Do i have to run and hide?

Lilith & Donald

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  1. •BLOODPATH
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    Pare che sia stata colpita da una rara malattia nel corso delle ultime vacanze estive, e questo inconveniente le è costato buona parte dell'anno scolastico. E' tornata ad Hogwarts il 23 Febbraio, ma le circostanze della sua momentanea sparizione sono ancora un mistero per la maggior parte degli studenti. Inutile dire che non ha affatto voglia di parlarne, e non è intenzionata a farlo.
    E' affetta da una malattia congenita chiamata albinismo, cosa che comporta per lei l'impossibilità di esporsi ai raggi solari troppo al lungo o in maniera eccessivamente diretta.
    I suoi occhi possono cambiare tonalità a seconda delle sue emozioni, illuminandosi di un tenue violetto o cangiando in un intenso rosso.
    Quando prova emozioni profondamente negative la sua magia diventa pericolosamente instabile, arrivando talvolta ad influire distruttivamente sull'ambiente che la circonda. Ciò può facilmente portarla a ferire se stessa e gli altri.
    Teme il buio, ed ha la fobia degli spazi stretti e/o chiusi. L'idea di essere rinchiusa in un luogo dalla quale non può fuggire la terrorizza.
    Talvolta, senza davvero volerlo, le capita di percepire emozioni e pensieri altrui.
    E' in grado di interagire facilmente con gli animali e le bestie magiche.
    Oltre all'Inglese é in grado di parlare fluidamente il Tedesco e il Russo.
    Ha delle buone conoscenze musicali e sa suonare il violino.
    abbigliamento / foto Lilith indossa l'uniforme scolastica della sua casata, ed ha con se la sciarpa a causa del pungente freddo; la tiene avvolta attorno al collo, e di tanto in tanto vi nasconde dietro parte del volto. I capelli le ricadono con ordine lungo la schiena, ma alcune delle ciocche anteriori sono state elegantemente intrecciate attorno alla nuca. Le sue gambe sono fasciate da delle prigine bianche, lunghe fino alle cosce, e porta ai piedi un semplice paio di Mary Janes in vernice nera.



    Lilith Symphonia
    Fallen Angel ⋆ 17 ⋆ Pureblood ⋆ Neutral ⋆ Lonely ⋆
    Credevo che tornare ad Hogwarts sarebbe stato l'equivalente di ricominciare a respirare, di riemergere in superficie dopo un lungo periodo di tempo trascorso in apnea all'interno di acque gelide e fin troppo ostili. Tutta la pressione, l'angoscia e il risentimento provati durante quegli interminabili mesi estivi, ero convinta che si sarebbero magicamente dissolti nell'aria nell'istante in cui il mio corpo avrebbe varcato l'ingresso del castello. Avevo immaginato tante volte quel momento, arrivando perfino a viverlo in uno dei pochi sogni gradevoli in cui la mia mente, ormai stremata da intere nottate fatte solo di incubi, era stata in grado di rifugiarsi:
    Volti, espressioni, risate. Gli studenti, rinvigoriti da delle vacanze presumibilmente soddisfacenti, avrebbero schiamazzato vivacemente per tutta la durata della cerimonia di apertura. Io avrei sbuffato, comportandomi come se quel familiare baccano mi stesse disturbando per poi rivolgere lo sguardo ai nuovi arrivati con una strana luce negli occhi. Nostalgia, avrei realizzato ben presto. Immagini appartenenti al passato, a quel punto, si sarebbero gentilmente sovrapposte alla realtà, ed io le avrei accolte senza protestare; sarei stata in grado di rivedere la me stessa del passato, se lo avessi fatto. La minuscola Lilith undicenne che, terrorizzata dall'idea che i suoi occhi potessero tingersi di rosso di fronte all'intera Sala Grande, aveva scelto di rifugiarsi in un dolce abisso fatto di ricordi mentre gli altri novellini venivano smistati. Quella candida bambina, temendo di non superare quella che ai suoi occhi aveva tutta l'aria di essere una vera e propria prova, aveva fatto appello ai suoi genitori pensando che questi, in un modo o nell'altro, sarebbero stati in grado di aiutarla. Le loro voci erano riemerse da memorie che sembravano ormai appartenere ad una vita passata, riecheggiando all'interno della sua mente e pronunciandole parole risalenti a dei tempi perduti. Le vicissitudini dei 7 anni in cui lei, indipendentemente dal suo aspetto e dalle sue strane peculiarità, era stata davvero felice. Un passato che non sarebbe mai ritornato.
    Dopo quelle rimembranze mi sarei sicuramente stretta all'interno dell'uniforme, lottando per dei brevi istanti contro uno sgradevole senso di sconforto. Quella spiacevole sensazione, dopo aver portato il mio stomaco a stringersi dolorosamente per alcuni istanti, sarebbe stata prontamente ricacciata indietro; l'avrei deglutita assieme ad un sorso d'acqua, probabilmente, lasciando andare un sospiro che nessuno, a causa del brusio generale, avrebbe mai potuto udire.
    Vita, emozioni, colori. Quante volte la Lilith del primo anno aveva rimuginato sul significato della sua stessa esistenza? Quante volte si era incantata di fronte ai drappeggi dei Grifondoro, non potendo credere di essere diventata realmente parte di qualcosa? Tante, mi sarei detta. Troppe, per una bambina. Ma io non era mai stata una ragazzina qualsiasi, quindi non c'era nulla di cui stupirsi, giusto? Avrei dunque socchiuso gli occhi, rivivendo quel momento come se si fosse trattato di un avvenimento del giorno precedente. La piccola Lilith si era rifiutata di fallire, era avanzata verso il cappello parlante una volta che la professoressa aveva chiamato il suo nome. Erano stati dei minuti infinitamente lunghi, quelli. Il cappello, dopo essere stato posato sul suo capo, si era detto fin troppo indeciso per poter prendere istantaneamente una decisione. I suoi pensieri erano troppo ingarbugliati, e il povero pezzo di stoffa aveva bisogno di tempo per poterli esaminare tutti. Doveva scrutare con meticolosa attenzione ogni sua idea, dalla più vistosa alla più effimera, per capire con esattezza quale fosse la casata più adatta a lei. Rosso, oro, verde, argento, giallo, nero, blu, bronzo; la se stessa del passato quasi impazziva, di fronte a tutte quelle tonalità. In fin dei conti, come poteva una persona così incolore esservi ricollegata? La soluzione a quel rompicapo sembrava impossibile da raggiungere. Eppure, ce l'aveva fatta. Il cappello parlante, alla fine, aveva esclamato a gran voce il verdetto finale. Lilith Symphonia era stata collocata tra i Grifondoro, la casata a cui era appartenuta sua madre Elisabeth.
    Amici, nemici, storie. L'ultimo studente sarebbe stato smistato ed allora il banchetto, per la gioia dei presenti, avrebbe avuto ufficialmente inizio. Ma io non avrei proferito parola, non avrei sussultato quando il vociare dei presenti si sarebbe fatto improvvisamente più rumoroso, ne tantomeno avrei abbandonato quel sogno ad occhi aperti. Proprio in quel momento, infatti, sarei stata in grado di afferare l'ultimo tassello del puzzle; avrei ottenuto la risposta che cercavo, la soluzione all'enigma che per l'intera durata degli anni trascorsi ad Hogwarts aveva attanagliato i miei peniseri più reconditi. L'illusione raffigurante la piccola Lilith si sarebbe dissolta, ed io sarei finalmente tornata ad essere un tutt'uno con la me stessa di quei tempi.

    Non era stato il cappello parlante, ero stata io...
    O almeno, questo è quel che mi sarebbe piaciuto dire.
    Ma le aspettative e la realtà dei fatti, purtroppo, raramente finivano col combaciare.

    Era stato un sogno indubbiamente piacevole, quello, tanto che un'altra persona, al posto mio, avrebbe forse scelto di non svegliarsi mai più. Ma non io, certamente, perché non ero mai stata così debole. La mia vita, in un modo o nell'altro, doveva andare avanti e lo avrebbe fatto. Che fossero atroci incubi o sogni dolci ed infinitamente carezzevoli, io avrei continuato a riaprire gli occhi. E così, nel corso di quegli orribili mesi, la stessa scena non aveva fatto altro che ripetersi incessantemente: le illusioni venivano spazzate via dalle prime luci dell'alba, ma non appena il calar del sole sopraggiungeva queste tornavano, più forti di prima, pronte a tormentare la mia mente per l'ennesima volta. Dopo quella lunga serie di notti insopportabilmente statiche ero divenuta stanca, poco attenta, e a malapena in grado di distinguere il vero dal falso. Avevo perso del tutto l'appetito, e i primi sintomi dell'emaciamento dovuto a quel ben poco salutare stile di vita avevano in breve tempo segnato il mio corpo. Ero sfinita, già, eppure ancora in piedi.
    Ma non era forse quello l'importante, in fin dei conti? Rimanere in piedi, resistere, trattenere il respiro finché quel dannato supplizio non sarebbe terminato. Sopportare quella situazione fino a quando, finalmente, il tanto atteso giorno del mio ritorno ad Hogwarts non sarebbe sopraggiunto. Quell'unico pensiero, in un modo o nell'altro, era bastato ad infondere in me la forza necessaria a superare quel periodo: avevo finito con l'aggrapparmi all'immagine della scuola di magia e stregoneria come se quest'ultima fosse stata una vera e propria ancora di salvezza, in qualche modo convinta che rimettervi piede sarebbe stato sufficiente a cancellare completamente gli eventi relativi a quelle sgradevoli vacanze, se così potevano essere definite.
    Quanto potevo essere stata sciocca, per ritenere che una cosa simile sarebbe bastata a risolvere i miei problemi? Avrei dovuto sapere fin troppo bene che, indipendentemente dalla mia resistenza, non sarei mai stata in grado di svegliarmi da quell'incubo. Perché le decisioni dell'usurpatore che portava senza vergogna il nome di capofamiglia, per mia sfortuna, erano tristemente reali. Sapevo di non poter fuggire da esse, ma non intendevo ugualmente accettare quel radicale cambiamento. Desideravo essere lì per la cerimonia di apertura eppure, a causa di quell'uomo, avevo finito col perdere molto di più.
    Ripensai alla malattia dalla quale ero stata colpita, ed una dolorosa fitta mi attraversò il petto come una lama affilata, soffocando la rabbia scaturita da quelle riflessioni. Oh no, poco ma sicuro, non stavo affatto tornando in superficie, e quello era solo l'inizio. Come avevo fatto a non notarlo prima? Il mio corpo era già stato trascinato via dalla corrente, ed i miei polmoni presto sarebbero collassati a causa dell'assenza di ossigeno. In quel momento non c'erano Lilith del passato e Lilith del futuro, c'ero solo io, e quando lo capii una certezza si fece impietosamente largo in me: stavo affondando, e non c'era più nulla a cui io potessi aggrapparmi per rimanere a galla. Potevo solo rassegnarmi ed accettare quel fato, ma sapevo fin troppo bene che quello sarebbe stato un destino ben peggiore della morte stessa. Inutile dirlo, Lilith Symphonia non avrebbe mai accettato una sconfitta così umiliante... ma chi ero io, esattamente? Qual'era la mia identità, ora che le cose erano cambiate? In un lampo - e senza alcun preavviso - il mondo a me circostante venne spazzato via da un nuovo elemento, una nuova luce, accompagnata da un suono a me stranamente familiare. Udii una voce nella mia testa, e allora ogni cosa venne capovolta.

    ● ● ●

    Fu questione di un solo istante: le mie palpebre si spalancarono, e prima ancora che io riuscissi a realizzare l'accaduto quella singolare scena sfuggì al mio sguardo, trasformandosi in un confuso ricordo, relegato da qualche parte all'interno del mio subconscio. Il mio petto si alzava e abbassava ad un ritmo frenetico, e la mia fronte pallida era lievemente imperlata da delle piccole gocce di sudore. Avevo un aspetto stravolto e le mie iridi, tinte di rosso, fissavano il soffitto senza vederlo davvero. Dove mi trovavo? Dov'era finito l'oceano? Fino a poco prima il mio corpo era stato in balia dell'acqua; le onde e la corrente mi avevano quasi ucciso, eppure non stavo più annegando. La mia schiena, a pensarci, si trovava al di sopra di una superficie morbida...
    Sbattei le palpebre un paio di volte, per poi tirare un lungo sospiro. Doveva essersi trattato dell'ennesimo sogno, dedussi, e per poco credetti di trovarmi ancora nel palazzo di mio zio Viktor. Quel timore congelò i miei muscoli per qualche attimo, ma fui prontamente in grado di reprimerlo. Ero certa di essermi addormentata nel mio letto, situato in una stanza del dormitorio femminile di Grifondoro, ad Hogwarts. Con un po' di fortuna non avrei rivisto quel postaccio per molto, molto tempo. Solo allora i miei occhi tornarono alla normalità, facendo si che le mie tempie venissero colpite da una spiacevole quanto fulminea stilettata di dolore. Ci ero abituata, ormai, perciò passò più in fretta del previsto.
    Mi rilassai appena, ma quella crescente agitazione non accennò minimamente a voler svanire del tutto. Sapevo di essere al sicuro, ma qualcosa continuava ad essere tremendamente fuori posto. Ero sicura di aver sentito una voce, poco prima. Non ne rimembravo il timbro, ne tantomeno il tono; non avrei neppure saputo dire se fosse stata una voce maschile o femminile, a dirla tutta, e non conservavo alcun ricordo delle sue... parole? Aveva realmente detto qualcosa? Non potevo esserne certa. Le mie, senza alcuna prova tangibile, si limitavano ad essere delle mere supposizioni. Forse, tutto sommato, quel suono era stato un semplice scherzo dei sensi. Già, proprio così, dovevo essermi immaginata tutto, eppure... era stato così reale. Le sensazioni che quel sogno mi aveva trasmesso riverberavano ancora nel mio petto, e ad ogni battito cardiaco le avvertivo crescere, straripare, come a volermi comunicare che quella, al contrario delle mie aspettative, non era stata affatto un'illusione. Fu proprio allora che, senza un motivo ben preciso, capii di aver appena ricevuto la conferma ad uno dei miei più radicati timori: il passato che avevo rincorso senza sosta, ancora una volta, non sarebbe tornato da me. Non lo avrebbe mai più fatto, e forse per me era giunto il momento di accettare la realtà dei fatti.

    ● ● ●

    Quella mattina non ero dell'umore adatto per recarmi nella Sala Grande, perciò senza pensarci troppo decisi semplicemente di saltare la colazione, convinta che non sarebbe stato un gran problema. Già, piuttosto inutile dirlo, ma quella fu davvero una pessima scelta. Non che io avessi fame, in realtà; a causa di quel terribile risveglio mi sentivo vagamente nauseata, ed il mio stomaco dopo il banchetto della sera precedente non sembrava pronto a ricevere dell'altro cibo. Ero convinta che, se solo avessi provato ad ingerire qualcosa, quest'ultimo l'avrebbe rigettata intera senza alcun tipo di remore. L'idea di ritrovarmi con un biscotto incastrato in gola non era particolarmente allettante, in fin dei conti, ma come pensavo di superare il mio primo giorno di lezioni senza disporre delle energie necessarie? Come al solito, probabilmente: sarei andata avanti per inerizia, sperando di non collassare a metà strada. Oh sì, sfidare la sorte era decisamente un bel modo di affrontare quel primo giorno! Sbuffai, stringendomi nelle spalle. In fondo la colpa era solo mia, quindi non avevo il diritto di lamentarmene ora che il danno era stato irreversibilmente compiuto. Non che io vi prestassi particolarmente attenzione, ad essere sincera, ma sarebbe stato indubbiamente sgradevole svenire da qualche parte. Oh, cosa stavo dicendo? Ah, già: quella era decisamente una splendida giornata, a dir poco perfetta per finire in infermeria!
    Scossi il capo con l'intento di scacciare quei pensieri negativi, per poi accelerare il passo. Mi sarei dovuta dirigere al terzo piano, verso l'aula di Arti Oscure per essere più precisa. Adoravo quella materia, ma nonostante io apprezzassi l'idea di potervi cominciare l'anno scolastico non mi sentivo affatto in vena di gioire, ne tantomeno di vedere dei volti che, dopo i recenti avvenimenti, mi avrebbero scrutata con espressioni ben diverse da quelle che avevo modo di ricordare.
    Mi era stato concesso il permesso di rimanere nel dormitorio nel caso non mi fossi sentita bene, ma cosa avrei dovuto dire al riguardo? Non avevo assolutamente voglia di ritornare al letto. Solo l'idea di rimanere ferma dopo tutti quei mesi di inattività, ad essere onesta, bastava a disgustarmi più di quanto non avrebbero fatto gli sguardi indagatori degli altri studenti. Ma in fondo, qualcuno mi avrebbe davvero biasimata per aver perso anche quella lezione? Forse, o per meglio dire sicuramente. Peccato solo che, alla luce dei fatti, dell'opinione di una banda di ficcanaso mi importasse relativamente poco. Al contrario, invece, avevo la netta sensazione che la mia vita sarebbe stata in grado di procedere benissimo anche senza una lunga serie di domande inutili e spudoratamente invadenti.
    Decisi quindi di recarmi in un posto tranquillo, e la scelta ricadde sulla torre di Astronomia; supponevo che il rischio di incappare in delle sgradite forme di vita umanoidi lassù fosse perlomeno basso. Insomma, chi si sarebbe mai recato lì in pieno giorno, e per di più durante l'orario delle lezioni? Apparte me, ovviamente. Chissà, magari quel luogo si era trasformato nel nascondiglio segreto dei disertori scolastici ed io, resa ignara da quell'assenza prolungata, stavo inconsciamente per gettarmi nelle fauci del nemico più temuto di sempre: lo studente latitante, più comunemente noto come colui che non sai neppure di avere in classe.
    Lasciai andare un sospiro, gettando una rapida occhiata alle mie spalle nell'atto di procedere lungo le scale. Che qualcuno mi avesse vista? Ne dubitavo, ma avevo comunque intenzione di esercitare cautela. Non che mi importasse di essere eventualmente colta a sgattaiolare via, a dirla tutta, ma volevo assicurarmi del fatto che nessuno mi stesse seguendo. Purtroppo per me, le nobili gesta del mio brillante zio non erano esattamente rinomate per accrescere la buona reputazione di chi aveva la sfortuna di esserci imparentato, specialmente se poi non lo era abbastanza da impedire che un paio di bacchette finissero col puntarsi misteriosamente contro la propria schiena.
    Diamine, ma quelle scale non finivano mai? Affermare che i miei muscoli stessero dolendo sarebbe stato un bell'eufemismo; un'altra persona al posto mio si sarebbe sicuramente fermata a riprendere fiato, in quelle precarie condizioni fisiche. Ma non io, ovviamente, perché non disponevo di un'indole tanto arrendevole da permettermi di cedere a metà strada. Quello era ancora il mio corpo, in fin dei conti, e lo avrei fatto tornare nelle stesse condizioni in cui si trovava prima che quella dannata malattia lo colpisse.
    Con quel pensiero in testa continuai a muovere le gambe, ed il mio ostinato avanzare si arrestò solo quando superai finalmente l'ultimo gradino, raggiungendo così l'entrata dell'osservatorio. Mi concessi un lungo respiro una volta lì, inalando a pieni polmoni la frizzante aria mattutina. Da quell'altezza l'ossigeno sembrava quasi avere un sapore, e il gelido sentore del vento invernale portava con sè qualcosa di estremamente familiare. Sapeva di libertà, ma allo stesso tempo di casa.

    « Sono tornata. »

    Pronunciai quelle parole senza neppure rendermene conto, e una scossa parve attraversare il mio corpo nell'istante in cui quel flebile sussurro raggiunse le mie orecchie. Mi strinsi all'interno dell'uniforme scolastica per poi muovere alcuni passi in direzione del parapetto, lasciando che il mio istinto mi guidasse. Vi appoggiai le braccia, ammirando con sguardo assorto il paesaggio sottostante; avevo scrutato innumerevoli volte quel panorama mozzafiato, ma ai miei occhi il suo splendore sembrava destinato a rimanere intatto, come se ogni visita alla torre di Astronomia fosse stata la prima.
    « Sono tornata. » Ripetei, e dal mio tono di voce trasparì una maggiore consapevolezza. Che io stessi cercando di convincermene? Che assurdità, del resto era ovvio che presto o tardi sarei stata in grado di lasciare il palazzo della mia famiglia... lo era, giusto? Ma allora, perché qualcosa sembrava essere tremendamente fuori posto? Mi sporsi leggermente dal parapetto, mentre una tenue luce violacea iniziava a farsi largo all'interno delle mie iridi. Ero così in alto... eppure non avevo paura. Se solo fossi scivolata, soltanto un miracolo avrebbe potuto salvarmi. Già, peccato che i miracoli non esistessero. Sarei sicuramente morta, se un simile inconveniente si fosse verificato. Lasciai andare un'impercettibile risata, allungando la mano destra verso il cielo come se fossi stata in procinto di afferrare qualcosa. Pronunciai per l'ennesima volta quella frase, osservando i raggi del sole penetrare attraverso le mie dita. Ma per qualche ragione, non fui in grado di fermarmi. Quest'ultima lasciò più e più volte le mie labbra, ancora e ancora, senza mai cambiare cadenza; se quella scena non fosse stata talmente sinistra da far accapponare la pelle di un qualsiasi osservatore casuale, sarebbe sembrato che io stessi recitando una specie di mantra, o un qualche tipo di incantesimo. Una preghiera, forse?
    Una delle mie scarpe a quel punto slittò pericolosamente sul pavimento, portando il mio corpo a sbilaciarsi in avanti. Solo allora mi fermai, trasalendo visibilmente nell'atto di aggrapparmi al parapetto. Il mio campo visivo si offuscò quando mi ritrovai faccia a faccia con il vuoto, ma sul mio volto non comparve alcuna emozione riconducibile al terrore che mi aveva attraversato il petto. Che diavolo stavo facendo? Non ne avevo idea, e ad essere sincera non volevo affatto scoprirlo. Il mio battito cariaco, inoltre, non accennava a rallentare.
    Mi allontanai di scatto non appena fui in grado di tornare con i piedi per terra, lottando silenziosamente contro quella crescente agitazione. Con un gesto apparentemente casuale ravviai una ciocca di capelli albini dietro l'orecchio sinistro, in un vano tentativo di recuperare la peculiare compostezza che era solita contraddistinguermi. Ma che senso aveva provarci, poi? Era ovvio che non sarebbe servito a niente.
    C'era qualcosa di strano nella mia testa. Qualcosa che, in un modo o nell'altro, somigliava tremendamente allo spazio vuoto lasciato da un prezioso tassello mancante. Ma allora, dov'era finito l'elemento in questione? Cos'era, esattamente, che avevo dimenticato?
    Cercai insistentemente la risposta all'interno della mia mente, ma i miei sforzi furono del tutto inutili. Perciò, infine, mi limitai a socchiudere gli occhi, permettendo inconsciamente a quegli strani pensieri di tornare nell'abisso dalla quale provenivano.

    "Dimmi, Lilith... è davvero così importante ricordare?"

    Lo era, pensai. O almeno, doveva esserlo. Eppure, a discapito di quella convinzione, non potei fare a meno di chiedermi a quali cambiamenti sarebbe stata soggetta la mia vita in seguito ad una simile rivelazione, temendone intimamente le conseguenze. Forse, tutto sommato, ricordare non era poi così importante. Forse avrei semplicemente dovuto lasciare che quelle memorie continuassero a dormire, proprio come avevo fatto fino a quel momento. La voce nella mia testa, del resto, continuava a ripetermelo sin da quando mi ero risvegliata dalla misteriosa malattia che aveva tentato di uccidermi: se desideravo vivere, dovevo rinunciare a quei ricordi.


    « I'm already trying my best just to live,
    what else do you possibly expect of me? »

    schema role © psìche



    Edited by •BLOODPATH - 26/2/2015, 02:09
     
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    Donnie Armstrong

    Scheda ▼ 19 ▼ Muggle ▼ RebelPawa! ▼ Pensieve

    Le mani poggiate distrattamente sul tavolo della cucina, impegnate nel continuo torturare la pelle più delicata confinante con le unghie sottili e corte, parevano un soggetto particolarmente interessante per lo sguardo assente di Donald Armstrong. Capitava sempre più spesso che Donnie si estraniasse dal mondo che lo circondava, chiudendosi nella propria mente ferita e danneggiata alla ricerca di risposte che non aveva. In quei momenti di assoluta lucidità, sentiva di essere concretamente tangibile, sensazione che invece sembrava sfuggirgli dalle mani impacciate ogni qual volta riapriva gli occhi sulla realtà comune. Ben prima dei Laboratori, e della battaglia in Irlanda, il moro era avvezzo a quella particolare forma di distrazione; un tempo, quando si assentava, la sua mente era affollata da mille progetti, idee, parole che con il loro solo prendere vita avrebbero cambiato il mondo. Era sempre stato un sognatore, nonché un ostinato paranoico che cercava sempre di ideare nuove situazioni apparentemente senza uscita, con il solo scopo di risolvere l’enigma. Aspettava con ansia che finisse quel periodo di meditazione, in modo da rendere partecipe anche il resto del mondo delle sue scoperte. Ma, ovviamente, nessuno si era mai interessato all’argomento. Quando qualcuno schioccava le dita davanti ai suoi azzurri occhi immobili, strappandolo da quell’universo in continuo movimento, Donnie si limitava a scuotere il capo con un sorriso mesto, ben sapendo che sarebbe sempre stato l’unico spettatore di quello spettacolo. Poi era quasi morto, e quell’assentarsi improvviso si era fatto più buio, e freddo: i rumori della battaglia, l’odore di terra smossa, il proprio sangue che impregnava la divisa da ribelle, il veleno che a forza si faceva strada verso il cuore. L’urlo di Jayden che gli rimbalzava nei timpani, a cui Donnie non riusciva a rispondere. Prima di perdere conoscenza, aveva davvero pensato che sarebbe tutto finito. Che, in un giorno come tanti altri, Donald Armstrong si sarebbe spento, senza lasciare nessuna traccia del suo passaggio. Al contrario di ogni aspettativa, era sopravvissuto; eppure, come ogni sopravvissuto, quella guerra sembrava non lasciarlo mai. I suoi sonni non erano più tranquilli, i suoi silenzi non erano mai solitari. Ma sarebbe andato avanti, perché ce l’aveva fatta.
    E fu verso la fine dell’estate, che i Dottori lo rapirono.
    Non voleva ripensare a quello che era successo all’interno dei Laboratori, eppure non poteva nemmeno evitarlo. Nel suo desiderio di dimenticare, si attaccava morbosamente ad ogni brandello di ricordo; il freddo del pavimento che penetrava i vestiti sottili, il fischio elettrico del teaser e l’odore di bruciato quando veniva lasciato troppo a lungo sulla pelle, le urla di chi non sarebbe arrivato a vedere l’alba del giorno dopo. I tentativi di fuga, che finivano sempre per lasciarlo dentro quella stessa cella, ma più ammaccato di quando ne era uscito. Gli occhi chiari del dottore, il sorriso folle ed orgoglioso derivante dal suo operato. Il labirinto. Ogni volta sentiva un buco all’interno del proprio petto che sembrava risucchiare ogni cosa, lasciandolo un guscio vuoto. Ed era in quei momenti che si estraniava, allontanandosi momentaneamente dal suo involucro di carne, alla ricerca di qualcos’altro -qualsiasi cosa- che potesse tenerlo ancorato a terra. Temeva di volare via, trascinato da quelle stesse urla che non lo lasciavano dormire. Ma aveva creato dei legami forti, che gli avevano permesso di non impazzire; Bart, il suo compagno di cella, non era l’unico. Ma nessuno sapeva chi altri rientrasse nella categoria, semplicemente perché Donnie se n’era sempre vergognato troppo per poterne parlare. Uno sguardo quasi trasparente, pelle sottile e bianca come carta. Mani che si sfioravano fra le sbarre, e un Armstrong più fiducioso di quanto in realtà non fosse che prometteva ad una ragazza dagli occhi viola che l’avrebbe salvata. Era così… sbagliata dentro quella cella. Sembrava un uccellino tenuto in una voliera troppo stretta, in cui non riusciva a dispiegare le ali per volare.
    “Donnie, hai sentito una parola di quello che ho detto?”
    Battè le palpebre più volte, posando le mani in grembo per poi cercare la fonte di quel vociare. Gli occhi azzurri si posarono su un Evans piuttosto corrucciato, che, appoggiata la spalla allo stipite della porta, lo guardava con le sopracciglia inarcate. Si morse il labbro inferiore, rivolgendogli un’espressione confusa. “È una domanda trabocchetto? Se dico di sì, mento. Se dico di no, è comunque una menzogna, perché ho appena sentito la tua domanda. Parla chiaro, Doctor Who” Bart sbuffò, risparmiandogli il solito interrogativo –“Chi è Doctor Who?”- a cui sarebbe seguita una filippica che perfino Donnie stesso era stanco di sorbirsi. Quasi, non ci si stanca mai abbastanza del Dottore. “Ho detto che oggi non vengo a lezione, non mi sento bene” In effetti, la sua fronte era imperlata di sudore. Gli occhi cercavano di imitare il sorriso delle labbra, ma Armstrong aveva intuito che c’era qualcosa che non andava. Solitamente non era bravo a capire le persone, affatto, ma con Evans era… diverso. Aveva imparato a capire quando il cronocineta non stava bene, riconoscendo gli stessi sintomi che aveva vissuto nei Laboratori. Si svegliava gridando, gli tremavano le mani, le rughe attorno agli occhi si facevano più pronunciate, la pelle si faceva tirata su un volto altrimenti morbido. A volte piangeva nel sonno, ma Donnie non glielo aveva mai detto, ben sapendo che Bart nemmeno se ne accorgeva. Semplicemente si svegliava e andava in camera sua, osservandolo in silenzio finchè non si riaddormentava, o finchè la respirazione non tornava regolare. Grugnì, inclinando il capo all’indietro. “Daaaaaaii Bartman, non lasciarmi da solo!” Donald non si vergognava ad ammettere le sue debolezze: non stava scherzando, voleva davvero che Bart muovesse quel suo culo e si recasse ad Hogwarts con lui. Il mondo era buio e pieno di terrore. il ragazzo gli sorrise cinico, prendendo qualcosa sulla credenza alle sue spalle. Qualcosa che poggiò poi sul tavolo fra loro, facendo riconoscere a Donnie la familiare forma cilindrica di Polgy. “Mi occupo di lui, no? Non vorrai mica lasciarlo da solo” Quella era un colpo dannatamente basso. Il tallone d’Achille di Armstrong era quel cacciavite, e Bart lo sapeva bene: se lo tirava in ballo, la situazione doveva essere grave. “Sta bene anche da solo” Bofonchiò facendo sprofondare le mani nelle tasche della felpa azzurra, ma entrambi sapevano che si era già arreso. Sarebbe andato al castello da solo, affrontando da solo quell’orribile ed estranea plebaglia che era il genere umano. Anzi, magico. Lo odiavano, e lui non capiva il perché. Non avrebbe dovuto essere il contrario? Non doveva essere Donnie ad odiare loro per quello che gli avevano –ambedue le volte- fatto? A Bart diceva sempre di lasciargli perdere, di non ascoltarli, ma quand’era da solo non riusciva ad essere così forte. E poi il professor Henderson lo angosciava nel profondo, forse perché indossava quegli abiti stravaganti che, quasi sicuramente, erano passati prima sotto le mani di Renato Zero. Sospirò profondamente, facendo strisciare le gambe della sedia sul pavimento di legno dell’appartamento di New Hovel. Il ritrovo con gli altri sarebbe stato di lì a poco, e non voleva essere l’ultimo ad arrivare come suo solito. Si rincuorò pensando che, probabilmente, ci sarebbe stato almeno Al. Era già qualcosa. Prese la giacca, ma prima di uscire si fermò qualche istante sulla soglia della porta, indeciso a compiere il passo che l’avrebbe portato fuori. Si voltò si tre quarti, volgendo a Bart i suoi incredibili occhi azzurri, trasparenti per chiunque tranne che per il diretto interessato. La voce gli si strozzò in gola, incapace di rendere in parole il miscuglio di sensazioni che sentiva nel petto. Cosa voleva, o poteva, dirgli? Che sarebbe andato tutto bene? Non era così. Le cose non si sarebbero sistemate, dovevano solamente imparare a conviverci. E quello decisamente non era un gran incoraggiamento. Scosse il capo ed uscì, chiudendo la porta dietro di sé. Vi si appoggiò qualche secondo, mentre il freddo arrossava le guance chiare ed il respiro diventava concreto in una nuvola di vapore. Puoi farcela, Donnie. Non ti faranno del male.
    Forse. O forse morirai. Di nuovo.

    Riusciva a concentrarsi abbastanza bene, ma riteneva superfluo dire al professore il motivo di tale allenamento: come tutti i maghi, non avrebbe capito i riferimenti al telefono cellulare, che persino in quel momento pesava confortevole nella tasca posteriore dei jeans. Donnie si rifiutava di mandare messaggi ai suoi genitori, od ai suoi amici nel mondo babbano, attraverso un volatile che nella migliore delle ipotesi avrebbe attaccato loro l’aviaria. Quando poteva, faceva confluire il potere nel telefonino, riuscendo ad accedere a whatsapp abbastanza a lungo da salutare i suoi, e da aggiornare Jay sulla fantastica meravigliosa vita nella cittadella magica. Non gli avrebbe mai detto quanto si trovasse male, lontano da casa. Jay non aveva alcun bisogno di saperlo. Stava vivendo la sua vita, com’era giusto che fosse, e Donnie non era più nei programmi da un pezzo. Lo vedeva nelle foto che postava su facebook, insieme ai suoi compagni di calcio, con il sorriso a trentadue denti rivolto verso l’obiettivo della fotocamera. Non aveva più bisogno di lui, l’amico strambo e speciale. Poteva vivere una vita normale, e non sarebbe stato Armstrong ad impedirglielo.
    Qualcuno picchiettò sulla spalla, nemmeno troppo garbatamente. “La lezione. Donnie. La lezione, è finita” Alzò lo sguardo su Sheridan, l’ultima rimasta all’interno dell’aula. Sembrava seccata di dover essere stata lei a risvegliare Donnie dalla sua trance, ma lui sapeva che in fondo non le dispiaceva poi così tanto. Doveva pur avere un cuore da qualche, no? E Armstrong era in grado di trovare quel briciolo di cuore che persino i più malvagi fingevano di non avere, figurarsi una ragazzina dall’anima spezzata. Trovare il buono nelle persone non era un problema. Trovare le persone e pensare che queste non volessero brutalmente ucciderlo era già un altro paio di maniche. “Grazie, Cherry” Lei assottigliò le palpebre, ed un’altra lei apparve fulminea al suo fianco. Ricevere fulminate da due paia d’occhi identici era davvero terrificante, anche se si trattava solo di una ragazzina. “Non chiamarmi Cherry” Sibilò, al che il babbano non potè che rispondere con le mani a palmo aperto in segno di resa. Gente permalosa, i maghi.
    Non voleva tornare subito a Diagon Alley. Voleva, masochisticamente, vedere come se le passavano a casa. Avevano scritto qualche stato sui social network dedicato a lui? Avevano condiviso qualche vecchia foto, magari quella dov’era impiastricciato di mozzarella e dove in primo piano svettava una pizza così unta da attirare l’attenzione delle tartarughe ninja? Prese il telefono. Le mani sudaticce premevano con forza ai lati dell’apparecchio, mentre Donnie con gli occhi serrati si lasciava sfuggire sbuffi affaticati dalle labbra serrate. Ma ebbe il suo premio: questi si accese. Gli avevano detto che ad Hogwarts la tecnologia non funzionava, ma quando mai una cosa del genere aveva potuto fermare Armstrong? Non c’erano limiti per un nerd elletrocineta, avrebbero dovuto inserirlo in quel loro tomo polveroso sulla storia del castello.
    Peccato non ci fosse campo. Si guardò attorno, come se l’alzare gli occhi al cielo potesse permettere alla rete 3G di superare la barriera magica. Ma forse… forse, se fosse salito sulla Torre più alta, sarebbe riuscito a fare quella cosa che nemmeno lui riusciva a spiegare. Sapeva che la magia gli era stata impiantata, non era naturale come quella dei maghi che affollavano il castello, eppure gestirla la rendeva sua, una naturale continuazione del suo essere. Quel potere, per quanto distorto e malato fosse, era Donald Armstrong. Si massaggiò il petto, laddove il ferro bruciava a contatto con la pelle, e cercò una strada per raggiungere una delle tante Torri di Hogwarts.
    Ovviamente, tre erano Off limits. “C’è lezione” “Ci sono i dormitori dei Corvonero” “C’è la sala comune dei Grifondoro” Ed ogni volta gli rivolgevano l’occhiata, come se avesse detto la cosa più stupida del mondo. Fatemi causa se non sono venuto a scuola qua, il mio liceo non aveva dei dormitori.
    Quando cominciò a salir le scale per l’unica Torre attualmente a sua disposizione, si maledisse. Dire che non era mai stato un ragazzo atletico, sarebbe stato un eufemismo: era un nerd, perdincibacco, la sua massima aspirazione era alzarsi dal letto per spostarsi sulla sedia della scrivania, o al massimo combattere con le spade laser contro nerd peggiori di lui. Poggiò la mano sulla parete di pietra, quasi potesse sostenerlo permettendogli di arrivare in cima. Ma non poteva avere un potere più utile, tipo il teletrasporto? O, ancora meglio, un bel paio di ali. No, doveva dare la scossa. Neanche fosse stato Carlo Conti. Ma, attenzione, ce la fece. Arrivò in cima a quell’apparentemente infinita rampa –era legale definirla rampa? Sembrava più il percorso dovuto fare da Goku per raggiungere re Kaio- e si lasciò andare in una risata isterica ed affaticata. “Beccati questa, signor Ferguson” Disse rivolto alla scala, pensando però al suo insegnante di Ginnastica del Liceo. Quell’uomo era il male incarnato docente in una scuola superiore, una specie di Satana in tuta da jogging. Rabbrividì, ripensando agli imbarazzanti scalda muscoli che li obbligava ad indossare nella sua ora.
    Si accorse troppo tardi di non essere solo, e quasi il telefono non gli cadde di mano. Ci sarebbe mancato, cazzius, che questo rifacesse tutti i gradini fino alla base della Torre. Dei capelli bianchi come la neve, sottili. Aveva sempre pensato sembrassero fili di una ragnatela, lavorati finchè non avevano cominciato a brillare di luce propria. Argentati, quasi, o così gli erano parsi molte volte quand’era nei Laboratori. Ma era impossibile. E poi chissà quante persone avevano una chioma simile, mica poteva conoscere tutti gli abitanti del castello. Eppure, Donnie riconobbe la postura, rimasta fiera anche dietro le sbarre della cella in cui li avevano sbattuti. Ma poteva sbagliarsi. Non era possibile. Doveva sbagliarsi. “Lilith?” Domandò in un sussurro, muovendo quasi impercettibilmente le labbra.


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