nel dubbio, scegli l'alcol

Liam

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    Karen Davis
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    « l'alcol fa bene alla digestione»
    Il freddo, la pioggia e la grandine erano arrivati, e ciò significava che l'inverno aveva praticamente già varcato le porte. E allora non restava altro che accendere il camino, indossare maglioni pesanti e rigorosamente antisesso, sciarpe lunghe due chilometri e cappelli con il pallino in cima. Ah giusto, dimenticavo i guanti.
    Così non avevi scuse per boscarti le uscite dal castello, che fossero con gli amici, che fossero ad hogsmeade con gli studenti, che fossero al quartier generale ormai saltato per aria, o che fossero per bere qualcosa di decisamente alcolico fuori dalla portata dei mocciosi quindicenni.
    Karen Davis è una di quelle persone che ama l'alcol prima di se stessa. no, okei, forse prima ama se stessa, i cupcake, i caldiabbracci e poi anche l'alcol.
    Quella sera era sgattaiolata fuori dal castello per respirare un po' di aria fresca, visto che a Hogwarts la sensazione era quella di sentirsi costantemente soffocata. Soffocata da un mondo che non vedeva come il suo, da una marea di gente con convinzioni sbagliate.
    A volte credeva di svalvolare e sicuramente lo faceva, ma lontano dagli occhi indiscreti di tutti, nelle sue stanze. In dei momenti, tuttavia, sentiva il bisogno di fuggire da tutto e da tutti, in un posto in cui nessuno può romperti le palle, dove ti senti libera.
    Era tardi e le stelle non erano visibili a causa dei giganteschi nuvoloni che le coprivano, perciò non rimaneva che andare a intasare lo stomaco con qualcosa che servivano solo alla testa di porco, il locale gestito da Keanu, che aveva preso le redini del quartier generale della resistenza.
    In quel periodo anche i più sani di mente sembravano dar di matto più del solito: Ethienne leroy ad esempio. Erano nella stessa situazione lui e Karen, due ragazzi in un covo di matti. Eppure anche lui sembrava non ci fosse più con la testa.. Mah, chi lo sa, a volte il cambiamento del tempo ti fa saltare i neuroni.
    In ogni caso, ciò di cui aveva strettamente bisogno in quel preciso momento era sentire la gola in fiamme e una bella sigaretta.
    Varcò la porta della testa di porco e notò con piacere che gli squallidi individui che di solito la frequentavano sembravano aver fatto un incantesimo di adesione permanente ai loro deretani perchè nessuno riuscisse a schiodarli da quegli sgabelli.
    Posò la borsa marrone sullo sgabello vicino al suo e dopo essersi tolta cappello, sciarpa e cappotto si sedette.
    -voglio la cosa più alcolica che hai dietro al bancone- disse al primo ragazzo che vide passare davanti a lei
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    Lewis Fitzgerald
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    Si era risvegliato per terra, respirando polvere. La cosa stava diventando sempre più frequente, e cominciava a seccarlo alquanto. Fu quando si portò una mano alle labbra per tossire, che se ne rese conto: quelle mani appartenevano a Liam Callaway, non a Lewis Fiztgerald. Rimase immobile, con il viso a pochi centimetri del pavimento. Non si diede il tempo di assicurarsi che Megan e Aaron stessero bene, non si diede il tempo di lanciare un’occhiata alle macerie che lo circondavano. Egoisticamente, si concentrò su villa Callaway, a Tralee, soffermandosi su ogni particolare che potesse creare un qualunque tipo di rapporto con quella che avrebbe dovuto tornare a chiamare casa. Si alzò in piedi, si diede la spinta ed il battito di ciglia dopo era sul portico, in Irlanda. Ancora sporco di detriti, ancora avido della vendetta che nemmeno quel giorno era riuscito ad avere. Tirò un pugno alla porta, incurante di quanto l’impatto si fosse ripercosso al resto, già dolorante, del suo corpo. Quei maledetti figli di puttana l’avevano ucciso, e riuscivano sempre a sfuggirgli come dannate mosche. Quand’era convinto di averli in pugno, scivolavano via. Poggiò la fronte allo stipite, sospirando piano, pronto a porsi le domande a cui non era riuscito a darsi risposta prima. La più seccante, da qualche mese a quella parte, era: Megan? Entrata a far parte della sua vita nel momento in cui lui aveva avuto bisogno di lei, vi si era insediata come una maledetta zecca sulla pellaccia di un vecchio cane. Nemmeno maggiorenne, per l’amor di Dio, e si infilava in situazioni così troppo più grandi di lei. Se ci teneva tanto, a morire, c’erano modi più semplici che gli avrebbero fatto risparmiare un sacco di tempo. Preoccuparsi non faceva davvero per lui, era una cosa estranea ed oltremodo scomoda. Come se il fatto che fosse morto e tornato in vita, non fosse abbastanza.
    Entrò in casa, ed a passo spedito si avviò verso il bagno. Poggiò le mani ai bordi del lavandino e si sporse un poco in avanti, flettendo i muscoli, finchè il volto non si trovò a pochi centimetri dal proprio riflesso. Rivolse a sé stesso un mezzo sorriso che di divertito non aveva nulla, e che tutto prometteva su un futuro in cui avrebbe avuto finalmente la sua vittoria. Gli occhi scuri spiccavano incredibilmente sull’incarnato pallido, mentre i capelli ramati, spettinati, scivolavano dispettosamente sulla fronte. Ogni tanto doveva ricordarsi di com’era, di chi era realmente: sono Liam Callaway, stronzi, e non vi libererete di me facilmente.
    Era vero? Era ancora Liam Callaway? Aveva sentito alcuni, al suo funerale, sussurrare che era cambiato. Non era più lui e loro, loro cosa ne potevano sapere di cosa fosse mai stato lui? E loro, chi credevano di essere per pensare di poter dare un giudizio sulla sua vita? Da che aveva preso il posto di preside, e anche prima, tutti sapevano chi lui fosse: un cinico, arrogante bastardo, con la passione smodata per l’alcool e le belle donne, nonché un vizioso debole per il fumo. L’avevano accettato per quel che era, faceva comodo avere al comando, se così si poteva definire, una pedina sacrificabile ed allo stesso tempo manipolabile. E poi, prima ancora che se ne fossero accorti, Callaway era arrivato all’apice e loro, sbavanti, legati ad un lettino in stato vegetativo. La vita ed i suoi buffi, divertentissimi scherzetti. L’avevano sottovalutato, ma non era bastato: una volta che ne avevano riconosciuto il valore, ed avevano iniziato a temerlo, avevano creduto che fosse un mostro. Avevano errato, giudicandolo, nel non riconoscerlo come un essere umano. Non che lo dimostrasse espansivamente, ma per Dio, era ovvio che se poteva evitarlo non giustiziava in piazza dei ragazzini di undici anni. Non era mai stato un mostro, Liam, era sempre stato ciò di cui avevano bisogno nell’esatto momento in cui ce n’era stato bisogno. Niente di più e niente di meno.
    E alla fine, il Re era caduto.
    E loro, loro, sottovoce ne giudicavano le azioni. E sul palco, loro, ne lodavano la sfumata perfezione.
    Alla fine, a cadere era stata la scacchiera, a quanto pare.

    Il suo migliore amico non lo guardava in faccia. Se lo biasimava? Cazzo, sì. Avrebbe potuto prenderlo a pugni, insultarlo, ucciderlo per avergli fatto credere di essere morto. Aaron avrebbe potuto, quel giorno alla Stamberga, premere con più decisione la bacchetta sul suo petto. Avrebbe potuto infondere quell’odio, tramutarlo in un Anatema. L’avrebbe preferito, a quel silenzio vuoto La Lynn, un po’ ammaccata, era sana e salva. Riassumendo: era iniziato un nuovo anno, passati Natale e Capodanno, il suo compleanno si avvicinava, ed il suo fegato non avrebbe retto altro alcool fino, almeno, al funerale del capo dei ribelli. Se avesse continuato di quel passo, avrebbe tranquillamente e sinceramente potuto definirsi un alcolizzato.
    Ma era già morto una volta, quindi, come si suol dire, fottesega.
    Indossò un maglione spesso, un paio di jeans scuri, e gli anfibi. A Londra il tempo era vomitevole, ma anche ad Hogsmeade non scherzava. Infilati anche giacca e sciarpa, l’ultima cosa che fece prima di uscire di casa fu guardarsi allo specchio. Quegli abiti parevano informi sul suo corpo -troppo larghi sulle spalle, troppo corti i pantaloni-, ma non era quello il ragazzo che si accingeva a chiudersi la porta alle spalle. Sotto i suoi occhi, la pelle scivolò fluida a comporre una nuova figura: i capelli si tinsero di un biondo cenere, gli occhi divennero verdi, le labbra più carnose. Un po’ più basso, ma più compatto di Liam, Lev uscì dalla sua vecchia residenza per dirigersi nel suo locale preferito: la testa di porco. Lì a nessuno importava chi fosse, bastava pagasse. Poteva dar loro torto? Nessuno cercava di avvicinarsi per fare amabilmente conversazione, a meno che non fosse su stretto invito. Liam, di quelle finte conversazioni fatte di convenevoli, ne aveva davvero per le palle. Entrò nel pub, respirando con nostalgia quell’odore di… beh, casa. Quante sere lui e Aaron avevano passato lì dentro a bere, fino a svegliarsi nei luoghi più squallidi e nella compagnia più inopportuna senza avere la benchè minima idea di come fosse successo? Sedere da solo a quei tavolini, lo faceva sentire un gatto randagio con la rabbia. Meglio il bancone. Non perché fosse più vicino agli alcolici, e quindi gli venivano serviti con più velocità. Callaway era un signore.
    Si era appena accomodato, quando qualcuno prese posto al suo fianco. Una voce familiare, che gli fece sotterrare il mento fra le pieghe della sciarpa perché nascondesse un sorriso. “voglio la cosa più alcolica che hai dietro al bancone” Karen Davis non si smentiva mai. L'irlandese aveva pensato di non aver alcuna voglia di scambiare due parole, ma la verità era che la sua vecchia vita gli mancava. E la rossa ne aveva fatto parte, volente o nolente, anche se non erano mai stati amiconi. Ma c'era sempre una prima volta. “Due” Aggiunse inarcando le sopracciglia al ragazzo dietro al bancone. “Qualcuno ha avuto una brutta giornata?” Domandò lasciandosi sfuggire l’ombra di un sorriso, in un tono però istintivamente apatico.
    La sua vecchia vita gli mancava, ma non era mai stato bravo nelle conversazioni che superavano le due battute.
    Solitamente era più un: "Ti prego, non mi uccidere!" "Ops, già fatto"


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    In ventuno anni di vita, quasi ventidue per l'esattezza, nessuno dei suoi progetti era arrivato a termine nella maniera desiderata dalla rossa. Così si chiedeva: ma come è possibile?
    Beh evidentemente "nell'alto dei cieli" ci doveva essere qualcuno o qualcosa che aveva deciso di metterle in tutti i modi i bastoni fra le ruote. Si sente spesso fra la gente l'espressione "capitano tutte a me", ma questo non è altro che un luogo comune, una frase fatta, a meno che non si stia parlando di Karen Davis. Nell'ultimo periodo soprattutto, credeva di essere diventata una vera e propria calamita per casi umani.
    "dai, prima o poi passerà" era un'altra frase fatta che spesso si sentiva ripetere, con l'immancabile pacca sulla spalla: così lei ci credeva, ma dopo mezz'ora al massimo arrivava la classica smentita e non faceva altro che imbestialirsi ancora di più.
    Poi vabbè, che c'entra, la sdattaggine della Davis faceva il suo; solo quella mattina a colazione era riuscita a far esplodere una moca, a rovesciarsi il caffè bollente (una volta fatto) su una mano e a far cadere la fetta di pane con la marmellata sulla gamba. Insomma, in una scala da uno a dieci, la tacchetta dell'astio oggi raggiungeva l'undici, quindi come si suol dire?! "state alla larga".
    A volte pensava che l'unica cosa positiva che la vita le aveva donato era quella di essere nata strega. Con una bacchetta in mano puoi rimediare più facilmente agli errori commessi, anche se non sempre è così. Bastava vedere tutto il trambusto che stava succedendo tra regime e ribelli: piano piano uno ad uno si facevano fuori, e sicuramente alla fine sarebbe toccato anche a lei.
    Ce la metteva tutta per poter essere d'aiuto alla sua fazione, ma dopo una vittoria ecco che si ripresentavano svariate sconfitte. Una persona normale si perde d'animo, comincia a rassegnarsi.
    In ogni caso, quella sera aveva deciso di non pensare troppo alla realtà che la circondava, bensì di concentrarsi su se stessa e di provare a non pensare più a niente o a nessuno per un paio d'ore.
    Una volta sedutasi al bancone come un'alcolizzata professionista sentì una voce maschile provenire dalla sua sinistra. Era un ragazzo non molto più grande di lei, occhi di un verde profondo, labbra carnose e sopracciglia interessanti (?). Non le sembrava un tipo sconosciuto, ma il suo viso non riusciva proprio a ricondurlo a quello di nessuno. -due- disse con voce che alla Davis sembrò molto profonda.
    -Qualcuno ha avuto una brutta giornata?- continuò in tono apatico. Karen si girò verso il suo compagno anonimo di bevute e sorrise in maniera ironica, alzando poi lo sguardo al cielo, mentre intanto rispondeva -Mi sorprenderei se fosse il contrario- poi sorrise nuovamente, anche se in maniera più spontanea.
    Con una velocità inaudita si vide arrivare un bicchiere contenente un liquido trasparente, che buttò giù nell'arco di due millisecondi. Poi tornò a guardare il tipo seduto accanto a lei e gli porse la mano -Karen Davis-
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    A Liam Callaway, in linea generale, le persone non piacevano. Non che facessero qualcosa di particolare per irritarlo, ma bastava la sola loro presenza al suo fianco, per farlo sentire claustrofobico. Tendeva a giudicare tutti ad una prima occhiata, ed era quasi impossibile che, una volta etichettato, potesse cambiare idea. Quello era uno dei motivi, in venti e passa anni di vita, per il quale non aveva amici. Sembrava, ad orecchie estranee, una frase molto triste e patetica: per Liam era musica, nonché la sola trasposizione reale di fatti realmente accaduti. Aveva solo Aaron Sales -il quale però, essendo faccia della stessa medaglia, non valeva- e… Maeve Winston. Il legame con la bionda, però, non era vera e propria amicizia. Era difficile anche per lui classificarlo, motivo per il quale ogni volta che il pensiero ricadeva su di lei, con non curanza lo accantonava. Quando lo sguardo azzurro di Maeve si faceva strada nella sua mente, sentiva una fastidiosa fitta alla gola, lo stimolo di deglutire per mandare giù qualcosa che di scendere proprio non ne voleva sapere. Ma altre persone riuscivano a superare quella naturale avversione di Callaway per il genere umano: fra quelle, spiccavano sicuramente Karen Davis e Tristan Rosier. Verso l’infermiere sentiva di essere in debito: era stato lui a riportarlo, quasi letteralmente, in vita quand’era tornato dall’Irlanda. Era stato il suo viso, assieme a quello di Megan, il primo a fare capolino sotto lo sguardo semi assente di Liam, quando aveva ripreso conoscenza. L’aveva sempre reputato un ragazzo in gamba, ma quella era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Sarebbe sempre stato in debito con lui, ed era una cosa che Liam odiava. Eppure, nonostante il suo carattere naturale avrebbe propenso per quello, non riusciva a provare ostilità. Forse perché sapeva che Rosier era legato sentimentalmente a Karen Davis, l’unica donna sulla faccia della terra che Liam non aveva mai cercato di abbordare. Non perché non fosse abbordabile -ma l’avete vista?- , ma perché… in sua compagnia si sentiva a suo agio. Pur essendo una persona decisamente meno misantropa di Liam, Karen era molto simile a lui. O forse si era ritrovato ad ammirarla proprio perché andavano d’accordo con le stesse persone, ed al contempo repellevano le stesse. Non si era mai avvicinato a chiamarla amica, ma se Callaway fosse stato una persona normale, Karen Davis avrebbe potuto esserlo. Potevano sempre rimediare. Dopotutto, le due persone più importanti della sua vita, lo odiavano.
    Mi sorprenderei se fosse il contrario” Ricambiò il sorriso della rossa, alzando gli occhi al cielo anche lui. era un tic strano: non credeva in un Dio che potesse sentire le sue preghiere (anche perché probabilmente non sarebbe stato felice, nel sentire che Liam voleva sterminare l’80% del genere umano), eppure, in mancanza di risposte, lo sguardo si rivolgeva sempre verso l’alto. Spostò lo sguardo sui bicchieri che il cameriere posò davanti a loro, e non ebbe nemmeno il tempo di avvicinare la mano alla bevanda, che Karen aveva già finito la sua. Come non adorarla? “Può sempre migliorare” Fece spallucce. “Lewis, ma puoi chiamarmi Lev. Fitzgerald.” Si sentiva una merda a mentirle così spudoratamente, ma non era ancora pronto a rivelare la sua identità. Anzi, aveva… bisogno di un consiglio. E la risposta alle sue domande, era seduta sullo sgabello vicino al suo. “Il cugino di Liam Callaway, presumo lo conoscessi” Alzò il bicchiere, brindando a favore disè stesso Liam. Sorseggiò la bevanda lentamente, sentendo la gola bruciare, avida di altro whisky. Gesù, stava davvero diventando un alcolizzato. “Quesito del giorno: se un tuo amico avesse un segreto che potrebbe essere la cura per una tua grande sofferenza, ma saperlo ti mettesse in pericolo… preferiresti saperlo, o no?” Le rivolse un sorriso ironico da sopra il bicchiere, incurvando quelle labbra rosee così diverse dalle sue. Non era un allusione particolarmente allusiva, ma non era bravo in quel genere di giochi di parole: di solito, per Liam, la risposta era sempre tacere.




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    Passarono un paio di secondi prima di sentire affiorare un lievissimo bruciore in gola. Era proprio quello che le faceva piacere così tanto l'alcol, quello slancio che ti lasciava credere di poter conquistare il mondo, di poter affrontare tutto e tutti.
    Purtroppo però stiamo parlando di un solo bicchiere.
    Lentamente alzò il braccio destro per farsi vedere dal ragazzo che pochi istanti prima le aveva portato il bicchierino, facendogli cenno di tornare verso di lei. Intanto aveva accavallato le gambe per la seconda volta sotto il bancone e si era passata una mano tra i folti e lunghi capelli rossi legati in un'alta coda di cavallo. -Può sempre migliorare- le disse il nuovo compagno di bevute. Dalla risposta datale doveva essere un tipo che la sapeva lunga, forse anche più lunga della Davis. O forse aveva buttato lì due parole a caso come fa la maggior parte del mondo quando provi a esprimere il disagio che ti sta invadendo corpo e anima.
    In ogni caso volle credere alla prima ipotesi. Le dava l'impressione di potersi fidare di lui. Sorrise, poi il moro dalle labbra carnose continuò -Lewis, ma puoi chiamarmi Lev. Fitzgerald.-
    Ok Dav, impressione sbagliata. Il nome del tipo non la riconduceva a niente di familiare, niente di conosciuto.
    Eppure quella faccia sembrava dirle il contrario. Decise di lasciar perdere, tanto sarebbe stato inutile. Gli sorrise sincera come aveva fatto lui quando si era presentata lei.
    -Il cugino di Liam Callaway, presumo lo conoscessi- disse lasciando intercorrere un paio di secondi tra una frase e l'altra.
    Karen si bloccò per qualche istante, con lo sguardo fisso sul legno. Non sapeva perché, ma quella "rivelazione", se così vogliamo chiamarla, l'aveva lasciata senza parole.
    Poi riacquistò la padronanza di se stessa e tornò a guardare Lev, facendogli un sorriso a metà tra il dispiaciuto e il comprensivo.
    Liam Callaway. Certo che lo conosceva. Un'altra vittima della guerra tra Regime e Resistenza.
    Avevano combattuto su fronti diversi, eppure non riusciva a provare gioia per la sua morte: era più forte di lei. C'era qualcosa che le faceva "piacere" Callaway.
    Erano diversi, ma allo stesso tempo più simili di quanto entrambi avessero potuto immaginari. Solitari e testardi.
    Ancora ricordava bene come aveva saputo reagire all'entrata a sorpresa della Hamilton al ballo di due anni prima.
    -Certo che lo conoscevo.. Abbiamo lavorato insieme per un po' di tempo ad Hogwarts- spiegò la Davis, che poi vide arrivare il ragazzo a cui aveva fatto cenno di tornare.
    -questa la prendo io- disse alzandosi dallo sgabello e rubando la bottiglia di Whisky al tipo. -Non ti preoccupare, non scapperò senza aver pagato- poi gli sorriso e gli fece cenno di levarsi di torno.
    Adesso potevano brindare a Liam.
    -offro io- disse ammiccando, poi gli versò un altro po' di whisky nel bicchiere e fece lo stesso con il suo.
    -Quesito del giorno: se un tuo amico avesse un segreto che potrebbe essere la cura per una tua grande sofferenza, ma saperlo ti mettesse in pericolo… preferiresti saperlo, o no?- le disse sorridendole da sopra il bicchiere, adesso, magicamente pieno.
    -Diciamo che in passato ho preferito non dire niente ad una persona cara, temendo di metterla in pericolo, ma mi sono resa conto che è stato un errore - esordì la rossa, portandosi nuovamente il bicchiere alle labbra -Si è sempre in pericolo, perciò tanto vale essere sinceri- concluse sorridendogli e buttando giù in una sola gozzata il whiky.
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    L’egocentrismo era sempre stato uno dei tratti fondamentali di Liam Callaway. Egocentrico, ed altri deliziosi epiteti che non è carino ripetere davanti ad una donna. Perfino il suo grezzo cuore sgualcito ed impolverato a volte si stupiva della fantasia del genere umano. Ovviamente, nessuna parte di quello stupore era classificabile come ammirazione. Al massimo un briciolo di compassione, sapendo che prima o poi chiunque gli avesse rivolto tali poco educate parole, sarebbe morto. Dolorosamente, altrimenti non c’era nemmeno gusto. Sì, sapeva di essere una creatura spregevole, senza alcun rispetto per la vita umana, per i sogni, senza alcun riguardo della famiglia, a cui nemmeno importava più di tanto se la sua vittima fosse o meno del regime. Ma era Liam Callaway, quelle erano qualità inside nel suo DNA. Chi poteva fargliene una colpa? Inoltre, era abbastanza affascinante da rivoltare la frittata a suo favore. Non riusciva a far dimenticare quanto orribile e corrotta fosse la sua mente, eppure riusciva a farsi apprezzare lo stesso.
    Chiamatelo talento, se volete dargli un nome.
    Prese il bicchiere di whisky, sorseggiandolo languidamente. Buttare giù l’intero contenuto del bicchiere in un sorso solo non riusciva più a dargli quel piacere di disfatta smodata che gli dava un tempo: preferiva sorseggiarlo lentamente, gustarlo finchè il fondo vuoto del bicchiere non gli ammiccava opacamente richiedendo di essere riempito di nuovo. La ragazza invece cercava già con lo sguardo il cameriere. La sua doveva proprio essere stata una giornata di merda. Accennò un sorriso quando seppe che era “parente” di Liam, e la cosa riuscì a rincuorarlo ed al contempo farlo sentire doppiamente una merda. Non erano migliori amici, non provava il desiderio bruciante di sotterrarsi come quando aveva visto lo sguardo ferito di Aaron, eppure si sentiva… sporco. Aveva sempre mentito, anche quando non era necessario. Che dire, aveva fatto carriera, ed era passato dal ‘non sono stato io’ al ‘credo di essere morto, ma vi tengo aggiornati’. “Certo che lo conoscevo.. Abbiamo lavorato insieme per un po' di tempo ad Hogwarts” Annuì, finendo il whisky che con lentezza inesorabile cominciava a farsi sentire lungo la gola. Insegnare storia della magia al castello non era stato un onore, né tanto meno era stato divertente. Però poteva definirla un esperienza non del tutto spiacevole: c’erano figlioli davvero in gamba, seduti dietro i banchi del castello. Menti brillanti, che un giorno sarebbero tornati utili. Sapeva di essere stato sostituito dalla Bulstrode, ed immaginava che i ragazzi sentissero la sua mancanza. Quella donna non aspettava altro, a quanto pare: non gli aveva nemmeno lasciato il tempo di crepare in pace, che come un avvoltoio aveva occupato il suo posto. La capa censura del consiglio, con più cognomi che rapporti sessuali in agenda. Non rivoleva la sua cattedra, ma si sentiva punto nell’orgoglio dal fatto che l’avessero rimpiazzato così dannatamente in fretta. Ethienne come preside poteva accettarlo, era un ragazzo a posto –all’incirca- ma la Bulstrode? Quello era un affronto bello e buono.
    Peccato fosse morto, ed avesse perso voce in capitolo.
    La rossa si fiondò sul cameriere, fregandogli poco garbatamente la bottiglia dalle mani. Capite perché andavano d’accordo? Un sorriso, ed entrambi riuscivano a sistemare i loro problemi, fosse una tendenza all’alcolismo o un omicidio colposo. Le porse il bicchiere ridendo divertito, mentre picchiettava il vetro contro quello della giovane. “Diciamo che in passato ho preferito non dire niente ad una persona cara, temendo di metterla in pericolo, ma mi sono resa conto che è stato un errore” Arricciò il naso, piegando con un gesto secco il polso per finire il contenuto del bicchiere in una botta sola. Sì, qualche minuto prima aveva pensato di averci perso gusto a bere così… aveva cambiato idea. “Si fanno tante stronzate per proteggere le persone a cui si tiene, non sempre loro le capiscono”
    Aveva promesso che non avrebbe fumato, avrebbe attirato troppo l’attenzione. Ma era Liam Callaway, sarebbe stato come dirgli non respirare. Prese una sigaretta, offrendo poi il pacchetto alla donna. Una volta che l’ebbe accesa, ed ebbe aspirato una bella boccata, con tono posato ricominciò a parlare. “Personalmente non rimpiango quella menzogna. Potrebbe non essere stata accettata, e lo comprendo, ma ognuno fa del suo meglio. A noi, dunque” Prese la bottiglia, sentendosi a casa propria, e si versò altro whisky. Non si fece un cruccio, pensando che era offerto da Karen: se l’avessero finito, e conoscendosi non era così improbabile, quella dopo l’avrebbe pagata lui. Aveva una mezza intenzione di rivelarle tutto: aveva già pensato parecchie volte di tornare, perlomeno ufficialmente, Liam. Le sue ricerche continuavano ad essere fottuti vicoli ciechi, ed era stanco di fingersi qualcuno che non era.
    Ok, non era vero, lui sarebbe sempre stato qualcuno che non era, ma essere biondo lo irritava. Gli mancava essere Liam Callaway. “Cosa succede di bello da queste parti?” Con un mezzo sorriso, alzò il bicchiere ed indicò l’intero locale, abbracciando con esso l’intera cittadina magica, nonché il castello. Poteva essere una domanda di cortesia.
    Ma era Liam Fuckin Callaway. Nessuna delle sue domande era di cortesia, aveva sempre uno scopo. E rimanere aggiornato su ciò che accadeva nel mondo, non era così scontato come tutti pensavano.


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