mnemophobia

kay

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    Lydia Hadaway
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    Si portò la mano tremante all’orecchio, ripetendo il movimento con l’altro braccio. Voleva proteggersi, Lydia, anche se non sapeva da cosa. Non riusciva a vedere nulla, ma sentiva delle mani su di lei, che tagliavano la pelle delicata del petto, che bucavano la tenera pelle del gomito, che sfioravano cose che nemmeno avrebbero dovuto vedere la luce del giorno. Non avvertiva dolore, era come se il corpo fosse di qualcun altro, ma allo stesso tempo ne percepiva ogni parte.
    Fateli smettere fateli smettere fateli smettere fateli smettere fateli smettere.
    E le urla, quelle le sentiva con chiarezza. Il dolore alla gola, il sangue sulle labbra screpolate.
    Piegò il capo verso il proprio petto, mugugnando piano, cercando di controllare il respiro. Ma ormai usciva a sbuffo, spinto dall’interno, svuotandole i polmoni. Un gemito corse come un brivido a fior di pelle, mentre le voci si facevano più forti, esigendo di essere sentite, in un continuo crescendo. E quando pensò fosse insopportabile, la Hadaway aprì gli occhi.
    Indossava un vestito primaverile, una fantasia floreale di un azzurro tenue. Vide una grande villa, circondata da alberi le cui fronde sfioravano il tetto della stessa; ed una bambina, di fronte a lei, le porgeva la mano bianca. Capelli scuri, occhi azzurri, ed il sorriso contagioso che solamente i ragazzini potevano vantare. Automaticamente allungò la propria mano verso la sua, ma fu qualcun altro ad agguantare la bambina: una mano più piccola, se possibile ancor più chiara. Disordinati capelli biondi fragola, ed un “Aspettami, Nicky!” Soffocato da una risata cristallina. Battè le palpebre, e le bambine sparirono. Un altro flash. La bambina dai capelli ramati stava di nuovo ridendo, ma era più grande. Insieme a lei, altre due fanciulle, forse di una briciola più grandi. C’era qualcosa di familiare in quei tratti, in quel particolare colore della carnagione, in quella nota acuta nella voce. Familiare ed al contempo sconosciuto.
    Battè nuovamente le palpebre, ed una ormai giovane donna ricambiò il suo sguardo. I capelli, di un rosso fragola, circondavano un viso troppo pallido, dove gli occhi verdi spiccavano in maniera quasi spaventosa. Le labbra carnose erano socchiuse, e le mani stavano stringendo con forza la superficie dello specchio. Voleva romperlo? Con un singhiozzo soffocato nel petto, si allontanò di un passo, aumentando la distanza fra sé stessa e la ragazza nel riflesso. Familiare, ed al contempo sconosciuto.
    Ma la ragazza nel riflesso fece qualcosa che Lydia non stava facendo: sorrise. E dall’angolo delle labbra, un rivolo di sangue si fece strada fino al mento. Abbassò lo sguardo lentamente, trattenendo il fiato, sapendo già cos’avrebbe visto. Purtroppo saperlo non rendeva la visione più semplice, non rendeva il groppo in gola meno amaro da mandar giù: l’abito, le mani, le scarpe, il pavimento, le mani, i polsi. Scritte che si ripetevano all’infinito, sovrapponendosi l’una all’altra, fondendo le lettere. Fateli smettere fateli smettere fateli smettere fateli smettere fateli smettere.
    “Hadaway, è un’ora che sei in bagno” Un battito di ciglia, bastò solo quello, perché tutto tornasse alla normalità: lo specchio rifletteva una Lydia leggermente scomposta, dagli occhi lucidi e le gote arrossate, ma non c’era nulla che non andasse bene. I capelli, perfettamente in ordine, ricadevano in morbide onde fin sopra il seno. Un cardigan color rosso mattone, sbottonato, copriva una maglia sottile nera, la quale era infilata in una gonna del medesimo colore; su quest’ultima spiccavano piccoli pois dello stesso colore del cardigan, che a loro volta si abbinavano alle ballerine ai suoi piedi. L’unica cosa che poteva controllare, Lydia Hadaway, era il suo apparire. Almeno in quello voleva risultare impeccabile, come se il mostrarsi ordinata potesse placare il caos nella sua mente. “Mi scusi professor Henderson, sto arrivando” Rispose alla porta chiusa, mentre al volo passava uno spolverio di cipria sul naso, ed un lucidalabbra rosa salmone sulle labbra. Sorrise, come se non avesse appena avuto uno dei suoi momenti. Come se la mano, infida traditrice, non stesse ancora tremando. Ravvivò i capelli ed aprì finalmente la porta di quel piccolo bagno, sorridendo innocentemente al tenebroso insegnante dei babbani. Quando divinazione era stata tolta come materia, e quella era stata introdotta al castello… l’aveva visto come un segno. C’era qualcosa, in quei ragazzi, qualcosa nel loro sguardo, che gli ricordava sé stessa. Un senso di smarrimento, di vuoto e segreti che nemmeno loro sembravano conoscere. Si era proposta per aiutare Henderson, sperando che insieme a loro potesse aiutare sé stessa.
    Non stava funzionando.

    Aveva parlato -o forse origliato qualche conversazione, faceva differenza? - i babbani ed i maghi, a lezione, ed aveva scoperto che molti di loro avevano un luogo preferito, dove riuscivano a sentirsi a casa. Forse perché l’aetas, in effetti, era così simile a qualunque altro bosco, che poteva portare la mente di chi vi passeggiava in un qualsiasi altro luogo sulla faccia della terra. Non ricordava di aver mai messo piede lì dentro, non poteva certo definirsi un avventuriera, eppure c’era qualcosa di familiare nell’odore di terra smossa e nel colore dei fili d’erba. Come se in realtà a lei piacesse quel luogo. Un senso di piacere che le placò i crampi allo stomaco, ricordandole quant’era bello respirare senza dover temere di soffocare. Aveva sempre pensato di essere una ragazza di città, ma sfiorare con la punta delle dita le gemme delicate e timide dei rami le dava una sensazione particolare che difficilmente provava nelle quattro mura del Paiolo Magico. “Sei qui da sola?” Chiuse le palpebre, imponendosi di ignorare quella fastidiosa voce ridicolmente bassa ed allusiva. “Allora?” “Sto aspettando qualcuno” Rispose di getto, senza nemmeno voltarsi. All’irritazione nelle sue parole, Lydia aveva accompagnato un gesto repentino verso la bacchetta. Non sapeva chi fosse, o perché diamine si fosse risvegliata in un anonima vasca in una cittadella magica qualsiasi, ma di certo non si faceva importunare dal primo maniaco che alberoofilo che si aggirava al parco come il Lupo Cattivo nella fiaba… nella fiaba… Si morse il labbro con frustrazione, incapace di ricordare il nome di quella favola.
    Non sapeva nemmeno come facesse a conoscerla, effettivamente. “Chi?” Inclinò il capo, sentendo il proprio corpo irrigidirsi. Era arrabbiata, anche se forse sarebbe stato più giusto dire terrorizzata, e quello sconosciuto importuno non fu che la goccia che fece traboccare il vaso. Veloce, piantò il piede destro a terra e, usandolo come perno, ruotò su sé stessa. Nemmeno lei vide, o fu in grado di capacitarsi, del pugno che raggiunse il naso del… ragazzino. Sì, non era altro che un ragazzino, avrà avuto al massimo sedici anni. Guardò la propria mano con ammirazione, annuendo fra sé, senza nemmeno domandarsi dove avesse imparato a fare una cosa del genere. Per quanto ne sapeva, poteva anche essere stata una stella del judo. Avrebbe voluto dire che le dispiaceva, ma non era così.
    Pensava ci fossero solo loro due, e invece, quando il ragazzo cadde a terra, vide che dietro di lui c’era una donna. Giovane, probabilmente poco più grande di Lydia. L’aria dannatamente familiare le fece corrugare le sopracciglia ramate. Strinse entrambi le mani davanti a sé, sorridendo alla giovane e chiedendosi, nel mentre, dove l’avesse vista. Se avesse avuto una memoria a cui attingere, avrebbe detto che le si era accesa una lampadina.
    Oh, purtroppo le avevano staccato la luce.
    Non sarei credibile se dicessi che non sono stata io, vero?” Tentò, arricciando il naso.


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    «Hai strappato il libro». Dissi ogni sillaba in modo che uscisse come una frecciatina gelida e pungente, in grado di far salire i brividi dal deretano pelato simile a quello delle scimmie per tutta la colonna vertebrale di quel ragazzo abbronzato che pareva mister Muscolo. Poverino, con tutti quei muscoli l’avrà strappato per sbaglio. «E sai una cosa?». Quel gran pirlone continuò a masticare la chewing-gum come se nulla fosse. «Era un libro della biblioteca. Quindi, tu paghi». La risposta che uscì dalle sue labbra (non ve la riporto, era una bestemmia), mi costrinse a prendere seri provvedimenti. Del tipo, togliergli punti, avvisare il direttore casata, fargli la multa che mi avrebbe saldato prima della fine dell’anno e, soprattutto, lanciargli addosso Fancy. La mia gatta sapeva essere peggio del demonio con quelle unghie.
    Quel tipo lì se ne finì in Infermeria. «Ops, i libri l’hanno aggredito», fu la mia scusa. Tristan sollevò un’obiezione: sembravano graffi di gatti. «Libri», ripetei con uno sguardo che lanciava fiamme. Rosier ridacchiò: “Libri”, fu d’accordo. «Esatto», annuii con finta convinzione ed espressione dispiaciuta. Prima di uscire dall’Infermeria, ricordai una cosa di vitale importanza al ragazzo: «Domani vieni da me e paghi 17 Galeoni. Domani. O lo dico a Rosier, e ti inietta il veleno. Ah, e vedi di soffrire alla peggio maniera, ciao». Mai contrariare la bibliotecaria, specialmente se è la Lewis, bitches.
    Non sapevo quanto fosse legale lanciare un gatto a uno studente, ma ok. Fa nulla. In questo somigliavo ad Olive. Poco rispettosa delle regole, ribelle… Mi fermai nella passeggiata nel corridoio appoggiandomi al cornicione di una delle finestre di esso. Osservai il Lago Nero e il Platano Picchiatore, calmi e quieti. Una lacrima scivolò sulla mia guancia. Olive mi mancava, e anche molto… troppo.
    Lentamente, iniziai a singhiozzare. Poi a piangere senza riuscire a fermarmi.
    Olive, mi manchi, mia twin…

    Quando la nostalgia e la tristezza attanagliavano il mio cuore, trovavo confortevole rifugiarmi nell’Aetas. Le sue piccoli luci che venivano dai lampioni e dalle lucciole e, perché no, da qualche creatura fatata che si annidava in mezzo ai cespugli o in fondo ai laghetti e le fronde degli alberi che sussurravo meste nel lieve vento fresco erano un… qualcosa di strano, quasi un toccasana. Davano una sensazione di pace, era facile stare da soli e c’era fresco. E il tuo sguardo veniva sempre attratto da qualcosa, e tu pensavi a quella cosa e i tuoi pensieri si distoglievano dal mondo che c’era fuori dall’Aetas, che continuava a girare nonostante tutto.
    Incredibile come fossimo così tante persone in quel mondo. Davvero incredibile. Eravamo miliardi di persone, ognune con la loro vita e le proprie faccende. Miliardi e miliardi di vite, e molte più ancor faccende. Miliardi di relazioni, miliardi di tutto. Era incredibile come il mondo riuscisse a contenere tutto quello, e ti rendi conto di quanto grande ma piccolo sia il mondo. E meraviglioso.
    Eppure l’Aetas sussurrava anche un’altra cosa, nei meandri nell’oscurità: parlava di un mondo scuro, crudo, in cui le foglie morte cadono e in cui muore un pesce galleggiando sulla superficie dei laghetti. C’erano tante ombre e a volte il silenzio era inquietante. A volta c’era il buio assoluto e gli alberi diventavano dei mostri… ed era brutto, pauroso, stare lì. A volte c’erano voci sinistre… come in quel momento. Spalancai gli occhi, staccandomi dall’albero su cui ero poggiata di spalle, prestando attenzione a quelle voci, spaventata.
    Erano le voci di una donna e di un uomo. Quest’ultimo pareva essere il classico stalker che pedina la sua ex. Mi accorsi anche di un’altra cosa: quel tipo era davanti a me. Quando vidi la sua figura di spalle, mi venne un colpo. Non mi ero accorta fosse lì. Poi arrivò il momento in cui la ex non ce la fa più e decide di mettere a tacere il tipo: un pugno e via. La tipa mi guardò: “Non sarei credibile se dicessi che non sono stata io, vero?”. Sorrisi ridacchiando, abbassando lo sguardo, per poi rialzarlo per osservare il viso della ragazza. L’avevo vista un paio di volte. No, non al castello. Non solo. In qualche foto. Ma dove? Dannata memoria.
    «Non sei stata tu, sì… ma a fare cosa?», sorrisi facendo spallucce. Del resto, non sembrava una di quelle che si metteva a dare pugni random alla gente, quindi non rappresentava alcun pericolo. Allora perché non avrebbe dovuto dargli un pugno? Fa nulla, del resto io avevo lanciato un gatto in faccia a uno studente. Fancy camminò, leggera, strofinandosi sulle mie caviglie. «Lavori a Hogwarts, vero? Io sono quella della biblioteca, Kay Lewis», mi presentai sorridendole. “Quella della biblioteca”, sì, perché “bibliotecaria” è mainstream.
    Kaylyn “Kay” Lewis – la vita è una rosa dove ogni petalo è un’illusione e ogni spina una realtà

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    Lydia Hadaway
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    Lydia guardò la giovane assottigliando le palpebre, con un fastidioso senso di vuoto al petto. Era una sensazione strana, simile a quella strisciante malinconia sotto pelle che ti coglie di notte, poco prima di addormentarsi. Qualcosa di incompleto che cresce, si gonfia finchè non raggiunge il suo limite, ed esplode in migliaia di coriandoli grigi. Aveva come… non lo sapeva, ma era convinta di averla già vista, da qualche parte. Era un ricordo sfumato ai bordi, che tendeva a confondersi con l’ambiente circostante. La Hadaway raramente si sentiva a suo agio con qualcuno, più portata a rimanere sulla difensiva con un atteggiamento algido e freddo. Non lo faceva per cattiveria, era una sua naturale –o almeno credeva- inclinazione; il fatto di non sapere nulla del suo passato sicuramente incideva, e non in maniera positiva. Qualunque persona si trovasse dinnanzi, non poteva impedirsi di pensare: mi conosce? Faceva parte della mia vita?. Avrebbe potuto incontrare il peggiore dei suoi aguzzini, l’essere umano che aveva la risposta ad ogni sua domanda, e Lydia non l’avrebbe saputo. Nei mesi si era convinta che l’avrebbe riconosciuto. Che avrebbe riconosciuto chiunque, se fosse stato parte del suo passato: la memoria giocava brutti scherzi, ma vi era una parte del cervello – o almeno così le piaceva credere- più primitiva, che impediva di cancellare le tracce di qualcuno che si era amato. Purtroppo la realtà era ben diversa, e certe cose si dimenticavano e basta: il profumo della madre, il sorriso del fratello, le sfide con le sorellastre, il primo bacio, le corse con le cugine. Sfuggivano come acqua fra le mani a coppa, goccia dopo goccia, finchè non rimaneva più nulla. E l’Annie che si era formata con quelle esperienze, con quei ricordi, era andata perduta per sempre: non sarebbe mai tornata la stessa, privarla della sua storia era equivalso ad una condanna a morte. Ma Lydia? Lydia, forse, aveva un’altra possibilità. Le era stato offerto un nuovo percorso da seguire, una nuova strada. Avrebbe potuto ricominciare. E allora perché, testardamente, era così legata a tutto ciò che faceva parte di quella vita non più sua? Anche inconsciamente, chiamatelo destino se preferite, finiva per imbattersi nella ragazza che era stata. Ne era una prova Kay, sua cugina. Era per quello che a Annie era così familiare, e sempre per quello che a Lydia sembrava di vederla attraverso uno strato d’acqua.
    “Non sei stata tu, sì… ma a fare cosa?” Si unì alla risata, abbassando lo sguardo imbarazzata. Non era una ragazza violenta di natura, davvero… ma c’erano momenti in cui perdeva il controllo di sé stessa, letteralmente. Come quando al Paiolo Magico, senza motivo apparente, cominciava a rompere ogni cosa –sedie, specchi, tende-. Era una rabbia cieca e folle, che sovrastava il perenne senso di dolore dietro le palpebre. Erano gli unici momenti in cui Lydia Hadaway si sentiva bene con sé stessa. Finita la rabbia, però, tornava il dolore. E per Dio se faceva male. Comunque, quel ragazzo era stato davvero seccante, se l’era cercata. Lei di certo non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, né di certo amava essere disturbata gratuitamente. Gli uomini dovevano imparare che la linea fra molestia e abbordaggio era molto sottile, e fin troppo spesso la superavano. Marrani. “Nulla, assolutamente” Si strinse nelle spalle, allontanandosi in maniera innocente di un passo. Un uomo a terra? Quale uomo a terra? “Lavori a Hogwarts, vero? Io sono quella della biblioteca, Kay Lewis” Quella spiegazione avrebbe dovuto bastare, giusto? Le sembrava familiare perché l’aveva incontrata al castello, nessun altro motivo. Aveva senso. Vi erano così tanti volti dietro quelle mura, che ricordarli tutti era un’impresa non da poco. A malapena ricordava gli studenti di Henderson ed i professori… e nemmeno tutti. Eppure. Eppure continuò a percepire un vago sentore di mancanza, come se qualcosa non fosse al suo posto. Mordicchiò il labbro inferiore, sorridendo lievemente. “Sì, sono l’assistente di Henderson. Babbani, maghi con i poteri…” Mosse una mano nell’aria, immaginando che quella spiegazione fosse superflua. Potevano non conoscere lei, ma Henderson era impossibile da non notare, e non solo per il suo strambo aspetto –anche se aiutava. Un ministeriale di nuovo ordine che insegnava a esperimenti della resistenza? Di certo non qualcosa che passava indisturbata. “Lydia. Lydia Hadaway” Aggiunse, come se il suo nome potesse illuminare Kay. Peccato che Kay la conoscesse come Annie Moreau. Ah, e peccato che nemmeno lei ricordasse un belino #mainagioia. “Ti va… Ti va di fare due passi?” Domandò titubante, senza neanche sapere perché diamine le avesse domandato una cosa del genere. Lydia non era il genere di persona che proponeva cose agli sconosciuti, e l’uomo a terra doveva bastare a esemplificare la cosa. Ma Kaylin aveva qualcosa di indubbiamente familiare, e Lydia non sarebbe stata tranquilla finchè non avesse scoperto il perché. Magari era solo una sensazione a pelle, questa ragazza è simpatica, senza nulla di troppo strano. Magari.
    Oppure no. In ogni caso chiedere non avrebbe fatto male. “Non conosco quasi nessuno dei miei colleghi” Aggiunse, sorridendo e sottolineando così le fossette agli angoli delle labbra. “La biblioteca vale ancora come siamo colleghi, no?” Domandò, aggrottando le sopracciglia. Era una domanda sciocca forse, ma … beh, Lydia non conosceva davvero nessuno ad Hogwarts, e non voleva che la rossa pensasse che essendo bibliotecaria non valesse come collega. Insomma, non voleva dare l’idea di essere una snob, o che il suo lavoro fosse di seconda categoria… avete capito, dai. Quello.
    Annie Moreau non si sarebbe fatta tutte quelle paranoie.
    Beata lei.
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    Da quando avevo perso i ricordi non era sicura su molte cose. Per ironia della sorte dovevo affidarmi alla mia memoria per riconoscere i volti. Memoria e ricordi sono due cose collegate, ma diverse. La memoria li custodiva, i ricordi. A me avevano cancellato solo i ricordi. Forse anche metà della memoria perché a volte tendevo a dimenticare le cose, tipo Alzheimer, un effetto collaterale della perdita di ricordi. In che senso dovevo affidarmi alla memoria? Nel senso che dovevo memorizzare tutti i dettagli che avevo scritto nel mio diario personale., tutte le foto appiccicate a quelle pagine, tutto. C’erano foto dei miei vecchi amici e foto di parenti, descrizioni sui rapporti che avevo con loro, ecc.
    C’erano persone che un tempo odiavo ma che oggi, pur conoscendo il motivo per cui tempo fa le odiavo, mi stavano indifferenti. Tipo Robb, nel mio diario lo definivo un deficiente patentato e odioso, eppure quando lo vidi in giro per Hogsmeade, nonostante la sua faccia da gradasso, non provai nulla. Il tempo cancella il volto delle cose, anche dei ricordi. Un “semplice” shock cancella il volto dei ricordi, cancella il gusto. Per questo non potevo fare appello ad una sorta di sesto senso che riconosceva le persone appartenenti al mio passato. Quel sesto senso aveva riconosciuto solo mio padre e basta.
    Non aveva riconosciuto Kat, la mia migliore amica. Però in lei trovai un’amica, anche se nulla di più. Non era una confidente, non mi fidavo ciecamente di lei. Avevo perso la mia migliore amica. L’avevo persa incontrandola e facendola conoscere alla nuova me, oppure l’avevo persa sin da quando persi i ricordi? Domanda stupida? Per una che ha perso il suo passato sono domande di estrema importanza come la domanda “Domani riuscirò a bere?” è di estrema importanza per un alcolizzato. A volte mi sedevo sul letto e pensavo a quella domanda. Altre volte mi chiedevo quale diavolo di senso avesse quella domanda. A volte, semplicemente, non capivo quello che pensavo. Mi facevo un sacco di problemi sulle cose più semplici dell’universo. Del tipo “Se qui l’autore non fosse andato a capo il libro avrebbe una pagina in meno”. Problemi profondi, lo so.
    E adesso avewvo un altro problema. La tipa davanti era rossa. Io ero rossa. Era mia cugina?
    Eddaje Kaylyn, quante probabilità ci sono che una donna dai capelli rossi incontrata per caso nell’Aetas sia tua cugina? Zero.
    Sei troppo pessimista, Carmenoveffa. Carmonoveffa è la mia vocina interiore, nessuna presenza demoniaca, tranquilli.
    Comunque, la tipa stette al gioco. “Nulla, assolutamente”. Appunto, nessuno aveva colpito nessun ragazzo, pace.
    Ma poi scusa, a me sembrava troppo familiare quella faccia…
    “Sì, sono l’assistente di Henderson. Babbani, maghi con i poteri…”.
    Ecco perché t’è familiare, l’hai già vista a Hoggy.
    Non è per quello, Carmenoveffa.
    Decisi di lasciar perdere. Di sicuro era una cosa di poco conto. Forse avevo studiato insieme a lei mentre eravamo ad Hogwarts ed eravamo amiche o qualcosa del genere. Però lei non diede segno di riconoscermi, quindi non aveva importanza chi fosse.
    La realtà è che nemmeno l’altra si ricorda di Kay. #mainagioia
    “Lydia. Lydia Hadaway”. Tutti i dubbi sparirono. Ero certa al cento per cento che nessuna di nome Hadaway comparisse nel mio diario. Era solo una sensazione strana e ingannatrice. Lei era solo l’assistente di Henderson, null’altro. Poi aggiunse una cosa inaspettata: “Ti va… Ti va di fare due passi?”. Feci un sorriso a trentadue denti, spontaneo. Normalmente nessuno chiedeva a una semplice collega sconosciuta incontrata per caso in un bosco di fare due passi. Proprio per questo le risposi: «Certo!». #coerenza
    “Non conosco quasi nessuno dei miei colleghi”. Kay non ne conosceva molti, sempre che i professori di Hogwarts potessero essere definiti colleghi. “La biblioteca vale ancora come siamo colleghi, no?”.
    Feci spallucce. «Perché no? Io conosco pochi colleghi, ma con nessuno ho un rapporto di amicizia. Tutti si limitano a chiedermi questo e quell’altro, a nessuno interessa davvero conoscere la tipa della biblioteca». Mossi due passi verso il sentiero, iniziando a camminare, ignorando totalmente il ragazzo a terra. «Ho conosciuto solo…» Dimi «..Chbosky, l’assistente di quello di Arti Oscure, Damian». Sbuffai. «E, detto tra noi, Damian Icesprite mi sta sull’esofago. Non riesco a digerirlo». Mi veniva spontaneo parlarle apertamente, forse perché sembrava una ragazza simpatica o forse perché non parlavo mai con nessuno.
    O forse perché in realtà è tua cugina, Kay.
    Kaylyn “Kay” Lewis – la vita è una rosa dove ogni petalo è un’illusione e ogni spina una realtà

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    Lydia Hadaway
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    Déjà-vu. Era un continuo déjà-vu, la vita di Lydia Hadaway, qualcosa di visto e rivisto che malgrado tutto, nonostante ogni attimo rimanesse appeso qualche secondo agli angoli di una memoria deturpata, non riusciva a risvegliare niente. Solo una sensazione, appena accennata, che non ci fosse qualcosa di nuovo in quanto la circondava. E quanto si odiava, per il solo fatto che non riuscisse a ricordare. Sapeva che era tutto lì, che avrebbe solamente dovuto allungare una mano, eppure non ci riusciva. Era ancora la ragazzina spaventata che si era risvegliata nella vasca di un motel di poco conto, con un biglietto ed un nome fra le dita. Una ragazzina che viveva costantemente nella propria ombra, reggendosi in piedi solamente grazie al supporto, invisibile, dei muri che la circondavano. Quella prigione, che nessuno poteva vedere a parte lei, era ciò che l’aiutava a non cadere. Sbarre impalpabili ma taglienti come lame, ed era nel dolore che Lydia riusciva a sentire qualcosa. Un dolore che di fisico aveva poco: era la sofferenza che percepiva guardandosi allo specchio, che la spingeva a credere che ci fosse qualcosa da salvare. Non avrebbe fatto così male, se fosse stata vuota quanto lo sguardo verde che ricambiava la sua occhiata melanconica, giusto? Aveva solo bisogno di qualcuno che la prendesse per mano, promettendole che sarebbe andato tutto per il meglio. Che non importava quanto avesse perso, sarebbe stata in grado di crearsi una nuova vita. Qualcuno che le dicesse che era abbastanza forte per farlo, dimenticare l’Annie Moreau che aveva perso ma dalla quale non riusciva a liberarsi del tutto. Voleva una famiglia, voleva qualcuno che combattesse per lei. Come ogni essere umano, per essere certa di essere viva aveva bisogno di essere vista, che qualcuno si accorgesse di lei. Cercava in ogni modo di non dar peso alla cosa, quando usciva dalla sua stanza. Sorrideva, rivolgeva occhiate ciniche a chi si soffermava troppo sul suo ”volto”, lavorava al castello insieme ad Henderson credendo che quella fosse la strada giusta. Guardava gli studenti, chiedendosi cosa ci fosse di così stranamente familiare nei loro volti. Li guardava, e riconosceva nella piega delle loro labbra e nello sguardo chino, quel lato di sé che cercava ogni dannato giorno di lasciare al Paiolo Magico. Come se potesse abbandonarlo lì, fingendo per il resto del tempo di essere una ragazza normale. Come se fosse normale per chiunque risvegliarsi in luoghi che mai aveva visto, senza sapere come aveva fatto per raggiungerli. Come se fosse normale per chiunque continuare a vedere ancora, e ancora, e ancora tutto quel sangue. Un brivido la costrinse a stringersi le braccia al petto, e fu in quel gesto che si rese conto di star camminando a fianco della bibliotecaria, Kay. Si era dimenticata completamente della sua presenza, e le era sfuggito il momento in cui aveva acconsentito a quella passeggiata. Poi si lamentava che non aveva amici. Le rivolse un sorriso di scuse, quasi timido, mentre continuava a studiarne il profilo. Aveva qualcosa… qualcosante. Sempre un qualcosa che mai riusciva a capire, ma rimaneva incastrato alla base della lingua ricordandole che c’era e non poteva ignorarlo. Bagasha.
    «Perché no? Io conosco pochi colleghi, ma con nessuno ho un rapporto di amicizia. Tutti si limitano a chiedermi questo e quell’altro, a nessuno interessa davvero conoscere la tipa della biblioteca» Si morse l’interno della guancia, alzando gli occhi al cielo con una smorfia divertita. Non aveva dubbi in proposito, aveva constato sulla sua pelle quanto le persone fossero talmente prese dalla loro vita da dimenticarsi che esistevano altre persone, altre vite, che magari –magari- valeva la pena osservare una seconda volta, soffermarcisi senza passare oltre. «A me interessa» Rispose sincera, ammiccando nella sua direzione. Non che le interessasse conoscere le bibliotecarie, di solito, ma solo perché non frequentava biblioteche nel quale incontrarne #truestory. «Ho conosciuto solo Chbosky, l’assistente di quello di Arti Oscure, Damian» Corrugò le sopracciglia, cercando di concentrarsi nel ricollegare i nomi ai volti. Chbqualcosa non ricordava di averlo mai sentito nominare, ma Damian era piuttosto difficile da dimenticare. Annuì, fingendo di comprendere a chi si riferisse: continuare a fare sciocche domande da ignorante non avrebbe certo fatto bene alla sua immagine, che già aveva presentato come picchiatrice di molestatori sessuali. Doveva mantenere un certo contegno. «E, detto tra noi, Damian Icesprite mi sta sull’esofago. Non riesco a digerirlo» Rialzò lo sguardo che aveva abbassato sulle proprie mani giunte sulla Lewis, rivolgendole un sorriso sarcastico ed un sopracciglio inarcato. «Non lo conosco, però… mi sembra molto rigoroso. Ma è un gran bell’uomo, quindi insomma, gli si perdona tutto» Il sorriso divenne vagamente malizioso. Da quando Lydia faceva confidenze (?) sugli uomini? Ad una sconosciuta, poi. Beh, in effetti con Henderson aveva poco di cui parlare riguardo quel frangente. Damian Icesprite era oggettivamente un gran bel fio, ma ormai doveva essersi capito che non era il suo tipo. Preferiva occhi color cioccolato e sguardo più ferito, preferiva una piega delle labbra più morbida e le lentiggini, preferiva Jay …cosa? Niente, niente. Portò le mani ai fianchi, continuando a camminare. «Io conosco solo il professore, Henderson. Un tipo tutto particolare, sembra tanto badass, ed invece è buono come il pane: dev’essere l’eye liner» Si strinse nelle spalle, confusa e rischiarata al contempo da quell’improvvisa illuminazione. Ecco qual era il suo trucco! Letteralmente #wat. «Un po’ in fissa con gli zombie, ma chi non lo è?» Io, che neanche sapevo cosa fossero. Ma sono dettagli.
    Indicò un chiosco lì a fianco con un cenno del capo, facendo schioccare la lingua. «Ti va un milkshake? Non ne ho mai mangiato uno» Si fermò, alzando una mano a mezz’aria, e di sottecchi lanciò uno sguardo a Kay. «… Si mangia o si beve, un milkshake?»
    Dubbi da alzheimer.
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    « sheet - 21 - ex ravenclaw - neutralchic - librarian »
    La ragazza rossa – non Kaylyn, non faceva ridere – sbuffò portando gli occhi al cielo, divertita. Kaylyn si affrettò ad abbassare lo sguardo, pensando di aver detto qualcosa di stupido. Cosa aveva detto? Ah, se non lo sai te. Ah sì, che a nessuno interessava conoscere la tipa della biblioteca. Si sentì un po’ offesa, era completamente vero e soprattutto non faceva ridere. Ecco uno dei difetti di Kaylyn: essere troppo istintiva e pensare o fare subito qualcosa di sbagliato. Però l’altra rosse rispose con un “A me interessa”. Il volto di Kay s’illuminò e sorrise, guardando la Hadaway. Poche persone si erano dimostrate sinceramente interessate a lei, e quelle persone poteva contarle sulle dita delle mani. Era felice di poter alzare un altro dito in quel conteggio, e già Lydia Hadaway le stava simpatica. Non ricordava se le stava già simpatica o se già l’aveva pensato, ma insomma, tanto pensarlo un’altra volta non faceva mai male.
    Riguardo a Damian, Lydia commentò: “Non lo conosco, però… mi sembra molto rigoroso. Ma è un gran bell’uomo, quindi insomma, gli si perdona tutto”. Kay sorrise con fare malizioso e divertito insieme, inclinando di lato il capo. In effetti Icesprite era davvero un gran bell’uomo tanto quanto lo era la sua fidanzata, Anjelika Queen. Solo che Anjelika aveva una bellezza che si aveva paura al solo guardarla, anzi terrore. Invece a Damian si poteva guardare senza tutta quella paura. Non che Damian non incutesse timore, solo che Anjelika inquietava molto di più. Anche il rosso dei suoi capelli era innaturale. E poi non sorrideva mai, al massimo ghignava. Quindi, alla fine, Anjelika sembrava essere solo un mostro con sembianze umane. #sksAnje
    “Io conosco solo il professore, Henderson. Un tipo tutto particolare, sembra tanto badass, ed invece è buono come il pane: dev’essere l’eye liner”, disse invece riguardo al professore di Controllo dei Poteri. “Un po’ in fissa con gli zombie, ma chi non lo è?”. Kay alzò le spalle: «Io?», rispose di getto.
    Era una domanda retorica.
    Ah ops.

    Aggiunse subito: «Comunque non lo conosco, però è vero che sembra badass, sì. E poi sorride come se…», portò il labbro inferiore all’infuori, cercando le parole giuste, ma non ne trovò. Nonostante leggesse miliardi di libri e vivesse in mezzo ad essi, sì. È l’Alzheimer, figliuoli miei. «Insomma, è inquietante», concluse, senza sapere in che altro modo poterlo definire. Aggrottò la fronte, immaginando il tenebroso professore degli Esperimenti senza eye-liner. In effetti portava l’eye-liner ma non ci aveva mai fatto caso prima d’ora. «In effetti, senza eye-liner sembra…», se lo immaginò sorridente, con gli occhi aperti e dolciosi, «…un orsacchiotto a capo di una nave pirata che contrabbanda caramelle», concluse. Alzò le spalle guardando Lydia. «Amo gli orsetti, quelli di peluche», tentò di giustificarsi infantilmente.
    Ad un certo punto le due si fermarono. Lydia indicò un chiosco lì vicino. Kay non ricordava se aveva i soldi dietro. Anzi non gli saltò in mente nemmeno di controllare se avesse soldi. Dettagli, al massimo avrebbe chiesto un prestito a Lydia, facendosi già odiare. Bei modi di spezzare subito nuove amicizie. “Ti va un milkshake? Non ne ho mai mangiato uno”. Kaylyn annuì confusa, senza aver capito cosa avesse detto. Un milk che? Un Milkobitch. #wat “… Si mangia o si beve, un milkshake?”. Almeno non era l’unica a jnon sapere cosa fosse. Almeno aveva capito che era un milkshake. Era un… latte che scuoteva? #wtf Kaylyn, per non fare un’altra figura di merda delle sue, rispose con un «Mai assaggiato neanch’io», sempre meglio di “Non so cosa sia e nemmeno che esistesse”. «Credo», aggiunse poi mormorando, incerta.
    Kaylyn “Kay” Lewis – la vita è una rosa dove ogni petalo è un’illusione e ogni spina una realtà

    © psìche, non copiare.


    Ho cambiato da prima a terza persona perché con la prima persona non mi trovo più bene (??) ops
     
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    Lydia Hadaway
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    Discorrere di Henderson, il suo capo, le faceva uno strano effetto. Non aveva mai avuto modo, o motivo, di parlarne con qualcuno, e non poteva impedire alla propria voce di tradire una nota di quello che non sarebbe stato erroneo definire affetto. Da quando era tornata al mondo, lui era l’unico che l’aveva sempre trattata normalmente, senza farle domande imbarazzanti o scomode riguardo un passato del quale non aveva memoria; lentamente, giorno dopo giorno, le stava anzi insegnando nuovamente a vivere, e Lydia non smetteva di scoprire cose nuove. Incomprensibilmente per qualunque essere umano dotato di raziocinio, Nate non era solo il suo capo, ma il suo punto di riferimento. Scherzava di quel lato particolare che in tanti ritenevano divertente ed al contempo poco consono ad un ministeriale, ma lo faceva con una dolcezza che nessuno avrebbe mai potuto associare ad Annie Moreau, la francese che a malapena aveva riservato uno stretto sorriso a suo fratello Ethienne. Era qualcosa che apparteneva a Lydia Hadaway, a lei ed a nessun altro. Uno dei tratti che definivano quella nuova ragazza che perfino ella stessa doveva imparare a conoscere, i cui occhi verde bosco ancora riflettevano una bianca tabula rasa. Quando si trovava nell’aula di controllo dei poteri, non si sentiva quella strana perché non riusciva a dormire, fuori posto perché si risvegliava in luoghi che non conosceva, malata perché le bastava un battito di ciglia per ritrovarsi dalla parte opposta della città senza ricordarsi come vi era giunta. Inspirava profondamente, drizzava la schiena e si acconciava i capelli, dimentica di ciò che il buio le sussurrava: Lydia sapeva che il buio parlava anche a loro, poteva sopravvivere. Quando al fianco di Nate sorrideva a quei ragazzi, Lydia si sentiva importante. Non più invisibile, la vedevano. Ovviamente non era qualcosa che avrebbe potuto spiegare a Kay, o a chiunque altro, quindi si limitò a sorridere divertita quando le rispose: «Comunque non lo conosco, però è vero che sembra badass, sì. E poi sorride come se…Insomma, è inquietante» Inquietante. Chissà se la cosa avrebbe fatto piacere a Nate, o l’avrebbe offeso.
    Conoscendolo (ma perché, lo conosci? E da quando? #amoreaprimavista), la prima; e con tanto di occhiolino ammiccante accompagnato da un rauco verso piratesco. «In effetti, senza eye-liner sembra…un orsacchiotto a capo di una nave pirata che contrabbanda caramelle» Wat. Lydia sbattè più volte le ciglia, cercando a) di comprendere il significato di quelle parole, era forse un modo di dire che ancora le era sconosciuto? B) … no, niente, semplicemente non aveva capito. Si obbligò comunque ad annuire, sorridendo con convinzione per timore di offenderla. Dopotutto non era colpa di nessuna delle due, se Lydia a malapena sapeva cos’era un orso. E proprio non riusciva ad immaginare Nate a contrabbandare caramelle, o Nate in versione così tenera. Al massimo le caramelle le drogava, e poi rideva delle vittime con una pungente ironia che avrebbe divertito solamente lui. «Amo gli orsetti, quelli di peluche» Ed ebbe, la Hadaway, un altro di quei brevi ed insignificanti momenti nel quale tutto, tutto, assumeva una sfumatura differente. Vide due bambine, l’una bionda e l’altra rossa, litigarsi un giocattolo, ed un paio di mani ancora più piccole e goffe agguantarlo, stringerlo, per poi fuggire vittoriosa. Meccanicamente arretrò di un passo, dimentica del sorriso e del divertimento che fino a qualche istante prima avevano illuminato il suo viso. Si strinse le braccia al petto, alzando gli occhi vero Kay. Cosa le era preso? Provava una sensazione strana al suo fianco, era come se la conoscesse. Peccato che provasse la medesima sorpresa, una stretta allo stomaco, con pressoché chiunque, in quel maledetto posto. «Mai assaggiato neanch’io. Credo» La Hadaway corrugò le sopracciglia, rivolgendole un dubbioso sorriso di sottecchi mentre prendeva posto su uno degli alti tavoli posti vicino al chiosco. Credo? Cosa significava? La sua coda di paglia la obbligava a pensare che si trattasse di una frecciatina nei suoi confronti, una sottile ironia per quel vuoto di memoria che la consumava; eppure aveva avvertito una sincerità, in quell’ammissione, che per un istante le aveva fatto sentire il proprio respiro più leggero, meno obbligato. Credeva? Non era l’unica, Lydia Hadaway, a non sapere cosa diamine fosse un milk shake, o se mai ne avesse assaggiato uno? Sarebbe stato maleducato chiedere conferma, se ne rendeva conto; allo stesso tempo, era arrivata ad un punto della sua vita nel quale aveva capito che mostrare tatto non portava da nessuna parte. Doveva ancora capire, effettivamente, se Kay fosse come lei o se semplicemente fosse un po’ svitata.
    In senso buono, eh. Forse. Ma chi era lei, che aveva appena tirato un pugno ad uno sconosciuto, per giudicare? Prese il menù, porgendone una copia plastificata anche alla Lewis. «Tu…» Si schiarì la voce, cercando di dare al proprio tono una sfumatura leggera e disinteressata, come se non fosse davvero importante, né tantomeno grave. «Perché hai detto credo? Era solo un modo di dire?» Chiese, ma senza mai alzare gli occhi su di lei. Continuò a leggere i gusti del milkshake, ma era così distratta dalla situazione esterna che non ne comprese, invero, neanche uno. Alla fine optò per il primo della lista, giusto perché essendo il primo doveva essere buono per forza #wat. «Penso che lo prenderò alla vaniglia. Se il budino è buono, perché non dovrebbe esserlo anche un milkshake?» Si strinse nelle spalle, alzando le sopracciglia. C’era una logica, non era solo una scelta casuale. Davvero.
    Seh. Vai così, Lydia.

    sheet 18 pureblood amnesiac wtf? pensieve
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