the wicked bitch

jonathan

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    Rea Hamilton
    ❝i stop fighting my inner demons.
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    L’aria primaverile le accarezzava la pelle ambrata, mentre Rea Hamilton riportava i pensieri a qualche ora prima. Non comprendeva, né aveva mai compreso, la necessità degli uomini di dover dare una spiegazione razionale a tutto. “Perché ti comporti così?” Avrebbe voluto rispondere così come, ragazzo?, ma quel gioco aveva cominciato ad annoiarla: e come i bambini, se la Hamilton si annoiava, riponeva il pupazzo nel cassettone. “La domanda giusta è: perché sei così?” Lo corresse inumidendosi le labbra, mentre un lieve sorriso aleggiava sul volto altrimenti impassibile. Fece scorrere pigramente le dita sulla schiena nuda del giovane, non perchè ne fosse attratta quanto perché poteva farlo. Il potere inebriava, e Rea ne era sempre stata dipendente: sapere che un solo gesto, un solo pensiero, potesse causare una serie di reazioni a catena solo grazie a lei, era per ella un piacere ben al di sopra dell’orgasmo. Il poco più che ventenne di cui nemmeno ricordava il nome gemette, stirandosi sul letto in modo da offrirle una superficie più ampia. “Perché sei così?” Ripetè lui in un sussurro, mentre le dita di lei continuavano a definire i contorni della sua pelle. Lanciò un’occhiata ai sacchetti poggiati alla base del letto, dove una marca rinomata e costosa imprimeva, con il proprio marchio, l’origine di quei doni. Era stato molto semplice: aveva sfogliato il catalogo della nuova collezione, indicato con una crocetta ciò che le sarebbe piaciuto avere, e stretto amicizia con il figlio del proprietario. Un ragazzo carino dai capelli ramati, gli occhi verdi ed un sorriso così ingenuo e speranzoso che se solo la Hamilton avesse mantenuto una moralità intatta, l’avrebbe fatta sentire in colpa. L’avevano accusata più volte di non avere un cuore, o di essere nata priva di anima. Come se una cosa del genere potesse anche solo essere possibile.
    Il cuore batteva forte nel petto, laddove aveva accompagnato la mano del ragazzo perché potesse assicurarsene di persona; l’anima l’aveva semplicemente venduta anni prima al miglior offerente sul mercato. Non le era mai servita.
    Si mise a cavalcioni della schiena del giovane uomo, quasi coricandosi sopra di lui. Prese le sue braccia, carezzandole lentamente, ed infine strattonò il lenzuolo. “Perché” Le labbra a sfiorare l’orecchio, mentre le mani si muovevano veloci ed esperte. “Posso” Concluse mordendo delicatamente il lobo, per poi rialzarsi e sfregare le mani fra loro quasi avesse toccato qualcosa di estremamente repellente. Il biondino tentò di girarsi, ma dopo qualche tentativo si accorse di non riuscire a farlo. “Cosa mi hai fatto?” Rea indossava solamente la sua biancheria e le scarpe, rigorosamente con il tacco. Prese i sacchetti, assicurandosi per l’ultima volta che ci fosse tutto quello che aveva chiesto, infine rivolse nuovamente l’attenzione al letto: il ventre contro il materasso e le mani legate alla testata, il ragazzo la guardava. Malizioso. Pensava fosse un gioco? Sorrise apertamente, aprendo la porta per lasciare il suo appartamento. Quand’era sulla soglia, si fermò giusto il tempo di lanciargli un’occhiata di sottecchi. “Un favore” Rispose semplicemente, uscendo nel corridoio e chiudendo la porta dietro di sè.
    Quella conversazione l’aveva turbata. Odiava che mettessero in discussione le sue scelte, che pensassero di poter trovare una risposta soddisfacente a quel che Rea Hamilton era. Non le interessava che la giudicassero, anzi: il fatto che lo facessero la faceva sentire importante, centro delle attenzione che, a conti fatti, meritava. Ma quelle insulse domande, che continuavano a ripetersi sulle labbra di altrettanti insulsi ragazzi: Perché mi fai questo? Perché non mi ami? Perché sto sanguinando? Bla Bla bla. Ogni cosa che Rea Hamilton faceva, era per un fine, che fosse un nuovo guardaroba o del mero divertimento personale. Ed ogni volta, ogni volta, qualcuno voleva trattenerla. Voleva che rimanesse con loro, che cambiasse per loro. Si sforzavano di vedere del buono dove non c’era, demoni dietro lo sguardo scuro di Rea, senza rendersi conto che la cosa più malvagia che avrebbero trovato in lei, era ella stessa. Prendersi gioco di loro era facile e divertente quasi quanto spezzare il loro cuore, eppure stava diventando monotono. Aveva nuovi obiettivi, Rea Hamilton, non aveva tempo di schiacciare il loro ego sotto l’affilato tacco a spillo… per quanto piacevole fosse. Sia per lei che per loro.
    Doveva essersi distratta, perché sentiva diversi occhi su di sé: uscita dalla casa del giovane, non si era premurata di infilarsi dei vestiti addosso. Si era fasciata di illusione, così come mai aveva potuto fare quand’era ancora una strega, fingendo e facendo credere di indossare degli abiti quando non era affatto così. La Hamilton in grado di fare illusioni: c’era un qualcosa di perversamente ironico, in quella situazione. Peccato non potesse condividere con nessuno quella gioia, dato che chi sapeva del suo potere, o non la conosceva o non poteva più parlare. Ops. Alzò gli occhi al cielo, ignorando le occhiate dei passanti. Ormai era arrivata a destinazione. Bussò alla porta bianca, ancora semi nuda con ancora i sacchetti sotto braccio. Quando la porta si aprì, la Hamilton sorrise. Il sorriso di Rea, era sempre qualcosa di stupefacente, e non perché fosse particolarmente bello (cosa che, comunque, era). Era vuoto. Era come lei. “Quasi-Magia-Jonny” Salutò cordiale, inclinando il capo innocentemente. Rea, che di innocente non aveva nemmeno il nome, fece spallucce. “Nulla che tu non abbia già visto, in ogni caso” Specificò accennando all'interno della casa, nella muta richiesta di invitarla ad entrare.
    E poi osavano dire che mancava d'educazione.



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    Edited by #epicWin - 5/5/2015, 11:49
     
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    Jonathan Borja
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    Uno sbuffo uscì dalla mia bocca quando lo sguardo si posò all'interno del bicchiere di vetro, notando quanto fosse vuoto quest'ultimo. Nemmeno una goccia di whisky era rimasta al suo interno, lasciandomi da solo sul divano in pelle, senza alcuna compagnia, a guardare il fuoco del finto caminetto danzare ancora, e ancora. Non mi dispiaceva, stare da solo lì, in quell'appartamento arredato molto sobriamente, a passare le vuote giornate in compagnia di me stesso; mi dispiaceva quando finiva l'alcool, quello era brutto. Poggiai la gamba che era accavallata sull'altra a terra, e spingendomi con la schiena mi alzai dal comodo sofà nero, percorrendo il salotto dell'abitazione a passi molto lenti, con il bicchiere ancora in mano. Rimbombava nell'appartamento l'eco dei miei piedi che si muovevano sulle piastrelle trascinando il mio corpo alla ricerca di qualcosa. Ma cosa? Ormai quel luogo lo conoscevo a memoria: l'ultimo regalo di quello spilorcio di mio padre, così tanto attaccato al potere da rifiutare un figlio senza colpe, che sentendosi minimamente in colpa, forse, decise di scucire qualche sterlina in più per accomodarmi, lontano da loro ovviamente. Cercavo, cercavo, ma quello che trovavo non era quello di cui avevo bisogno. Avevo bisogno di agire, di fare qualcosa da quando il mio lavoro al Ministero si limitava a dover incontrare clandestinamente babbani o maghi come me per l'uno o l'altro motivo. La vita in quella piccola casa iniziava a diventare monotona, scialba, nonostante l'amassi. Amavo la solitudine, o la compagnia di pochi eletti, ma forse era proprio il clima di quell'abitazione ad importunarmi; l'idea che me l'avesse, per così dire, regalata mio padre iniziava a disgustarmi. Quanto meno, avevo un tetto sotto il quale dormire, ma me ne sarei sbarazzato presto, ne ero sicuro. Avrei vissuto la mia vita da solo e solo grazie a me stesso. Non mi interessava più l'eredità, quella poteva tenersela Caesar, e non mi interessavano più tutti i grandi benefici che il cognome Borja continuava a portare con sé. «Fanculo» L'espressione mi uscì a mezza bocca e sovrappensiero mentre, trovato quello per il quale mi ero alzato dal divano, con noncuranza aprivo una nuova bottiglia di Jack Daniel's, mentre la vecchia giaceva ancora sul tavolo della cucina, vuota come il bicchiere che ancora tenevo in mano. Mi fermai di fronte alla vetrata aperta dove avevo preso l'alcolico e riempì quell'empio spazio di vetro che mi avrebbe ancora fatto da silenziosa compagnia in quel pomeriggio noioso di primavera, ma non riposi il contenitore al suo interno: la tenni in mano, alzando le spalle come a dirmi "perché no?", d'altronde non attendevo visite, se non per il giorno seguente, quando avrei visto il mio caro fratello che voleva a tutti i costi passare a fare un saluto, né avevo impegni di alcun tipo sarebbe stata un'altra giornata di apatia sociale. Una giornata di ripensamenti, di ricordi e quant'altro che in qualche modo andavano fermati. E io, a venticinque anni ormai, di modi per fermare il flusso continuo di pensieri era l'alcool. Dopo aver accuratamente posato la bottiglia sul tavolino basso antistante al divano, mi sedetti nuovamente all'angolo destro di esso, il mio preferito, poggiando la testa sul morbido schienale mentre la mano destra, adagiata sul bracciolo, teneva il bicchiere pieno a metà. Lo portai alla bocca più volte, estrapolandone ognuna di queste un sorso, breve, e sentendo e degustando il gusto pungente ed il retrogusto amaro del whisky, mentre mi accaldava piacevolmente gola e petto, rilassandomi. Quando il bicchiere fu nuovamente vuoto, ero ad un passo dal riempirlo un'altra volta, e ad un passo dallo sdraiarmi completamente sul sofà, schiacciando un pisolino aiutato dal torpore causato dal Jack. E fu proprio quando le mie gambe si erano distese completamente, accavallandosi l'una sull'altra, ed avevo dato l'arrivederci alla mia amica dalla forma rettangolare, che capì che non avrei avuto pace. Nel momento stesso in cui chiusi gli occhi, un rumore si propagò nell'atmosfera. Bussavano. Mi sedetti, riempì il bicchiere - era l'alternativa al dormire, d'altronde. Ma dovevo aspettarmelo, Londra non ha pace, è frenetica, e i venditori ambulanti sono pronti a sfracellarti i cosiddetti con un martello pneumatico a qualsiasi ora del giorno, e anche della notte. Avevo detto più "no" in meno di un anno di soggiorno lì che in tutta la mia vita, e in tutte le mie vite precedenti. Maledetti, sempre pronti con le loro attrezzature babbane, soprattutto quei... Come si chiamavano... Ah, gli aspiracosi. O, se non erano venditori ambulanti, erano ciccionissimi bambini scout con i loro carrellini strapieni di biscotti che facevano anche schifo. Ma peggio ancora, poteva trattarsi dei Testimoni di Geova, quel branco di religiosi che ritenevano opportuno suonare il campanello per parlarti del loro Credo. "Io non credo, ok? Ok." Mi ero stancato di ripeterglielo ogni santissima volta, la prossima li avrei uccisi, se solo avessi avuto ancora la mia bacchetta. Mi avvicinai alla porta in legno di quercia bianca, iniziando a parlare già da prima di trovarmi nelle sue più strette vicinanze. «Se siete rivenditori, scout, testimoni di Geova o quant'altro, and...» Ma mi interruppi, interruppi il suono della voce calda che era così tanto contrastante con il gelo che trasmettevano i miei occhi, quando aprì la porta. Restai a bocca aperta, pensando a quanto mi ero potuto sbagliare per tutto il tempo. Esitai un poco, prima di ricambiare un divertito sorriso a Rea Hamilton. «Qual buon vento, Rea?» Le chiesi, spostandomi di lato in modo da farla entrare. «Di certo molto forte, deve averti portato via i vestiti strada facendo» Aggiunsi, con una punta di sarcasmo. “Nulla che tu non abbia già visto, in ogni caso” Oh, senza dubbio. La invitai a seguirmi nel piccolo soggiorno dal quale poco prima me ne ero andato, prendendo posto su una poltrona affianco al divano. Invitai la donna a fare lo stesso, nonostante non potessi quasi trattenermi dal sbottarle a ridere in faccia. «Cosa posso offrirti? Ho whisky, birra, vino, cibo... Ah sì, ho anche vestiti, ma ti trovo a tuo agio così, in ogni caso» Incurvai le labbra in un sorriso malizioso, continuando a sostenere il suo sguardo, anche se la tentazione di far scendere il mio a perlustrare le curve del suo fisico era molto, molto forte.


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    Edited by OrjaBorja - 10/8/2015, 00:50
     
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    Rea Hamilton
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    Rivenditori. Come se la merce made by Hamilton fosse in vendita. In che razza di mondo erano finiti, se ogni bussare alle porte accendeva nel proprietario la spia testimoni di Geova? Sicuramente un mondo nel quale i coniugi Hamilton si trovavano a loro agio, con la certezza che sulla Terra –seppur in modo palesemente errato perché diverso dal loro- qualcuno parlava ancora di Dio senza che nella frase vi fosse un’imprecazione post o antecedente. “Qual buon vento, Rea?” Ricambiò il sorriso socchiudendo leggermente le palpebre, per poi superare con un rapido scuotere della chioma corvina Jonathan Borja. Una volta che fu in casa si guardò attorno con interesse, delusa dall’arredamento pacchiano o al contrario troppo minimal del francese. Non era una bella accoppiata, qualcuno prima o poi avrebbe dovuto dirglielo. “Di certo molto forte, deve averti portato via i vestiti strada facendo” *lord take me now* Gli diede le spalle, alzando gli occhi al cielo e chiedendosi, nel mentre, quale fosse il motivo che spingeva gli uomini a trovare determinate battute divertenti. Quando si volse, riportando l’attenzione sul Borja, stava però sorridendo innocentemente. “Ecco perché sentivo un po’ freddo” Arricciò il naso, poggiando i sacchetti per terra. Lo osservò distrattamente mentre prendeva posto, e la invitava a fare lo stesso. Che gentleman. Era sempre stato un bel ragazzo, Jonny, ed era stato quello a spingerla a sedurlo, anni or sono. Non aveva mai nascosto il suo amore per la bellezza, ed il bisogno capriccioso di possederla. Non che ci fosse voluto poi molto charme, con Jon: ma quella era un’altra storia. Erano passati rapidamente dal non conoscersi, al conoscersi quel minimo che bastava per intrattenere un rapporto di amicizia (nome, indirizzo #ohohoh), al non conoscersi nuovamente. Non erano amici, ma d’altronde era impossibile essere amici di Rea Hamilton. Non c’era però alcun imbarazzo da parte della donna, né concernente la sua palese mancanza di pudore, né per l’intrattenere qualche convenevole. Dopotutto non era lì per amicizia, per Rea erano affari. “Cosa posso offrirti? Ho whisky, birra, vino, cibo... Ah sì, ho anche vestiti, ma ti trovo a tuo agio così, in ogni caso” *lord take me now parte II* Si inumidì le labbra, ticchettandosi il mento con l’unghia ben curata dell’indice. E sorrise, la Hamilton, perché quello era il suo campo. “Puoi guardare se vuoi” Rispose innocentemente, invitandolo dare un’occhiata. Ed eccola lì, l’ironia sottile della Hamilton che nessuno sapeva mai classificare: diceva sul serio o stava solo scherzando? Impossibile capirlo, guardando le labbra lievemente incurvate e gli occhi socchiusi della ragazza. Ed era quella la parte divertente del gioco. “Ti sto mettendo a disagio?” Punzecchiò nuovamente, inarcando entrambe le sopracciglia e piegando il capo verso destra. Mettendo un qualsivoglia vestito floreale, possibilmente kitsch, con quell’espressione avrebbe potuto passare tranquillamente per Charlie. Una volta che accetti di averla persa, fingere l’innocenza è un gioco a carte scoperte. La Hamilton era una ragazza particolare, lo era sempre stata, ma non per quello cattiva. Aveva sempre avuto ben chiaro cosa volesse, e aveva sempre saputo come riuscire ad appropriarsene. L’unica cosa che non era riuscita ad avere, per quanto l’avesse desiderato, era la sua famiglia. Ma erano tempi diversi, era una ragazza diversa, ed ormai quel pensiero non le procurava nemmeno un briciolo di nostalgia. Sapere però che Charlie era lì da qualche parte, la infastidiva oltremodo. Continuava a ripetersi che si trattava di mero egocentrismo, che la gemella le avrebbe rovinato la reputazione, rubato quel faretto da palcoscenico che si era conquistata con tanta fatica. Ma sapeva, seppur non l’avrebbe mai ammesso nemmeno con sé stessa, che quel fastidio era dovuto ad un mondo troppo corrotto per Charlotte. Avevano toccato sua sorella, fatto degli esperimenti su di lei: solamente Rea poteva avere l’onore di far del male alla ragazza, un onore dovuto agli anni passati insieme. L’istinto di protezione che avevano coltivato da bambine non era del tutto assopito, ma solo confuso da una nuova Hamilton che trovava quel sentimento così sbagliato su di sè. Battè le palpebre. “Se ti dicessi che mi mancavi?” Domandò seria, realmente interessata alla risposta del giovane. Poi decise che, in fondo, non era realmente importante ciò che avrebbe detto: le priorità erano altre, e per quanto la mente umana e le sue elaborazioni fossero interessanti, non era il momento di un po’ di sano divertimento. “Mh, non è credibile nemmeno alle mie stesse orecchie” Concluse quindi alzando le sopracciglia ed inumidendosi le labbra. Era un dato di fatto, e non si sentiva dispiaciuta per quel suo essere così adorabilmente stronza. “Sono qui per lavoro. Recentemente ho cambiato piano al Ministero, un salto –letteralmente- da un piano all’altro: da Pavor a Cacciatrice. Babbani speciali, maghi modificati. Dovrebbe suonarti familiare” Sorrise sorniona, prendendo un paio di pantaloni neri, a sigaretta, dal sacchetto. Li indossò senza tanti complimenti, cercando una camicetta da abbinarvi mentre aggiornava Jonathan sul motivo che l’aveva portata a bussare alla sua porta. “Dovrei controllare ogni persona sull’indice” Pronunciando l’ultima parola mimò le virgolette, voltandosi solo per lanciare un’occhiata di sottecchi a Borja. Agguantò una canottiera scarlatta, di un tessuto morbido e liscio come seta, decorata con del pizzo sulla schiena. Una volta che fu –finalmente?- vestita, si sedette sul divano. “Ma non sono qui per questo. Mi piacerebbe però sapere della tua esperienza… geocineta, se non sbaglio. Ah, e del vino andrà benissimo. A meno che non sia tavernello, nel caso penso sceglierò il whisky” Arricciò il labbro, invitandolo con un languido cenno della mano ad offrirle da bere.
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    Edited by #epicWin - 5/5/2015, 11:49
     
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    Jonathan Borja
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    Seguii ogni suo movimento con la coda dell'occhio, vedendola attraversare l'uscio, voltarmi le spalle - e non solo #mlml - con visibile aria sconsolata, per poi rivolgermi un amabile sorriso. Il suo solito, amabile sorriso. Rea Hamilton non era cambiata di una virgola, da quando la conobbi. Bella, molto più che bella. Chiunque si perdeva ad ammirare il suo corpo perfetto, il suo portamento, la sua eleganza. E lei lo sapeva di essere bella, eccome! Amava esserlo, amava sfruttare la sua bellezza in tutti i modi nei quali poteva farlo - ad esempio, presentandosi a casa di qualcuno nuda, ma ok - per raggiungere quello che più desiderava. Era una mia impressione, anche se non potevo essere l'unico a pensarla in quel modo. “Ecco perché sentivo un po’ freddo”, certo, come se non se ne fosse accorta, di essere priva di alcun indumento. Posò le buste a terra proprio mentre mi sedevo, ma lei indugiò, ancora in piedi vicino ai suoi sacchetti. “Puoi guardare se vuoi” Sorrisi alla donna: proprio quello che intendevo, quando parlavo di quanto fosse vanesia Rea. Incurvai, di nuovo, leggermente le labbra in un mezzo sorriso, accavallando le gambe in una comoda posizione e affondando di più nei cuscini della poltrona. «Non ho bisogno del tuo permesso per farlo» asserì, ammiccandole. Se volevo prendere qualcosa, o se la volevo fare, semplicemente la facevo, la prendevo, senza sottostare al volere di nessuno. Lei lo sapeva, bene o male un po' mi conosceva - o meglio, ci conoscevamo, prima di perdere i contatti. Lei era sparita, io ero sparito, tutto qui. Non che a nessuno dei due importasse più di tanto, ovviamente: entrambi stavamo bene da soli. O meglio, io stavo bene così, lei sembrava farlo, ma era tanto bella quanto enigmatica. “Ti sto mettendo a disagio?” Lasciò cadere la testa, piegandola a destra e portando dietro con sé i castani capelli, guardandomi con un'innocenza che non le apparteneva. Inizialmente stupito da quel cambio repentino d'espressione, inarcai un sopracciglio, guardandola in modo un po' inquietato. Si stava preoccupando di mettere a disagio qualcuno? Si stava preoccupando per qualcuno? Lo stesso pensiero era idiota, e quando lo riconobbi alzai e riabbassai velocemente le spalle, come a dirle che non mi interessava. «Affatto. Puoi benissimo restare così, se la situazione ti aggrada». Di certo, io non avrei opposto resistenza. Poi, guardandola, di colpo mutò ancora. Ora, era seria. Suvvia Rea, deciditi. Con il gomito poggiato sul bracciolo della poltrona, portai la mano destra davanti al viso, massaggiandomi con il pollice ed il medio le tempie, ascoltando attentamente la sua domanda. Davvero mi stava chiedendo che potevo esserle mancato? O aveva subito un forte trauma cranico, oppure qualcuno si stava divertendo con la Polisucco. Era così ridicola come domanda che mi lasciai sfuggire una risata divertita, togliendo la mano da davanti gli occhi e passandola tra i capelli. «Ti direi che so riconoscere chi mente» affermai, ma nemmeno lei sembrò credere veramente alle sue parole, screditandosi da sola. Era così, lei, prendere o lasciare. E anche se la prendevi, non potevi mai stare sicuro di tenerla: illudeva le persone, si prendeva gioco di loro, sempre. “Sono qui per lavoro. Recentemente ho cambiato piano al Ministero, un salto –letteralmente- da un piano all’altro: da Pavor a Cacciatrice. Babbani speciali, maghi modificati. Dovrebbe suonarti familiare” . Lentamente abbassai lo sguardo seguendo il suo corpo che si piegava, andando a recuperare qualcosa dai sacchetti. Pantaloni, peccato. «Pssst» Attirai la sua attenzione, indicando i pantaloni. La sua bocca continuava a muoversi, e io l'ascoltavo, bene o male, così sussurrai per non sembrare inopportuno. Ma non mi interessava veramente, se passavo per maleducato. «Stai meglio senza». Sorrisi, mentre sosteneva di dover spuntare i nomi di un certo indice. Alzai gli occhi al soffitto. Il Ministero faceva bene a fare quel tipo di lavoro, ma voleva seriamente controllare qualcuno che aveva servito il Governo prima dei fatti accaduti? Ingrati. Fortunatamente, non era lì per controllarmi. “Mi piacerebbe però sapere della tua esperienza… geocineta, se non sbaglio. Ah, e del vino andrà benissimo. A meno che non sia tavernello, nel caso penso sceglierò il whisky” concluse, finendo di vestirsi. Mi alzai sbuffando diretto verso la credenza più vicina, senza però rivolgerle prima un'espressione imbronciata, come a farle capire che ero veramente dispiaciuto del fatto che si fosse vestita. Non spiccicai parola durante la ricerca del vino, lasciandola lì in attesa, mentre probabilmente si era già accomodata sul divano. Di certo, di Tavernello non ce n'era. Purtroppo, però, non vi era molto altro da offrire, se non una bottiglia ancora chiusa di Pinot Bianco, che dall'etichetta sembrava provenire dal Friuli, in Italia. Non controllai altro e la stappai, prendendo due ampi bicchieri e tornando vicino alla ragazza. «Geocinesi, giusto». Versai il vino nel primo bicchiere e lo porsi alla ragazza, per poi fare lo stesso, ma tenendomelo. Poggiai la bottiglia su il tavolo basso che separava il divano dalla poltrona e mi sedetti con essa, accavallando nuovamente le gambe. Bevvi un sorso, senza distogliere lo sguardo dalla donna. «Cosa ti interessa sapere? Come faccio crescere i fiori» il potere più inutile «o come faccio tremare la terra?» meno inutile, in effetti. Poi, detto in quel modo, sembrava anche più figo di quanto non fosse in realtà. «Tu invece, dimmi di questo salto di qualità» Era indubbio che avrebbe fatto carriera: era un'abile strega, capace, e sapeva usare bene le carte del proprio mazzo.


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    Edited by OrjaBorja - 10/8/2015, 00:50
     
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    Rea Hamilton
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    Per quanto poco potesse apparire, Rea Hamilton amava molte cose. Certo, la lista era occupata per metà da sé stessa – i suoi capelli, il suo sorriso, il suo essere così… Rea Hamilton- , ma esisteva anche altro: i confetti, le amarene, le rose, il rosso, gli specchi, i mobili antichi, i vestiti di foggia classica. Delle persone amava ben poco, anche se sapeva apprezzare più di quanto ammettesse ad alta voce: ammirava la leadership, l’ingegno, l’astuzia; ammirava il portamento, le risposte sibilline, gli sguardi che dicevano tutto tranne quello che avrebbero voluto dire davvero. Ma le cose che più apprezzava, a seconda dei giorni, erano due: le persone con cui giocare, e quelle che non la obbligavano ad intavolare stupidi e superficiali convenevoli. Solitamente prediligeva le prime, inebriata dalla dolcezza di tenere i fili del burattino, ma quando si trattava di lavoro preferiva sempre andare al sodo. Non bisognava mai confondere lavoro e piacere, a meno che non si creassero situazioni particolarmente favorevoli …più per lei che per l’altro. Se si era recata a casa di Jon, quel giorno, non era certo per godere della sua piacevole compagnia – se avesse voluto una compagnia piacevole, sarebbe rimasta da sola- , per quanto un tempo si fossero divertiti. Bisognava avere delle priorità, degli obiettivi lungimiranti. Non ricordava con esattezza il momento in cui era diventata così cinica, quando aveva strappato brandelli della sua anima alla ricerca di un cuore che aveva scoperto infine di non possedere. Non ricordava quand’era diventata mero strumento, dimenticandosi di essere umana. In un altro mondo, in un’altra pelle, Rea Hamilton avrebbe potuto essere completamente diversa dalla donna che, priva di abiti, aveva bussato alla porta del suo vecchio amico. Magari, a braccetto di Charlie, si sarebbe divertita a confondere i passanti; magari si sarebbe presentata ai suoi appuntamenti, giusto per giudicare se fossero o meno adatti alla compagnia di sua sorella. Avrebbe frequentato un college importante, sarebbe entrata in politica. Se Rea Hamilton non fosse stata così sbagliata agli occhi dei suoi genitori, avrebbe potuto fare grandi cose. Quand’era piccola era stata la bambina più vivace ed allegra del vicinato; trascinava sua sorella a giocare in cortile anche quando fuori pioveva, costringendo poi entrambe a nascondere le prove in modo che i loro genitori non lo scoprissero; si arrampicava sugli alberi per raccogliere la pallina da tennis che i suoi vicini –ogni giorno- vi incastravano giocando con il cane. Rideva spesso, rideva per poco. Le uniche mani che aveva stretto, fosse stata sua sorella o una bambina al parco, le aveva strette per conforto, per quell’infantile sentimento d’affetto che, sulla soglia dei venticinque anni, non ricordava nemmeno più che aspetto avesse. Nel tempo non era cambiata lei, era cambiato il modo in cui gli altri la vedevano. Prima un mostro, un abominio; poi una reietta. Ed aveva allontanato Charlotte, assuefatta allo sguardo terrorizzato di sua madre. La piccola Rea Hamilton aveva cessato d’esistere a sei anni, lasciando il posto a quel guscio vuoto che con orgoglio la donna si trascinava dietro ogni giorno. Aveva deciso di dare un motivo, una spiegazione, allo sguardo di sua madre; aveva deciso che mai più si sarebbe affidata a qualcuno, che a nessuno avrebbe donato un pezzo del suo cuore. E nel momento in cui l’aveva pensato, si era resa conto che un cuore non l’aveva più. Che era vuota, come uno di quei burattini che tanto amava paragonare a chiunque si piazzasse sul suo cammino. Aveva gioito delle disgrazie altrui, spesso afflitte da ella stessa; aveva invitato la mano ad avvicinarsi alla fiamma, promettendo che non avrebbe fatto alcun male. L’aveva guardata bruciare, quella mano, danzando nella cenere.
    Qualcuno, nel progredire degli anni, aveva avanzato l’ipotesi che fosse direttamente proporzionale alla possibilità di amare: quando Rea si rendeva conto di stare per cedere alla tentazione, stroncava il desiderio sul nascere –assieme a qualche testa. Dio, quanto amava bearsi di quell’ingenuità. Lasciar loro credere che si trattava di difesa da un sentimento che avrebbe potuto provare nei loro confronti, facendoli cullare nella convinzione che avrebbero potuto farcela ma avevano fallito, come avrebbero fallito miseramente in ogni cosa nella loro altrettanto misera vita. Si trattava di un altro filo nella tela della vedova nera: troppo sottile per essere osservato da un occhio inesperto, abbastanza da risultare tagliente. Jonathan Borja non era valso nemmeno quel sadico desiderio di dolore. Non sapeva con esattezza se fosse perché non ne valeva la pena, o perché sapeva che un giorno avrebbe potuto tornarle utile, o, ancora, perché in quel gioco era abbastanza bravo da risultare divertente anche senza la parte in cui gli spezzava il cuore. Abbastanza, chiaramente, significava non quanto lei. Nessuno era mai alla sua altezza, ed era un disonorevole vanto. Bisognava essere delle persone davvero insensibili, per arrivare a tanto. Rea non vedeva più uomini o donne di fronte a sé, vedeva solamente pezzi di una scacchiera: e quando una pedina le impediva di arrivare allo scacco matto, la sacrificava più che volentieri. Rimaneva solo da vedere se quasi magia Jonny era un pedone o una torre.
    Ignorò le battutine del compare con una scrollata di spalle ed un sorriso enigmatico, ben conscia di essere bellissima sia con i vestiti che senza. Forse avrebbe dovuto ridere coprendosi la bocca con la mano, schiaffeggiandolo delicatamente su una spalla per punirlo di una tale audacia. Ma come poteva se, in fin dei conti, aveva ragione? Inoltre non v’era più quel velo di pudore che, forse, avrebbe potuto presentare con qualcuno che non conosceva. Aveva già visto tutto, sarebbe stato alquanto imbarazzante fingere che non fosse mai successo. Mentre Jon cercava il vino, Rea rimase in silenzio, incrociando le gambe con aria pensosa. Superfluo sottolineare che la sua mente era centrata su sé stessa, l’unica sulla quale si poneva degli interrogativi interessanti. Ad esempio, era davvero la stronza che tutti credevano fosse? Nessuno le aveva mai dato modo di comportarsi in maniera diversa, d’altronde. La incolpavano di qualcosa che loro avevano costruito e modellato, come se fosse stata colpa sua. E quel cuore che tanto si convinceva di non avere, davvero non le pesava sul petto? Le convenzioni le avrebbero risposto di sì, traendo come pro il fatto che mai, Rea Hamilton, avesse perso la testa per qualcuno. C’era anche da dire che il genere d’uomo che prediligeva come passatempo, o come garanzia per un futuro più aureo, non avevano propriamente l’animo del principe azzurro – vedi Damian, vedi Jon, vogliamo davvero continuare la lista?-. Anzi, nelle sue fiabe metropolitane lei era il principe azzurro, e loro le principesse che le permettevano di raggiungere uno scopo. Le passò innanzi, in un battito di ciglia, un viso ovale dai tratti dolci, la carnagione baciata dal sole ed un paio di penetranti occhi color cioccolato. Per quanto Rea amasse sé stessa, e quel viso inesorabilmente glielo ricordasse, non si trattava del suo. Con un battito di ciglia decise che la cosa non le importava particolarmente, che non aveva alcuna rilevanza né, una tale effimerità, poteva essere una prova a favore della domanda. Che Charlotte Hamilton, per Rea, non era nulla. Mai avrebbe creduto a quella vocina, seppellita da anni di menzogne, che le ricordava quanto l’avesse amata, quanto tutt’ora l’odio fosse generato dalla paura. Rea Hamilton non aveva paura. Mai avrebbe creduto a quella vocina, seppellita da anni di sorrisi sardonici e sguardi maliziosi, la quale affermava che, in fondo, nelle teorie sul suo conto c’era un fondo di verità: che quando amava qualcosa finiva per piegarlo, rattopparlo e poi spezzarlo, prima che quel qualcosa potesse farlo con lei. Rea Hamilton non amava. E, per rispondere alle sue domande, no: Rea Hamilton non aveva un cuore, perché aveva deciso di non averlo.
    Prese il bicchiere sbattendo languidamente le ciglia, senza sprecarsi di ringraziare. Lo portò alle labbra, sorseggiando con delicatezza il vino, mentre Jon le parlava del suo potere. “Cosa ti interessa sapere? Come faccio crescere i fiori o come faccio tremare la terra?” Si passò un dito sul labbro inferiore, raccogliendo una goccia della bevanda con aria distratta. Geocinesi. Un potere utile, sicuramente avrebbe fatto comodo nel suo arsenale. Rea aveva scelto quel lavoro proprio con lo scopo di trovare talenti, persone come lei che volevano vendetta, o che semplicemente, nel caso, avrebbero colto la palla al balzo. Persone che non si sarebbero fatte pregare, che avrebbero imparato ad usare il loro potere nel modo giusto. La sua intenzione era quella di riunire quanti più esperimenti possibile, avvicinarsi a loro abbastanza da farsi credere loro amica; sarebbero stati i suoi assi nella manica in caso di necessità, e lei avrebbe permesso loro di conoscersi, di integrarsi in un mondo che li credeva spazzatura. Li avevano usati. Li avevano torturati. Quello che aveva in mente per i Dottori, e per chiunque avesse azzardato anche solo una parola malvagia contro gli esperimenti, era molto peggiore. Sorrise sorniona, piegandosi in avanti come se avesse voluto svelargli un segreto. “Per quanto la tua capacità di far sbocciare fiori mi commuova, se fossi stata interessata alle margherite avrei cercato Heidi” Inclinò il capo da un lato, tornando a poggiarsi comodamente sullo schienale del divano. Liquidò la sua domanda con un cenno della mano: amava parlare di sé stessa, ma amava ancor di più saltare i convenevoli per andare al sodo. Osservò con attenzione Jonathan, squadrandolo dai capelli corvini alla punta dei piedi. Non si fidava di lui, Rea non si fidava di nessuno, ma lì in gioco non c’era fede, né amicizia. Erano affari. E se Jonathan la conosceva un minimo, se aveva prestato orecchio a ciò che si diceva su di lei, non avrebbe mai tradito un suo segreto. Non conveniva far arrabbiare una Hamilton. Eppure, qualcosa la frenava. Si morse l’interno della guancia, bevendo un sorso di vino. “Ho cambiato priorità” Rispose infine, rivolgendogli uno sguardo carico di allusioni che Jon non poteva cogliere. “Vedi, Jonny… I maghi vogliono sottomettervi al loro volere, piegare i vostri poteri in modo che non possano oscurare i loro. Siete una minaccia, una bomba ad orologeria. Non vi insegneranno mai come utilizzare il vostro potere, né vi aiuteranno a trovare uno scopo. Fortunatamente per voi, io non sono una strega qualsiasi” L’accenno di un sorriso, una scintilla dietro gli occhi scuri che parve scaldarli come lava color caramello. “Non penso che siate solo degli esperimenti, voi siete qualcosa di più. Potete cambiare le cose, farvi rispettare, riguadagnare terreno. Non siete feccia, anche se ve lo faranno credere” Si alzò, avvicinandosi a Borja. Quando fu in prossimità dell’uomo , posò un dito sotto il suo mento, alzando il viso di lui verso di sé. “Non vuoi sapere come sfruttare il tuo potere? Non vuoi vendetta, Jonathan Borja?” Sussurrò , tentatrice come il serpente con la mela stretta fra le spire mentre invitava Adamo ed Eva ad un solo morso, piegando il capo da un lato.
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    Edited by [re-a]ddicted - 2/7/2015, 20:28
     
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    Jonathan Borja
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    Jonathan lasciò che il vino gli bagnasse le labbra un'altra volta, che ancora gli inumidisse la lingua, lasciando nel palato un retrogusto leggermente acre prima di scivolare lungo la gola, mentre osservava Rea Hamilton asciugarsi le labbra con un dito. Quasi ipnotizzato dal suo movimento, una volta tolto il bicchiere dalla bocca, fece lo stesso gesto, asciugando quanto era rimasto di quel succo sulla pelle. Forse era quella l'abilità della strega: inebriare con il suo charme coloro che la affiancavano, volente o nolente. Ma di sicuro, Rea era molto più che volente, e per quanto Jonathan questo l'avesse capito già dal loro primo incontro, non poteva fare a meno di rimanere ogni volta affascinato da quella donna. Erano simili, i due. Se Jonathan non fosse stato semplicemente troppo orgoglioso, troppo schivo ai rapporti sociali, esageratamente menefreghista rispetto a tutto ciò che lo circondava, i giovani avrebbero potuto quasi essere amici. Ma via, chi vogliamo prendere in giro: Jonathan stava bene da solo, e da solo sarebbe rimasto. Se poi, qualche sporadica Rea, svestita dei suoi indumenti, avesse mai bussato alla sua porta, di certo non avrebbe rifiutato una notte di piacere, ma egli non avrebbe di certo passato la vita alla ricerca di qualcosa della quale non gli interessava veramente. Aveva sprecato fin troppo tempo, a suo parere, inseguendo qualcosa di effimero e irraggiungibile, qualcosa che la gente osava definire felicità. Ma più si poneva la domanda, più arrivava alla conclusione che per lui, la felicità, non era raggiungibile. Anche se in fondo, molto in fondo, fin troppo in profondità, un po' ancora ci sperava che qualcosa, nella sua vita, andasse per il verso che lui desiderava, nonostante avesse consciamente deciso che se ciò fosse accaduto, non sarebbe stato merito suo: lui non avrebbe più cercato nulla. Come non aveva più cercato la Hamilton, dopo quella notte, seppure non poté negare a sé stesso di essere stato molto più che bene in sua compagnia. Come non aveva più cercato suo fratello, dopo che quell'ormai lontano pomeriggio la sua famiglia l'aveva diseredato. L'unica cosa che ormai faceva Jonathan Borja era traviare le menti di giovani esperimenti, aizzandoli contro i Ribelli nella sua personalissima guerra; per il resto, aspettava che qualcuno bussasse alla sua porta. Quella volta, fu Rea Hamilton a varcare la soglia ed a sedersi comodamente sul suo divano.
    Le sorrise pigramente quando ella ironizzò sul suo potere, effettivamente inutile. «Touché» commentò, adagiando il braccio sul bracciolo della poltrona. Jon osservò i suoi movimenti, con i quali elegantemente accantonava le domande poste da lui. Se da una parte la cosa lo potesse irritare, dall'altra un po' lo sollevò il fatto di non dover ascoltare la soave voce della ragazza che, per quanto fosse adorabile, sarebbe potuta diventare logorroica parlando di sé stessa. Ascoltò rapito ogni singola parola della ragazza, non riuscendo però a capire realmente le sue allusioni. Rea era troppo Rea per preoccuparsi del benessere di qualcuno che non fosse ella stessa, ed il solo fatto che non ritenesse gli esperimenti "feccia" fece dubitare l'uomo che, da un primo momento di semplice curiosità per il discorso di lei, passò a sospettare che ci fosse qualcosa sotto, qualcosa di non detto. Non era mai stato uno stupido, Jonathan, per quanto qualcuno potesse averlo pensato, in passato. Al contrario, riconosceva nel volto della gente la minima insicurezza, la più impercettibile delle esitazioni, tutti quegli indizi che facevano in qualche modo percepire che qualcosa veniva omesso. Rea stava mentendo, in qualche modo, a Jonathan, ma non riusciva a capire come. Lui era bravo a mentire, ma lei non era certamente da meno -anche se il Borja era indubbiamente un gradino sopra. Ridusse gli occhi sempre più a fessura mentre ascoltava la voce femminile, e quando ella ebbe finito, accingendosi ad alzarsi, prese la parola. «Da quando sei diventata così filantropa?» Mai. Che razza di domande che si poneva l'ingenuo Jonathan. Eppure, in quel quesito, rivolto con un tono a metà tra il divertito e l'accusatorio, si nascondeva un'altra domanda che a voce non era stato in grado di esprimere: “A cosa ti servono gli Esperimenti, Rea Hamilton?”. Tenne fermo lo sguardo sul suo viso, cosicché quand'ella alzò la faccia del ragazzo non dovesse fare un grande sforzo: già di suo seguiva i suoi suadenti movimenti. «Non vuoi sapere come sfruttare il tuo potere? Non vuoi vendetta, Jonathan Borja?»...
    Vendetta. Era quella, forse, l'unica cosa che cercava: non la felicità, non le persone. Ma vendetta. Dio, se voleva vendetta! Ma aveva vissuto con la convinzione che quella se la sarebbe cercata da solo, senza aiuto di terzi. Era la sua battaglia, l'avrebbe combattuta in solitaria. Eppure, qualcuno gli stava porgendo una mano. Rifiutarla sarebbe stato insensato, ma accettarlo... Ah, sarebbe stato un colpo al cuore per Jonathan, avrebbe in qualche modo macchiato le uniche cose che gli erano rimaste: l'onore e l'orgoglio. «Forse mi hai sottovalutato, Rea, forse non mi credi in grado di gestire il mio potere» asserì, scansando molto delicatamente il dito della donna da sotto il suo mento. «E sì, naturalmente voglio la mia vendetta». Si alzò, portando il viso pericolosamente vicino a quello della donna. In altri momenti, in altri luoghi -probabilmente su un comodo materasso- in quella stessa situazione avrebbe fatto altro. Ma lì, in piedi ad un palmo di distanza, si limitò a parlarle. «Ma tu, Rea, in tutto ciò, cosa ne guadagni?»

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    Edited by OrjaBorja - 10/8/2015, 00:51
     
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    Rea Hamilton
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    Le persone avevano sempre avuto un’idea contorta di Rea Hamilton, e più si avvicinavano a credere di conoscere la verità, più vi si allontanavano. Lei non aveva mai cercato di condurli verso il percorso giusto, optando invece per accompagnarli, tenendoli per mano, verso la donna che voleva conoscessero. Covavano opinioni molto contrastanti nei confronti della mora, ma non potevano negare a loro stessi di esserne affascinati, anche dai lati più oscuri. Forse proprio da quelli. Era stata una Pavor eccellente, ed aveva svolto il suo lavoro in modo impeccabile: non si era mai fermata a pensare che fosse sbagliato, che togliere una vita potesse essere considerato un atto malvagio. Aveva ucciso molti ribelli, troppi per tenere il conto, e non aveva provato nemmeno un briciolo di rimorso quando aveva incontrato Arwen Undòmiel, la donna di cui aveva ucciso i genitori anni prima. E lei, oh, lei ne era così addolorata. In quel dolore, Rea Hamilton aveva visto una possibilità. In quella sofferenza aveva visto il potere, la sottile differenza fra preda e predatore. Aveva visto la debolezza, perché legarsi a qualcuno significava semplicemente offrire un tallone d’achille ai propri avversari. Nella famiglia Undòmiel aveva visto tutto ciò che lei non era né mai avrebbe voluto diventare. La sua ambizione l’aveva portata lontano, verso territori sconosciuti dove lei non era più il predatore ma la preda. Era passata da una cella all’altra, sotto i ferri di Ribelli che si preoccupavano più di raggiungere una vendetta personale che di giungere allo scopo prefissato di una nuova razza. Rea poteva comprendere perfettamente quella sensazione, la divinità celata dietro ogni uomo. Non significava che potesse perdonarlo, né che potesse soprassedere davanti alla medesima punizione inflitta alla sorella. Solo lei poteva avere il diritto di far soffrire Charlotte. Ma ciò su cui assolutamente non sarebbe mai riuscita a passare sopra, era il senso di impotenza a cui l’avevano costretta. Privata di ogni magia, abbandonata in una gabbia troppo piccola, come un animale. Ai loro occhi la Hamilton non era un essere umano, ma un esperimento, un numero su un block notes. Come un giocattolo, l’avevano smontata e rimontata a loro piacimento, senza che lei potesse avere voce in capitolo. L’avevano trattata come un oggetto, ed un oggetto sarebbe diventato: un’arma, puntata dritta al loro cuore. Quand’era tornata alla normalità, ed aveva scoperto del nuovo livello aperto al Ministero, aveva colto la palla al balzo. Era la sua occasione per fargliela pagare, per farla pagare a tutti quanti. Di quella vendetta la Hamilton faceva il suo ossigeno, la sua ragione di vita. Lasciava che la consumasse lentamente, alimentandosi dei suoi stessi tessuti, della rabbia che aveva sempre sedimentato nel profondo della sua anima. Ogni situazione da lei creata in quei mesi, ogni incontro, ogni sorriso ed ogni carezza, avevano avuto il medesimo marchio, lo stesso insidioso obiettivo di creare un ambiente favorevole perché i semi germinassero e crescessero nella direzione che con entusiasmo ella indicava. Rea Hamilton aveva sempre uno scopo; la cosa divertente era che il suo interlocutore lo sapeva sempre, pur ignorando in un primo momento –ed anche in un secondo, se lei non lo rendeva chiaro- dove volesse andare a parare. Sapevano sempre che se la Hamilton rivolgeva loro parola era perché aveva bisogno di qualcosa, ed ogni volta speravano che quel qualcosa potesse essere… diverso. I più ingenui speravano che lei avesse bisogno di loro, non sapendo a chi altro chiedere. E lei lasciava che si crogiolassero in quell’effimera sensazione di potere, ben sapendo che il modo migliore per avvicinarsi ad una persona era far leva sul suo ego. Se quel giorno aveva bussato alla porta di Jonathan Borja, era stato per un motivo ben preciso. Non lo conosceva a fondo, e la cosa nemmeno le interessava, ma aveva visto abbastanza di lui per capire che era l’uomo che faceva al caso suo. Non era uno sciocco, e della cosa era alquanto grata, ed erano fatti quasi della stessa pasta: avrebbe capito che le sue non erano solo chiacchiere di piacere, come si sarebbe reso conto del fatto che Rea non era lì per lui. E lo apprezzava, davvero. Apprezzava un po’ meno le domande scomode e scontate. “Da quando sei diventata così filantropa?” Filantropa? Davvero? Scosse il capo, accennando un infinitesimale sorriso. Oh, se solo avesse saputo. Ma a Rea non piaceva scoprire le sue carte, e non solo perché ne era gelosa. Sapeva che se avesse rivelato i suoi segreti, avrebbe dato potere all’uomo, e l’idea non le piaceva per niente. Togliete a Rea Hamilton i suoi segreti, ed in mano non vi rimarrà che un pugno di briciole. Sapeva che con la sua domanda intendeva molto di più, come sapeva che da lei non avrebbe avuto quella risposta. Ignorò la domanda che alle sue orecchie suonava come retorica, avvicinandosi al biondino con l’ultima offerta: vendetta. Potere. “Forse mi hai sottovalutato, Rea, forse non mi credi in grado di gestire il mio potere” Se solo non fosse stata certa dell’impossibilità della cosa, avrebbe potuto perfino pensare che Jon fosse più egocentrico di lei. Amava come fosse insita nell’essere umano la necessità di volgere i riflettori su di sé, leggendo le parole degli altri come una domanda rivolta alla loro persona. Era un meccanismo interessante da osservare, che la fece sorridere mentre Borja, punto nell’orgoglio, spostava la sua mano dal proprio viso. Allora voleva rendere le cose difficili. Forse avrebbe dovuto fargli notare che in quel contesto, la sua capacità di gestire il potere non era tenuta in considerazione. Che lei non aveva detto nulla che potesse farlo dubitare di sé stesso. Ma sapeva che non era il modo giusto di gestire la situazione: ma certo che si stava parlando di lui, perché lui era importante e insostituibile. “Oh, Jonathan” Schiuse le labbra, aggrottando leggermente le sopracciglia. “Non ti sto sottovalutando, non denigrare così la tua persona” Inclinò il capo, cercando i suoi occhi chiari. Se si era sentito in dovere di chiarire quel punto, era perché pensava di non potercela fare. Perché pensava che, in fondo, le persone potessero sottovalutarlo. Che tenerezza, amava l’insicurezza quand’era nascosta dietro ad una patina di sfacciataggine. La ammirava perfino. “Penso solo che tu possa fare di più. Che tu meriti” Sottolineò la parola avvicinandosi di mezzo passo. Ormai c’era sì e no mezzo centimetro di distanza fra i loro corpi, eppure la tensione nell’aria era tutto fuorchè sessuale. Era un genere di intimità diverso, una sottile dimostrazione di fiducia, di riconoscimento. Non che la vicinanza, comunque, le dispiacesse. “Di più” Sussurrò alzando le sopracciglia, un briciolo di malizia nella curva del sorriso. “Ma tu, Rea, in tutto ciò, cosa ne guadagni?” Se voleva fiducia, doveva dargli un briciolo, appena un pizzico, di verità. Da una parte lo odiava per averla messa in quella posizione, con tutte quelle domande: se dovevano lavorare insieme, Rea non voleva mentirgli. Voleva solamente omettere i fatti, come sempre. Ma a una domanda diretta, in quale altro modo avrebbe dovuto rispondere? Si avvicinò ancora, sussurrando al suo orecchio nonostante fossero gli unici in quella stanza. “Ognuno ha i suoi segreti, Borja” Scandì lentamente sfiorando il lobo dell’uomo con le labbra, prima di allontanarsi. Lo guardò per qualche istante, infine mise una certa distanza fra loro, tornando a riempire il bicchiere del vino abbandonato sul tavolo. “Senza quelli non saremmo niente. Se tu non chiedi a me, io non chiederò a te” Concluse sorridendo a labbra serrate. “Ti basterà sapere che abbiamo un obiettivo comune. Perfino Stati Uniti e Russia hanno unito le forze per combattere i tedeschi. E questa” Indicò loro due, ampliando poi con un cenno la sfera d’interesse all’ambiente circostante, abbracciando l’intero mondo magico. “È guerra, Jonathan. Non puoi rimanere in disparte, puoi solo scegliere se essere una pedina" Bevve un sorso di vino, lasciando che il sapore dolce le inumidisse il palato. "o il Re”
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    Jonathan Borja
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    Jonathan Borja cercava spesso di apparire per quello che non era, e ci riusciva bene, nonostante tutto. Si nascondeva dietro alle bugie che diceva agli altri, che diceva persino a sé stesso, creando quella specie di involucro che lo faceva sentire adatto, a volte anche superiore agli altri. Un involucro fatto di menzogne, un involucro che proteggeva quello che alla fine era sempre stato un animo debole, volubile, che nonostante il pugno di ferro esercitato dal padre, non si era affatto temprato, non era stato capace di evolversi, ma solo di nascondersi dietro a strati di incoerenza. Il Borja sapeva essere forte, sapeva destreggiarsi bene con le parole, si era fatto valere ed aveva acquistato un certo prestigio, un certo nome, ed il tutto solo grazie a quella corazza. Ma era una corazza fragile, nonostante tutto. Un'armatura che aveva parecchie falle, parecchi punti di frattura. Punti deboli, punti di pressione sui quali, in quel momento, Rea Hamilton stava esercitando tutte le sue forze. Adulazioni, lusinghe: bastava poco per far vacillare la sfrontatezza del francese, bastava pochissimo per renderlo così malleabile. Era bastato che la mora gli si avvicinasse, così pericolosamente, che gli dicesse che meritava di più, per scalfire il duro acciaio temprato dalle menzogne. Erano bastate quelle poche parole, unite al fascino di lei, che di certo giocava a suo favore, a far cedere le difese del Borja. Socchiuse gli occhi, quando ella gli fu vicino. Esageratamente vicino, per i gusti di lui. Stava creando una certa intimità tra di loro, un'intimità che riservava solo alle proprie amanti, e non nel soggiorno. Oddio, sì, anche nel soggiorno, ma preferiva di gran lunga la comodità di un letto, senza dubbio. Ma sapeva che non era quella l'intimità che desiderava Rea in quel momento, sapeva che il suo minaccioso avvicinarsi non era finalizzato al puro piacere carnale. Era un gioco, quello che lei stava portando avanti, e Jonathan voleva giocare. Un gioco di segreti. Sentì un brivido percorrergli la spina dorsale quando le labbra di lei sfiorarono il suo orecchio, una scossa che gli fece riaprire gli occhi. Ognuno ha i propri segreti.
    Lasciò impotente che la donna si allontanasse, prima di emulare il suo gesto e versarsi altro vino nel bicchiere ormai vuoto. Ognuno ha i propri segreti. “Questo obiettivo comune che vai professando” iniziò, alzando il bicchiere verso la ragazza, come a brindare, prima di berne un sorso. “Ti riferisci alla Resistenza, giusto?” Domande retoriche, sapeva già qual era lo scopo di lei. D'altronde, non avrebbe avuto senso, per una Pavor rispettata come lei, fedele al Governo, scatenare una guerra contro il Ministero stesso. Era quasi scontato che quello fosse il suo obiettivo, ma il Borja necessitava comunque di conferme, aveva bisogno di sapere che era nel giusto. Si risedette, posando il calice semipieno sul tavolino e adagiandosi contro lo schienale, accavallando le gambe. “Si nascondo bene, i Ribelli... Qual è la tua strategia?” Come se fosse già parte di quella guerra, come se avesse già dato la sua conferma di partecipazione. Perché lui la voleva quella guerra, più di ogni altra cosa: non si trattava nemmeno di vendetta personale, quanto di cosa era giusto e cosa era sbagliato. I Laboratori erano sbagliati, la Resistenza era stata sbagliata, la guerra sarebbe stata una pulizia, una cosa giusta da fare, e se Rea Hamilton poteva scatenare tale conflitto, Jonathan Borja ne avrebbe preso parte. “Sarò il tuo Re”

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    Sì lo so fa schifo scusa ciao
     
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    Rea Hamilton
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    we're on the same side now❞
    Bastava così poco, a Rea Hamilton, per convincere qualcuno a fare qualunque cosa lei volesse. Le piaceva credere che fosse una dote naturale, quella di trovare ciò che più le persone bramavano per offrigliele in cambio di un favore. Bastava spingere sui punti giusti, tirare i fili, ed il gioco era fatto: perché gli Hamilton ottenevano sempre quello che volevano, in un modo o nell’altro. Per andare a ricercare l’origine di quel suo bisogno costante di ricevere attenzioni, forse, bisognerebbe ricordare la sua infanzia. Aveva voluto così poco Rea, così poco; aveva semplicemente voluto ciò che i bambini normali danno sempre per scontato, ossia una famiglia che l’amasse e l’accettasse per quel che era. In quasi venticinque anni di vita su quella terra, quella era l’unica cosa che non fosse riuscita ad ottenere. Sapeva perfettamente che la sua vita sarebbe andata in modo differente, se i suoi genitori non fossero stati i suoi genitori. E, con il senno di poi, era grata di ciò che non le avevano dato: le avevano ispessito la pelle, rendendola coriacea come diamante. L’avevano resa ciò che loro, in quella stanza, avevano visto: malvagia. La questione in sospeso era perlopiù di principio, e Rea conservava quel ricordo come monito che anche lei, talvolta, poteva fallire. Ma non l’avrebbe permesso, non più.
    Vedeva Jon cedere, lentamente, a quelle carezze sottili che erano le sue parole. Vide chiaramente il momento nel quale lui, finalmente, si convinse a darle ascolto. Inizialmente nessuno ascoltava davvero ciò che la Hamilton aveva da dire, ed era uno dei motivi principali che le avevano permesso di arrivare a quel punto. Mentre loro si impuntavano per non capire, lei riusciva a capire ancor prima che parlassero. Capiva cosa, e come dirlo; su cosa insistere, cosa invece tralasciare. Come muoversi, come attorcigliarsi una ciocca di capelli attorno al dito con aria distratta; quando fingere di non ascoltare, e quando invece mostrarsi particolarmente attenta. Semplice. Rea riusciva a capire la natura umana perché se n’era, a suo dire, distaccata. La verità era che riusciva a capirla perché era la più umana di tutti, creata dall’uomo e dall’uomo distrutta. Ma non l’avrebbe permesso, non più. Era lei a tenere in piedi il gioco. “Questo obiettivo comune che vai professando. Ti riferisci alla Resistenza, giusto?” Se lo ricordava più sveglio, il Borja. Rise inclinando il capo all’indietro, con una naturalezza davvero rara – e solo perché stava ridendo di lui, cosa che non nascose affatto. “Si, Jonny. Mi riferisco alla Resistenza, ed a chiunque abbia aiutato. So per certo che non erano solo loro… non credere a tutto quello che leggi, la Bulstrode sa fare bene il suo lavoro” Concluse in un sussurro, mentre ancora l’accenno di divertimento le illuminava lo sguardo malizioso. “Si nascondo bene, i Ribelli... Qual è la tua strategia?”
    C’era una volta Eris, la dea della discordia. Si narra che, furiosa per essere stata esclusa dal banchetto nuziale di Peleo e Teti, fece rotolare nel luogo in cui si teneva il banchetto una mela dorata, dichiarando che era destinata alla più bella. Ma a chi spettava scegliere, quando ciascuna delle dee presenti pensava di essere la prescelta? Il pomo della discordia, così venne chiamato. Fu quello ad originare la guerra di Troia.
    Il Caos nella sua forma più pura.
    Rivelare la sua strategia non faceva decisamente parte del piano. Rea si era presentata da Borja per lanciare l’amo, al quale lui –molto prevedibilmente- aveva abboccato. Non aveva bisogno d’altro in quel momento, ma Jon, prima o poi, avrebbe avuto sue notizie. Quando e se mai avesse avuto bisogno di lui, quando e se fosse riuscita nel suo intento, sarebbe arrivato anche il suo momento di conoscere un altro pezzo della storia. Per quel giorno poteva bastare. Non rispose, scuotendo il capo con aria enigmatica.
    “Sarò il tuo Re”
    La donna poggiò il bicchiere nuovamente svuotato dal suo contenuto sul tavolo, le labbra incurvate in un sorriso soddisfatto. Quello era vero potere, vera magia, di natura diversa rispetto a quella professata e ricercata nei Laboratori. Un peccato non avessero cercato un modo per coglierla: se fossero riusciti ad imbottigliare Rea Hamilton, avrebbero già vinto la guerra. “Non avevo dubbi… Jonathan Borja” Rispose seria, inarcando entrambe le sopracciglia. Lanciò un’occhiata al sacchetto ormai vuoto ancora vicino al divano, quindi riportò l’attenzione sull’uomo. “Dovremmo farlo più spesso, è sempre un piacere parlare con te” Specialmente quando sono così incredibilmente favolosa. Si avvicinò cautamente, come se l’intimità passata e precedente fosse un ricordo e lei fosse ahahah non ce la fo, giuro una pudica adolescente al suo primo appuntamento con un ragazzo più grande. Posò un bacio sull’angolo delle labbra, sorridendo piano #kisszoned #notevensorry, per poi dargli un amichevole anche friendzone pacca sulle spalle. “Non serve che mi accompagni, so la strada. Buona serata, Jonny” Concluse con già un piede fuori dalla porta, prima di chiudersi quest’ultima alle spalle. E quando fu fuori, nuovamente per le strade di Londra, si concesse un sorriso cattivo che fino ad allora era riuscita a trattenere. Si concesse il sorriso che i Dottori, e chiunque l’avesse sfiorata anche solo con un dito, avrebbero visto prima di esalare il loro ultimo respiro.
    Vendetta vera, non finirò in galera.


    sheet 24 the illusionist #teamhamilton pensieve
    ©#epicwin



     
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