse mai potuto spingerli a cercare di fare conversazione con lei, a superare la prima barriera di acido che per quindici anni aveva corrotto ogni cosa tentasse di avvicinarsi. Ma alcuni ce l’aveva fatta, ed il minimo che Jericho poteva fare era cercarli, dir loro che era viva, che stava bene. Che era cambiata, ma era sempre lei. Ma la Lowell, scioccamente, non l’aveva fatto: Jericho Karma Lowell non esisteva più nel loro mondo. Non l’aveva detto nemmeno a Jack. Non l’aveva detto soprattutto a Jack. Stava rovinando tutto. Chiuse gli occhi, chinando il capo verso il basso. Le stelle non riuscivano a rispondere alle sue domande, ad aiutarla a trovare una via d’uscita. Si sentiva in trappola, e sapeva che la colpa era sua. Di nuovo. E si sentiva così sola, perfino con tutte quelle voci nella testa che non la lasciavano dormire. Sembrava una punizione del karma: non poteva rimanere in solitudine nemmeno nella sua testa, eppure non si era mai sentita così abbandonata a sé stessa.
    Sentì dei passi sulle scale, ed automaticamente schermò la propria mente, cercando di eclissarsi dai pensieri del nuovo ospite. Non le importava nemmeno il fatto che lì non avrebbe dovuto esserci, che se l’avessero beccata avrebbe fatto un adorabile tour della sala delle torture. Si amava così poco che quasi guardava con speranza a quella prospettiva, come se il dolore fisico potesse allontanare e colmare il vuoto nel petto. Una giusta punizione per il destino amaro che aveva inflitto a chiunque avesse mai provato ad amarla. Era quello il prezzo di averle voluto bene: essere stati abbandonati, perché lei era troppo codarda per rientrare nella sua sede originale. Come una lussazione. Lanciò un’occhiata di sottecchi alle sue spalle, cercando di mettere a fuoco la figura dietro di lei. Era una ragazza, dall’aria dolorosamente familiare. Ingoiò la saliva, mentre lo sguardo ceruleo scivolava sui tratti morbidi ed arruffati di Elsie Luna Beckett. Tassorosso, sedici anni. Era sempre stata così buona con lei, che Jericho non aveva mai nemmeno pensato di allontanarla da sé, come invece aveva fatto con il resto delle persone. Era riuscita ad entrare nella sua vita in un modo così sottile che la Lowell non se n’era resa conto; aveva superato le barriere in punta di piedi, le aveva dato quella possibilità che il resto del castello non aveva mai ritenuto opportuno offrirle. Era diventata sua amica, a discapito di quanto Jericho potesse risultare irritante per il resto dei loro compagni. l e con lei era riuscita ad aprirsi, ad essere l’adolescente spensierata che difficilmente riusciva a mostrare in pubblico. Le aveva fatto vedere quella parte di sé che di rado tirava fuori, se non quando era in compagnia di Jack. Da quando era tornata non aveva ancora avuto il coraggio di cercarla. A quanto pare il destino aveva un’ironia più sottile della sua, quando voleva. Quando la sentì schiarirsi la voce, si voltò verso di lei, mordendosi il labbro inferiore. Jericho non era più la ragazza che Elsie aveva conosciuto, alla quale aveva voluto bene. Non era cambiato solo il suo aspetto –fatta eccezione per gli occhi. Ed aveva paura, la Lowell, che ad Elsie la nuova Jericho non piacesse più. Per quello ancora non l’aveva cercata, per quello non aveva svelato a Jack la sua identità. Ma trovarsela davanti, sulla Torre nella quale avevano passato tanti momenti insieme, le strinse il cuore in una morsa nostalgica. “Scusa l'intrusione, forse volevi star sola. Posso anche andar via, se vuoi” Restare sola? L’aveva voluto, in effetti. Lo voleva ogni giorno della sua vita, senza mai desiderarlo realmente. Aveva paura di rimanere da sola: era quella la cruda realtà, un peso che da sempre gli amanti della solitudine si portavano appresso. Mentiva, quando si ripeteva che da sola sarebbe stata meglio. Che non aveva bisogno di nessuno. Jericho era dannatamente brava a mentire a sé stessa. Le labbra si piegarono in un sorriso amaro, mentre scuoteva la testa nella sua direzione. Era sempre così gentile Elsie. “No, figurati. C’è abbastanza spazio per entrambe” Si strinse nelle spalle, cercando di rivolgerle un sorriso confortante. Quel sorriso era però macchiato da tante cose, principalmente da tutte ciò che la Lowell ancora non aveva detto. “Hai mai…” Si schiarì la voce, dandole di nuovo le spalle per poggiare le mani sulla ringhiera fredda della torre. Strinse i pugni con forza, facendo divenire le nocche bianche. Inspirò ed espirò, chiudendo di nuovo gli occhi. “Hai mai la sensazione di star sbagliando tutto? Di star mettendo tutto a rischio solo per …” Rise nervosamente, riaprendo gli occhi ed alzando il volto verso quel cielo che, così spesso, aveva ascoltato in silenzio le loro conversazioni. “Per motivi che nemmeno sai con certezza?” Aveva bisogno, Jericho, di sentirsi dire che non era l’unica. Che non era lei ad essere sbagliata. Che non era l’unica codarda. Che, forse, poteva ancora sistemare tutto.
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    « #running | 16 ANNI | HUFFLEPUFF | NEUTRALE »
    L'aria che aveva intorno sembrava rispecchiare apertamente il suo cuore. Era una notte piacevole, tinta solo di qualche luce, luci che solcavano il cielo. Luci invisibili, o visibili davvero poco, non ad un palmo di un naso di sicuro. Una notte tinta da luci scure, per lo più dominava la notte, l'elemento fervente di quel particolare momento della giornata. La notte è il momento in cui tutti abbandonano i pensieri, si rintanano sotto le coperte, e non pensano a niente. Il buio, delle volte, può diventar soffocante. E così era stato per lei. Il buio l'aveva lanciata in un'orbita parallela, probabilmente lontano dal mondo. In un posto dove il sangue si può bere, dove scorre come fosse un fiumiciattolo di campagna senza lasciar scambio. Che apparentemente non fa paura, ma in realtà genera terrore e disperazione. E la cosa più terribile è che non si riesce ad accorgersene, in quanto è qualcosa di così impercettibile che esiste solo nella propria mente. E a quel punto, per non sembrar pazza, trattieni tutti i pensieri e non ti fai infognare da una simile sensazione. Il cuore perde dei battiti,la pelle si immerge nel sudore più fetido, le membra stanche cancellano quelle immagini... e così ti svegli. Ti senti come se hai vissuto in una realtà parallela, dove simili avvenimenti non sono giudicati tremendi, bensì piacevoli. Vorresti vomitare, ma non riesci, e tutto ti si ferma in gola, compreso il più semplice dei respiri.
    Ed Elsie si sentiva esattamente così, quella sera. Si sentiva come privata di qualcosa. Sentiva una debole luminescenza in petto, ma sapeva quanto fosse grama e misera, a dispetto delle stelle che a loro volta sbrilluccicavano nel cielo silenzioso e muto. Quella volta celeste, quell'enorme pozzo fangoso e buio che era il cielo, si rifletteva nei suoi occhi, nella sua anima. Curioso da spiegare, anzi, pressocché impossibile. Si sentiva esattamente come quelle luminescenze, lì su. Si sentiva sola e dispersa, con un unico obiettivo, insomma. Star fisse, immobili, a guardar dall'alto ciò che accadeva giù ai comuni mortali. Solo che lei era ben diversa da tutti quei puntini luminosi. Lei era costretta a viverci, in quel mondo dimenticato. Era costretta a prenderci parte attivamente, e non a restar passivamente a guardare. Arduo compito, fottuta madre che l'aveva data alla luce. In altri momenti non avrebbe mai pensato un tale aborro. Ma da un pezzo, era cambiata. Da essere una signorina per bene, tutta casa e chiesa, dolce e disponibile, era diventata strana. La verve da Tassorosso che aveva spinto il Cappello Parlante a smistarla in quella casata sembrava essersi eclissata. Ora, un pezzo dell'anima di sua madre sembrava essersi staccato da lei, ed esser penetrato nel cuore della giovane Beckett. Nonostante somigliasse a suo padre in tutto e per tutto, era come se Galadriel avesse fatto di sua figlia un Horcrux, trasferendo la parte peggiore di se' in un corpicino talmente stanco che non sarebbe stato possibile estirparlo. L'erba cattiva non muore mai, d'altronde. Ed Elsie cominciava a pensare che fosse realmente così.
    Aveva davanti una sua coetanea, probabilmente. Da quando aveva messo piede sulla Torre di Astronomia, aveva avuto il terrore di disturbare la solitudine di qualcun altro. Anche lei era alla ricerca della sua, ma di certo non voleva minare quella altrui. Erano giornate dure per tutti, lì dentro. Era quasi impossibile rilassarsi, e nonostante quel leggero caratterino fuorviante che stava prendendo il sopravvento, non avrebbe mai voluto minare la sanità mentale altrui. Figurarsi. Era meglio farsi gli affari propri, glielo diceva sempre suo padre "Non metterti mai in mezzo. Non lasciare che gli eventi ti coinvolgano. Guarda sempre tutto con un certo distacco". Cazzo se aveva ragione.
    Ad ogni modo, la ragazza la aveva invitata a rimanere, affermando che ci fosse spazio per entrambe. Era strano, ma quel tono di voce le era stranamente familiare. Forse si stava decisamente lasciando prendere dal momento, forse vedeva tutto con un occhio poco critico e il suo istinto stava prendendo il sopravvento. Era meglio non andar oltre a far domande, poiché, era certa, aveva interrotto la solitudine di quella ragazza. In un certo senso, non se lo sarebbe mai perdonato. Non era come i Serpeverde, quegli aborti, che si credevano i padroni della scuola e dunque ogni posto era loro di diritto. Restava sempre una Tassorosso, anche se leggermente contaminata, e l'idea che quella grifa fosse lì, tutta sola, le aveva suggerito qualcosa sin dall'inizio. Probabilmente, ora pensava le peggiori cose, su di lei. "Guarda un po' tu questa stronza, cosa vuole? Perché è venuta qui? E io che volevo solo rilassarmi..."
    Non era ancora in grado di praticare il Legilimens, ma forse non c'era neanche bisogno di farlo. Glielo si leggeva in faccia. In faccia poi... Elsie che diavolo stai dicendo? Quella ragazza si era voltata per soli pochi secondi, lasciando peraltro il volto nascosto dai propri capelli. Come poteva averla guardata negli occhi? Come poteva aver percepito tutte queste cose senza averla neanche osservata? Era come se stesse parlando con i suoi capelli, sì... decisamente. Ma non glielo avrebbe mai detto,se non altro per non offenderla. Si limitò a fare la persona socievole esattamente come si stava comportando la sua interlocutrice. Abbozzò un lieve sorriso, e poi si voltò verso la porta che le aveva permesso l'accesso, chiudendola con un lieve movimento della mano. «Grazie, sei molto gentile.» rispose solamente, come una povera idiota. Come se fossero entrambe sull'autobus. Sì perché quella frase, spesso e volentieri, partiva da una signora anziana verso una giovane che le aveva ceduto il proprio posto sul mezzo per non farla rimanere in piedi. Era questo che era diventata? Una vecchia? D'accordo no, doveva passarle di mente e concentrarsi su altro. La mora glielo permise subito, ponendole un interrogativo. Le chiese, cioè, se per caso si era mai sentita sbagliata in qualche situazione. Se stesse, per qualsiasi motivo, andando alla cieca in una direzione senza conoscerne l'esito. Tesoro, ma lo sai con chi stai parlando? E' la storia della mia vita. Dannazione quanto avrebbe voluto risponderle così. Eppure, non voleva apparir pesante. Non voleva darle modo di pensare che fosse solo una tassa alla quale piaceva lamentarsi della propria vita, della presenza tragica di sua madre nella sua vita, e tutte quelle varie cose che non le piacevano. Avrebbe preferito rispondere con un briciolo di ironia, e visto che momentaneamente ne aveva da vendere, era meglio sfruttarla al massimo.
    «Sì, direi che è una domanda che mi pongo giornalmente anche io. Ma ho anche una risposta, alquanto esauriente, che mi regalo ogni giorno.» rispose poi, infilandosi la mano nella tasca e cercando con le dita ciò che le serviva. Quando saliva lissù, era buona abitudine per Elsie donarsi un regalo. Dopo l'intera giornata passata a sfaccendare tra i libri (cosa che spesso e volentieri evitava, ma chi se ne importa), aveva bisogno di rilassarsi. Di non pensar più a niente. Di appoggiare il culo su quel benedetto pavimento in pietra, e pensare a qualsiasi cosa tranne a quanto fosse odiosa e miserabile la propria vita. Finalmente, trasse il pacchetto che aveva nascosto accuratamente nei pantaloni, e lo estrasse aprendolo definitivamente. Si avvicinò a lei, ondeggiando brevemente, come se avesse timore di avvicinarsi. Come se avesse paura che da un momento all'altro quella ragazza potesse giudicarla"strana" e abbandonarla su quella torre. Improvvisamente, la prospettiva di un po' di compagnia era decisamente migliore rispetto alla solitudine che poteva soffocarla.
    «Prendi una di queste. Tranquilla, non fanno troppo male. Sono sigarette babbane... le ho rubate dalla borsa della mia vicina di letto, in dormitorio.» spiegò, come se fosse una cosa naturale. Per un sì e per un no, era come se immaginasse che quella ragazza non avrebbe fatto la spia con le autorità. La cosa la rincuorava, e anche se era solo il suo istinto a parlare, esso non l'aveva mai tradita. E forse non l'avrebbe fatto neanche quella volta. «Ti rilassano che è una meraviglia. Fidati, le ho già testate.» spiegò, parlando da esperta nel settore. Di sicuro, sarebbe stato più educato rispondere direttamente alla domanda della ragazza. Ma, per uno strano motivo, preferì evitarlo. La vita è già odiosa di per se', se ci si impegna lo diventa ancor di più. E la giovane aveva solo bisogno di sciogliere un po' la tensione. Elsie aveva fatto spesso così, con la sua migliore amica Jericho. Quando era giù di morale, le aveva sempre offerto una sigaretta, e il peggio era passato. In quel momento, prendendone una e infilandosi il filtro tra le labbra, ci ripensò. E un velo di malinconia la invase. Chissà dove si trovava, in quel momento.
    Elsie Beckett
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    Quando cala la notte, i pensieri repressi per tutto il giorno tornano a galla e prendono un bel respiro, rompendo la superficie tranquilla dell’acqua. La spaccano proprio, interrompendo ciò che si credeva di essere per lasciar spazio ad una persona nuova, spaventata, attanagliata da ciò che credeva di aver dimenticato. La notte era sempre stata la parte peggiore della giornata per Jericho Karma Lowell, quella che faceva un po’ più paura. Si stringeva sotto le coperte, si abbracciava le gambe, ma come poteva essere certa che i mostri non la trovassero? Nascondersi e fuggire, per quanto sembrasse la soluzione più semplice, non metteva fine a quel tormento. La notte, l’ex grifondoro si ricordava della vita che non aveva più. Ricordava il profumo del trucco usato da sua mamma, il dopobarba di papà, le braccia di Nathaniel che si muovevano veloci davanti alle luce creando mostri d’ombra che, all’epoca, non facevano che terrorizzarla. Ricordava il sorriso sghembo di Amos, la sua espressione quando gli dicevano che no, non poteva uscire di casa. Ricordava che cercava sempre le mani del fratello più grande quand’era piccola, non le piaceva vederlo triste. Sono tutti ricordi radicati nel suo cuore, che anziché germogliare la stritolavano in una morsa soffocante, ricordandole che per quanto potesse provarci non li avrebbe mai estirpati. Come se non bastassero, Jericho ne aveva aggiunti di nuovi. E sì, ne aveva aggiunti, perché era perfettamente consapevole di essere la causa dei suoi stessi guai. Ricordava il sorriso della ragazza che l’aveva portata nei Laboratori, le loro mani su di lei, i fischi degli strumenti. Ricordava la prima volta in cui si era accorta di poter leggere i pensieri altrui, che chiunque –volente o nolente- era nudo ai suoi occhi. Lei, che aveva sempre temuto il giudizio degli altri, se lo vedeva sbattuto in faccia senza alcun filtro dato dal buon costume. Ricordava gli occhi tristi di Jack a natale, quando le aveva parlato di sua sorella, non sapendo che era davanti ai suoi occhi. E lei? Oh, lei non aveva avuto cuore di dirglielo, per quanto avesse desiderato solamente stringerlo forte, rassicurarlo, dirgli che stava bene. Il brutto era che anche ricordare le cose belle –le risate, le notti passate a guardare le stelle e a convincersi che con Jack non esisteva la paura- faceva male. Era stata la notte a portarla su quella torre, come tante volte prima di quel giorno. Era stata la notte a guidarla, a prometterle un respiro più fresco che allentasse la morsa. Non poteva essere un caso che proprio lì, dove tante serate aveva passato in compagnia di Elsie, avesse ritrovato la Tassorosso. Anche lei sembrava turbata, masticata da una vita così corrotta e dai demoni che si annidavano dietro gli occhi gentili. La vedeva, e la sentiva, diversa. Voleva dirle tutto, e non voleva dirle niente. Era strano. Aveva paura.
    Jericho aveva sempre paura. L’aveva invitata goffamente a farle compagnia, e lei l’aveva ringraziata dolcemente chiudendo la porta alle sue spalle. Era sempre così delicata Elsie, in ogni cosa che faceva; eppure c’era qualcosa di cambiato nei suoi movimenti, e per Merlino, Jer avrebbe voluto così tanto essere un’amica migliore, chiederle come stava, darle consigli utili. Peccato non fosse mai stata brava in quello: sapeva ascoltare, ma non era mai in grado di replicare. Le aveva infine posto quella domanda, senza sapere con esattezza il motivo che l’aveva spinta ad essere così criptica. Cioè, lei conosceva Elsie, era sua amica! Ma per la Tassorosso quella Jericho era una sconosciuta, di cui non sapeva neanche se poteva fidarsi. Era orribile sapete, orribile. Ma non abbastanza da spingerla a fare il passo decisivo, presentandosi come se fosse la loro prima volta. Non era così forte, non lo era mai stata. Bella Grifondoro di merda, mh? “Sì, direi che è una domanda che mi pongo giornalmente anche io. Ma ho anche una risposta, alquanto esauriente, che mi regalo ogni giorno” La guardò incuriosita, ma prima ancora di potersi chiedere a cosa si stesse riferendo, Jer lo comprese. Elsie infilò una mano in tasca, e lei sapeva perfettamente cosa le sue mani stessero cercando: sigarette. Un sorriso nostalgico incurvò quelle sue nuove labbra carnose, così diverse da quelle sottile e scialbe che poteva vantare un anno prima. Scosse il capo non riuscendo a frenare una risatina, data più dal nervosismo che dal divertimento. La Beckett si avvicinò titubante, un atteggiamento che ormai – da bravo Esperimento- aveva imparato a riconoscere. Tutti la trattavano in modo diverso, come se avessero paura che potesse far loro del male. Dopotutto era stata privata della magia, chissà che altro aveva perso in quei Laboratori. Per quanto la cosa la irritasse, non riusciva a dar loro torto. Nei loro panni si sarebbe comportata in egual modo. Ma vedere quella cautela nei suoi confronti da parte di Elsie, la fece sentire una stupida. Jericho fu nuovamente attanagliata dai sensi di colpa, mentre abbassava lo sguardo verso il pacchetto che le stava offrendo. “Prendi una di queste. Tranquilla, non fanno troppo male. Sono sigarette babbane... le ho rubate dalla borsa della mia vicina di letto, in dormitorio” Sorrise, alzando gli occhi al cielo. Aveva già provato a fumare prima d’allora, ma ogni volta il fumo le rimaneva incastrato in gola, bruciando come una maledizione. Da brava testarda però, la cosa non la fermò da accettare quel pegno, a costo di rimanerne soffocata. Tutta mente la sua, sìsì. “Da quando hai cominciato a rubare?” Ghignò divertita, accorgendosi troppo tardi della gaffe. Non poteva più rimangiarselo, e come prevedibile aveva fatto il passo più lungo della gamba. Ma perché doveva essere così immensamente, infinitamente…. Jericho Karma Lowell? Solo figure di merda e manco una gioia a morire. Avrebbe voluto avvicinarsi all’argomento, sì, ma non in quel modo. Come avrebbe potuto aggiustare la situazione? Sii sincera, Jer. Almeno una volta. Abbassò lo sguardo imbarazzata, borbottando un ringraziamento verso la mora. Aveva bisogno di tatto, ma come sempre il tatto le mancava. Chiunque penserebbe che con un potere come il suo fosse più facile parlare con le persone, sapere cosa loro volevano sentirsi dire. Forse per una persona normale sarebbe stato così, ma per Jericho? Non era in grado di studiare una strategia così elaborata, e finiva sempre per buttarsi nella mischia prima ancora di rendersi effettivamente conto che c’era una rissa. Sospirò, portandosi le mani al viso. “Elsie…” Deglutì, mentre il cuore cominciava a battere così forte nel petto che pensava avrebbe finito per soffocarla, spaccando i polmoni e le costole. “Elsie, sono io” La voce si ruppe, ma non v’era alcuna lacrima nei suoi occhi. Erano dentro quelle, a bruciare come veleno. Un’onda che si schiantava, e si schiantava, e si schiantava ancora senza alcuna via di fuga. “Sono Jericho” Accennò un sorriso, ma ciò che ne risultò fu più una smorfia. “Posso?” Domandò chiedendole l’accendino con mano tremante, senza avere il coraggio di incontrare il suo sguardo né di rispondere ad eventuali domande.
    Codarda ancora una volta. Certi vizi non abbandonano mai.
    Jericho Karma Lowell - all that I've known fall to the ground without a sound

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