The key and the mask

Raphaelbelloribello

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    Arthea Williams
    ❝La memoria sarà l'arma, il tempo il giudice❞
    Cosa succede quando qualcosa di ignoto si porta via una parte di te? E che succede quando non riesci nemmeno a ricordare ciò che eri, prima che quella metà ti fosse strappata via? Ti senti vuota, incompleta, insoddisfatta. Ti senti come un pellegrino, sempre alla ricerca di una meta che non arriva mai. Sempre in cammino, sempre esausta. Arthea si sentiva così, irrequieta. Vedeva le cicatrici sul suo corpo come corpi estranei. Sentiva i suoi ricordi troppo lontani per essere suoi. Ogni giorno sorrideva, come se la sua vita fosse perfetta. E giocava a fare la bambina, quando in realtà non lo era. Si autoconvinceva che una giornata di sole sarebbe stata un buon inizio. Al mondo faceva credere di essere felice…eppure non lo era, e non riusciva a spiegarsi il perché. La sua vita era cambiata, senza che lei avesse fatto nulla per ricevere una svolta. Forse si era semplicemente stufata di tutta quella perfezione e monotonia. Aveva un fratello che amava, degli amici, andava bene a scuola. Eppure, in ogni istante della sua vita si sentiva dannatamente fuori posto. Magari era solo l’età. Il voler cercare uno scopo nella vita, non è forse una tipica turba adolescenziale? Qualunque cosa le stesse capitando comunque, non stava bene. Non era più Arthea da un po’ di tempo. Era diventata qualcosa di diverso. Una delle tante, una goccia in mezzo al mare. Era come se fosse stata altro per un po’, e poi fosse tornata ad essere l’Arthea invisibile di sempre. Si sentiva inutile. Sprecava le sue giornate a fare cose che col senno di poi si rivelavano inutili. Quella situazione doveva cambiare.
    Lasciò cadere la divisa grifondoro su una sedia. Per quel giorno le lezioni erano finite. Fece un lungo respiro annoiato, mentre apriva il baule e ne tirava fuori dei pantaloni verde scuro e una maglia nera che lasciava le spalle scoperte. Lì indossò, insieme a degli anfibi neri. Quei gesti erano quasi automatici per lei, come se lo avesse fatto sempre. Si cambiava d’abito e usciva alla ricerca di una via di fuga dalla routine.
    Uno dei pochi interessi che la smuovevano era quello per la storia. La professoressa Bulstrode le aveva dato il permesso di accedere alla sezione proibita della biblioteca, e da quel momento si era tuffata a capofitto nella lettura. I libri di quella sezione però erano diversi. Presentavano delle discordanze, delle lacune. E spesso parlavano di cose che non venivano insegnate ad Hogwarts. Parlavano di ribellioni represse nel sangue, di maghi mai menzionati dai libri ufficiali, di rivoluzionari che avevano sacrificato la propria vita seguendo l’ideale di un mondo diverso. A volte avrebbe voluto essere come quei personaggi: coraggiosa, idealista, decisa. Ma non era che una ragazzina che non aveva uno scopo nella vita. Un anima in pena che si rifugiava nei libri per trovare una trama da dare alla propria storia.
    Prese il libro “Il processo ad Albus Silente” e la maschera, che aveva ricevuto tempo prima da un mittente anonimo. Chissà chi l’aveva mandata? E soprattutto perché? Non c’era nulla che la legasse a quello strano oggetto, eppure non se ne separava mai. Tenere quella maschera grigia tra le mani, sfiorarne i ricami con i polpastrelli, le dava conforto. A volte la provava e si guardava allo specchio. Si vedeva diversa, come se una semplice maschera potesse davvero cambiarle i connotati, come se potesse renderla un’altra persona. Quell’oggetto ricoperto di stoffa le ispirava tristezza. Era come se volesse raccontare una storia tragica e piena di tormenti, fatta di lacrime e sangue. Sospirò, senza apparente motivo, e la mise in borsa insieme al libro.
    Imboccò uno dei passaggi –non più- segreti del castello, quello che conduceva alla Stramberga Strillante. Si diceva che quello fosse il luogo più infestato della Gran Bretagna, eppure non vi aveva mai incontrato strane entità. Si recava spesso lì ultimamente, senza paura. Era un luogo tranquillo, abbastanza squallido da piacerle, e abbastanza temuto da non essere frequentato. Era il suo rifugio segreto, in cui poteva essere sé stessa, triste quando voleva, senza essere costretta a regalare sorrisi convenzionali. Varcò la porta cigolante, trovandosi in quella che un tempo doveva essere la sala principale. Si sentiva un po’ come da bambina, quando per nascondersi da Jayden si rifugiava nella sua casetta sull’albero. Sorrise a quel pensiero. Il suo rifugio segreto era durato finchè un temporale non lo aveva abbattuto. Quelli erano tempi in cui non era in fuga: i posti segreti servivano solo a sentirsi invincibili supereroi.
    L’epoca dei supereroi e dei giochi era finita, ed ora la giovane donna si trovava in un edificio fatiscente e abbandonato, senza più compagni di giochi che la inseguissero, e senza più sogni da realizzare. Triste, quasi irreale.
    Si lasciò cadere sul pavimento di tavole e il suo cuore perse un battito.
    [flashback]Cadde sulle tavole lignee del pavimento, sentendo il rumore del suo corpo che toccava il suolo, ma senza sentire dolore. L’unica cosa che sentiva era il calore di mani che stringevano le sue, e la tristezza per aver abbandonato quel mondo troppo presto senza aver fatto abbastanza. Poi il buio.

    Si riscosse da quel deja vù, che la scosse nel profondo. Aveva mai provato davvero quella sensazione, magari in una vita passata? Se così fosse stato, doveva aver avuto veramente una vita orribile.
    Appoggiò la schiena contro il muro e respirò profondamente, mentre un mix di sensazioni che non le appartenevano le attraversò lo stomaco e la mente per poi andarsene così come era arrivato. Tristezza, rimpianto, amore.
    Domani, sempre.
    Forse quella casa era davvero infestata. E forse lei, coi fantasmi che si portava dentro, era davvero nel posto giusto.
    Tirò fuori il libro, senza aprirlo, restando per qualche istante a fissare il vuoto. Si aggrappava con tutte le sue forze a quel briciolo di ricordi che affioravano per non lasciarli sfuggire. Ma erano come il vento. Affioravano dal suo inconscio, la turbavano, e poi ritornavano invisibili.
    Mnemosine era invisibile, nascosta tra le ombre dei suoi fantasmi. Arthea era invisibile, nascosta dietro alle apparenze. Ancora una volta, senza saperlo, erano complementari.



    sheet 17 Gryffindor Boh pensieve
    ©#epicwin



    Scusa il post schifo, ma quando provo ad aprire una role la mia fantasia mi abbandona .-.
    nota: la maschera e il permesso speciale della Bulstrode li ha ricevuti per Natale!
    #farafemo
    come ai vecchi tempi *__________*
     
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  2. raphael.
         
     
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    23 - maestro babbano - ribelle - scheda ()

    Il buio era il suo solo compagno. Nella notte, i suoi passi non emettevano rumore. L’asfalto, da tempo, aveva lasciato posto ad una stradina sterrata poco illuminata. Sul lato destro la fiancheggiava un campo sconfinato d’erba troppo alta, mentre a sinistra il livello del terreno scendeva con rapidità per scavare un fossato. Due dita d’acqua erano sufficienti per restituirgli un riflesso instabile della luna. La maglietta nera aderiva sul suo corpo, umida di sudore. Era uscito per una corsa crepuscolare, ma aveva deciso di protrarla più a lungo. Aveva vagato per un po’ senza meta, fino a quando non aveva deciso di recarsi alla Stamberga Strillante. Non vi era un motivo effettivo, in quella sua scelta: forse sperava solo di incontrare una delle nuove reclute, principalmente studenti di Hogwarts, per un paio di chiacchiere. Raphael aveva bisogno d’uscire da quel circolo vizioso che erano le sventure della Resistenza: ogni giorno nuovi gruppi disorganizzati nascevano in tutta la Gran Bretagna, ogni giorno qualcuno finiva, nel migliore dei casi, ad Azkaban. Loro, sotto la guida di Keanu, arrancavano per sopravvivere. La batosta inferta dalla sparizione dei più importanti della squadra aveva lasciato una ferita che stentava a rimarginarsi. Profonda, nella carne.
    La sofferenza non voleva andarsene. Ogni giorno, crudelmente, tramite una notizia sui quotidiani o l’abbandono di un componente, qualcuno pareva divertirsi ad infilare le proprie dita sporche in quell’incisione slabbrata, graffiando e strappando e scavando. La minaccia di un’infezione ogni giorno diveniva più probabile: dinnanzi all’abrasione purulenta, amputare l’arto sarebbe stata l’unica soluzione percorribile. Secessione.
    Per questo era uscito quella sera. Voleva spegnere tutti quei tormenti chiacchierati da Idem e Keanu, voleva ritrovare un po’ di speranza negli occhi di chi, forse, aveva meno esperienza di lui. Anche lui, tuttavia, stentava ad essere sufficientemente preparato. Di certo non lo era abbastanza per quel genere di situazione.
    Percorsa una piccola curva attorno ad una quercia antica, Raph vide finalmente la sua meta, spettrale e fatiscente come d’abitudine. Si calcò per questo il cappuccio sulla testa, celandosi il volto, e rallentò. Per pochi istanti riprese fiato, piegato con il busto innanzi e puntellato con i palmi aperti contro le ginocchia leggermente flesse. Notturno, il suo stato mentale e il paesaggio intorno a sé. Notturno, il suo spirito avvilito e stanco. Notturno, il suo corpo livido reso pallido dall’illuminazione lunare.
    Valicò il cancello, che cigolò per la spinta leggera, e si introdusse nel giardino. I proprietari della dimora, nel corso delle generazioni, avevano utilizzato il vasto giardino collinare, sulla cui sommità sorgeva appunto la casa, come un cimitero improvvisato. Molteplici lapidi rompevano l’armonia di quell’erba apparentemente tosata da poco, da chissà quale fantasma, peculiarmente illuminate da diverse fonti luminosi. Oltre al globo pallido del manto oscuro, su alcune di queste tombe era stato collocato un lumino acceso. Chi lo avesse fatto, non era dato saperlo. I corpi in decomposizione, poi, avevano portato alla generazione di alcuni fuochi fatui che accentuavano ulteriormente il complessivo aspetto spettrale. La cosa non toccò Raph, habitué della Stamberga fin dai propri anni di studio ad Hogwarts, il quale proseguì imperterrito lungo il viottolo ciottolato sulla salita. Arrivato alla porta scardinata, con un gesto rapido estrasse la bacchetta e ne illuminò la punta con una magia non verbale. Entrò.
    Attorno a lui, oltre all’ambiente fatiscente, non vi era nulla, se non un silenzio palpabile, quasi fisico, capace di entrargli quasi nella bocca per mettere a tacere le sue corde vocali. Non si sforzò, comunque, di dire nulla. Fece un giro completo del piano terra, non trovandoci nessuno. Convinto che non avrebbe avuto modo di incontrare nessuno, salì le scale con meno cura, fregandosene dei cigolii che accompagnavano ogni suo movimento. Come in ogni altra occasione che aveva percorso quella breve gradinata, si ritrovò a pregare per sopravvivere ad un possibile collasso dei materiali dall’aspetto tutt’altro che rassicurante. Solo quando arrivò a mettere piede su un materiale più solido si permise un respiro di sollievo: ancora una volta, era scampato alla morte. Del resto, quello era un timore ben più che valido: le probabilità che qualcuno venisse a salvarlo o lo trovasse in quel postaccio dimenticato da Dio – e soprattutto dagli uomini – erano bassissime.
    Attraversò due stanze. Sentì un rumore.
    «C’è qualcuno?» disse, prima di entrare nel locale da dove gli era parso che quel rumore provenisse. «Se sei un fantasma, grazie schifoso mi hai quasi fatto prendere un infarto» riprese poco dopo, parlando in modo da essere riconosciuto da uno dei ragazzi, se di questi si trattava «Se sei un licantropo, sappi che la mia carne fa schifo, ho cenato da McDonalds stasera». Sperando di non ricevere una padellata in faccia, entrò.



    RAPHAEL WARD
    ❝ Rufus, se non la finisci ti taglio i viveri! ❞


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