Taking all the shattered ones

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    william barrow
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    Guardò le proprie mani, macchiate da un liquido cremisi che non era il suo. Avrebbe dovuto sentirsi in colpa, straziato, o perlomeno sentirsi soddisfatto, trionfante. Ma William Barrow guardava quelle mani, in ginocchio, e non sentiva niente. Niente. Una piccola, piccolissima parte di lui si dibatteva, minacciando di emergere, supplicando di smettere. Ma William Barrow, sordo, non ascoltava. Non ascoltava nulla.

    E c’era quella parte, che gridava. C’è un altro modo, Will, implorava. C’è sempre stato. Ma esile, nello sforzo, nascosta dietro una patina opaca. Non arrivava alle orecchie di Barrow, quella voce. Affogava dentro i sensi di colpa senza trovare una via di fuga. Sarebbe morta, continuando ad urlare nello sforzo di farsi udire, fino a consumarsi. Come una fiamma nel vuoto, si sarebbe semplicemente estinta, cessando di esistere. E, soprattutto, senza aver memoria di essere mai esistita.

    Gli occhi azzurri si posarono sulla figura a terra, il cui rantolo sofferente spezzava i polmoni. Tossì, la figura, ed un rivolo di sangue si fece strada lungo il mento, fino a cadere a terra per aggiungersi alla pozza che già si era raccolta. “William, tu non sei così”. E William, le mani ancora macchiate di quel crimine, sorrise. Senza premurarsi di pulirsi, estrasse il pacchetto delle sigarette, macchiando il filtro di una di esse con i polpastrelli. Compromessa. Pensò divertito. Sei complice anche tu. Ma anche quello era un divertimento asettico, privo di radici che potessero attecchire rendendolo reale.

    Si era perso, Will, si era perso dentro sé stesso, ed era la cosa peggiore che potesse mai capitare. Picchiare i pugni dentro la propria mente, implorando di uscire. Di prendere una boccata d’aria, almeno una volta. Di chiedere scusa alle persone che avevano creduto in lui, e che lui aveva miseramente sacrificato. Chiedere perdono per quel salto nel vuoto che non li aveva uccisi, peggio: li aveva privati di ciò che erano diventati, rendendo vano ogni battaglia precedente. Che senso aveva avuto combattere per tutti quegli anni? Per favore, mi basterebbe un minuto. Perché William lo sapeva, che un minuto sarebbe bastato. Per stringere la mano di Ethienne, per abbracciare Elizabeth, per guardare Keanu negli occhi ed affidargli quel compito che non poteva più portare avanti. Sapeva che un minuto sarebbe bastato per un bacio sulla fronte di Niamh, per un sussurro strozzato nel quale le avrebbe detto che avrebbe voluto essere un fratello migliore, per lei, che quello non era lui. Che quel William rigettato dagli anfratti più bui della sua anima non era reale, che Will aveva imparato ad amare, mentre l’altro ne aveva solo una capacità distorta e malata. In quel minuto, avrebbe detto a Dildo che la battaglia non era finita. Che poteva anche essere il più figlio di puttana della zona, ma per lui avrebbe combattuto fino alla fine. Non voleva finisse così. Sentiva estraneo, quel corpo malato, quella mente piegata. Era lui, ed al contempo non lo era. Aveva perso tutto ciò che l’aveva reso William Barrow, diventando il mostro che suo padre aveva predetto fosse. Non sembrava una gran tragedia perdere la memoria, ma Will aveva fatto della sua memoria la sua umanità. Era stata la Resistenza a renderlo umano, anche nei momenti più bui. E senza quella, era perso.

    Accese la sigaretta, soffiando il fumo in direzione del ragazzo a terra. Sapeva che, se non l’avesse portato al San Mungo, sarebbe semplicemente morto. E avrebbe dovuto importargli, ma la cosa non lo toccava minimamente. “Mi dispiace” Disse atono, senza percepire un briciolo di rimorso. “Non so quale William tu conosca

    Conosce me. Salvalo, per favore, solo questa volta. Ricordati chi sei, Will. Ricorda qual è la tua battaglia. Aggrappati alla fede, aggrappati alla speranza. Non la vedi, ma c’è. C’è sempre stata.

    Ma io, William Barrow, sono esattamente così” Rispose tenendo la sigaretta fra i denti, alzandosi in piedi e lasciando il ragazzo ad esalare il suo ultimo respiro, da solo. Osservò la polo a righe blu e bianche impregnata di sangue appiccicarsi al torace scosso dai singhiozzi di Arold, il suo viso giovane farsi più tirato, le lacrime cremisi uno strato lucido su due occhi via via più spenti.
    Non sentiva niente, William, se non un grande vuoto nel petto.

    Conosceva Arold da quando era uscito da Hogwarts, quattro anni prima. Era stato il primo a credere in lui, a credere che la Resistenza avesse realmente ragione d’esistere. Gli aveva affidato la sua vita, Arold, le sue speranze. I suoi sorrisi, Arold. La stretta sulla spalla, quando Will si lasciava cadere con la testa fra le mani sulla porta del Quartier Generale. E quel giorno, quel maledetto giorno, l’aveva pregato di ricordare. “Non sei tu” Aveva continuato a ripetere ad un Barrow parecchio infastidito, stringendo la manica della sua giacca. Come un naufrago, aveva cercato in quello che era stato suo amico un sostegno nel mezzo della tempesta. L’avevano avvertito, gli avevano detto di non farlo: ma Arold era testardo, e voleva troppo bene al ragazzo tatuato per lasciarlo semplicemente andare. Sin dall’inizio. C’era sempre stato per lui. Fino alla fine.

    Quando alzò lo sguardo, il cancello del Carrow’s District parve illuminarsi sotto la tenue luce della luna. Ricordava che da piccolo si rifugiava in quel posto, quand’era stanco di sentire le urla del padre e le lacrime della madre. Ricordava che quello zoo era stato casa, quando casa sua non lo era più. Sorrise alle stelle, scavalcando il cancello che non aveva protezione alcuna. Alla prima fontana si lavò le mani, sciacquando il sangue che ancora ne sporcava la pelle.
    ma quello è un binocillà! la tua psw speciale è: belle

    E quel sangue, Will non lo vedeva, ma era penetrato nella sua anima. In quella parte che, dopo tanti anni, piangeva. Per favore, mi basterebbe un minuto. Perché William lo sapeva, che un minuto sarebbe bastato. Per guardare Mnemosine negli occhi, un ultima volta. Guardarla sapendo che dietro la maschera si celava Arthea Williams, che le iridi viola non gli avrebbero mentito un’altra volta. Che forse, in fondo, l’aveva sempre sospettato. In quel minuto non avrebbe avuto il tempo di dirle tutto, perché non sarebbe bastata una vita. Ma non avrebbe avuto bisogno di dire alcunchè: avrebbe tenuto il volto di lei fra le proprie mani, le avrebbe sorriso. Tu puoi salvarmi, le avrebbe detto. Tu puoi trovarmi, Arthea Williams, ed io posso trovare te. E ti sceglierò, se tu mi sceglierai un’altra volta.
    Ho bisogno di te, ragazza mia.

    Domani, sempre.

    Non sapeva perché i suoi piedi l’avessero portato proprio in quella zona dimenticata da Dio. Non poteva razionalmente comprenderlo, perché era stata una scelta istintiva. William non poteva sapere che era in quel luogo, vedendo un’altra alba, che la fine aveva avuto inizio. Gli sembrava solo un posto tranquillo dove cullare quel suo non essere.
    Provava malinconia. Perché sentiva quella tristezza, annidata dietro gli occhi azzurri, perché sentiva di aver sbagliato? Era un sentimento estraneo, così sbagliato che quasi lo trovava esilarante. Era triste, William, e non capiva il perché. Non era certo il primo uomo a cui toglieva la vita, e se era fortunato nemmeno l’ultimo: era un soldato, ed i soldati sapevano che vivere era un optional per tutti. Quel ragazzo al bar aveva detto cose senza senso, che Barrow nemmeno si era sprecato a voler comprendere, ma chiaramente si era trattato di un traditore. Aveva ucciso suo padre per molto meno, perché il giovane Arold avrebbe dovuto fare differenza? Eppure sentiva che più passavano i minuti, più il suo cuore si spezzava. Qualcosa dentro di lui si rendeva conto di quello che aveva fatto, e perforava la dura superficie per far riemergere il senso di colpa. Ma Will non poteva, né voleva a dire il vero, permetterlo. E si sentiva così solo. Cosa c’era di sbagliato, in lui? Cosa, in quei corti capelli neri ed in quel corpo martoriato di cicatrici e di tatuaggi che raccontavano una storia che non era più in grado di leggere? Analfabeta del proprio corpo, Will, giaceva abbandonato nello spiazzo dello zoo, gli occhi immersi nel blu profondo del cielo, che ignaro e consapevole piangeva. “Le stelle non sono infinite. Muoiono, e nessuno si ricorda più la loro luce” Quella frase. Suo padre l’aveva ripetuta allo sfinimento ad un William più giovane ed immaturo, un William che ancora credeva di poter cambiare le cose. Un William che sognava di diventare una stella, infinito ed indelebile punto in un cielo nero. Gli anfibi graffiati dai troppi passi, i jeans scolorati che avvolgevano due gambe troppo magre, una spessa felpa blu con le maniche in pelle, la sigaretta a penzoloni fra le labbra inarcate in un sorriso. Non era nient’altro che quello, William Barrow. “Le stelle non sono infinite. Muoiono, e nessuno si ricorda più la loro luce” Ripetè ad alta voce, alle orecchie sorde di quello stesso cielo.

    E avrei voluto tenerti con me, ma non sono stato abbastanza forte.
    15.04
    carrow's district

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    Edited by etc. - 23/9/2018, 23:58
     
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    Arthea Williams
    ❝La memoria sarà l'arma, il tempo il giudice❞

    Arthea si avvicinò allo specchio. O forse immaginò solo di farlo, perché lo specchio non rimandò alcun riflesso. Lei era lì davanti e non si vedeva.
    Sono un fantasma.
    Il suo essere metaforicamente invisibile era forse diventato reale? Lei era lì, e gridava, ma nessuno la vedeva. Nemmeno lei si vedeva. Poi, attraverso lo specchio vide avvicinarsi qualcuno. Veniva verso di lei. Aveva la maschera che aveva ricevuto durante il periodo natalizio, un mantello nero, dei lunghi capelli scuri come i suoi. I suoi occhi verdi incontrarono le iridi viola di lei. Piangeva.
    “Non voglio morire. Non lasciarmi andare. Tienimi con te.”
    Non sapeva che cosa quella donna mascherata stesse dicendo. Sapeva solo che aveva bisogno di essere salvata da qualcosa. Sembrava stesse morendo. La vide scivolare la terra, accasciarsi, mentre continuava a piangere. “Io devo ritrovarlo, gliel’ho promesso! Domani, sempre.”
    Non sapeva che fare. Non sapeva come aiutare la donna mascherata aldilà dello specchio.
    “Come posso aiutarti? Chi devi trovare? Chi può salvarti?”
    La donna la guardò respirando a fatica. “Lo sai…la speranza. Elpis”.

    Si ritrovò a fissare il vuoto, mentre aveva trascorso non si sa quanto tempo a rimuginare sullo strano sogno fatto la sera prima. Era una cosa strana. Era stato come se per un attimo avesse provato i sentimenti di quella donna, come fossero stati suoi. Amore, disperazione, speranza. Lei stava lottando per qualcosa. Forse per trovare il misterioso Elpis, e stava morendo nell’intento. Chissà chi era la misteriosa proprietaria della maschera? Forse quel sogno era un segno. Se avesse scoperto a chi apparteneva la maschera che le era stata recapitata, avrebbe trovato il suo Elpis, e lei si sarebbe salvata. Ma perché tra tutti aveva scelto proprio lei?
    “Arthea, tutto bene? Ho esagerato col rum nel cocktail?”
    La voce di Keanu Larrington, proprietario del locale in cui si trovava, la riscosse dai suoi pensieri.
    “Oh, no. Il tuo koala sliper è buonissimo, come sempre. Mi ero solo persa nei miei pensieri.”
    Abbozzò un sorriso. Non ricordava nemmeno come aveva conosciuto Keanu. Forse al winter party, ma non ricordava ciò che si erano detti in quell’occasione. Ultimamente aveva la memoria di un pesce rosso.
    Finito il suo drink pagò il conto e salutò Keanu, poi uscì dalla Testa di Porco e si avviò verso Carrow District. Senza saperlo, i suoi piedi stavano ripercorrendo a ritroso le tappe che l’avevano vista vivere e morire per uno scopo e per una persona. Senza saperlo Arthea stava seguendo le tracce di Mnemosine.
    Da tanto non andava in quel posto (ovviamente perché non ricordava di esserci stata di recente), e in effetti non sapeva nemmeno perché i suoi piedi la stessero guidando proprio lì. Sapeva solo che sentiva il bisogno di rivedere quel luogo, in silenzio, senza la folla di visitatori che schiamazzava lungo i vialetti.
    Il cancello ovviamente era chiuso, ma Arthea sapeva che c’era una parte della rete, più in là, che era aperta. Ci era stata una volta con Stiles, da ubriachi di notte, perché lui si era fissato col fatto che le scimmie urlatrici potessero cantare canzoni di Whitney Houston. Quella si che era stata una serata epica.
    Entrò, sorpassando la fontana e la gabbia delle famose scimmie urlatrici. Il suo passo era stranamente leggero e silenzioso. Non ricordava di aver mai camminato così silenziosamente, ma la cosa le piaceva. Era invisibile.
    Una voce, in fondo al sentiero di terra attirò la sua attenzione. Parlava, forse tra sé, forse con le stelle. Quella voce la conosceva. Un brivido le corse lungo la schiena mentre le sue gambe si paralizzarono per un istante.
    Scegli me, ancora una volta.
    Domani, sempre.
    Non sapeva cosa le stesse accadendo. Non era più padrona del suo corpo e dei suoi pensieri. Quella presenza, rivolta verso il cielo era come luce nell’oscurità, troppo abbagliante per avvicinarvisi. Luce di speranza.
    Riuscì ad allungare ancora qualche passo, verso quell’individuo che non avvertiva come una minaccia. William Barrow, una persona che le era rimasta stranamente impressa nella mente.
    “Le stelle non sono infinite. Muoiono, e nessuno si ricorda più la loro luce”
    Sussurrava, ignorando la sua presenza. Quelle parole le ricordavano qualcosa che aveva già vissuto. Una parte della sua vita che aveva dimenticato. Lei era come quelle stelle. La sua luce si era spenta ed era finita nell’oblio. Come lui, come tutto il resto.
    Quella scena sapeva di già vissuto. Come l’Arthea che non si rifletteva nello specchio, ora si celava allo sguardo altrui. Osservava gli altri persi nei propri pensieri vivere la loro vita.
    Vegliava su di lui ancora una volta.
    “E’ per questo che si creano le leggende. Per ricordare ciò che altrimenti verrebbe dimenticato. E anche se alcune stelle muoiono, ne nascono altre a prendere il loro posto. Nulla finisce mai veramente, assume solo forme diverse”.
    Disse con voce bassa, affiancandosi a lui e stringendosi nel giubbino di pelle nero.
    Doveva essere particolarmente alticcia per sparare frasi filosofiche del genere. Oppure, semplicemente, era il suo subconscio a parlare. Parlava di ciò che era stato, di ciò che era. Anche loro avevano brillato una volta, e poi la loro luce aveva assunto forme diverse. Si era nascosta, nei meandri dell’anima.
    E poi vide i suoi occhi e il suo cuore perse un battito.
    Quegli occhi azzurri che l’avevano accompagnata verso il buio. Quegli occhi che avevano cullato il suo respiro in cui erano celate mille parole. Quegli occhi a cui aveva votato la sua esistenza. Quegli occhi brillavano ancora, come le stelle in cielo, eppure lei non li vedeva. C’era come un muro invisibile che le impediva di vedere quanto realmente celassero quegli occhi. Un muro che la separava da tutto ciò che amava. Se solo quel muro fosse crollato, la ragazza nello specchio sarebbe sopravvissuta e avrebbe trovato ciò che cercava. Se solo quel muro non fosse stato così spesso il vuoto che provava si sarebbe di nuovo riempito. Se solo lui le avesse chiesto di nuovo di sceglierlo, lei lo avrebbe fatto.
    Erano così vicini, eppure dannatamente distanti.
    Una stella cadente attraversò la volta celeste, per poi eclissarsi nel buio. Forse il cielo si prendeva gioco di loro. O forse quelle stelle custodivano davvero la memoria di ciò che loro erano stati e gli inviavano un segno. Forse piangevano, davanti alla loro indifferenza.

    Esprimi un desiderio, ora.
    Voglio ritrovare la mia luce. Oggi, come nel giorno in cui gli affidai il mio cuore.


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    william barrow
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    Aspirò il fumo lasciando che si depositasse sulle pareti dei polmoni, veleno strisciante in un corpo già malato. Lo trattenne fra i denti, sulla lingua, quasi a volergli impedire di andarsene. Un capriccio testardo, e sciocco a dire il vero, ma voleva tenero ancora un po’, fin quando non avrebbe bruciato implorando di saggiare l’aria con le sue dita indistinte. A volte di notte, come quel giorno, guardava il cielo sentendosi un idiota: com’era possibile che ci fossero tutte quelle stelle, e che durante il resto della giornata quasi nessuna di loro fosse visibile?
    L’ironia di quel pensiero fece sorridere la sua parte inconscia, quella che aveva memoria di essere stata una stella invisibile ma sempre presente. Anche in quel momento, da qualche parte nella mente di Barrow, esisteva quella stella: non era il sole ad oscurarla, era un buio ancor più vuoto che ne risucchiava la luce. Il William del Carrow’s si ritrovò a sorridere apparentemente senza alcun motivo, incapace di comprendere. Sentiva estranea quella smorfia, plastica, amara.

    Mi perderò, mi spegnerò. Ricordatemi per quella stella.
    Tornerò, mi troverò. Portami a casa. Riportami al mio cuore.


    Lasciò scivolare il fumo dalle narici, sentendo il naso bruciare ed un gusto agrodolce sulla punta delle labbra. Preso com’era dalla contemplazione di quel pensiero che non riusciva a cogliere, non si accorse di non essere solo finchè la voce, bassa e morbida, non giunse alle sue orecchie. Una voce familiare, che sussurrava qualcosa … qualcosa, ad un orecchio troppo sordo. Do ut des. Un calore all’altezza del petto, un peso che lo schiacciava al suolo. Poteva quasi percepire un polpastrello sfregare la sua pelle, laddove il tatuaggio a forma di triangolo faceva bella mostra di sé. Un tatuaggio che non ricordava di aver mai fatto, ma non era una novità troppo sconcertante per William: la metà dei disegni che decoravano il suo corpo, li aveva fatti dopo diverse bottiglie di vodka. “E’ per questo che si creano le leggende. Per ricordare ciò che altrimenti verrebbe dimenticato. E anche se alcune stelle muoiono, ne nascono altre a prendere il loro posto. Nulla finisce mai veramente, assume solo forme diverse” Alzò entrambe le sopracciglia, non provando nemmeno a nascondere il lieve sorriso che aveva incurvato le sue labbra sottili. Gli occhi azzurri seguirono ogni movimento della ragazza, finchè questa non si sedette vicino a lui. Riusciva a sentire fisicamente la presenza di Arthea al suo fianco, come se la giovane occupasse più spazio. Per una frazione di secondo, un infinitesimale battito di ciglia, vide una maschera, un mantello, uno sguardo viola leggero come una libellula. E di nuovo, come qualche mese prima, provò l’insano impulso di allungare il braccio, di stringerle la mano.

    Perché voleva assicurarsi che stesse bene, sentirla viva contro la propria pelle.
    Perché voleva assicurarsi di stare bene, sentirsi vivo contro la sua pelle.


    La conosceva a malapena, eppure al suono della sua voce, un brivido gli era corso lungo la schiena. Si era sentito vuoto e freddo così a lungo, che William non aveva riconosciuto la pura e semplice emozione. È il freddo, si era detto aspirando un altro tiro. Estrasse il pacchetto, porgendolo con delicatezza alla ragazza. “Nulla si crea, nulla di distrugge, tutto si trasforma” Rispose, abbassando le palpebre. “Non sono mai riuscito a crederci: la mia mente non riesce a concepire un’idea del genere, dove niente ha inizio o fine.” Si inumidì le labbra, cercando gli occhi verdi di Arthea nell’ombra della notte. E di nuovo, quel brivido a fior di pelle. Aveva come la sensazione di dover dire qualcosa, di dover addirittura pensare qualcosa, ma era troppo sciocco anche solo rifletterci. Lo sguardo di lei, brillante, lo attirava come un viandante che cerca la strada di casa, illudendosi di veder fiaccole laddove volavano lucciole. “Il problema delle leggende, è che non tutte vengono raccontate. Alcune vengono perse, altre… altre non lo sono mai. Storie, personaggi che svaniscono nell’ombra di un passo troppo lungo” Scosse il capo, soffiando il fumo nella direzione opposta a quella della ragazza. Sentiva il proprio cuore vivo, come non lo sentiva da tempo. Forte contro le costole, abbastanza da risultare doloroso. Cosa gli stava succedendo? L’ipotesi più probabile, tenendo considerata la vita di Will, era un ictus.
    Ma ehi, cerchiamo di essere ottimisti.
    Pensi che noi potremmo diventare una leggenda, un giorno?” Domandò divertito, con un ghigno malizioso ad incurvargli le labbra verso l’alto. Era tutto uno scherzo, nemmeno troppo divertente, per William Barrow. Non c’era un fondo di verità dietro quelle parole, non c’era il desiderio di lasciare un impronta su quella terra arida. Will si trascinava sulla sabbia con l’unico scopo di procedere, senza chiedersi quale fosse la meta.
    Ma non era sempre stato così.

    Mnemosine, io dovrò farti il simbolo sulla nuca: la ragione. E tu… dovrai farmelo sul petto, sopra il cuore: fede.
    15.04
    carrow's district

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    Edited by lama del barrow. - 5/11/2015, 19:34
     
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    Arthea Williams
    ❝But it's so empty living behind these castle walls❞

    Era sospesa, Arthea Williams, nella costante sensazione di cadere. Precipitava nel vuoto, e non aveva nulla a cui aggrapparsi. Apriva gli occhi, ma non riusciva a vedere il fondo di quel burrone. Non sapeva se sarebbe morta, o avrebbe continuato a vivere. Non sapeva nemmeno perché si era buttata. Senza un punto di partenza, senza uno scopo all’arrivo. Era questa la vita di Arthea adesso. Un limbo, senza inizio e senza fine, senza ciglio e senza suolo. Precipitava, nel baratro della sua anima, tra domande che non avevano risposta. Cosa aveva fatto in tutto quel tempo? Cosa l’aveva spinta a non lasciarsi morire per quei lunghi diciassette anni? Inerzia? Spirito di conservazione? Lei non era mai stata così, si conosceva. Non era mai stata un’ameba, un burattino mosso dal fato. Arthea, per indole non si sarebbe mai fatta piegare dalla vita, ma l’avrebbe piegata lei al suo volere. Eppure era lì, in quel momento, a guardare le stelle lontane anni luce, e a chiedersi perché la vita, oltre ogni sua volontà, l’avesse portata lì, in quel luogo, in quel momento, con quella persona. Arthea Williams non era invisibile solo per gli altri. Arthea Williams era invisibile a sé stessa. Forse era per questo, che in quel suo sogno ricorrente, si guardava allo specchio e non si vedeva. Forse la donna con la maschera era una proiezione della sua mente. Forse lei era semplicemente ciò che Arthea avrebbe voluto essere. Qualcuno. Reale. Tangibile.
    E lo avrebbe preso a schiaffi sentendolo parlare in quel modo, perché ancora si ostinava a non vedersi per ciò che era. La stella più brillante di tutte: la speranza, Elpis. Gli avrebbe urlato contro se necessario, avrebbe preso il suo volto tra le mani e si sarebbe tuffata nei suoi occhi azzurri. Lei lo vedeva, come lui non riusciva a vedersi. E sentiva i sentimenti che agitavano il suo cuore molto più forte di quanto non li sentisse lui stesso. E lo amava, anche per questo. E sarebbe stata la sua forza, anche quando non ne aveva per sé. E si sarebbe aggrappata alla sua luce, quando ogni speranza sarebbe sembrata utopia. Ed avrebbe continuato ad amarlo, anche se lui le avesse voltato le spalle. Perché lui era tutto: la sua luce, la sua battaglia, la sua rovina. L’inizio, la fine, la crisalide in trasformazione.
    C’era un muro, tra loro e quelle stelle. C’era un muro tra loro due. Erano dannatamente vicini, eppure lontani anni luce. Era questo il destino di una stella? Poter brillare per secoli ed ere, senza potersi avvicinare a chi l’aveva generata e le aveva dato la luce? Triste, la condanna delle stelle. Se quello era il destino che era loro riservato, allora non voleva essere una di loro.
    “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Non sono mai riuscito a crederci: la mia mente non riesce a concepire un’idea del genere, dove niente ha inizio o fine.”
    Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, diceva Eraclito. Chissà se anche lui, molto secoli prima, si era trovato come loro, a porsi domande guardando le stelle?
    “Beh, non credo sia nell’umana possibilità concepire l’infinito. Se ci pensi anche creare, distruggere, trasformare, sono passaggi pensati per suddividere un concetto troppo ampio, dei paletti messi lì per non impazzire. Non credo esista qualcosa di infinito, ma mi piace semplicemente credere che la fine di una cosa possa costituire l’inizio di un’altra. Un po’ come una fenice insomma…”
    Ok, Keanu doveva aver messo qualche pozione strana in quel cocktail, perché a quei concetti assurdi non aveva nemmeno mai pensato. E poi, proprio lei si metteva a filosofeggiare su quell’argomento, quando era lei stessa a non riuscire a vedere né un inizio né una fine? Proprio lei, che si trovava costretta a dover immaginare l’infinito per non doversi rendere conto che prima o poi si sarebbe sfracellata sul fondo del baratro? C’era incoerenza nelle sue parole. Eppure le pronunciava con tanta sicurezza, come se già avesse visto certe cose accadere: nascere, morire, trasformarsi. Aveva visto nascere la speranza. L’aveva vista morire e l’aveva stretta più forte che poteva. Ed ora quella speranza era di nuovo lì, sotto un’altra forma, senza una luce che la rendesse riconoscibile. Si era trasformata, come diceva Eraclito, ma i suoi occhi non la vedevano. Il suo cuore invece sapeva che c’era, e si aggrappava ad essa con le unghie. Era in contrasto, con sé stessa, con gli scherzi della sua memoria. Ciò che si era trasformato era in contrasto con ciò che era nato e morto. Arthea e Mnemosine non erano più la stessa cosa.
    Se solo i suoi occhi non l’avessero ingannata, se solo il ricordo che aveva assunto come propria arma non l’avesse abbandonata…se solo la divinità della memoria di cui aveva assunto il nome fosse stata benevola con lei avrebbe potuto vederlo. Lui era lì, a pochi centimetri da lei. Il suo tutto e niente, l’amore della sua vita poteva essere toccato, sfiorato, riportato indietro. Se. Solo. Due parole più potenti di una maledizione senza perdono, in grado di condurre la mente ad una dannazione più dolorosa delle fiamme dell’inferno. Era cieca, di fronte a ciò che aveva davanti, di fronte al proprio riflesso nello specchio.
    “Il problema delle leggende è che non tutte vengono raccontate. Alcune vengono perse, altre non lo sono mai. Storie, personaggi che svaniscono nell’ombra di un passo troppo lungo.”
    Fissò per un istante il fumo uscire dalla sua bocca e creare strani disegni nell’aria, addensarsi e poi diradarsi, e infine svanire. Come quelle leggende dimenticate. Come loro.
    Seguiva con lo sguardo i tratti del suo profilo. Il suo naso, le sue labbra, così delicati che quelle parole sembravano quasi fuori luogo dette da lui. Parole estranee, accompagnate da una voce stranamente familiare. Una voce che era in grado di cullarla e riportarla indietro, ad un inizio che non riusciva a vedere. Una voce che aveva pronunciato altre parole, che si erano perse nel vento come quella nume di fumo.
    Ho bisogno di te ragazza mia. Scegli me, ancora una volta.
    “Pensi che noi potremmo diventare una leggenda, un giorno?”
    Domanda strana. Lo guardò con aria interrogativa, cercando una risposta. Una leggenda era qualcosa di troppo grande e lontano per lei. Lei era invisibile, inutile su quella terra. E nessuno avrebbe mai tratto insegnamenti, o valori dalla sua esistenza. Nessuno avrebbe mai voluto essere Arthea Williams. Rassegnazione.
    Fece spallucce, volgendo uno sguardo a lui, uno alle stelle sopra di loro.
    “Non lo so, non credo. Non io almeno.” Sorrise amara. “La leggenda di Arthea Williams non avrebbe nulla da insegnare, nulla da raccontare. Sarebbe vuota di valori, di avventura…e senza questo, che razza di leggenda sarebbe?”. Chiese, più a sé stessa che a lui. Si sentiva come una biglia impazzita, messa su quella terra senza un reale motivo. Esisteva, ma non viveva. Eppure quei suoi occhi, quei suoi dannati occhi sembravano celare di più di ciò che lei riusciva a vedere. Riuscivano a farle passare scosse nel petto, a toglierle il respiro…a ridarle un po’ di quella vitalità che aveva dimenticato di avere.
    “E la leggenda di William Barrow? Sarebbe degna di essere raccontata?”. Chiese poi, volgendosi di nuovo al suo interlocutore, e passandosi distrattamente la mano sulla nuca, là dove il simbolo che le aveva dato la morte sembrava bruciare ancora.
    Si, la leggenda di William Barrow e dei ribelli era degna di essere raccontata. Dedizione, speranza, sacrificio, amore. Era quello che Mnemosine avrebbe voluto raccontare al mondo, affinchè tutti sapessero che c’era ancora speranza, affinchè nessuno smettesse di combattere per la causa a cui avevano votato la vita. Ed avrebbe voluto urlare che c’era ancora luce in fondo al tunnel. Avrebbe voluto spiegare a lui che se non vedeva quella luce era perché era lui stesso a brillare radioso. Avrebbe protetto quella luce, con la sua vita, con il suo cuore. Avrebbe tenuto quella fiamma tra le mani per tutta la durata della sua esistenza, affinchè non si spegnesse. Il suo ruolo in quella leggenda sarebbe stato quello di proteggere la leggenda stessa, di tenerla viva.

    E se avesse saputo che le loro vite non erano finite quel giorno, lo avrebbe stretto più forte, affinchè non se ne andasse, affinchè non la dimenticasse.


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    william barrow
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    Aveva solamente voluto essere libero, William Barrow. C’era chi quel sogno lo teneva vicino al cuore ma nascosto, senza mai aver l’ardire di lasciarlo andare; c’era chi faceva di quel desiderio l’unica ragione per svegliarsi la mattina, e che preferiva non fare nulla per farlo avverare, così da avere ancora qualcosa in cui credere. Will, anni prima, aveva voluto essere libero abbastanza da rischiare; rischiare di perdere tutto, se necessario. Aveva aperto le braccia sul vuoto, ed invece di esserne risucchiato dal nulla, aveva imparato a volare. Aveva sciolto le catene, ogni legame, e si era semplicemente lasciato andare. Era solo un ragazzino, buon Dio! Aveva fatto della sua libertà un filo, che negli anni era diventata una corda; quella corda, Will, l’aveva lasciata scivolare fra le mani di chiunque fosse stato abbastanza saggio, o sciocco a seconda dei punti di vista, da ascoltarlo. Li aveva stretti a sé, indissolubilmente: così era nata la Resistenza, da un filo che aveva avuto il coraggio di lasciare il proprio drappeggio.
    Ma cosa succedeva quando il filo cominciava a sgretolarsi? Sempre più debole, e sottile; non era più in grado di sorreggere una corda, figurarsi tutte quelle persone. Perché, nel bene e nel male, William era riuscito nell’unico intento di cui mai si era creduto in grado: aveva ispirato le masse. Era stato il messia di una nuova generazione, portatore di speranza e di luce. Portatore di un messaggio che sarebbe rimasto a lungo anche dopo di lui.
    Quel dopo di lui, era arrivato prima di quanto credesse possibile.
    Avrebbe voluto dire tante di quelle cose, William Barrow, e se n’era reso conto così tardi. Di quel ragazzo non era rimasto nulla, se non un sapore amaro sulle labbra; quelle parole, Will le aveva ingoiate, inghiottendo con esse l’umanità in cui tanto aveva voluto credere. Avrebbe voluto essere un fratello migliore, un amico migliore, una guida migliore. Un amante migliore, un consigliere più affidabile. Avrebbe voluto essere più di quel sorriso sghembo e quella puzza di sigarette stantie miste a whisky. Avrebbe voluto mantenerle quelle promesse che invece, ormai, galleggiavano nel vuoto della memoria. Sentiva ogni secondo di essere sul punto di fare qualcosa di importante; sentiva ogni mattina che, quel giorno, avrebbe finalmente aperto gli occhi per davvero.
    Sentiva che era tutto finito, ma si rifiutava di crederci. Ah, se solo quel silenzio avesse avuto la voce che gli spettava. Se solo qualcuno non avesse deciso di renderlo l’ennesima pedina su una scacchiera più grande, giocando tutto ciò che il ragazzo era stato, lasciandolo un mero involucro vuoto. Che gli avevano tolto tutto, lo sapevano almeno? La resistenza era stata la sua vita, la sua causa, la sua fede, la sua famiglia. Il suo rimpianto, la sua condanna. Non era rimasto più nulla, dietro le iridi bizzarre del giovane, l’una celeste e l’altra castana come il tronco d’una quercia. Nulla che meritasse d’essere salvato.
    William Barrow era perduto. Aveva perso l’unica cosa che avesse reso utile, se non addirittura buona, la sua esistenza. Un fiore a cui erano stati strappati tutti i petali, nel m’ama non m’ama di qualche ragazzina troppo romantica per prestare attenzione a ciò che le sue dita stavano facendo. Troppo concentrata su sé stessa per capire quanto quel gioco costasse al fiore. Ed era così, nella scelta di un Lancaster, che Barrow aveva cessato d’esistere. Cos’era diventato? Un cazzone, che andava in giro con zio Don cercando di convincersi che la sua vita fosse sempre stata così. Che scriveva a Nathaniel chiedendo compagnia per sbronze moleste, sapendo che Nate non l’avrebbe mai lasciato da solo se c’era dell’alcool. Era diventato ciò che suo padre aveva predetto: un fallimento d’uomo.
    La cosa più triste, era che non gliene fregava un cazzo.
    E come avrebbe potuto? Aveva perso la parte di sé che si preoccupava della reputazione, del rispetto. Teneva ancora ai suoi amici, ed alla sua famiglia. Ma né per loro né per sé stesso sperava in un futuro migliore. La fede, ecco cosa mancava. La fede anche in sé stesso, e non ne era affatto toccato.
    Allora perché quella ragazza lo turbava tanto? Lei toccava qualcosa che Will pensava d’aver dimenticato. Con quel sorriso, Arthea Williams accarezzava la memoria di William, implorandolo di capire. Avrebbe voluto stringerla, affondare le mani nei suoi capelli e non lasciarla più andare via. Avrebbe voluto quel profumo sulla pelle, il suo sapore sulle labbra; perché? Perché sei un marpions, e hai preso tutto dallo zio. La risposta di Donovan Barrow, in effetti, sarebbe stata la più comprensibile: sbattila contro un muro e limonala. Senza domandarsi il perché, di quel brivido a fior di pelle. Non doveva necessariamente esserci qualcosa, d’altronde: era una bella ragazza, Arthea, e lui era un uomo. Eppure. Eppure, non era così semplice, Will lo sentiva. Relegato in un angolo della sua mente, il vecchio Barrow gli gridava di starle lontano: non l’aveva meritata prima, quando ancora era umano, quell’involucro vuoto che si fingeva William Barrow non avrebbe dovuto sfiorarla neanche con il pensiero. Avrebbe dovuto andarsene. Avrebbe dovuto rimanere.
    E dire che non aveva neanche bevuto.
    «Beh, non credo sia nell’umana possibilità concepire l’infinito. Se ci pensi anche creare, distruggere, trasformare, sono passaggi pensati per suddividere un concetto troppo ampio, dei paletti messi lì per non impazzire. Non credo esista qualcosa di infinito, ma mi piace semplicemente credere che la fine di una cosa possa costituire l’inizio di un’altra. Un po’ come una fenice insomma» Le sorrise, la sigaretta che s’alzava con la smorfia delle labbra illuminando fiocamente il suo volto. Come il tempo che scandiva i loro respiri ed i loro battiti: paletto messo lì per non impazzire. Ma non sapeva, il Barrow, se poteva crederci a qualcosa che finiva dando origine a qualcos’altro. Non sapeva se un’idea del genere fosse accettabile: era giusto che qualcosa finisse per lasciar posto ad altro? e se quell’altro fosse stato peggio?
    Forse, non voleva crederci perché in fondo lo sapeva. Sapeva, Will, di essere finito, e di aver fatto di quella fine un nuovo e più tragico inizio. Sapeva che non poteva smettere di essere sé stesso, ma poteva trasformarsi. Annuì, inarcando entrambe le sopracciglia e distogliendo lo sguardo dalla sua figura. «Un modo molto filosofico di vedere la questione. Una fine, un inizio» Aspirò, sibilando sul filtro della sigaretta finchè non sentì il bruciore sui polpastrelli. «Pare anche equo. Ma a volte una fine è semplicemente una fine, e si ritorna al punto di partenza» Un vago sorriso, amaro senza saperne il perché. E noi, Arthea Williams? Noi che cosa siamo? La fine, l’inizio, quel che c’è nel mezzo?
    Vorrei ricordarmi di te. Vorrei aver memoria di aver desiderato di essere un uomo diverso, per te. E invece guardami! Il relitto d’un uomo che avrebbe potuto essere grande, ed invece è diventato l’ombra di sé stesso. Non meritavamo questo, Arthea. Meritavamo un’opportunità, io e te.

    «Non lo so, non credo. Non io almeno. La leggenda di Arthea Williams non avrebbe nulla da insegnare, nulla da raccontare. Sarebbe vuota di valori, di avventura…e senza questo, che razza di leggenda sarebbe?» La guardò a lungo, Will, la guardò come forse non aveva mai guardato nessuno. Cercava in lei ciò che non trovava, né sapeva di cercare, in sé stesso. Allungò una mano verso il viso della ragazza, sistemando una ciocca di capelli castano dietro il suo orecchio. La mano indugiò qualche secondo, così vicina. Avrebbe potuto posarla sulla sua guancia, avvicinarsi e… la ritrasse, spostando gli occhi su quel cielo troppo menefreghista. Non poteva raccontare loro la vera storia di Arthea e Will? Non poteva fare un eccezione, per loro? Avevano sacrificato tutto.
    Avevano perso tutto.
    «A me piacerebbe, chiamiamola… leggenda moderna. Una ragazza normale, con una vita normale, e dei problemi normali. Sempre fonte d’ispirazione. Poi mettiamoci il misterioso ragazzo incontrato al parco, bello e dannato… Potremmo salvare il mondo, magari lo stiamo già facendo» Una piega maliziosa delle labbra, lui che neanche riusciva a capire cosa significasse salvare il mondo. Lui, proprio lui che ci aveva provato fino alla fine, e che alla fine rimaneva con il vuoto a colorare parole prive di significato sulla lingua. Lei, che di normale non aveva nulla. Lei che era speciale, e neanche riusciva a vederlo. Lei che con il solo respirare, era già leggenda. Lei, proprio lei, che aveva scelto lui, proprio lui. Domani, sempre.
    «E la leggenda di William Barrow? Sarebbe degna di essere raccontata?» Will rise rauco, volgendo uno sguardo divertito alla sua compagna di sventure. Fino alla fine, e neanche se ne rendevano conto. William non esisteva, come poteva essere una leggenda? William non era nessuno. Si strinse anch’egli nelle spalle. «Dipende dal pubblico, ma probabilmente no. Niente che valga la pena di essere raccontato. Ogni tanto cerco di immaginarmi una vita diversa…» Si morse il labbro inferiore, ancora quel sorriso ironico sulle labbra. Ed era vero: ci pensava, ad una vita diversa.
    Non migliore, solo diversa. «Anche in quel caso, non diverrei leggenda. Al massimo spauracchio per i bambini, che sarebbe comunque meglio di niente» Ammise infine, soffiando il fumo verso l’alto.
    La leggenda di William Barrow, sfumava nell’oblio. Aveva cessato d’esistere la notte della Testa di Porco, aveva cessato d’esistere quando aveva stretto a sé un’ultima volta Arthea. Aveva cessato d’esistere quando il sacrificio l’aveva consumato.
    Ed era tutto finito.

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    Arthea Williams
    ❝But it's so empty living behind these castle walls❞

    Inanna. Così i babilonesi chiamavano la divinità identificata con le stelle. Chissà se la suddetta li stava osservando in quel momento? Chissà se lei conosceva la loro storia? Probabilmente no. Cosa poteva importargliene, agli dei, di due ragazzi qualunque, che se ne stavano in un parco a filosofeggiare sulla vita? Avevano combattuto per cambiare il loro destino, e quello stesso destino beffardo gli si era rivoltato contro. Li aveva cambiati. Aveva disperso nel vento le loro parole e le loro azioni, e le aveva annullate con la facilità con cui si strappa un fiore dallo stelo. Erano questo Arthea e William, due guerrieri spezzati dall’ascia di un nemico intangibile. Delle loro promesse, solo un eco lontano restava.
    «Un modo molto filosofico di vedere la questione. Una fine, un inizio. Pare anche equo. Ma a volte una fine è semplicemente una fine, e si ritorna al punto di partenza».
    Corrugò la fronte. Stava iniziando a perdersi in quel concetto farneticante sul destino. Eppure, era proprio così. La fine li aveva riportati al punto di partenza, a ciò che erano prima di incontrare la resistenza. Anime erranti alla ricerca di uno scopo per cui vivere. Annuì alle sue parole, poco convinta. In fondo ritornare al punto di partenza avrebbe significato avere un’altra possibilità.
    Una stretta allo stomaco, una disorientante fitta al cuore. Fu questo quello che provò quando William allungò la mano per sfiorarle i capelli. Aveva già provato quella sensazione, ma non ricordava quando e come. Deja vù.
    Scegli me, ancora una volta.
    Speranza, amore, dolore, rimpianto. Tutto ciò era racchiuso in una semplice carezza, in un semplice tocco.
    Do ut des.
    Mnemosine gridava dal fondo del baratro. Chiedeva un’altra possibilità. Chiedeva più tempo. Chiedeva un modo per dirgli che lo amava, e che credeva ancora in lui, anche se quell’amore l’aveva condotta alla distruzione. Voleva dirgli che lo avrebbe scelto di nuovo, che lo avrebbe fatto sempre, perché lui era tutto ciò che la spingeva a lottare. E piangeva, Mnemosine, perché dal luogo recondito in cui era non poteva fare nulla per salvarlo.
    Si sentì quasi sollevata quando lui ritrasse la mano. Quel suo tocco, quel suo sguardo, così tremendamente familiari la mettevano a disagio, e lei non riusciva a spiegarsi il perché.
    «A me piacerebbe, chiamiamola… leggenda moderna. Una ragazza normale, con una vita normale, e dei problemi normali. Sempre fonte d’ispirazione. Poi mettiamoci il misterioso ragazzo incontrato al parco, bello e dannato… Potremmo salvare il mondo, magari lo stiamo già facendo».
    Rise. “Oh, certo. Siamo seduti in un parco. Mi piace salvare il mondo così, non implica il minimo sforzo!”. Fece spallucce. Se tutto fosse stato così facile il mondo sarebbe stato dei pigri. Prese la cosa molto alla leggera, con una superficialità che non ricordava di avere. Forse perché in quel momento, per lei, l’idea di salvare il mondo sembrava pura utopia. Non ricordava i giorni in cui ci aveva creduto per davvero, il sangue e le lacrime versati, i sentimenti, il coraggio. Tutto perduto, in una causa che non esisteva più. Sentiva quel vuoto, ma non riusciva a comprenderne l’origine, né a colmarlo.
    «Dipende dal pubblico, ma probabilmente no. Niente che valga la pena di essere raccontato. Ogni tanto cerco di immaginarmi una vita diversa. Anche in quel caso, non diverrei leggenda. Al massimo spauracchio per i bambini, che sarebbe comunque meglio di niente».
    No Will, tu non sei questo. Sei sempre stato un dannato pessimista con poca autostima. Ma la tua storia merita di essere raccontata. La nostra storia merita di essere ascoltata. Perché tu, Will, hai fatto una scelta. Hai scelto la giustizia, tra ciò che era facile e ciò che era giusto. Hai scelto di lottare, anche se tutto ti era contro. Hai scelto di tagliare i ponti con il passato per diventare qualcosa che nemmeno tu avresti mai pensato di essere. Hai scelto la grandezza, hai scelto la speranza. Ed io ho scelto te, Elpis. E questa è stata la scelta migliore della mia vita.
    Distese le gambe e si appoggiò ai gomiti, respirando l’aria fredda della sera. Si sentiva bene con lui, ed allo stesso tempo in trappola. Era come se lui fosse qualcosa da cui non riusciva a fuggire. Nei suoi occhi c’era l’ombra di qualcosa che la attraeva come una calamita.
    “E come la immagini, la tua vita diversa?”
    Chiese, a quel ragazzo così tormentato dai propri pensieri. Erano simili in fondo. Entrambi scontenti delle proprie vite, e troppo abitudinari per cercare di cambiarle. C’era qualcosa di dannatamente sbagliato in tutto ciò. Qualcosa che nemmeno sforzandosi riusciva a cogliere.
    E c’era lui, così orgoglioso e così spaventato all’idea che qualcuno potesse morire per lui. Sarebbe stata al suo fianco, sempre, cercando di dargli le risposte che lui cercava, anche se nemmeno lei le conosceva. Avrebbe vegliato su di lui, perché nessuno potesse fargli del male. Avrebbe vegliato sui suoi sogni, che a volte non riuscivano a costituire un porto sicuro. Perché di lui si fidava così ciecamente da affidargli il suo cuore. Aveva fatto una promessa, e nemmeno la morte avrebbe potuto infrangerla.

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