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James Joyce ♥ (lalala)

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    hannibal cannibal
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    James B. Ean
    Journalist|Slytherin|deatheater
    James Ean era un ragazzo piacente. Non era mai stato bello, né tanto meno carino: aveva un viso strano e un modo di comportarsi particolarmente antipatico; eppure ispirava fiducia quando non c'era da fidarsi e rispetto quando lui non era capace di darne. Rigirava le persone come gli era più comodo e alcune – parecchie – donne trovavano affascinanti i suoi modi eleganti e allo stesso tempo prepotenti: strinse la sigaretta tra le labbra per non farla cadere e facendosi scudo con la mano la accese con un semplice colpo di bacchetta. Il piccolo cilindro di carta prese fuoco e presto le braci della sua punta furono una delle poche cose che si potevano intravedere nell'oscurità di quella viuzza piccola e buia: non un lampione e non una finestra illuminavano il pavimento acciottolato della stradina, stretta tra due file di case malandate e vecchie. E non un suono, a parte quello delle suole di cuoio delle sue scarpe trascinate contro il suolo, riempiva l'aria fredda di quel di Febbraio: esalava fumo dalle narici e vapore dai pochi centimetri di pelle lasciati all'intemperie dell'inverno inglese di campagna. Scostò la sigaretta dalle labbra sorreggendola tra due delle lunghe e affusolate dita da scrittore; espulse tutto il fumo dai polmoni e sputò la saliva al gusto di tabacco che aveva tra la lingua e il palato. Calpestò il proprio lascito e avanzò lungo le vie esterne di quella Hogsmeade un po' oscura e parecchio tetra: bei ricordi assaltavano la sua mente, poco propensa ai sentimentalismi e alla nostalgia, mentre passeggiava da solo e annoiato. Non era sua abitudine afferrarsi al passato né regalare tempo a cose che erano successe o persone che non c'erano più nella sua vita: non lo dedicava nemmeno a coloro che continuavano a condividere la loro esistenza con lui (e non che a lui piacesse poi tanto, la cosa). La sua misantropia a volte rasentava l'assurdo, portandolo a frequentare luoghi che non gli si addicevano né come stile né come forme di vita che li frequentavano: ladri, stupratori e in generale uomini che non amavano molto l'acqua con il sapone. Sicuramente era un po' una rarità vedere un ragazzo di poco più di ventanni, vestito di tutto punto con abiti firmati e un buon profumo sull'angolo della mandibola non particolarmente pronunciata; un uomo di quasi due metri d'altezza, sicuro di se e in buona forma, che sorseggiava un caffè corretto con una lacrima di sambuca mentre osservava gli altri clienti del bar. Con lo stesso sguardo che usava sempre in quelle occasioni, spinse la porta del locale e fece la sua entrata: lasciò cadere la sigaretta sul tappetino d'entrata – che spense schiacciandone la punta con le scarpe nere di vernice – e si avvicinò al barista. « Un caffè. Nero. Bollente. Con una goccia di sambuca. » spinse una moneta sul bancone e si guardò attorno, mentre il ragazzo – probabilmente uno studente dell'ultimo anno – si indaffarava nello sturare i buchi dell'unica caffettiera presente nel bar: non doveva essere abituato a servire caffè ed era evidente nel modo in cui, discretamente, andò a chiedere al gestore del locale come funzionasse la macchina. James lasciò che le proprie labbra si piegassero in un ghigno perfetto sul volto pallido, quando una chioma biondo platino e vestiti attillati attrassero la sua attenzione. Seduta ad uno degli sgabelli del bancone, come una prostituta da film, c'era Joyce: riconoscibile, il suo corpo e il suo viso non erano cambiati affatto in quegli ultimi tre o quattro anni. Senza affrettarsi – perchè farlo sarebbe da ansiosi e nostalgici – le si avvicinò: la avvolse tra le proprie braccia appoggiando le mani sulle sue candide cosce. Accostò le labbra rosa all'orecchio della ragazza. « Xena, c'è un emergenza! Tira fuori il cetriolo! » Si godette la sorpresa dipinta sul suo volto, prima di mollarle uno schioccante bacio sul padiglione auricolare. « Bellissima come sempre, Whiteley ».
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    Edited by Grumpy James - 9/3/2016, 11:26
     
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    Joyce Whiteley ( ) - 21 - Ravenclaw - neutrale - sicario
    « Tell me, what keeps you awake at night? »
    La memoria era un meccanismo strano, a volte sembrava fosse tanto autonomo da funzionare secondo regole proprie, molto lontane dalla comprensione degli esseri umani. O almeno, questo era il pensiero di Joyce. Le capitava spesso che la sua mente ritirasse fuori sprazzi di ricordi, i quali duravano pochi istanti appena, e glieli riproponesse in varie salse. Quella sera, seduta sullo sgabello logoro della Testa di Porco, continuava a pensare e ripensare – rivivendo quasi quel momento – agli occhi del primo uomo che aveva ucciso. Non si trattava di sensi di colpa, uccidere era un lavoro, ma non riusciva a smettere di pensarci. Non avevano nulla di particolare quei semplici occhi nocciola, ma era da quella mattina che aveva in testa il suo sguardo. Era strano ripensarci, con un simile ritardo poi, però non poteva farne a meno perché la disperazione nella quale si era specchiata per qualche secondo, era quella di un uomo che sembrava non avere mai pensato di poter morire. E non era perché si era trovato di fronte una ragazzina, una che aveva forse l'età di sua figlia, ma proprio perché non aveva mai preso in considerazione l'idea. Forse era proprio per questo che non riusciva a liberarsi di quel ricordo, forse trovava semplicemente curiosa l'enorme quantità di cose che gli esseri umani davano per scontate, e quell'uomo ne era (stato?) l'esempio lampante. Aveva vissuto i suoi quanrant'anni secondo i propri piani, senza mai considerare che la vita fosse effettivamente l'unica cosa davvero preziosa in suo possesso e che qualcuno potesse portargliela via con una facilità impressionante e che, persa quella, non avrebbe più avuto nulla.
    Paradossale come uccidere la gente possa portare ad avere una così alta considerazione della vita, vero? Forse Joyce era semplicemente un agglomerato di paradossi, magari era matta, il suo poteva persino essere considerato come il principio di un qualche disturbo, eppure quello che faceva le aveva permesso di realizzare quanto bella e breve fosse la vita. Da quando conosceva la morte, da quando l'aveva guardata in faccia si era resa conto che fosse assolutamente necessario vivere al massimo, seguire le proprie regole ed apprezzare ogni singolo istante. Non era sicura di cosa ci fosse dopo, a dirla tutta nemmeno sapeva se ci fosse un dopo e neanche le interessava: cercava di vivere ogni giorno, di vivere e non sopravvivere, per non arrabbattarsi nel barattolo insieme alle altre lucciole e non morire schiacciata, per non morire senza aver vissuto.
    Era ancora del tutto persa nei suoi pensieri, quando si sentì avvolgere in un abbraccio che sapeva di fumo. Irriggidirsi le venne naturale – l'ennesimo idiota che voleva tentare la sorte ed essere magari preso a calci nei denti dalla stessa? – poi al suo orecchio giunse una voce familiare.
    Una voce familiare che aveva appena fatto un'affermazione tanto insensata da strapparle una mezza risata, bassa e appena udibile. O magari era una reazione al bacio che ne era seguito, dato in un punto particolarmente sensibile.
    «È una fortuna che abbia una buona memoria, Xena» Sussurrò. Aveva un tono palesemente divertito, colorato forse dalla risata che aveva lasciato spegnersi qualche attimo prima. «Altrimenti, a quest'ora, non avresti più un cetriolo da tirare fuori.» Girò appena la testa, per poter alzare lo sguardo verso il suo interlocutore. Per inciso, non era una matta che si lasciava palpare – e baciare! – dagli estranei: a palesarsi era stato James Ean, che poteva anche essere uno stronzo patentato una persona che non incontrava da un po', ma si conoscevano più che bene.
    Ricordava il suo viso e quegli occhi verdi: non era facile trovare una simile sfumatura, forse dopo di lui non ne aveva neppure più visti, di simili.
    Ma... bando alle ciance. Tutti potevano vedere che James fosse alto, si muovesse bene e avesse gli occhi di quel colore particolare. Non era quella, la parte interessante. Ad attrarre era la sua personalità: sprigionava carisma da tutti i pori. Ed anche la piccola Joyce c'era caduta, pure lei non aveva saputo resistere al suo fascino...
    Poi aveva scoperto che se la facesse anche con una certa Annabel – lo ricordava bene perché all'epoca le aveva augurato tutti i mali possibili, Vaiolo del Drago incluso – e che fosse uno stronzo senza precedenti, ma restava carismatico. A ripensarci col senno di poi, tutto quell'odio che aveva creduto di provare per lui e del quale ora riusciva ad identificare soltanto i contorni, le faceva arricciare le labbra in un sorriso divertito.
    Una volta avrebbe pagato per ucciderlo, e adesso si lasciava abbracciare così, come se nulla fosse accaduto. In effetti era vero: niente era ancora successo tra loro e tra i vantaggi dell'essere un sicario, c'era quello di non aver assoldare nessuno, in caso di necessità.
    Tolse le mani di lui dalle proprie cosce, prima di spostarsi sullo sgabello in modo da poterlo guardare senza rischiare il torcicollo, poi poggiò un piede a terra ed accavallò le gambe.
    «Ovviamente sono bellissima, ma anche tu te la cavi. » Proferì, un mezzo sorriso sulle labbra. «Qual buon vento?»
    Erano così diversi, anche nei vestiti: lui coi suoi begli abiti di classe e i capelli in ordine; lei con i pantaloni di pelle tagliati qua e là ed il giubbotto, in pelle anche quello. Insomma: un principino e una... non sapeva neanche lei cosa, le etichette non le erano mai piaciute troppo.
    Si chiedeva a cosa avrebbe portato quello strambo incontro, però, questo sì.




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    Edited by katturami la piastrella} - 5/3/2016, 23:39
     
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    James B. Ean
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    I ricordi erano per i nostalgici, ma in quel momento James non potè fare a meno di compiere un breve viaggio nel passato: acarezzò con dita invisibili i bordi dei cassetti dove teneva segregati i propi pensieri, lasciando che questi si aprissero per mostrargli ciò che era stata la sua vita prima di quel momento. Immagini fugaci di lenzuola e di unghie sulla schiena gli balenarono dietro alle palpebre che improvvisamente aveva desiderato abbassare sugli occhi chiari, languidi davanti a quelle memorie così irraggiungibili e allo stesso tempo tanto vicine. Come se lo stesse vivendo in quel preciso istante, come se non si trovassero alla testa di porco ma in quel letto a baldacchino, sotto a quelle coperte calde e al riparo dalla neve che scendeva fuori dalla finestra. Per un attimo sentì svanire lo sgabello sotto al proprio corpo e i vestiti dalla propria pelle e si rese conto che la memoria poteva essere pericolosa, più bella della realtà che gli stava scivolando via dalle mani mentre il dolce e aromatico profumo di Joyce gli solleticava le narici. Sbarrò gli occhi e indossò il suo miglior sorriso, una smorfia tinta solitamente di un leggero e amaro disprezzo per il prossimo: non amava particolarmente le persone, non lo aveva mai fatto, ma gli piaceva usarle e raggirarle; erano in pochi a considerarsi suoi amici ed erano ancora meno coloro che potevano dire di esserlo davvero. James non era mai stato una persona particolarmente propensa ai legami e ai rapporti sociali, limitandosi al minimo contatto con l'umanità: aveva partecipato a feste ed era uscito con ragazze, si era creato conoscenze e le aveva mantenute nel tempo se mai gli fossero servite. Ma l'utilità dei sentimenti non l'aveva mai capita: capiva le emozioni e quelle pulsioni primitive che a volte lo portavano ad agire e a sbagliare, nonostante la sua mente particolarmente acuta lo avesse avvisato del pericolo di cadere nell'errore. Capiva quelle voglie viscerali che di tanto in tanto lo prendevano e stimolato da un sapore o da un odore lo facevano sentire vivo: era l'effetto che gli facevano i capelli di Joyce e come le ricadevano tanto lunghi e tanto biondi sulle spalle strette e leggermente incurvate e la pelle del suo viso, apparentemente così liscia da sembrare seta. Aveva voglia di allungare la mano e sfiorarle la guancia con la punta delle dita affusolate, una necessità che gli nasceva al centro del petto e un po' più un giù: nello stomaco. Inclinò la testa mentre lei parlava, con quella sua voce un po' roca e parecchio sensuale che solo serviva a risvegliare la creatura dormiente che James nascondeva dentro: quel drago che sputava fiamme alimentate da chissà quale forza, da chissà quali intenzioni. Le suore dell'orfanotrofio glielo avevano ripetuto finché ne avevano avuto l'opportunità, che la carne è debole e che la tentazione si nasconde in ogni singolo millimetro di pelle: quella di Joyce era profumata. Sapeva di limoni e di mandaranci, di lime e anche un po' di caramello: ciò nonostante il suo non era un aroma particolarmente dolce ed anzi, deciso e penetrante e un po' speziato. Stuzzicante. Joyce allontanò le sue mani dalle proprie gambe con una gentilezza inaspettata e il cameriere lasciò la tazza di caffè di fianco al braccio di James: guardò il liquido bollente, nero come le pupille della ragazza, e sorrise leggermente. Con un gesto lasciò che il cappotto lungo e scuro gli scivolasse dalle braccia e prima che potesse cadere sul pavimento un po' troppo poco pulito, lo trattenne con la mano. Lo piegò appoggiandosi al proprio avanbraccio e dopo aver ripulito il bancone un colpo di bacchetta, ce lo lasciò; abbandonò il capo d'abbigliamento con gentilezza sulla superfice scura e riportò la propria attenzione alla sua interlocutrice. « Cosa ti aspettavi da me, Joyce? Che diventassi brutto tutto d'un colpo? » Inarcò un sopracciglio e cinse con l'indice l'ansa della tazza « Suvvia, sii realista. Non potrei neanche se mi ci impegnassi. » Sorbì qualche goccia del liquido bollente, notando immediatamente il retrogusto che lasciava la sambuca. Alla domanda di lei un mezzo ghigno beffardo gli deformò le labbra carnose ed inclinandosi per avvicinare il proprio viso al suo, si limitò a sussurrarle con alito amaro e dolce allo stesso tempo. « Dopo una giornata intera a inseguire nobil uomini e ricche sottane, mi merito un po' di sana realtà. » Disse e discretamente le restituì il testimone, rivolgendole a suo modo la stessa domanda: cosa la portava quel sabato sera alla Testa di Porco?
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    Edited by Grumpy James - 9/3/2016, 11:26
     
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    Joyce Whiteley ( ) - 21 - Ravenclaw - neutrale - sicario
    « Tell me, what keeps you awake at night? »
    La Whiteley non era una creatura addomesticabile: non voleva sottostare alle convenzioni sociali, non le interessavano troppo le persone e finiva, spesso e volentieri, per perdersi nei propri pensieri. Con gli esseri umani, poi, aveva un rapporto particolare: le piaceva osservarli, ma non l'attraeva l'idea di impelagarsi in rapporti particolarmente profondi. Richiedevano energie fisiche, mentali ed emotive e, spesso, finivano per fare più male che bene, dal momento che gli esseri umani erano creature fondamentalmente egoiste; creature che avrebbero finito per ferirsi a vicenda, quali che fossero state le loro intenzioni iniziali. Perciò se ne teneva a distanza e viveva le proprie conoscenze ed amicizie come un qualcosa che avrebbe, prima o poi, raggiunto la propria naturale fine. Non per questo si schermava in qualche modo, ma sapeva benissimo che entrare nella vita di qualcuno, implicasse anche uscirne. Era un cerchio perfetto. Perfetto e, nella sua perfezione, del tutto imprevedibile. Quella sera ne era una prova: non era contemplato che la strada di James Ean incrociasse la sua, ma era accaduto ugualmente. Se fosse passato meno tempo dal loro ultimo incontro, probabilmente l'orgoglio le avrebbe suggerito di alzarsi e andarsene, non prima di avergli indicato un ben noto, e parecchio abusato, luogo dove dirigersi, la cui cittadinanza gli spettava di diritto. E sarebbe anche stata una bella soddisfazione, quella, ma non era più il momento giusto. L'odio era svanito, i ricordi erano diventati fumosi e faticava a ricordare per quale ragione di preciso lo avesse voluto morto. Era andato con un'altra, e quindi? Non le sembrava più così oltraggioso, forse perché aveva compreso di non poter incatenare la volontà degli esseri viventi, che avrebbero comunque agito secondo le proprie pulsioni, niente di più e nulla di meno. Nessuno le apparteneva davvero, ma la stessa regola valeva anche per lei. Aveva deciso che nessuno sarebbe mai più stato in grado di ingabbiarla perché era impossibile mettere in gabbia il vento. In virtù di questo, aveva deciso che l'ex verde-argento non avesse più colpe da scontare. E se non poteva accusarlo di nulla, quale soddisfazione avrebbe mai potuto provare nel negargli qualsiasi contatto?
    Lo osservò sedersi mentre prendeva un sorso della sua bevanda: rum di ribes rosso. Aveva un sapore particolare: intenso, non troppo dolce, ed impastava la bocca quel tanto che bastava da risultare piacevole.
    «Più che brutto, una volta ti avrei visto bene morto. » Rise sommessamente, abbassando lo sguardo sul bicchiere mezzo pieno per rialzarlo poi sul suo interlocutore ed aggiungere: « ma il tempismo non ti è mai mancato, devo ammetterlo. » Sorrise, come a rendergli noto il pericolo scampato. Se fosse stata un po' più rancorosa, in effetti, non sarebbe stato molto sicuro per lui approcciarsi alla bionda in quel modo: avrebbe potuto strappargli le braccia ed appenderle a mo' di trofeo... ma era andata. O meglio: gli era andata. Molto bene, anche. La battuta un po' le era scappata ed un po' era stata un mezzo per fargli capire che non avesse dimenticato quello che c'era stato tra di loro. Poteva essere bendisposta nei suoi confronti, ma stupida o smemorata non lo sarebbe stata mai. Notò che i suoi modi corrispondevano, a grandi linee, a quelli passati, o all'immagine che ne aveva lei nella sua testa. Meglio così: sarebbe stato strano rapportarsi ad una persona completamente diversa perché il suo cervello l'avrebbe recepita come uno sconosciuto. Cosa che poteva anche essere, dopotutto erano passati anni, ma non avere nulla di noto cui appigliarsi, sarebbe stato destabilizzante per una persona come Joyce. Invece quella sicurezza ai limiti dell'arroganza, era tanto familiare da risultare quasi tenera, e bastava ad ignorare che, per esempio, il suo profumo fosse diverso, più costoso e avvolgente. Per l'ex Corvonero era sempre stata una questione di dettagli: uno in più fuori posto e intere persone o situazioni, smettevano di risultare attraenti o interessanti. Non era il caso di James, per sua fortuna, altrimenti si sarebbe già allontanata. Rimase lì ad osservarlo, invece, giungendo a diverse conclusioni. Prima tra tutte che il suo modo di fare, non l'annoiasse nonostante tutto. «Una delle ricche sottane deve essersi tanto affezionata » Commentò, un sottile divertimento nel tono di voce mentre allungava una mano per posarla sulla giacca di lui, all'altezza della spalla sinistra, e prendere qualcosa con due dita, togliendole di lì subito dopo e strofinandole tra loro per far cadere a terra quel qualcosa che avevano tolto di mezzo: un capello scuro e troppo lungo per appartenere al suo interlocutore. « ti aveva lasciato un ricordino.» Spiegò, tornando a guardarlo in viso. Una ragazza diversa da lei avrebbe probabilmente pensato che il contatto fisico fosse di troppo e, pur avendo fatto caso al dettaglio fuori posto, non avrebbe agito. Joyce no. Non era una creatura addomesticabile – ripeto – e non le andava di mettersi a pensare all'impressione che avrebbe fatto, comportandosi in un modo piuttosto che in un altro. Era fatta così e, se la conosceva almeno un po', doveva saperlo anche lui: prendere o lasciare, non c'erano altre possibilità. E, non gli fosse andata bene, poteva benissimo uscire dalla porta che aveva usato per entrare poco prima.
    « Io cercavo qualcosa da fare. È sabato e mi annoio, e sai benissimo quanto detesti la noia. Idee, suggerimenti? » Rispose così alla domanda indiretta di lui, poi bevve ancora un po' del suo liquore. Era vero, in effetti, che si annoiasse: non ne poteva più di quel pensiero insistente e senza senso che le martellava il sistema nervoso. Aveva bisogno di distrarsi. Il punto era: James Ean avrebbe saputo proporle una distrazione?




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    Edited by katturami la piastrella} - 5/3/2016, 23:42
     
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    HANNIBAL CANNIBAL
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    JAMES B. EAN
    JOURNALIST|SLYTHERIN|DEATHEATER
    Il suo aspetto impeccabile, quei modi affettati da damerino: una facciata perfetta. Costruita nel trambusto di tanti momenti indimenticabili che erano diventati ricordi, quelle memorie che teneva strette a se e ben nascoste sotto a una maschera di eleganza e impassibilità. Dentro a quel petto di un bianco tanto pallido da ricordare il marmo, James teneva chiusi in una specie di forziere fantasma quei sentimenti che per tanto tempo si era negato a provare: stortò leggermente la labbra al ricordare di avere un cuore e un'anima. « Più che brutto, una volta ti avrei visto bene morto. » e la bocca rosea del ragazzo tornò a muoversi, spostandosi da quell'espressione amara a un sorriso alitato tra i le file di denti bianchi. Non era la Joyce che ricordava: in qualche modo era diventata più forte, più dura ed essenzialmente una donna. Una donna con le gambe lunghe e le iridi ancora impregnate di un'infanzia rovinata da chissà che cosa. Un'infanzia rimasta intrappolata tra i grumi di mascara sulle folte ciglia e il sangue rosso che le scorreva sotto alla pelle delle candide guance. Una Joyce che gli piaceva, con i suoi pantaloni attillati e l'aria della femme fatale: se non avesse saputo che persona si nascondeva in realtà dentro a quel corpo longilineo e fuori luogo, probabilmente James si sarebbe sentito intimido e facilmente infastidito. Ma la chioma bionda che le cadeva lungo la schiena, sebbene più lunga di quanto l'ex serpeverde ricordasse, era ancora dello stesso colore che aveva riempito i suoi pomeriggi a scuola: quando stavano insieme in un modo e dopo aver rotto, in un altro. Impossibile dimenticare le minacce, gli insulti e i baci rubati all'ombra delle armature, a riparo da occhi indiscreti. Con occhi felini osservò le agili dita di Joyce avvicinarsi a lui e appoggiarglisi sulla spalla sinistra, intrappolando in una morsa un lungo capello castano di provenienza quasi sicuramente femminile. « Una delle ricche sottane deve essersi tanto affezionata ti aveva lasciato un ricordino. » Uno sbuffo, leggero e quasi impercettabile, gli uscì dalle narici dilatate: era riuscito a captare il suo profumo, di nuovo. Sentì la testa girare e una strana voglia nascergli nelle viscere, salire piano e dolorosamente lungo l'esofago: fece schioccare la lingua contro il palato, deglutendo e cercando di dominare l'impulso di prenderle il polso e tirarla a se. Oh Joyce. Dopo tanti anni era ancora capace di prenderlo e fare di lui ciò che voleva: raggirarlo, stupirlo e portarlo sull'orlo della follia. Potevano essere cambiati i dettagli, ma loro due in essenza erano sempre loro due. La giovane si risedette composta, senza però distogliere nemmeno un momento lo sguardo dal suo: si guardavano negli occhi, come due predatori intenti a studiare la preda. « Io cercavo qualcosa da fare. È sabato e mi annoio, e sai benissimo quanto detesti la noia. Idee, suggerimenti? » James la guardò e non potè fare altro che sorridere. Una smorfia sorniona che si disegnò sulla bocca bugiarda del ventunenne, totale padrone delle proprie azioni: agganciò la tazza con un dito e la tirò su, avvicinandola alle labbra carnose. Mandò giù gli ultimi due sorsi di caffè nero ed essenzialmente bollente; placata la sua sete di liquidi, era giunto il momento di soddisfare voglie ben più primarie ed essenziali della fame di zucchero ed alcohol: lasciò che la prorpia gamba scivolasse verso il pavimento e con un gesto lanciò un paio di grosse monete sul bancone, saldando così sia il proprio conto che quello della Whiteley. Senza chiedere nulla e facendo leva sul fatto che, dopotutto, Joyce lo conosceva meglio del novanta per cento della popolazione, infilò le proprie dita sotto al suo gomito e la tirò a se: un passo dopo l'altro, un respiro che seguiva un altro respiro, James trascinò via da quel posto sia Joyce che se stesso. Gli occhi del resto dei clienti del bar lasciarono sulle loro pelli la sensazione di essere osservati: ma era logico, che andassero via assieme; dopotutto in quel luogo sia lui che lei erano una gradita eccezione all'estetica generale. Girò l'angolo, quello che portava alle scale che salivano verso le stanze in affitto: spinse la ragazza contro la parete e, allacciando le proprie dita con i suoi capelli, le tirò la testa all'indietro lasciando il candido collo alla vista dei suoi affamati occhi. La giugulare sotto alla pelle pallida pulsava in un intenso purpureo colore, facendogli accellerare il ritmo cardiaco fino alla pazzia: avvicinò il proprio viso ad essa e con la punta dei denti accarezzò il derma della bionda, che altro non potè fare che rispondere alzandosi in tanti piccoli cimi. Pelle d'oca che apparve anche sulla sua, di maschera. « Potremmo fare un viaggio nel tempo. » disse, sorridendo leggermente mentre disegnava con la punta del naso la sinuosa linea del collo di Joyce.
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    Edited by Grumpy James - 9/3/2016, 11:25
     
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    « Tell me, what keeps you awake at night? »
    James era sempre stato un arrogante di prima categoria e, per quanto potesse cammuffarsi indossando abiti così costosi e fingendosi composto, niente avrebbe cambiato lo stato delle cose. Non si era fatto problemi ad agire - come al solito, del resto - e non si era premurato di fare domande. Era proprio un ossimoro interessante, quel giovane uomo: dietro l'aria composta, oltre il profumo costoso e quel suo perenne cipiglio, si nascondeva qualcosa di profondamente bruciante. Era tutto un contrasto: una statua di ghiaccio il cui interno emanava tanto calore da bruciare i poveri diavoli che vi si avvicinavano troppo. Joyce non avrebbe saputo dire se si trattasse di un meccanismo di difesa o che altro, del resto era tutto meno che una strizzacervelli, ma se c'era una sola certezza: erano simili, in fondo. Non avrebbe saputo dire quanto, a quel punto della loro vita, ma era piuttosto certa che quella similitudine li avesse portati ad avvicinarsi, allontanarsi in maniera apparentemente definitiva e poi avvicinarsi di nuovo. E non era ancora certa se si trattasse di un incontro fugace o meno, ma sapeva che, se si fosse messa a scavare - cosa che non aveva intenzione di fare, non per il momento - sarebbe stata in grado di sbrogliare quel gomitolo complicato che era stato il loro rapporto, nonché la ragione che aveva permesso a James di portarla via da occhi indiscreti senza però riportare danni. Dopotutto quella sera non era uscita con l'intenzione di passare la notte con qualcuno, né si sarebbe concessa tanto facilmente qualora si fosse trattato di una persona diversa, ma a lui aveva dato un tacito il proprio tacito consenso ancor prima che la portasse via, quando aveva pagato anche per lei.
    Avrebbe potuto affermare che quello di lui fosse stato un colpo di fortuna, che la confusione che le regnava in testa per via dei ricordi avesse interferito con la sua prontezza di riflessi, ma non sarebbe stato vero. Non completamente almeno: non aveva ancora ingerito abbastanza alcol da poter giustificare una cosa del genere e, d'altra parte, non era tanto vigliacca da mentire a tal punto, nemmeno a se stessa. Forse gli aveva permesso di portarla via proprio in virtù di quella famosa somiglianza, magari, per quanto barbaro possa suonare, James era ancora, nonostante tutto, l'unica vera distrazione sulla piazza. In fondo lei era bravissima a mantenere la lucidità, a lasciare in funzione almeno uno degli scomparti nella sua testa, era difficile smettere di pensare; lui, però, era sempre stato altrettanto bravo ad imporsi sugli altri pensieri, il che era indubbiamente un punto a suo favore. Fu buffo scoprire che fosse in grado di farle venire la pelle d'oca dopo tutto quel tempo, con un contatto come quello, uno sfiorarsi che con chiunque altro sarebbe risultato lascivo e vagamente squallido. Eppure... Eppure, a quanto sembrava, nonostante tutto il tempo passato a cercare di dimenticarlo - e la mente ed il cuore potevano anche esserci riusciti alla grande - aveva ancora tutto quel potere su di lei. Ovviamente era bello, lo era sempre stato, il punto però era un altro, andava oltre, da qualche parte sottopelle, per quanto potesse suonare ridicolo, se detto ad alta voce. Non importava, però: non avrebbe mai esplicitato quel pensiero, anzi, l'avrebbe scacciato molto, molto presto: aveva una partita di scacchi molto importante da giocare. Già, perché il rapporto di quei due era un po' come una partita di scacchi: azione e conseguenza, mossa e contromossa. Non era chiaro se ci fosse poi un vincitore, non aveva mai seriamente considerato quell'idea, ma le piaceva pensarla così.
    Gli avvolse le braccia attorno al collo - contromossa, appunto -, le dita che scorrevano tra i capelli morbidi, anche più di quanto ricordasse. Si ammansiva così un animale selvatico, no? Un mezzo sorriso divertito le balenò sulle labbra: per quale motivo finiva sempre per pensare a qualcosa di selvaggio, impossibile da controllare, quando c'era di mezzo quel suo specifico ex?
    «Un viaggio nel tempo, dici...?» Fece schioccare la lingua, quasi fosse sovrappensiero. Non era così, ovviamente, solo.... le piaceva giocare al gatto col topo, in situazioni del genere. E, per quanto Ean potesse essere convinto di essere lui il predatore, il solo fatto che avesse dovuto chiedere, faceva crollare il castello di carte. Dei due, in quel momento, non era il predatore. Poteva esserlo stato in passato, glielo concedeva, ma in quel preciso istante era lei e solo lei a dover decidere per entrambi.
    Dirgli di no sarebbe stata forse l'opzione più saggia, ma non era la più soddisfacente: «Assolutamente, ma senza impegno.» Era questa la scelta giusta da fare. Un po' perché era vero: non voleva impegni, li fuggiva da tempo ormai e un po' perché... poteva scommetterci la testa che non fosse abituato a non condurre le redini del gioco. Ricordava che fosse - come dire? - un po' un maniaco del controllo, le pareva di avere vaghe reminescenze anche sul suo essere possessivo, con gli oggetti almeno.... quindi perché non mettere le cose in chiaro fin da subito? Erano due persone adulte e vaccinate, avrebbe saputo sopportare quel duro colpo, no? Una parte di lei era così dannatamente fiera: un tempo avrebbe urlato il contrario. C'erano stati giorni in cui avrebbe pagato fior di galeoni per legarlo a sé e non vederselo portar via, ora invece aveva dichiarato la propria indipendenza con una nochalance invidiabile. Non voleva essere una cosa sua. Non voleva essere di nessuno. Per quanto possa sembrare una frase fatta e priva di significato, aveva imparato a non barattare la propria la propria libertà. A non svenderla. Soprattutto se in cambio le veniva offerta una presenza incerta. A ben pensarci non era sicura avrebbe accettato di farsi mettere in gabbia neppure se si fosse trovata davanti una certezza incrollabile, ma quella era una storia diversa. Si avvicinò appena, solo per strofinare il naso contro quello di lui, in un moto di tenerezza quasi impalpabile e sorrise di nuovo, prima di sussurrare: «Può andare?»




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  7. mr(b)ean
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    HANNIBAL CANNIBAL
    sheet|elf1/2|pensieve
    JAMES B. EAN
    JOURNALIST|SLYTHERIN|DEATHEATER
    Sorridi alle telecamere James: il mondo ti sta guardando.E una leggera smorfia comparve ad increspare le labbra carnose del ragazzo, quelle che poco prima aveva avvicinato al collo della sua interlocutrice e che ancora vi riposavano sopra; a pochi millimetri dai suoi canini pulsava uno dei maggiori vasi sanguigni del corpo di Joyce e dentro ad esso si trovava la sua linfa vitale. Sangue: caldo e salato come le lacrime ma solo un po' più denso, un po' più sporco. Era difficile togliere le macchie di sangue dagli abiti ma era altrettanto difficile resistere alla tentazione, e James era cosciente che quel problema si risolveva cambiando i costosi vestiti con un grembiule e una maglietta vecchia. Gli sarebbe bastato spingere leggermente per perforarle quella perfetta superficie di tenera porcellana, così bianca da sembrare finta: gli era sempre piaciuto il fatto che Joyce fosse così tremendamente pallida, come se fosse in processo di diventare trasparente o di cristallo. E con quei lunghi capelli biondi poi! Spesso gli aveva ricordato un’apparizione, un’inquietante creatura della notte. Erano così morbidi, così delicati: alcune ciocche sfuggite alle abili dita da scrittore gli solleticavano il viso, mentre quelle di Joyce si attorcigliavano ai suoi, lunghe ed anch’esse molto abili, esattamente come le ricordava: quel contatto lo riportava ai tempi in cui erano due semplici ragazzini che riposavano sotto a un albero al Lago Nero o stravaccati sulle panchine del cortile di pietra. Quei momenti in cui tutto ciò che la sua mente trovava erano quel contatto, la brezza fresca della primavera e il dolce suono della natura attorno a sè. Ma in fondo al cuore lui sapeva che la ragazza che gli stava accarezzando i capelli non era più la stessa corvonero che accettava le sue cattiverie, che diceva sempre di si e che tanto aveva sopportato nonostante non se lo meritasse. Quella era una Joyce più decisa, più matura, più donna: era diventata una gran bastarda. « Un viaggio nel tempo, dici...? » la sua voce gli sembrava lontana, completamente preso dal profumo della sua pelle e dal sapore del suo collo, dolce e stuzzicante come il miele al peperoncino. Un sussurro sollevato e consumato dall’aria calda del locale, che quasi si perse nell’ombra di quelle scale scricchiolanti e piene di riccioli di polvere. Spinse il proprio corpo contro il suo, nonostante la differenza d’altezza e peso: le sue mani seguivano il contorno del corpo della ragazza, seguendone i bordi con la punta delle dita e memorizzandone ogni singolo centimetro ancora troppo vestito. Cominciò a risalire delicatamente la linea del collo e della mascella, lasciando andare un leggerissimo alito vicino all’orecchio, sentendola contorcersi di malavoglia. « Assolutamente, ma senza impegno. » e le labbra del ragazzo si fermarono. Una delle grandi mani, la destra, scivolò attorno alla gola di Joyce e strinse con gentilezza mentre lo sguardo del giornalista incrociava quello della bionda: gli occhi tondi del giovane si erano accesi di una rara ed eccitante furia che, incredibilmente e anche a distanza di anni, era capace di accendere solamente lei. Quel verde salvia che normalmente appariva freddo e privo di emozioni era in quel momento la viva immagine dell’eccitazione. « Può andare? » era coraggiosa, quella Joyce sembrava non avere più paura di nulla e lui non riusciva a capire quale effetto gli stesse causando ciò. Non era contento, ma neanche scontento: una strana curiosità tinta di toni pericolo lo spingeva ad andare avanti, nonostante l’evidente poco margine di controllo che quel suo nuovo carattere gli lasciava. E per lui non avere il controllo era la più terribile delle prospettive: gli piaceva fare il topo nel gioco del gatto e del topo. Adorava farsi desiderare, inseguire e provocare quando desistevano. Gli piaceva decidere se si o se no, se ora o più tardi: adorava trovarsi in vantaggio sugli altri, sempre e comunque. « Joyce. » sussurrò, accarezzandole le labbra con la punta del pollice. « Noi siamo come droga, ci siamo già provati: sarebbe troppo difficile smettere se ricominciassimo. Un solo assaggio... » avvicinò il viso al suo, le soffiò sulla bocca. « ... un solo assaggio potrebbe rovinare anni ed anni di saggia sobrietà. » sorrise, poi si scostò lasciandola lì, contro la parete del locale. Si eresse in tutta la sua statura e lanciandosi il cappotto sulle spalle si girò e si allontanò, abbandonandola per sempre. O forse no.
    eyes blue like the atlantic, and i’m going down like the titanic.
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    Edited by Grumpy James - 9/3/2016, 11:25
     
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    Avrebbe potuto dirgli semplicemente di sì ed assecondare gli impulsi di entrambi, ma non sarebbe stato giusto. Avrebbe significato non aver imparato niente. La Whiteley, l'ho già detto, era una creatura indomita quanto orgogliosa, proprio per questo non aveva ceduto. Una parte di lei si rendeva conto che c'erano state fin troppe reazioni in lei, fin troppi campanelli d'allarme; sapeva che abbassare la guardia tanto in fretta, l'avrebbe portata a capitolare miseramente ai piedi di qualcuno che l'aveva già ferita una volta, quando ancora era piccola, fiduciosa e fragile. Bisogna tornare indietro, però, per spiegare questo particolare concetto. All'epoca, quando i due si erano frequentati in un modo tanto burrascoso cioè, Joyce aveva perso da poco i suoi genitori. E così aveva cercato in lui un appiglio: ci si era attaccata con le unghie e coi denti, a quel ragazzo, e proprio questo gli aveva poi permesso di scaraventarla nel baratro più profondo. E una cosa del genere sarebbe stata un ottimo pretesto per odiare quel giovane, sfrontato Serpeverde, ma non era ancora abbastanza: nonostante tutto, la Whiteley riconosceva di essere stata felice con lui, almeno un periodo. E quando non era stata felice, allora si era sentita comunque viva. In ogni caso era stata la sua presenza a portare quella scintilla che poi era diventata incendio e che, per certi versi, le aveva permesso di diventare la persona che lui stesso si trovava davanti in quel momento. Non sarebbero mai stati dei veri e propri estranei - lei, perlomeno, non sarebbe mai riuscita a vederlo come uno sconosciuto e basta - e non soltanto perché erano andati a letto assieme. Avevano condiviso delle cose, lei gli aveva permesso di sbirciare oltre il velo, di sfiorarle qualcosa che non era il cuore e basta, di toccare qualcosa che andasse oltre. Ed ecco perché non voleva farsi domande, cercare risposte, aprire cassetti, porte, portoni: aveva paura. Si conosceva abbastanza da poter dire di non essere in grado di provare sentimenti in modo normale, sano; d'altro canto conosceva James abbastanza bene da poter dire che nemmeno lui fosse capace di equilibrio. E lasciarlo entrare di nuovo nella propria vita equivaleva ad uscire di casa appena prima di un uragano.
    Per questo, alla fine, aveva scelto inconsciamente di mettere le mani avanti. Meglio sola che in pericolo, che poi era lo stesso principio per cui non si era più lasciata ingabbiare in una relazione da nessuno, non dopo di lui.
    Non che quel loro casuale incontro presupponesse una relazione, ovviamente, ma... c'era un ma. Un grande, enorme, immenso, terribile ma: era stata innamorata di lui, a lungo, e ne aveva sofferto. Non voleva ripetere l'esperienza o, per meglio dire, non voleva rischiare di imboccare di nuovo una strada senza uscita, un vicolo cieco. Non era contemplato scoprire, nel tragitto, che i sentimenti non fossero mai scemati. La sola idea le faceva orrore. Non tanto per lui, quanto per lei. Davvero, dopo tutto quel tempo? Non voleva porsi il problema. Non voleva risposte. Scoprirsi di nuovo così vulnerabile dopo aver creduto di aver imparato la lezione? Dopo aver pensato di aver fatto passi in avanti? No, non poteva. Mani avanti, ancora mani avanti. Non doveva pensare, prendere in considerazione. Sarebbe stato opportuno, invece, non sviscerare ogni singola cosa e non tornare indietro perché lei non tornava mai indietro. Men che meno per dei sentimenti. La sua parte Callaway già si rivoltava alla sola idea, mentre l'orgoglio impennava. E questo non era un buon segno.
    Quasi sospirò di sollievo, quantomeno mentalmente, quando lo vide andarsene. L'aveva guardato con una faccia da schiaffi per tutto il tempo ma, onestamente, non aveva ascoltato molto. Non era stata una buona idea, quella di seguirlo. Non era stata affatto una buona idea. E il cuore che batteva all'impazzata, dietro la faccia di bronzo e l'espressione sicura, glielo confermava.
    Rimase in silenzio per qualche momento, la mano che correva in tasca per tirare fuori il fido coltellino d'argento che si portava sempre dietro, tanto per far qualcosa che non fosse innescare quel meccanismo impietoso che era il suo cervello. Poggiò il piede destro contro il muro, quasi volesse darsi una spinta, il peso del corpo sulla sinistra. Faceva roteare velocemente il coltellino, lo sguardo fisso sulla schiena del suo ex.
    Aveva sempre adorato la sua schiena - e quello fu un pensiero tremendo - perché la postura di lui le aveva sempre dato la sensazione che si stagliasse contro il cielo, che lo sfidasse quasi. Scosse lievemente la testa, quel tanto che bastava a scacciare il pensiero e poi, finalmente, si mosse. Una volta avrebbe annunciato la propria presenza facendo rumore, quella sera i suoi passi furono più che felpati. Era abituata a non farsi sentire, ormai, a muoversi al buio.
    E la sua risposta, che andava a braccetto col tono, fu poco più di un sussurro: «Siamo diventati cauti...» e ad accompagnare quella osservazione al limite dell'irriverenza, c'era stato un mezzo sorriso sfrontato. Era tutto un contrasto, Joyce: quel che aveva dentro e quel che aveva scelto di mostrargli erano due realtà completamente opposte, due poli, due linee parallele. Contrasti. Contrasti che erano comunque reali e facevano parte della persona che era diventata. Tra l'altro ringraziava il cielo che una parte di lei avesse colto quel che lui le aveva detto ed un'altra gli dava ragione: sì, se fossero stati assieme quella sera, avrebbero davvero rovinato anni ed anni di saggia sobrietà. E la sobrietà poteva anche essere una cosa noiosa, ma comportava una certa lucidità. La stessa che era venuta a mancare quella sera, se si andava a vedere la discrepanza nelle azioni e reazioni della bionda, sebbene la sua coscienza tentasse di definirlo gioco. Poteva benissimo esserlo - la roulette russa era un gioco, in fondo -, ma questo non avrebbe annullato il suo potenziale. E per lei era davvero letale, per lui non avrebbe saputo dirlo. Non voleva nemmeno prendere in considerazione la cosa.
    «Buona serata, allora.» Prima di superarlo gli si avvicinò abbastanza da potergli stampare un veloce bacio sulla guancia. Fu veloce, non si soffermò più del dovuto, quasi a voler contrastare ulteriormente quel che sentiva dentro. E poi non voleva dargli il tempo di reagire. Doveva avere il tempo di avanzare almeno di qualche passo. Era il gioco degli scacchi, ricordate? Mossa e contromossa.


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