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Jeremiah Telepatiah (simpatiah portamiviah)

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    Jericho Lowell
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    Era una giornata uguale a mille altre che l’avevano preceduta, e probabilmente ad altrettante che l’avrebbero seguita. Nel risveglio di Jericho Karma Lowell non c’era nulla che potesse classificare quella mattina come fuori dall’ordinario. Alcuni avevano la beffarda convinzione che le persone dovessero avere il sentore dell’arrivo della tempesta, che dovessero sentire l’elettricità sulla pelle, sulle labbra, in gola; che le cose non accadevano e basta, ma erano il lascito di un percorso più lungo e impossibile da ignorare. “Bisognava aspettarselo”, “Me lo sentivo” , tutte frasi che Jer non era mai stata in grado di digerire, di comprendere. Poco le importava di essere nata e cresciuta fra maghi: il dono della divinazione non era diffuso quanto alle streghe piaceva far credere, e le brutte notizie non avvisavano bussando alla porta principale. Il giorno in cui Amos aveva brutalmente ucciso la madre, non aveva nulla di speciale. E non era cambiato quando il pavimento era stato imbrattato del sangue dei Lowell, e la vita di Karma aveva cominciato a sgretolarsi. Il sole aveva continuato a splendere, il cane dei vicini ad abbaiare, un televisore lasciato a volume troppo alto aveva proseguito nel proporre i successi dell’estate passata. Non c’era stata alcun avvisaglia, nessun preavviso, nessuna sensazione alla bocca dello stomaco. Anche Jericho Karma Lowell aveva continuato ad esistere. “È troppo piccola per ricordare”, “Non sentirà la loro mancanza” Ma Jer ricordava tutto. Il liquido cremisi sulle mani paffute, sul parquet della cucina; gli occhi vitrei della madre, di una bambola spezzata, il corpo scomposto contro il muro; l’odore di mattatoio mischiato a quello dei biscotti allo zenzero, il sapore sulla lingua di un penny arrugginito succhiato per gioco o scommessa. Quel dolore in un punto non ben precisato del suo piccolo petto, quella voragine, quel brandello strappato dal suo stesso fratello. Ricordava il sorriso di Amos, gli occhi azzurri un po’ meno azzurri. Sentiva l’urlo del padre rimbalzarle nei timpani, nelle ossa; lo sentiva nei sogni, nei pensieri degli sconosciuti, sotto le coperte, davanti al camino. E ricordava Nathaniel, anche se i suoi tratti si facevano, nei ricordi della giovane Lowell, sempre meno marcati, come un sogno che perde concretezza ad ogni battito di ciglia. Ricordava Nathaniel, e al contempo non lo ricordava, perché lui non era mai tornato.
    Non era mai tornato a prenderla, a vedere come stava, a soffrire con lei, a condividere quel vuoto. Era sparito, senza lasciare alcuna traccia. Gli Hades, la famiglia che l’aveva accolta, avevano provato a spalmare balsamo sulla ferita di quella bambina; la loro speranza era che fosse ancora troppo piccola per capire cosa fosse successo, ancora troppo ingenua ed innocente per comprendere la mattanza a cui aveva assistito, perché si rendesse conto che i Lowell non esistevano più. Ed era vero: all’età di tre anni, era troppo piccola.
    Ma era cresciuta, ed i ricordi non avevano perso la loro vividezza, non avevano smesso di popolare i suoi incubi. E quel male non aveva smesso di bruciare: il dolore non si cura con l’amore, si completa e compensa con altro dolore finché non diventa abbastanza duro da permettere di ricostruirci una persona. Ma suo padre era in un Istituto Psichiatrico, sua madre era morta, Amos era ad Azkaban e Nathaniel l’aveva abbandonata. Non c’era nessuno che potesse realmente comprendere, sotto le vacue per quanto sentite condoglianze, quella perdita. Nessuno, nemmeno chi aveva già perso qualcuno: era sempre soggettivo, sempre nuovo, sempre diverso. Solo lei ricordava il lontano profumo del Natale a casa Lowell, la risata argentina di Clarissa e la voce baritonale di Zachary. Non aveva mai avuto nessuno con cui parlarne.
    Nathaniel Keegan Lowell. Lui avrebbe potuto curarla, perché lui solo provava un dolore uguale e complementare a quello di Karma. Suo fratello. Ma aveva deciso di lasciarla da sola. Magari l’aveva perfino dimenticata.
    Era una giornata uguale a mille altre che l’avevano preceduta, e probabilmente ad altrettante che l’avrebbero seguita. Nel risveglio di Jericho Karma Lowell non c’era nulla che potesse classificare quella mattina come fuori dall’ordinario. Poi, la quindicenne ex grifondoro, si era recata alla sua prima lezione per babbani e maghi speciali, e tutto era cambiato. Fuori nevicava, e la voglia di Jericho di uscire dalla Different Lodge era proporzionale al desiderio di un bradipo di avere le ali. Voleva rimanere rintanata sotto le coperte a guardare, con gli occhi semi chiusi, i fiocchi che pigramente si appoggiavano sul vetro della finestra, per poi scivolare al suolo. Avrebbe voluto rimanere da sola per un po’ a godersi quella tranquillità, ma con un potere come il suo era impossibile: i pensieri dei compagni le vorticavano nella mente intersecandosi con i suoi, come i cristalli di neve fuori da quella struttura. Si mescolavano in modo così omogeno, che a volte non sapeva distinguere quale fra i fili nella sua testa fosse suo, e quale di qualcun altro. Ah, quanto vorrei prendere Aveline e sbatt… Si tappò le orecchie e chiuse forte gli occhi, sperando così di allontanare quel pensiero che decisamente non era suo. Sapere cosa gli altri pensassero dei suoi amici le metteva i brividi, ma conoscere quello che realmente pensavano di lei era anche peggio. Se c’era una motivazione valida per uscire dalle calde coperte del suo letto, era sicuramente quella: la lezione tenuta dal professor Henderson. Aveva bisogno di imparare a controllare quel potere, di limitarlo, di potersi concedere dei minuti solo per sé. Vivere con tutte quelle voci che le si affollavano dietro le palpebre chiuse, quelle accuse, tutte quelle frasi che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di pronunciare ad alta voce, l’avrebbe fatta impazzire. Non sapeva chi fosse il professore. Anche quando frequentava Hogwarts come Grifondoro, Jericho era sempre stata il genere di ragazza che camminava a passo svelto e con lo sguardo basso, concentrata sulla meta da raggiungere abbastanza da non accorgersi del percorso. Non aveva conosciuto quasi nessuno, nei quattro anni passati dietro quelle mura. Si era creata un guscio confortevole, e vi usciva solo di rado. Non lo conosceva, dunque, ma sperava che potesse aiutarla. Era il suo lavoro, dopotutto. Così si era decisa ad alzarsi, a fare una doccia che nel migliore dei casi le avrebbe rubato il tempo altrimenti dedicato alla colazione, e ad indossare quella stupida divisa grigia che tutti i babbani abitanti al castello erano obbligati a portare. Così simile a quella che aveva portato gli anni precedenti da farle venire il magone: stesso maglioncino, stessa gonna a pieghe, stessa camicia bianca. Nessun simbolo ricamato sul petto, la cravatta di due diverse tonalità di grigio non smorzava l’effetto opaco. Ma Jericho, la nuova Jericho dei laboratori, non riusciva a passare inosservata nemmeno stretta in quel completo. Sembrava illuminata di luce propria, con i capelli lisci e lucidi che le incorniciavano un viso rotondo e morbido, occhi grandi, ferini, e labbra carnose. Sentiva, e percepiva, i pensieri incentrati su di lei. Nessuno di quelli che le giungevano era però lusinghiero, o certamente non nel modo che una ragazza avrebbe voluto. Si pigiò il cappello in testa mentre si dirigeva affrontando la tempesta nell’aula del professor Henderson, immergendo il mento nella sciarpa blu argento che aveva fregato a Taissa. Si tolse il berretto solo quando fu dentro il castello, e si accorse della neve impigliata nei capelli solamente quando fu davanti alla porta dell’aula, e questa cominciò a sciogliersi insinuandosi sotto la camicia. Entrò arruffata, con la chioma cioccolato davanti agli occhi e le guance rosee a causa del freddo; sguardo basso, scelse un banco in terza fila, non troppo in fondo ma nemmeno troppo esposto. Fu quell’imbarazzata distrazione a non palesarle subito l’evidenza. Era una giornata uguale a mille altre che l’avevano preceduta, e probabilmente ad altrettante che l’avrebbero seguita. Nel risveglio di Jericho Karma Lowell non c’era nulla che potesse classificare quella mattina come fuori dall’ordinario. Poi aveva alzato gli occhi, ed aveva incontrato due occhi azzurri come i suoi. E i pensieri erano fluiti dalla sua testa a quella di Jericho con naturalezza, quasi fossero sempre stati collegati. Jericho. Il cuore, la testa, i pensieri. O forse era l’anima a sbattere con insistenza contro la sua pelle, chiedendole di uscire, di essere liberata, di poter scappare. Rimase impassibile, mentre tutto si incrinava. O almeno rimase immobile: non era mai stata una brava bugiarda, e per quanto avesse cambiato aspetto, i suoi occhi ancora non sapevano mentire. E fu in una giornata uguale a mille altre, che Jericho Karma Lowell ritrovò suo fratello, Nathaniel Keegan Lowell.
    Aveva cambiato cognome.
    Aveva voltato pagina.
    Non aveva bisogno di lei, non ne aveva mai avuto bisogno.
    E lei aveva bisogno di lui come il primo giorno in cui l’aveva perso, quand’era troppo piccola per avere il coraggio di dirlo ai signori Hades. Ed ancora di più ne aveva bisogno in quel momento, con quel nuovo potere che la seppelliva lentamente sotto una realtà distorta dagli occhi degli altri.
    Non voleva aver bisogno di Nathaniel.
    E per la prima volta dopo tanti anni, una lacrima trasparente sfuggì dalle ciglia scure, scivolando sul cappello che aveva posato in grembo. Una sola. Una stupida goccia l’aveva tradita. Si alzò improvvisamente, nonostante la lezione avesse appena avuto inizio. “Non mi sento bene, professore” Non riuscì ad impedire alle labbra di sollevarsi in un sorriso ironico, mentre gli occhi nuovamente asciutti sfidavano Henderson a non darle il permesso di uscire dall’aula. Lowell, non Henderson. Lowell.
    Fuori faceva freddo, ma non aveva importanza; e continuava a nevicare, ma non aveva importanza.
    Nathaniel sapeva dove trovare Jericho, l’aveva sempre saputo.
    I piedi le scivolavano sul suolo ghiacciato, ma non aveva importanza; il vento, che prima le era sembrato un soffio leggero e delicato, le frustava i capelli sul viso, ma non aveva importanza.
    Si infilò nella serra numero 2, laddove venivano tenute le piante innocue… perlomeno, innocue per gli standard della Lagrange: piante di puffagiolo, di viole e ciclamini, di violacini –una fusione delle due, suggerimento di un ragazzo dell’ultimo anno… anche se Jericho ancora non aveva capito la funzione-, cavolo carnivoro cinese, elleboro, bucaneve. Quei profumi le ricordavano il laboratorio di sua madre, Clarissa Shaw, una stravagante erborista: entrare in quella stanza le era sempre stato proibito, ma Jer aveva sempre trovato il modo per aggirare le regole e curiosare fra le ampolle della mamma. Quel profumo sapeva di malinconia, ma riusciva a tranquillizzarla. Quel profumo era casa.
    E rimase seduta lì per terra cercando di ricordarsi come respirare per quelli che parvero pochi secondi, una manciata di minuti, qualche ora, un’intera vita.


    Scheda ▴ 15 ▴ Telepatia ▴ Pensieve code role by #epicwin for obliviongdr



    sì, sono molto fiera dell'intera sequenza rime nel sottotitolo. AHAHAH #tardaritarda #amatemicosì *^*
     
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    Jeremiah Andrew Coverfield

    Scheda ▼16 anni▼ MUGGLE▼ NEUTRALE▼

    La neve…non c’era niente di più inquietante, dal mio punto di vista. Era una sensazione strana, che mi accompagnava sin da quando ero bambino. Durante la mia infanzia, mi ero sempre sentito diverso dagli altri: mentre i bambini normali correvano sulla neve, giocando e tirandosela addosso, io potevo solo guardarla dalla finestra, rigorosamente chiusa, schiacciando il volto contro il vetro, che finiva per appannarsi così spesso da rendere la visuale onirica. C’era stata una volta in cui avevo preso autonomamente la decisione di uscire, per giocare anche io con la neve e fare uno di quegli orribili pupazzi. Mi ero messo la sciarpa, mi ero messo il cappellino, e persino i guanti. Poi ero uscito, ed ero stato un intero pomeriggio fuori, in giardino. Mio nonno non si era accorto della mia fuga. Questo perché per loro ero invisibile, fino a quando non gli servivo per qualche evento in cui la mia assenza sarebbe apparsa sgradevole per l’immagine della famiglia perfetta che avevano costruito nel tempo. Quando ero rientrato in casa, avevo fatto attenzione a ripulire bene i vari indumenti, asciugando il pavimento, nascondendo ogni traccia della mia fuga. Poi, d’improvviso, comparve mia madre sulla porta. La stanza era perfetta, non poteva avermi scoperto, ma trattenni ugualmente il respiro, perché l’ansia non mi stava abbandonando. Poi, d’improvviso, la sua mano schioccò contro la mia guancia. Ricordavo bene il dolore attutito dal freddo, ma ancora di più quel suono secco e sordo, che rimbombò dentro di me, facendomi sentire impotente e stupido. La fissai, con gli occhi in lacrime, senza capire come avesse fatto a capire. Mi ero scordato di distruggere il pupazzo di neve in giardino, ed era evidente che non potesse essere stato mio nonno a farlo. Ecco, quello era solo uno degli episodi per i quali odiassi la neve. Non mi piaceva la neve, mi ricordava solo quanto fossi impotente e stupido. E poi mi rappresentava, così bene da costringermi ad odiarla: io, come la neve, ero freddo, glaciale, impassibile, ed allo stesso tempo volubile, pronto a sciogliermi al primo raggio di sole. Non mi piaceva la neve perché cadeva come a voler sottolineare quanto fossi una persona debole. Non ero debole, non mi sentivo davvero tale, semplicemente perché ero incapace di provare determinati sentimenti, e quindi era dannatamente difficile colpirmi. Ero forte, perché stronzo. Ero forte perché dotato di una naturale corazza di gelo profondo che non riuscivo a sciogliere. Così, quando quella mattina mi ero svegliato, e tutti erano euforici perché stava cadendo la neve, io ero l’unico ad essere rimasto a letto. Neanche il tè caldo alla vaniglia era riuscito a risvegliarmi e darmi la carica quotidiana. Anzi, dopo averne recuperata una tazza, ero tornato a letto, per berlo con le gambe e parte del busto coperti dal piumone pesante. Quella mattina non mi sarei mosso dal letto. Quindi avrei saltato le lezioni. Non che fosse una grande perdita: erano inutili quelle lezioni, non stavo imparando niente, ed il mio potere era sempre più fugace e sgradevole. Purtroppo però non sarei potuto rimanere davvero tutta la mattina a letto, perché avrebbero mandato qualcuno a visitarmi, ed avrebbero scoperto, con qualche trucchetto magico, che stavo mentendo e che in realtà non ero malato, come volevo far credere per giustificare la mia assenza alle lezioni. Non avevo mai provato tanta fatica nel vestirmi. Per quanto mi riguardava il pigiama ed il piumone, nel periodo invernale, erano amici intimi ed imbattibili. Solo quando fui pronto, uscii da quel posto malefico. Non potevo girovagare per il castello, in ogni caso, perché mi avrebbero visto. Avrei dato nell’occhio non essendo uno studente vero. Ecco, quella era una delle cose che più odiavo: non ero un essere umano, non ero un mago. Ero uno scarto della società, e non riuscivo a trovare il mio spazio vitale in cui potermi muovermi liberamente. Abbandonata così la speranza di girovagare per il castello, e la possibilità che mi venisse improvvisamente voglia di frequentare le lezioni, nonostante il fascino del professore, che non era certo passato in secondo piano, recuperai una sciarpa. Non una sciarpa qualunque. Rubai la sciarpa di un corvonero troppo indaffarato a parlare e gesticolare per accorgersi che gliel’avevo sfilata dalle spalle. Me la avvolsi intorno al collo, coprendo in parte le labbra, ed uscii, correndo sotto alla neve. Era un periodo che correre era diventato il mio mestiere. Non si trattava solo di una vita frenetica. Era più una corsa isterica, un tentativo di fuga da me stesso totalmente sconclusionato ed invano. Iniziavo a credere che se non avesse smesso di nevicare, ci avrebbe sepolti tutti quella coltre di gelo bianco. E non avrei avuto alcuna difficoltà a credere che ci avrebbero trasformati tutti in dei ghiaccioli ai gusti più strani. Mentre facevo quei pensieri idioti, passò una ragazza, dai capelli neri come la pece, arricciati. Mi fissò stranita, e poi mi diede un ordine così ambiguo che mi lasciò spiazzato. “Dovresti sbrigarti a fare la ricerca sulle piante della Lestrange”. Non avevo idea di cosa stesse parlando. Solo dopo collegai i vari passaggi…era colpa della sciarpa! Mi aveva scambiato per un corvonero, ed ora mi impartiva ordini. Non avevo voglia di litigare o contraddirla. Non avevo voglia di essere condotto a lezione, dove avrei ricevuto la ramanzina giornaliera, così mi limitai ad annuire, e quella, compiaciuta, incrociò le mani, mentre mi fissava, aspettando che mi smuovessi per fare quello che mi aveva ordinato. Ecco, mi faceva uno strano effetto indossare quella sciarpa, perché non volevo confondermi con i maghi. Giocavano a dividersi in fazioni, ma erano fatti con la stessa pasta: erano stronzi, infimi, ed opportunisti. Non avrebbero esitato due volte a prendermi a schiaffi, solo perché non ero “alla loro altezza”. Ero scappato dalla mia vecchia vita ripromettendomi che non mi sarei più fatto prendere a schiaffi. Perché allora assecondavo quella sottospecie di gioco? No, non mi riferivo solo alla sciarpa, ma in generale. Mi avevano trasformato in un mostro, e non avevo ancora provato ad ucciderli tutti. Inutile chiedersi il motivo: non ero all’altezza. Purtroppo non avevo il potere per riacquistare la mia libertà. E poi dovevo imparare a controllare quel mio “potere” per non impazzire. Mi infilai dentro la prima serra, non sapendo cosa cercare o cosa fare. Mi limitai, una volta richiusa la porta alle mie spalle, ad infilare una mano nella tasca dei pantaloni, in cerca delle sigarette. Avevo bisogno di fumarmene una. Non erano facili da reperire all’interno del castello, ma io c’ero riuscito.
    << E tu chi sei? Stai facendo anche tu la ricerca per la Lestrange? >> Personalmente non ricordavo neanche chi fosse quella professoressa. L'avevo solo sentita nominare più volte, quindi presumevo si trattasse di una docente di erbologia. Chissà, magari avrei trovato delle erbe interessanti in quella serra! Con chi stavo parlando? Con l'unica persona presente all'interno della serra: era una ragazza, che sembrava abbastanza annoiata, o forse nervosa. Era carina. Molto carina. Troppo carina. Peccato che non fossi interessato al genere. Non sapevo quanto sarei riuscito a gestire quella situazione, recitando la parte del corvonero. Insomma, con solo una sciarpa dei colori della casata, non mi sarei potuto confondere con quei ragazzini viziati e presuntuosi. Da quanto avevo capito, i corvonero erano proprio i più presuntuosi. Poi c'erano i serpeverde, che erano i più ipocriti, predicando il male e concludendo comportamenti confliggenti con le loro stesse parole. C'erano i tassorosso...inutili tassorosso. Ed infine i Grifondoro. Ecco, erano quelli che odiavo di più, perchè in fondo non c'era niente di peggio di chi si ergeva a paladino della giustizia, a discapito degli altri. I Grifondoro si proclamavano come buoni assoluti, e gli altri...erano tutti cattivi rispetto a loro. Era il modo di pensare cristiano dei miei ex parenti, per cui loro erano ottimi predicatori, e gli altri solo dei miserabili peccatori. Tra gli "altri" ero incluso anche io, ovviamente. Il mio peccato più grande era stato probabilmente l'essere nato. Il secondo, l'essere nato omosessuale. Il terzo, essere nato omosessuale e non avere la voglia di "cambiare" o di "guarire" come dicevano loro. Insomma, ero scappato e non era stato un male per nessuno di noi. Mi rigirai la sigaretta tra le dita, non sapendo se accenderla o meno. Anzi, cercai proprio di nasconderla con la mano con naturalezza per non farmi vedere. Non volevo che facesse la spia e me le facesse sequestrare dopo tutto il lavoro che avevo svolto per averle.
    << Woo, qualcuno dovrebbe dire alla Lestrange di cambiare concime. Puzza di cavolo marcio. >> Stavo parlando praticamente con me stesso, mentre annaspavo, infastidito da quell'odore di chiuso che c'era là dentro alla serra. Di solito non parlavo molto. Non con gli altri almeno. Non volontariamente. Io ero ormai quello che si limitava ad ascoltare, non tanto le parole, quanto i pensieri. Fastidiosi penetranti pensieri. Mi alzai leggermente la sciarpa cercando di coprire il naso per non essere costretto ad annusare quell'odoraccio. Mi ricordava le cene all'orfanotrofio. I cavoli costavano poco. Venivano lessati e ci venivano consegnati in piatti di legno insieme ad un pezzo di pane e dei fagioli. Un vero schifo. Ma comunque meglio della cena perfetta ed ordinata che preparava mia nonna, perchè non era condita di ipocrisia e risentimento.

    Abbastanza spesso la gente mi considera pazzo quando faccio un salto invece di un passo
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    Jericho Lowell
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    Si attorcigliò sulle dita una ciocca di capelli inumidita dalla neve. Ricordava qualche anno prima, quando lei e Jack non vedevano l’ora che nevicasse solamente per poter combattere duramente la conquista del Fortino d’Inverno; la sua scialba chioma color corteccia le si incastrava dentro al cappuccio, umida, riempiendosi di nodi al solo battere di ciglia. Si rese conto che la Jericho 2.0, aveva dei capelli morbidi e lisci, sotto i polpastrelli, anche dopo una passeggiata priva di precauzioni sotto la bufera. Era così dannatamente seccante. Ogni ragazza sognava di svegliarsi con i capelli perfettamente acconciati, di non dover dannare dietro creme e pozioni che donassero luminosità e vigore. Anche Jer l’aveva sognato, specialmente quando al terzo anno le avevano adorabilmente affibbiato lo pseudonimo di ‘La tana dell’Augurey’, con tanto di cinguettii ogni volta che passava per i corridoi. Eppure. Sentiva che era una cosa innaturale, sbagliata. Non era una qualità di cui vantarsi (anche perché non poteva nemmeno dire di essere stata graziata da Madre Natura), era più qualcosa di imbarazzante da nascondere sotto il fango. Nessuno poteva essere così perfetto ed essere reale. E cosa c’era di reale in Jericho? Cosa di normale? Era stata solo un gioco, un esperimento, una cavia. Le avevano fatto un dono artificiale che avrebbe dovuto portare con naturalezza, che nei progetti avrebbe dovuto donarle le ali e permetterle di volare. Ali di cera, le sentiva già sciogliersi sulle spalle. Non era Jericho Lowell, quella. E quei capelli la stavano facendo davvero alterare. Era una sciocchezzuola, ma in un momento come quello le sembravano la cosa più importante. Doveva assolutamente fare qualcosa, possibilmente qualcosa di stupido che dimostrasse, soprattutto a sé stessa, che era sempre lei, indipendentemente dalla macchina con la quale si muoveva. Poteva rasarsi a zero. Rasarsi a metà. Scriversi sulla testa i Grifi sono meglio. Lasciò uscire l’aria dai polmoni in uno sbuffo convinto, che all’interno delle Serre non si concretizzò in una nuvola di vapore. Si alzò e cominciò a cercare il necessario, ossia uno specchio –o una qualsiasi superficie riflettente- ed un paio di forbici, o cesoie. Figurarsi se non li avevano, Merlino, con qualcosa dovevano pur potare le piante no? Trovò quello che faceva al caso suo: un bel paio di forbici, forse un po’ troppo pesanti, ed il frammento di quello che un tempo aveva dovuto essere uno specchio di tutto rispetto.
    Stai facendo una stronzata, Jericho. Ti sei drogata stamattina? Ma Jer, nel pieno della sua sofferta adolescenza, non voleva sentire ragioni nemmeno con sé stessa. Quando gli ormai datati nonni dicevano che nelle nuove generazioni c’era qualcosa di sbagliato, dovevano sicuramente avere avuto impresso nella mente il prototipo di fanciullo cui Jericho era fiero apogeo. Afferrò i capelli, troppo belli e troppo perfetti –la logica di Jericho: allora tagliamoli!-, con una mano, mentre l’altra rinforzava la presa sulle forbici. Fallo. Stava sudando freddo, perché in cuor suo era invidiosa di quei capelli, di quella perfezione che da sola non sarebbe mai stata in grado di raggiungere. Era una sensazione così strana, e patetica, che non sapeva nemmeno lei come spiegarlo senza risultare… pazza. Ma quell’intera situazione era pazzesca, quindi forse non aveva bisogno di giustificazioni. Stava per farlo, per stringere la lama sulle ciocche, quando un rumore le fece cadere le forbici di mano. Si affrettò a raccoglierle e a nasconderle dietro la schiena, spalancando poi i grandi occhi azzurri verso il nuovo arrivato, il cuore che batteva a mille contro la gabbia toracica. “E tu chi sei? Stai facendo anche tu la ricerca per la Lestrange?” La ricerca… cosa? Sentendo le mani umide contro il freddo metallo delle forbici, si limitò ad annuire lentamente. Non aveva mai visto quel ragazzo, ma indossava una sciarpa blu bronzo quindi doveva essere un corvonero. Un compagno di Jack. Maledetti corvognoranza. Il suo sguardo scivolò con lentezza sulla propria sciarpa, blu bronzo anch’essa, prima di tornare a posarsi sul biondino. Aveva un viso dai tratti morbidi e dolci, il classico ragazzo a cui avresti chiesto senza rimorso un po’ di zucchero se fosse stato il tuo vicino di casa. Eppure, dietro gli occhi altrettanto azzurri del corvonero, c’era qualcosa che metteva a disagio Jericho. Probabilmente una persona, Lowell. Ah, già. Un vero peccato che dietro degli occhi, un naso, delle labbra ci fosse sempre una persona: Karma aveva dei seri problemi ad interagire con gli altri esseri umani. Annuì nervosamente. “Ceerto, la ricerca. Ovviamente. Altrimenti cosa dovrei fare nelle serre, tagliarmi i capelli?” Sbuffò ridendo, lasciando che una mano si agitasse nell’aria con non curanza. Quand’era nervosa gesticolava sempre, forse per tranquillizzare sé stessa. Era un maledetto tic. Facendo così, però, aveva lasciato allo scoperto le forbici, che penzolavano inerti a lato del suo corpo, ancora ben agganciate alla mano sinistra. Si irrigidì. “Queste… le ho trovate per terra” Rispose di getto, poggiandole sul bancone per poi stringersi entrambe le mani con aria molto innocente. E sospetta. “Io sono… dipende da chi me lo chiede” Il suo sguardo si fece curioso, mentre valutava se l’avesse mai visto in compagnia di Jack, il prefetto dei corvi. Insomma, non poteva mantenere segreta la sua identità, se poi sbandierava ad un amico di Hades il suo vero nome. Ci mise qualche secondo, prima di rendersi conto che quanto aveva detto, a orecchie esterne, poteva risultare fraintendibile. Jericho, non smentirti mai, mi raccomando. “Sembra una risposta da abbordaggio nei bar, ma tu… fingi solo che sia una domanda normale, per favore” Si massaggiò le palpebre, chiedendosi per la millesima volta perché doveva essere sempre così disagiante. E non lo faceva nemmeno apposta, era una dote naturale! “Ti conviene fumare là, se vuoi” Disse cercando di sembrare meno sociopatica, indicando con il pollice una zona poco più lontana. “Il vetro è danneggiato e ci sono più probabilità che… sai, si disperda. Il fumo, non il vetro” Non capiva perché continuasse a parlare, quando sapeva perfettamente che chiudendo la bocca avrebbe evitato di dire altre baggianate. Era più forte di lei, se non faceva brutte figure non si sentiva in pace con sé stessa. “Woo, qualcuno dovrebbe dire alla Lestrange di cambiare concime. Puzza di cavolo marcio.” Gli rivolse una smorfia divertita, arricciando il naso. “E pensa che è questa puzza a rendere i fiori così belli. Fortunatamente lo stesso ragionamento non vale con le persone, anche se in molti sembrano non averlo capito” Fece spallucce, rendendosi conto che ormai, per frenarsi, era troppo tardi. Era nata per essere una ragazza imbarazzante, che senso aveva cambiare un percorso prestabilito quando da quindici anni a quella parte ci si era trovata così bene? Rimase in silenzio qualche secondo, ripensando a quello che aveva detto il ragazzo. Subito non aveva collegato, era passato in secondo piano, come quelle frasi smozzicate prima di addormentarsi della quale si coglie il suono ma non il significato. Per un attimo pensò perfino di averlo immaginato, ma l'aveva sentito forte e chiaro. Ecco perchè Jericho era una Grifondoro e non una Corvonero.Da quanto avevo capito, i corvonero erano proprio i più presuntuosi. Poi c'erano i serpeverde, che erano i più ipocriti, predicando il male e concludendo comportamenti confliggenti con le loro stesse parole. C'erano i tassorosso...inutili tassorosso. Ed infine i Grifondoro. Ecco, erano quelli che odiavo di più, perchè in fondo non c'era niente di peggio di chi si ergeva a paladino della giustizia, a discapito degli altri. I Grifondoro si proclamavano come buoni assoluti, e gli altri...erano tutti cattivi rispetto a loro.” Si inumidì le labbra, sedendosi sopra il bancone con i palmi ben stretti sul bordo. Perché aveva detto una cosa del genere? Confusa, aggrottò le sopracciglia e si chiarì la voce. “Non è come pensi, sai. Non tutti sono uguali. I corvonero non sono sempre i più presuntuosi…Un mio amico è Corvonero, ed è tutto fuorchè presuntuoso. I serpeverde non sono ipocriti, la maggior parte di loro credere davvero in quello che dice. Che poi siano idee condivise o meno, è diverso; i Tassorosso non sono inutili, e ti consiglio di non dirlo mai ad alta voce davanti a loro” Gli rivolse un sorriso sghembo. “Sono amici sul quale potrai sempre contare, anche quando tutti gli altri ti voltano le spalle. E sanno far ridere, anche se perlopiù penso non lo facciano apposta. E ti posso assicurare che i Grifondoro non sono tutti paladini, e non si credono buoni. Chi crede di esserlo, lo è realmente; gli altri non ci provano nemmeno a dissimulare. Ma dovresti saperlo.” Rimase in silenzio qualche secondo, per poi alzare lo sguardo e cercare gli occhi azzurri del giovane. Non era una tipa da contatto visivo, Jericho, anzi: se poteva lo evitava come la peste. Eppure in quegli anni a Hogwarts, assieme ai rosso oro, aveva capito una cosa: non era importante come ti sentissi, ma come volevi che gli altri pensassero ti sentissi. E Jer voleva almeno un briciolo di quel coraggio che le era sempre mancato quando sedeva dietro i banchi del castello. “Tu non sei un corvonero” Asserì senza punto interrogativo, ma con una domanda implicita.



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    Jeremiah Andrew Coverfield

    Scheda ▼16 anni▼ MUGGLE▼ NEUTRALE▼

    C’era stato un tempo in cui ero convinto di soffrire di una strana malattia: avevo paura del silenzio, ero silenzio fobico, e pur di non dover stare zitto, ascoltavo la musica o parlavo, anche con gli sconosciuti, senza farmi troppi problemi. E’ vero, spesso non dicevo niente di me, non rivelavo informazioni importanti o esistenziali ed ero sempre pronto ad ironizzare o scherzare sulle piccole cose piuttosto che approfondire la conoscenza della mia persona, che custodivo gelosamente, ma non riuscivo a rimanere in silenzio. Con l’eccezione dei momenti in cui ero in casa. Ecco in quel caso mi limitavo a rispondere alle domande che mio nonno o i miei genitori mi ponevano, e dovevo stare bene attento a soppesare le parole che utilizzavo, per non incorrere nella loro ira. Adesso era tutto diverso. Scappavo dalle persone, pur di non sentire il loro pensiero, e di non captare niente della loro personalità. Ed amavo i momenti di silenzio. Quei pochi momenti in cui riuscivo ad isolare il mio pensiero dagli altri. Ecco perché mi ritrovai in parziale difficoltà quando, entrato nella serra, mi ritrovai davanti ad una ragazza. Ero convinto che fosse vuota, perché a quell’ora non ci sarebbe dovuta essere lezione, e perché da fuori non avevo visto nessuno, quindi ero entrato direttamente, abbastanza sicuro di poter fumare in pace. Invece così non era stato. Ma data la mia indole, non sarei neanche potuto rimanere in silenzio a fissare gli occhi azzurri della ragazza, quindi avevo iniziato a parlare, in modo molto generico. Dovevo dare un alibi alla mia presenza in quella serra, così da distogliere l’attenzione dalla mia sigaretta, ed al tempo stesso volevo capire se fosse una studentessa modello, una di quelle che passava il tempo a fare ricerche, o se anche lei si stesse nascondendo. La ragazza, in tutta risposta, si dimostrò stranita, come se stessi parlando un’altra lingua. Non fu difficile percepire tutti i punti interrogativi che si stavano formando nella sua testa. Iniziai a pensare di aver sbagliato il nome della professoressa. Magari quella ragazza era un’assistente della professoressa, e poteva capire all’istante che non c’era alcuna ricerca da fare, soprattutto non in quella serra. Ecco, in quel caso sarei rimasto senza parole. Non potevo dirle che volevo solo fumarmi una sigaretta. Anche perché avrebbe potuto pensare che fossi in cerca di qualche nuova erba da sperimentare, e diavolo, non conoscevo così bene quel mondo magico, ma sapevo per certo che era una follia pensare un qualcosa di simile lì. Fortunatamente la ragazza ritrattò il tutto ed in un secondo momento confermò la mia versione dei fatti. Non era assolutamente convincente, si vedeva lontano un miglio che non sapesse di cosa stessi parlando, e senza l’aiuto di poteri magici. Ma non avevo alcun motivo per contraddirla apertamente. Anche se non riuscii a trovare divertente quella sua battuta. Cosa c’entrava il tagliarsi i capelli? Che poi, paradossalmente, era una delle cose che mi sarei aspettato, dal momento che tutto in quel mondo magico era strano ed assurdo. Era molto più probabile trovare qualcuno che si tagliasse i capelli nelle serre, piuttosto che qualcuno in cerca di erba da fumare. E per me era dannatamente assurdo. E mentre la misteriosa ragazza rideva gesticolando, mi accorsi che aveva in mano un paio di formici. Non sapevo se fossero cesoie per piante magiche, piuttosto che normali forbici, perché in un attimo la ragazza le fece sparire, giustificandosi. Decisamente in quel mondo poteva accadere di tutto, ed io non ero più in grado di meravigliarmene. Quello che invece mi stupì fu il suo mistero. Non mi volle neanche dire chi fosse, senza prima che mi identificassi. Hei, avevo la sciarpa dei corvonero al collo! Che poteva volere di più da uno come me? Non avevo neanche fatto domande sulle sue forbici, o sul fatto che fosse ben più sospetta di me in quel frangente, che mi limitavo a nascondere una sigaretta tra le mani.
    << Di solito non si risponde ad una domanda con una domanda. Comunque sono Jeremiah...Jer, per i più. E tranquilla, ho visto tattiche di abbordaggio ben peggiori qui al Castello. >> Mi presentai, e non mi passò neanche per l'anticamera del cervello che forse sarebbe stato meglio mentire sul mio nome, così come stavo facendo con la mia identità in generale, mascherandomi da studente corvonero. E lo feci con un nitido sorriso di gentilezza. Non ero pratico di abbordaggi. Non ero avvezzo all'amore, e trovavo tutto molto difficile, soprattutto perchè avevo quella pessima abitudine di invaghirmi sempre delle persone sbagliate. Soprattutto di ragazzi eterosessuali. C'era chi parlava di "gay radar". Il mio doveva essersi rotto subito, ed aveva iniziato a funzionare al contrario. E quando iniziavo a capire qualcosa in materia, ero stato catapultato in un mondo totalmente nuovo, dove venivo indicato come feccia vivente, e dove nessuno osava avvicinarsi a me. Non avevo neanche capito come funzionassero le cose: i membri di una casata potevano instaurare rapporti amorosi con i membri di altre casate? Quello che sapevo per certo era che i grifondoro, per quanto si definissero buoni e santi, erano quelli più provoloni. Mentre i serpeverde erano sexy ma difficili da conquistare. Insomma: un gran casino. Comunque la ragazza mi aveva solo chiesto chi fossi, e non sapevo come fosse abituata lei, ma per me non era considerabile come una tattica di abbordaggio. E d'improvviso la ragazza mi colse nuovamente di sorpresa: la sigaretta che credevo di aver celato molto bene tra le mie mani, era stata scoperta. Ma almeno non l'avevo scandalizzata, e non era andata su tutte le furie, una volta scoperti i miei intenti. Anzi, mi aveva appena consigliato dove fosse meglio fumare là dentro a quella serra, ed istintivamente mi chiesi se fosse perchè anche lei fumava là dentro, o solo perchè fosse più intelligente di me. In ogni caso le credetti sulla parola, perchè sembrava una spiegazione sensata la sua. Mi spostai, verso il fatidico vetro, e mi portai la sigaretta alle labbra, faticando un po' ad accenderla, per il leggero venticello che entrava freddo dallo spiraglio. Mi venne spontaneo ridere, alle nuove parole della ragazza. Ecco, stavolta non le credevo. Era impossibile che una cosa tanto puzzolente fosse positiva ed utile a qualcuno o qualcosa. Però per il resto erano sacrosante parole: dovevano imparare a lavarsi. Soprattutto dopo il quidditch. E' vero, non dovevano correre come il football, ma era faticoso. E lo si sentiva bene, dopo una partita o degli allenamenti. Mi appoggiai con la schiena alla vetrata, assaporandomi la sigaretta e quei primi tiri, e socchiusi gli occhi, godendomi quella sensazione di libertà, seppure con la consapevolezza che fosse temporanea e fugace. Detto fatto: la ragazza iniziò a leggermi nella mente, e dopo avermi fatto la paternale difendendo le varie casate, capì la verità, cioè che non ero un corvonero. Sorrisi, divertito. Era solo una questione di tempo: mi stavo chiedendo quanto ancora dovesse passare prima che mi scoprisse. Non ci aveva messo poi così tanto. Ma da una con i suoi poteri, mi sembrava troppo.
    << Non sono un Corvonero. E tu sei una telepate. Una delle strane coincidenze che si verificano al Castello. >> Le porsi la sigaretta. Se voleva favorire, senza scandalizzarsi, poteva farlo. Non ero uno che si creava problemi a condividere le cose. Anzi, lo avevo sempre fatto, pur non avendo niente, ed essendo povero in canna.

    Abbastanza spesso la gente mi considera pazzo quando faccio un salto invece di un passo
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    Jericho Lowell
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    Osservò il ragazzo mordendosi il labbro inferiore, cercando di zittire quel fastidioso lato di sé sempre sulla difensiva, pronto ad attaccare; Jericho non si fidava di nessuno, ed anziché ignorare il genere umano come sarebbe stato giusto fare, tendeva ad avvicinarsi e a graffiare. Negli anni passati al castello, infatti, erano molto più numerose le inimicizie. Le veniva naturale, farsi dei nemici. Ad un osservatore esterno sarebbe sembrato che quasi ci provasse gusto, ed in tutto sincerità non sapeva come dargli torto: preferiva dare motivi per i quali le persone potessero prendersela con lei, piuttosto che tacere ed essere bersaglio di cattiverie senza motivo alcuno. Il biondino, però, non le aveva fatto nulla: era solamente entrato nelle Serre al momento sbagliato, cogliendola di sorpresa. E quando veniva colta di sorpresa, parlava a sproposito.
    Se non si fosse notato.
    “Di solito non si risponde ad una domanda con una domanda. Comunque sono Jeremiah...Jer, per i più. E tranquilla, ho visto tattiche di abbordaggio ben peggiori qui al Castello” Arricciò il naso, trattenendosi dal rispondere per le rime. La Lowell era particolarmente brava nel temporeggiare e nel distogliere l’attenzione, dote necessaria da affinare quando si vive con un Corvonero al quale si vuole nascondere un segreto. Hades le ripeteva quella frase in continuazione: non si risponde ad una domanda con una domanda, Jer. Fortunatamente era abbastanza egocentrico da non continuare la conversazione precedente, lasciando Jericho soddisfatta ed al contempo un po’ delusa. Gli importava così tanto, la sua opinione, da dimenticarsene quando il faretto del teatro era puntato su di lui. Quanto poteva essere patetica ad essersi innamorata di un ragazzo del genere? Ma non voleva pensare a Jack, perché pensare a lui le avrebbe ricordato quanta voglia aveva di abbracciarlo, e affondare la testa nella sua spalla singhiozzando secca per quel fratello che aveva ritrovato. Lui sarebbe stato l’unico a capire, dato che nessuno conosceva la drammatica tragedia dei Lowell. Un sorriso penetrò in quella cappa di desolazione nel quale si era rinchiusa, mentre rialzava gli occhi azzurri su Jeremiah. Quegli occhi azzurri che erano l’unica cosa a non essere cambiata. Un altro Jer! Non sapeva il motivo, forse nervosismo ed esasperazione, ma lo trovava dannatamente divertente. Ed il sorriso divenne presto un ghigno, quando accennò ai metodi d’approccio del castello. Avrebbe voluto rispondere che ne sapeva qualcosa, ma sarebbe stata una menzogna: solo ultimamente Jer si era avvicinata a quel mondo, e non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe dovuto aspettarsi. Una premessa del genere, chiamatela pure intuitiva, ma non prometteva bene. Si ritrovò nuovamente a guardarlo, così intensamente che non si sarebbe stupita se Jer le avesse chiesto se voleva una foto. Era un … tic, se così si poteva definire. Passando buona parte della sua vita all’ombra di Jack, o a confondersi con le pareti, aveva trovato come passatempo quello di guardare le persone. Si era accorta che in realtà, la maggior parte della gente guardava tutto ma non vedeva niente: il loro sguardo si posava distrattamente su ogni cosa, ma coglieva solamente quello che poteva tornare utile, che aveva un qualche interesse. Lei cercava sempre di dare la giusta attenzione ad ogni cosa, forse concentrandosi perfino di più su tutto quello che veniva bellamente snobbato: una crepa sulla parete, un angolo di carta da parati non fissato, un bicchiere in bilico sul tavolo, il colore ambrato del whisky incendiario, il modo in cui i capelli sfioravano leggeri la nuca ad ogni passo. E più lo guardava, più era certa di ciò che aveva detto: non era un corvonero. Probabilmente non era nemmeno uno studente, pensò battendo le palpebre, altrimenti perché portare la sciarpa di un colore diverso rispetto a quello della propria casata? Doveva essere un suo nuovo compagno, e dai lineamenti giovani doveva perfino abitare lì ad Hogwarts, come lei.
    Forse non era realmente attenta quanto le piaceva credere, ma ehi: aveva avuto un sacco di cose a cui pensare, tipo un nuovo potere, un fratello, ed il fatto che non aveva ancora detto a nessuno di essere tornata. Potete biasimarla? “Non sono un Corvonero. E tu sei una telepate. Una delle strane coincidenze che si verificano al Castello” Venne strappata dai suoi pensieri, e dovette di nuovo mettere a fuoco la figura di Jeremiah, che saggiamente aveva seguito il suo consiglio e si era appostato alla zona fumo. Le offrì una sigaretta, e lei in tutta risposta alzò le sopracciglia. Non aveva mai fumato in vita sua, sapeva di quel particolare nel vetro solamente perché al castello lo sapevano tutti; un po’ come le gradinate del campo di quidditch sotto il quale si riparavano le coppie per… fare cose. Non che avesse mai appurato di persona: solitamente non credeva alle dicerie, ma se si trattava di quel genere di leggenda, preferiva non indagare.
    Ma c’era sempre una prima volta, giusto? Saltò giù dal bancone, avvicinandosi. Con un sorriso appena accennato, prese la sigaretta che le porgeva, borbottando un goffo ringraziamento. Imitò i suoi gesti: la tenne fra le dita, portandola alle labbra, ed infine vi avvicinò il fuoco del piccolo sputafuoco. Ne aveva uno a casa: l’aveva trovato per terra e ne era rimasta affascinata, anche se aveva rischiato di dar fuoco alle sue tende più di una volta. Peccato non sapesse il suo nome. Ma non era importante, giusto? Così bruciò la punta del cilindro di tabacco, aspirando, e ... cominciò a tossire. Dovette piegarsi sulle ginocchia, sforzandosi di non vomitare i polmoni, mentre le mani si affrettavano a scuotersi nell’aria per farle arrivare più ossigeno. “G-Grazie an-ancora ma penso che” Tossì un ultima volta, asciugandosi le lacrime che erano sfuggite dalle palpebre socchiuse. “Non faccia per me” Gliela porse di rimando, dopo tutto era come nuova e non voleva che ne sprecasse una per lei. La teneva con la punta delle dita, come se il solo toccarla potesse farla ricominciare a tossire. No, adesso che aveva provato poteva affermare con certezza che non avrebbe mai cominciato a fumare. Lo diceva anche la player, stolta. “Come fai a sapere che sono una telep… Ah” Si fermò, prima di concludere la frase. Probabilmente aveva detto qualcosa che non avrebbe dovuto dire. Quello era esattamente il motivo per cui avrebbe dovuto frequentare le lezioni, peccato che l’insegnante fosse Nate. Maledizione! “Scusami, è difficile controllarlo. Non capisco mai quando...” Si inumidì le labbra, cercando di trovare le parole giuste. “…Quando è un pensiero, o quando è detto ad alta voce. Merlino, a volte nemmeno capisco la differenza fra un pensiero mio e quello di qualcun altro. È così frustrante” Si lamentò sbuffando, togliendosi la sciarpa da Corvonero e lasciando intravedere la cravatta grigia, priva di alcun colore identificativo. Di nuovo aveva parlato troppo: perché al ragazzo avrebbero dovuto interessare le sue lagne? Non interessavano nemmeno a lei! “E scusami di nuovo, non credo tu sia interessato ai problemi di un telepate. Io sono Jericho, comunque. Jericho Lowell. Non volevo sembrare maleducata, sto cercando di mantenere un profilo basso, sai… telepatia, nuovo corpo, adolescenza” Fece spallucce, appoggiandosi al vetro vicino al biondino. “Gli amici mi chiamano Jer, ma dato che sei Jer anche te, puoi chiamarmi Karma se vuoi” Gli rivolse un sorriso cameratesco, quasi che il condividere un nomignolo li rendesse parte di una stessa setta segreta. Per le mutande di Morgana, sperava non esistesse alcuna setta di Jer. Sarebbe stato creepy. “Ah” Disse, ricordandosi improvvisamente di un particolare che prima gli era sfuggito. “Riguardo ai metodi d’abbordaggio al castello, occhio a quello che bevi. S-sei” Balbettò imbarazzata. “Un…Dillo. Ad alta voce. Un vampiroBabbano, giusto? Sai: la sigaretta, la sciarpa, i problemi con le casate...” Sbottò gesticolando tutto d’un fiato, cercando di giustificarsi, temendo di fare gaffe ma troppo… troppo Jericho per resistere .
    Morgana Merlino e Godric, quanto era inopportuna. Poi osava lamentarsi del fatto che non aveva amici.




    Scheda ▴ 15 ▴ Telepatia ▴ Pensieve code role by #epicwin for obliviongdr

     
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