A dangerous bend

Damian x Rea

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    Damian icesprite
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    Boom.
    Il vuoto assoluto.
    Il risveglio, quella mattina, era stato più traumatico del previsto. Si era svegliato ogni giorno aprendo gli occhi e sapendo perfettamente come sarebbe andata la sua giornata. Sapeva che avrebbe bevuto un caffè, avrebbe controllato se vi erano missive a lui riservate, avrebbe ricontrollato gli appunti della lezione del giorno e poi letto il quotidiano. E poi, come ogni giorno, avrebbe affrontato la giornata tenendo duro, rimanendo come sempre tutto di un pezzo. Quel giorno, il risveglio fu diverso. L’ambiente bianco e non familiare lo aveva angosciato, l’odore acre del dittamo lo aveva nauseato. Si era ripreso più in fretta di quanto normalmente sarebbe dovuto avvenire, bruciando tutte le tappe di quello che in altre circostanze, sarebbe stata una ripresa dolce, al fianco della sua compagna. Ma era solo. Si trovava in una stanza senza dall’apparenza sterile, senza l’ombra di un monile, niente che potesse ricordargli casa o ufficio. Riconobbe subito di trovarsi all’Ospedale San Mungo, ma non aveva idea di come ci fosse finito, niente.
    Il vuoto assoluto.

    L’angoscia di non sapere perché fosse lì, cosa fosse successo, dove fosse Anjelika lo faceva sentire perso, senza più la bussola che per anni non lo aveva mai abbandonato. Afferrò il campanello vicino al proprio letto e premette il pulsante di richiamo per il personale dell’ospedale.
    - STANZA PRIVATA 035. SIGNOR ICESPRITE -
    Risuonò non solo nella camera, ma in tutto il reparto. Una Medimaga era accorsa subito nella stanza.
    Signor Icesprite, tutto bene? Domandò timorosa.
    No, affatto. Voglio parlare con la responsabile. Tentò di tirarsi su.
    Deve riposare, mi ascolti.
    Stupida. Stupida Medimaga.

    Non era riuscito a sapere i motivi per il quale era stato ricoverato. Non era riuscito a ricostruire cosa fosse accaduto prima di quel giorno. Gli avevano spiegato che lui ed altri Mangiamorte erano stati ritrovati in uno stabilimento a pochi isolati dall’Ospedale, sotto le macerie. Aveva subito un trauma cranico, a cui era stato posto rimedio prontamente dai Guaritori. Diagnosi: Trauma cranico, varie lesioni fisiche e amnesia lacunare transitoria. Il transitoria lo aveva rassicurato, non era stato oblivato. Anjelika stava bene, e anche lei, come la maggior parte dei Mangiamorte del suo gruppo, non ricordava niente. Non fu difficile ipotizzare le cause di quell’incidente di gruppo, sicuramente una delle tante missioni organizzate dal Ministero. Qualcosa di grosso, forse, dato il numero dei ritrovati nelle macerie. Non era a conoscenza del fatto che suo nipote, che sarebbe potuto essere la chiave di quell’enigma, era ricoverato nel suo stesso reparto. Dopo insistenze varie e un paio di “lei non sa chi sono io” era riuscito a farsi dimettere dall’ospedale, fortunatamente prima che l’idea di tentare una fuga inevitabile gli sfiorasse la mente. Si era vestito con abiti da lavoro: un completo nero, semi elegante, ma cravatta. Ci teneva ad essere sempre impeccabile. Era convinto che al Ministero avrebbe trovato più risposte di quelle che era riuscito a darsi da solo. L’orario non era dei migliori, aveva impiegato mezza giornata per tentare di uscire dal San Mungo, e adesso il Ministero era affollato da persone inutili, quelle che amavano fare gli straordinari per fare bella mostra di sé. Sicuramente non ci avrebbe trovato Sales, ma in quel momento gli interessava solo raggiungere il proprio ufficio, nient’altro. Aveva i suoi appunti lì, quel quaderno che poteva essere considerato un diario, in cui appuntava OGNI cosa, OGNI sera. Entrò in sala Pavor, convinto di non trovarci nessuno e invece era presente una ragazza. Non un tipa qualsiasi, ma Rea Hamilton. Un tempo avrebbe pensato alla Hamilton come la piccola Serpeverde nata babbana, una persona da cui diffidare perché dalle origini troppo umili. Poi l’idea di lei si era trasformata lentamente in quella di una giovane donna ambiziosa pronta a tutto per ottenere ciò che voleva. Dopo i MAGO aveva sorpreso tutti iniziato a lavorare al Ministero, al suo fianco, diventando nell’ultimo periodo di conoscenza, quasi una persona gradita. Ma lo sapeva, aveva conosciuto almeno un po’ il carattere della Hamilton nel corso degli anni scolastici e sapeva che avrebbe fatto concorrenza a qualsiasi mago Purosangue, perché era una donna capace. Ciò che non si sarebbe mai aspettato era che un giorno, la piccola Serpeverde, avrebbe ottenuto da lui più di quello che in tutta la vita era stato disposto a dare. Da quasi un anno ormai era stato catapultato in un limbo, senza via di fuga. Cercava di scapparne, ma il ricordo delle labbra della nata babbana sulle sue, delle sue mani sul suo corpo e della sua pelle che si scaldava al suo tocco, erano più vivi che mai. Un incidente di percorso, una doppia curva pericolosa in quella strada troppo lineare che era la sua vita.
    Probabilmente aveva bevuto troppo, quella era la scusa. Ma ricordava ogni particolare, nella maniera più lucida, e non viveva bene. Non ne aveva parlato con Anjelika, aveva volutamente omesso quel piccolo particolare, quell’ora notturna trascorsa con la Hamilton proprio in quella stessa sala. In cui adesso era entrato, bloccandosi appena dopo la soglia, con espressione vagamente confusa.
    Conosceva Anjelika da…una vita. Davvero, una vita, considerando che le sue memorie più vivaci avevano inizio dai nove anni e che dell’infanzia non aveva memoria chiara. Aveva conosciuto Anjelika a sedici anni e da quel tempo aveva iniziato a far parte della sua famiglia. Solo Anjelika, aveva avuto solo lei, per anni. La sua mente, un mondo oscuro persino per lui il più delle volte, non era stata mai attraversata dal pensiero di altre. La Hamilton era stata…un errore. Tutto sommato, intratteneva con lei un rapporto pressoché pacifico. Non aveva niente contro di lei, non per l’accaduto almeno, se doveva accusarla di qualcosa sarebbe stato il suo stato di sangue, ma non pensava che quella notte, di quasi un anno prima, fosse stata colpa sua. Non era colpa di nessuno, avevano sbagliato. E poi era stata rapita, e Damian aveva sperato segretamente, di non vederla più, ma era tornata. E non sapeva se era un bene. Rea Hamilton non era mai un bene.
    Si schiarì la voce. Hamilton, ancora qui a quest’ora? Stessa situazione, stesso orario, stessa stanza. Mancavano solo i Jack Daniels. Portò le mani nelle tasche dei pantaloni neri, e strinse i pugni. Non aveva la situazione sotto controllo, di nuovo, e questo lo rendeva inquieto.



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    Rea Hamilton
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    Rea passò le dita leggere sulla schiena di Finn, quasi senza nemmeno sfiorarlo. Era giovane, forse appena vent’enne, eppure era già entrato nelle grazie della anch’essa giovane Gwen Rosewood, amministratrice Pavor delle spie. Forse non solo nelle grazie, dalla sicurezza che aveva mostrato alle domande della Hamilton. La mano scese lentamente ad accarezzarne il corpo, mentre lui le baciava il collo, i seni, l’addome. Infilò le mani fra i suoi capelli fini e gli tirò con forza la testa verso l’alto, per poi spingerlo di lato e mettersi a cavalcioni su di lui. La sua pelle era così calda, così tenera. Non aveva neppure l’accenno di una cicatrice: doveva proprio essere stato un bravo ragazzo. Gli bloccò le gambe con le proprie, con una mano teneva intrecciate quelle di lui sopra la testa, l’altra libera teneva con decisione il petto ansante del ragazzo incollato al materasso. Lo sentì gemere, mentre con delicatezza lo mordeva, lasciando piccoli segni rossi su quel corpo non deturpato. “Il fascicolo, Finn. Dimmi dov’è” Le labbra a sfiorare le sue, senza però scendere nel bacio che il ragazzo, mugolando, agognava. Downer tentò di riprendere il controllo della situazione, ma Rea glielo impedì, stringendo la presa e premendo maggiormente il proprio corpo contro il suo. Gli morse il lobo, e lasciò una scia di saliva lungo il collo. “A cosa..ti..serve?” A cosa le serviva il fascicolo su di lei? Per assicurarsi che nessuno venisse a sapere che era stata privata dei poteri magici. Era stata imprigionata così a lungo, che la sua mente si rifiutava di accettare il fatto di esserlo nuovamente: non poteva permetterlo. Doveva chiedere alla Bulstrode di ripagare il suo debito, e trovare qualcuno all’interno dei Pavor che le assicurasse che il segreto fosse mantenuto finchè non fosse guarita. Rea Hamilton rivoleva il suo potere.
    Ad ogni costo.
    Lo graffiò con meno delicatezza di quanto avesse fatto precedentemente, guadagnando un altro ansito soffocato. Al piccolo Finn Downer piaceva quel gioco, e la Hamilton sapeva giocare. “Non lo verrà a sapere nessuno” Sussurrò maliziosa, mentre lasciava libere le mani del giovane che, senza farselo ripetere due volte, corsero sul corpo di lei per assaporarne ogni centimetro. Finn si alzò a sedere mentre Rea era ancora a cavalcioni del suo corpo nudo, e fra un bacio e l’altro le rivelò ogni cosa. Come e dove trovarlo, a chi chiedere, a che ora. Le disse anche che avrebbe tenuta impegnata la Rosewood, mentre lei cercava quel fascicolo. Che dolce, dolce ragazzo. Lasciò che appagasse il suo appetito, mentre anche lei lo consumava lentamente: chi aveva detto che piacere e dovere non potessero convivere, non aveva mai conosciuto la Hamilton. Probabilmente il modo in cui riusciva ad avere informazioni non era lecito, ed era anzi un affronto alla figura della donna, ma a lei non era mai importato. La bellezza era un’arma, il sesso una moneta. Scovava le sue vittime sotto le ceneri, le faceva risplendere del bagliore più puro per poi abbandonarle quando più avevano bisogno di lei. Quella era Rea Hamilton, quello il suo mercato.
    Avrebbe potuto ucciderlo. Sarebbe stato così facile prendere il pugnale nascosto nello stivale ai piedi del letto, piantarlo nella tenera carne di Finn ed assicurarsi che tacesse ciò che le aveva confidato. Ma poteva tornarne utile, ed era un amante discreto. La sua giovane età giocava a favore di Rea: vedeva, nei suoi occhi scuri, che era ancora convinto di poterla avere realmente. Di essere finalmente colui che sarebbe riuscito ad aggiustarla, a renderla una persona migliore. Sperava, in cuor suo, di riuscire ad amarla. Non l’avrebbe tradita, e non era una questione di fiducia.
    Aspettò che si addormentasse, sopportando che Finn continuasse ad accarezzarle il braccio e a posarle baci sulla spalla. Non si spostò né diede segno di quanto fastidio le desse solamente perché aveva bisogno di quella fiducia, perché le sarebbe stato più utile. Scivolò fuori dalle lenzuola e si infilò sotto la doccia, rimanendo con la testa china sotto il getto d’acqua bollente. Sorrise ironica, pensando che i suoi genitori avevano ragione. Rea era un mostro, uno di quelli subdoli, abbastanza belli da farti credere che per loro potesse esistere una speranza. C’erano momenti in cui nel silenzio sentiva riecheggiare i propri pensieri, in cui tornava ad essere la sorella di Charlie e si chiedeva chi fosse diventata. Momenti in cui avrebbe preferito non essere Rea Hamilton, per meritarsi ciò che le era sempre stato tolto. Ma non poteva semplicemente smettere di essere Rea Hamilton, che le piacesse o no. Chiuse l’acqua e si rivestì, ignorando la voce di Downer che richiamava la sua presenza.

    Niente. Rea Hamilton non sentiva niente. Si guardava allo specchio dell’ascensore del ministero, mentre raggiungeva il terzo piano, e non sentiva niente. Non era niente, in quel momento, mentre il suo riflesso le rivolgeva un’occhiata vuota. Come Finn le aveva gentilmente accennato, a quell’ora in ufficio non c’era nessuno. Chiuse gli occhi, ricordando il tempo passato in quella stanza, quando ancora era utile a qualcosa. Chiuse gli occhi, stringendo forte i pugni e maledicendo i dottori che, senza chiedere e senza nulla sapere, le avevano tolto tutto un’altra volta. Rea Hamilton credeva di non essere di nessuno, e invece pareva essere di tutti tranne che di sé stessa. I suoi passi erano ritmati dai tacchi alti ed accompagnati dal lento frusciare della giacca nera, lunga, sopra la canottiera rossa. Sentiva solo il suo respiro, mentre cercava fra i cassetti il fascicolo con il suo nome.
    Non c’era.
    Era convinta del fatto che Finn non le avesse mentito, il che significava che dovevano averlo spostato e messo in un posto di cui non parlavano con i novellini. Il, che ovviamente, voleva dire che qualcuno sapeva. La Hamilton rimase ferma con le spalle alla porta, mentre il mondo sotto di lei si frantumava. I capelli si erano ormai asciugati in onde scomposte, che aveva pettinato con le mani in modo che non diventassero crespi. Doveva essere impeccabile, perché era l’unica cosa che aveva. Un punto fermo. Le avrebbero tolto tutto quel poco che le era rimasto. In preda alla rabbia, rovesciò i cassetti per terra, spalmando fogli per tutto l’ufficio. Voleva che bruciassero, lo voleva così intensamente che l’unica cosa a frenarla fu l’impossibilità di farlo. Le illusioni erano divertenti, ma illudersi di dare l’ufficio alle fiamme non l’avrebbe fatta sentire meglio.
    “Hamilton, ancora qui a quest’ora?”
    Il tempo parve fermarsi. Sorrise al muro di fronte a sé, prima di voltarsi ed incontrare gli occhi chiari di Damian Icesprite. Se c’era qualcosa a cui proprio non riusciva a rinunciare, era una sfida: Damian Icesprite era stata la sua sfida personale, ed aveva vinto. Erano stati compagni di scuola, ed aveva visto nascere l’invidiata coppia formata dal sopracitato e la Queen nel tempo. Si diceva fossero a prova di bomba, ma lei sapeva che nulla lo era. Dove gli altri vedevano amore, lei vedeva solo una salita un poco più difficile rispetto alle altre. Mentre la rossa non le era mai piaciuta, Damian era.. interessante. Bello abbastanza da attirare la sua attenzione, ligio alle regole abbastanza da farle venire voglia di allentargli la cravatta solo per rompere quella superficie illusoria. Inoltre erano d’accordo su molti aspetti su cui difficilmente la Hamilton si trovava d’accordo con qualcuno. Non erano amici, e forse mai avrebbero potuto diventarlo, ma c’era stato un periodo in cui c’erano andati vicini. Poi si sa, la carne chiama e l’uomo risponde.
    Socchiuse le palpebre, mentre lasciava andare frammenti della notte passata fra le sue braccia come se fossero ancora lì, in quell’ufficio. Un illusione. Si morse il labbro per non ridere, immaginando già la sua reazione, mentre si chinava per raccogliere alcuni dei fogli sul pavimento. “A quanto pare, Icesprite. E non sono l’unica” Rispose con maliziosa innocenza, alzando le sopracciglia nella sua direzione mentre l’ombra di un sorriso si faceva strada sulle labbra carnose. “Di nuovo” Si avvicinò all’uomo, piegando leggermente il capo verso destra. Schioccò la lingua, mentre prendeva il mento di Damian fra il pollice e l’indice e faceva in modo di guardarne il profilo. “Qualcuno si è fatto la bua?” Chiese abbassando il tono di voce quasi in un sussurro, mentre il labbro inferiore scattava all’infuori in un finto broncio.
    Ed ancora, lasciò intravedere al Pavor la scrivania sulla quale aveva consumato il tradimento nei confronti di Anjelika, quando i fogli caddero a terra e non ci fu più spazio per le parole.

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    Damian icesprite
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    Lo sguardo si era soffermato sulla ragazza, china a raccogliere dei fogli, documenti? Un senso di curiosità innato, o forse semplice paranoia, si accese in Damian, che osservò minuziosamente ogni dettaglio di lei, senza tralasciare davvero niente. Cosa stava facendo? Rea Hamilton, prima o poi, gli avrebbe rovinato la vita. Questo era un pensiero fisso, che Damian faticava a scacciare. Rivederla, ogni volta, riaccendeva qualcosa, un ricordo, ultimamente anche più spesso di prima. Pensava, pensava… a quella notte, e a tutte quelle volte in cui aveva sentito quello scheletro nell’armadio muoversi e bussare, per uscire, mentre lui a fatica tentava di tenerne chiuse le ante. Aveva pensato di liberarsene, davvero, liberarsi per sempre di quel peso, parlarne ad Anjelika prima che lo facesse qualcun altro. Ma poi facendo un bilancio di ciò che avrebbe guadagnato nel farlo e ciò che avrebbe perso, si era reso conto che la perdita sarebbe stata maggiore di qualsiasi cosa. Anjelika non era una donna stabile e se avesse appreso quel suo piccolo segreto, bè, sarebbe davvero impazzita e le conseguenze sarebbero state fatali per qualcuno. Avrebbe ucciso lui, in primis, o comunque ci avrebbe provato - credendo che Damian non avrebbe reagito, quando in realtà avrebbe combattuto fino alla fine per non morire - poi avrebbe cercato Rea, per ucciderla e avrebbe rischiato lei stessa di morire.
    Quella notte… quella notte, ancora. Gli tornò in mente la sua pelle calda e umida sotto le proprie mani, gli ansimi di lei, così diversa dalla sua fidanzata, eppure così simile, per certi versi. Sembrò quasi risentire la consistenza morbida dei suoi seni sotto le mani e il sapore che avevano, il suo profumo, le sue unghie e poi la sua espressione inebriata da quel contatto. Iniziò a sudare, preso alla sprovvista per quelle immagini che, non sapeva come potesse essere, ma gli sembravano più vivide che mai, quasi come avesse rivissuto frammenti di quei momenti. Si sentì soffocare, per questo si portò due dita alla cravatta, che era diventata troppo stretta e l’allentò un po’, obbligandosi a spostare il pensiero su altri lidi e a riprendere una compostezza che per un attimo aveva perso.
    “A quanto pare, Icesprite. E non sono l’unica. Di nuovo” Come se gli avesse letto il pensiero, la Hamilton alluse a quell’incontro. La vide avvicinarsi a lui, che aveva recuperato in fretta un contegno, per nascondere che quelle immagini lo avevano destabilizzato, non per un motivo in particolare, ma perché faticava ogni giorno per impedire agli scheletri nell’armadio di fare rumore e proprio quella sera avevano deciso di provare le maracas.
    Già, già. Si guardò intorno, finto indifferente, per poi far calare lo sguardo sui fogli che la ragazza dinnanzi a lui aveva in mano. In risposta lei gli risollevò il mento, con non chalance, per osservare la cicatrice che regnava sul suo volto. Un’imperfezione che con il dittamo avrebbe mandato via poco a poco. La lasciò fare per qualche istante, per poi portare la mano alla sua e allontanarla dal volto. Questo atteggiamento non funziona, Hamilton. La ammonì, riprendendo a chiamarla per cognome, come se questo potesse dargli un certo distacco. Un tempo era Rea, solo Rea. E’ una storia passata, evitiamo di ricamarci sopra. Dovevano convivere con quella realtà, Damian più che mai, e avrebbe voluto che le sue giornate lavorative non diventassero più pesanti del dovuto. Evitò accuratamente di spostare lo sguardo sulla scrivania alle loro spalle, giusto per non agevolare i ricordi a tornare a galla. Avrebbe voluto smantellare l’ufficio, ma era quasi sicuro che Alaric non sarebbe stato d’accordo. Quindi…pulizie di primavera? Domandò osservando i fogli che la ragazza aveva in mano. o semplici ricerche?



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    Rea Hamilton
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    La Hamilton era così abituata a manipolare le persone, che lo faceva con una naturalezza disarmante. Come la menzogna, la manipolazione le permetteva di ragionare con la logica, di lasciare da parte tutto ciò che Rea, forse, avrebbe dovuto essere. Ne rimaneva osservatrice, mai partecipe, e tirava i fili nella direzione che più le faceva comodo. Non sapeva nemmeno più quando faceva qualcosa per puro piacere, e quando per un secondo fine; le amicizie, o quelle poche persone di cui si era circondata e dalla quale non aveva ancora ricevuto odio gratuito, erano nate per un motivo? Era arrivata al punto di prevenire: si circondava di amici, in modo che, in futuro, potessero tornarle utili. I suoi genitori l’avevano detto fin da subito: Rea Hamilton era un mostro.
    Ma non il mostro che credevano loro. Non era quello sotto al letto, della cui assenza i bambini chiedono conferma ai genitori; non era quello che grattava le finestre, che aspettava innocenti viandanti solo per portarli fuori strada con i suoi fuochi fatui. La Hamilton era quel genere di mostro che si scavava a forza un posto nel petto, graffiando e strappando la carne; quello che sentivi ridere quando volevi solo piangere, l’unico dal quale non potevi fuggire: Rea Hamilton era la parte che ciascuna persona ha in sé e tenta di soffocare sotto il cuscino. Perché, seppur non lo mostrasse, era umana. E tutti i mostri erano umani.
    Riconosceva il disagio quando lo vedeva, e se avesse detto che un Icesprite in impiccio non le facesse piacere, avrebbe mentito. Un uomo particolare, ma a suo modo interessante: sempre così granitico da sembrare finto, eppure bastava un ricordo, un illusione, per ricordargli che anche lui poteva sbagliare. Non riuscì a cancellarsi il sorriso dalle labbra, mentre la sua mente metteva insieme i pezzi del puzzle, cercando di trovare la soluzione a quel rompicapo che era la sua vita. Doveva parlare con Damian. Doveva parlare con Emily. Doveva parlare con Nathaniel. Da tutti loro, o quasi, doveva riscattare un vecchio debito: non riusciva ad immaginare un momento migliore per farlo. “Questo atteggiamento non funziona, Hamilton” Ammonì lui, allontanandole la mano dal volto. Inarcò le sopracciglia, ma non rispose. Se pensava che non funzionasse, evidentemente, non aveva ancora avuto abbastanza a che fare con la gemella cattiva. Se solo si fosse lasciato andare un po’ di più, il tempo in sua compagnia avrebbe potuto perfino essere divertente. “E’ una storia passata, evitiamo di ricamarci sopra.” Ricamarci sopra. Inclinò il capo all’indietro, lasciando che i lunghi capelli scivolassero sulla schiena, mentre gli dava le spalle ridendo maliziosa. La risata di Rea era ambigua, forse perversa. Allusiva, riusciva a rendere chiaro di cosa la donna stesse ridendo, ed al contempo non lasciava intendere se non per un effimero guizzo. “Oh, Damian” Sottolineò l’uso del nome proprio per evidenziare l’ufficiosità di quella conversazione, ed al contempo riportarlo indietro nel tempo. Non era sicura di poter far leva sul suo senso di colpa, ma di certo poteva farlo sul suo senso dell’onore: andando a letto con lei aveva tradito un tacito patto con Anjelika, ferendo l’orgoglio di lei con una sottoposta. Una nata babbana, per di più, giusto per enfatizzare quell’infangato reato di cui si era macchiato le mani. “ Non hai ancora trent’anni, per l’amor del cielo, eppure ragioni come un uomo già morto” E forse, poi, non aveva sbagliato più di tanto. Si sedette sulla scrivania, incrociando le lunghe gambe fasciate dai jeans per poi incrociare le braccia sotto il seno, rivolgendogli un sorriso di sfida. “Nessuno ricama più di questi tempi” Ironizzò, abbassando il tono di voce. Con un cenno del capo, lo invitò a prendere posto sulla sedia posta al di la del bancone in mogano. “Quindi…pulizie di primavera? o semplici ricerche?” Si inumidì le labbra, corrugando le sopracciglia. Non avrebbe cominciato a parlare finchè anch’egli non si fosse accomodato: vederlo in piedi le affaticava l’esistenza, e poi la Hamilton non mordeva mica.
    Non di solito.
    A cosa ti riferivi? Perché, sai, hai parlato di storia passata, ma io non ho detto nulla al riguardo. Possibile che tu non riesca a pensare ad altro?” Glissò sull’argomento, sporgendo in fuori il labbro inferiore in un tenero broncio. Si era sempre chiesta, fin da bambina, il motivo per cui su Charlotte quell’espressione fosse sempre parsa più naturale. Perfino lei, quando Charlie metteva il broccio, provava l’istinto di rassicurarla. Erano gemelle, per Dio, non doveva funzionare così anche per lei? Battè le ciglia, lasciando sfuggire un altro spiffero di quella notte. Gioiva della maschera di impassibilità del suo collega, mentre veniva assalito dal momento in cui i fogli erano caduti per terra, le gambe di lei si erano allacciate attorno alla sua vita, la bocca sul suo collo. Un sorriso innocente, di nuovo, fece capolino sul suo volto. Così sbagliato, su Rea Hamilton, che di innocente non aveva nemmeno il nome. “Sai che con me puoi parlare di tutto. Siamo amici, giusto Dam?”
    Una domanda, un segreto, una leziosa minaccia.
    Era bello definire il passato sperando che rimanesse tale. Patetico credere che fosse davvero così.


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    MADREPERDONAMEPORMIPOSTLOCO çòç
     
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    Damian icesprite
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    Ci sarebbe mancato anche che gli confessasse perchè mai si trovava in ufficio a quell'ora, come aveva potuto anche solo sperarci? Questo, lo portò a sospettare che la sua presenza extra oraria non avesse niente a che fare con il lavoro. Se no, da collega, lo avrebbe informato di ciò che stava facendo. Lo scambio di informazioni a lavoro era fondamentale per una buona riuscita di esso e per un lavoro di squadra. Quando si macchinava qualcosa al Ministero, bisognava aprire bene gli occhi, attivare ogni segnale, stare all'erta. Ma Damian non ne era in grado. Non quella sera. Così, sospirò, stanco e si lasciò cadere su una delle tante poltrone nere in pelle, presenti nella grande stanza che era l'ufficio. Si massaggiò una tempia, tentando di racimolare quanti più ricordi possibile riguardanti la giornata. Riguardò Rea, dal basso del sua posizione, adesso più comoda. Aveva l'impressione che, della ragazza di un tempo, in Rea Hamilton fosse rimasto ben poco. Forse, pensandoci meglio, il problema era solo lui, dopotutto a conti fatti lei non era cambiata poi tanto, almeno non per ciò che Damian poteva vedere al momento. Da un po' di tempo, parlare con la ragazza non lo faceva sentire tranquillo, e come poteva essere diversamente? Attualmente era una guerra costante contro sè stesso, in particolare quando le immagini di loro gli tornavano in mente, in modo incontenibile, facevano un giro nella sua testa e poi sparivano all'improvviso.
    Da quando aveva smesso di avere il controllo di sè stesso? Se c'era una cosa che odiava era sentirsi sotto scacco, e con Rea si sentiva così. Per di più in comportamento manipolatorio che la donna usava nei suoi confronti era un mero tentativo di difesa, o forse solo un gioco sadico che divertiva solo lei. Ma Damian non avrebbe mai potuto anche solo indovinare quanto Rea fosse cambiata e quanto lo avesse manipolato quella sera. Probabilmente, se avesse saputo tutta la verità, la risposta alla sua domanda sarebbe stata diversa.
    Siamo amici. Confermò, invece, inconsapevole di ciò che la donna aveva fatto, che sebbene fosse solo un'illusione, aveva risvegliato in lui dei ricordi e dei sensi di colpa che gli avrebbero tenuto la mente impegnata per qualche ora. Ma poi avrebbe dimenticato in fretta. Il senso di colpa non era mai un sentimento razionale, era dato dai sentimenti, da una moralità insita dentro ogni persona, e Damian sapeva bene che spegnendo qualsiasi altro sentimento, sarebbero finiti anche i suoi sensi di colpa. Questa era quella che definiva la sua più grande capacità, riuscire a controllarsi meglio di altri esseri umani. E non sarebbe cambiato tanto facilmente. Nessuno sarebbe mai bastato per farlo cambiare.
    Più volte aveva ricordato quando, dopo quella famigerata notte, era tornato al castello, e aveva visto Anjelika. Più volte aveva ricordato le parole pronunciate per spiegarle il ritardo "lavoro extra". Menzogne. Ma solo ripensandoci ancora, ancora e ancora, come una lenta tortura, era riuscito a togliere ogni emozione, da ogni bugia. E se ci ripensava adesso, tutto faceva meno male.
    Da amico e collega, ti confesso che sono appena uscito dal San Mungo, e ho un mal di testa atroce. Ammetto di essere anche un po' stordito. Ma si vedeva, probabilmente, senza che lui lo sottolineasse. Quindi, sai qualcosa della spedizione di stasera? Non gli confidò di avere qualche problema di memoria al riguardo, non era poi così importante. Schioccò le dita ed un elfo comparve nella stanza. Lo guardò con grandi occhi castani e timorosi. Taffy, portaci un Analcolico e degli stuzzichini. L'elfo fece un inchino e sparì, dopo un'occhiata obliqua verso la Hamilton. Poi, Damian prese la propria bacchetta e con gesto fluido del polso evocò un'altra poltrona, dinnanzi alla sua. Prego, siedi.


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    Rea Hamilton
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    Socchiuse le palpebre, osservando il profilo di Icesprite nella fioca luce dell’ufficio. La mandibola pronunciata, le sopracciglia spesse che incupivano uno degli sguardi più chiari che avesse mai avuto il piacere, o dispiacere a seconda dei casi, di incontrare. Le labbra morbide si aprivano così di rado in un sorriso, che spesso Rea si era pigramente interrogata sulla possibilità che Damian semplicemente non ne fosse in grado. Sapeva le voci che giravano su di lui: asettico, maniacale, dalla pelle spessa ed il cuore sottile quanto il filo delle Parche. Sembrava così stanco, quella sera, che se la Hamilton fosse stata anche solo un briciolo più umana, avrebbe lasciato perdere. Si sarebbe stancata di quel gioco perverso dove rincorreva un topo già in gabbia. Avrebbe allungato una mano sfiorando, in modo del tutto disinteressato, le sue cicatrici; ed essendo due pavor, gli avrebbe mostrato le proprie: in un mondo diverso, avrebbero potuto essere uguali, loro due. Ma dove Icesprite era la neve perenne, lei era l’incendio doloso; dove lui era maniacale, lei era minuziosa. Poteva anche avere un cuore sottile, ma almeno era sicuro di averlo. Rea non aveva più nemmeno quello, e se ne rese conto con maggior chiarezza quando, seduta su quel tavolino, con le braccia incrociate sotto il seno, non provò nemmeno un briciolo di rimorso alle parole dell’uomo: siamo amici. Non sapeva se si trattasse di ingenuità, o di una menzogna detta per placare la sete di sadismo della mora. Sorrise impercettibilmente, forse dispiacendosi un poco che le cose non potessero andare in modo diverso. Il problema non era quanto fossero diversi, o sotto molti punti di vista, uguali: il problema era Rea Hamilton, e la sua incapacità ad accettare un qualsivoglia rapporto umano. E forse, un giorno, gliel’avrebbe detto. Forse un giorno avrebbe rimediato. Avrebbe potuto chiedere scusa alla famiglia Spankman, ai suoi genitori, a Charlie, a Nathaniel.
    O forse avrebbe mandato Charlotte Hamilton per farlo al suo posto, almeno per un giorno nella sua vita si sarebbe resa utile a qualcosa. Eppure, in un angolo della sua mente, pensò che Damian avesse ragione. Nella distorta vita della Hamilton, quella poteva essere definita amicizia. Il sorriso sornione divenne ben presto un’amareggiata smorfia delle labbra. Non rimpiangeva ciò che era diventata, rimpiangeva ciò che le persone l’avevano spinta a diventare.
    “Da amico e collega, ti confesso che sono appena uscito dal San Mungo, e ho un mal di testa atroce. Ammetto di essere anche un po' stordito” Stava ammettendo una debolezza. Si fidava così tanto della Hamilton? O pensava, come tanti altri prima di lui, che non avrebbe potuto nulla per approfittarne? Rea non aveva mai capito le donne che si lamentavano di essere sottovalutate. Non mi apprezzano abbastanza. Ed era proprio quello, il trucco: mostrare il lato fragile, quello sensuale, quello dannatamente femminile che li metteva in ginocchio. E poi sferrare il colpo, dritto, al cuore. Quante volte la voce roca di Rea aveva solleticato il lobo di un uomo in fin di vita, cui unico peccato era stato quello di non averla guardata nella giusta prospettiva. E loro, in un filo di fiato, la supplicavano per qualcosa che a priori Rea aveva già deciso: sarebbero morti, per mano sua, e nel modo che avrebbe deciso lei. Era quello, il potere: sentire il battito di un uomo sotto il palmo, e sapere con assoluta certezza di poterlo schiacciare. “Quindi, sai qualcosa della spedizione di stasera?” Scosse il capo, continuando a studiarlo e lasciando che i capelli le solleticassero la giacca scura. Prese distrattamente una ciocca color cioccolato e cominciò ad attorcigliarsela sul dito. Ultimamente non sono molto aggiornata. Sono stata fuori dal giro per un po’” Alzò entrambe le sopracciglia assottigliando le palpebre con stizza, ancora prepotentemente offesa per la condotta incivile a cui era stata sottoposta. I laboratori le avevano toccato un tasto nel profondo, qualcosa che pensava di aver dimenticato: aveva rivisto i volti impauriti dei suoi genitori, quando la magia era fluita dalle mani di una Hamilton molto più giovane, sovrapposti a quello dei Dottori. Un esperimento, un infausto scherzo del destino. Non sapeva quanto Damian sapesse dei Laboratori. Rea aveva subito insabbiato la faccenda, tanto che la sua vacanza assieme ai ribelli era passata inosservata ai più. Non voleva domande inopportune, uccidere per motivi così futili cominciava a diventare dannatamente seccante. “Vi siete divertiti?” Domandò annoiata, senza che la nota di malizia lasciasse mai la sua voce. La malizia era un marchio di fabbrica per la Hamilton, e non si trattava solo di puro divertimento. Sapeva che il confine fra divertimento e pericolo, spesso, si faceva così sottile da risultare invisibile. E camminare su quella linea, che di tanto in tanto sembrava sparire sotto uno sguardo poco attento, era il suo gioco preferito. Nessuno capiva mai se fosse realmente o meno interessata all’argomento, se conoscesse già quelle informazioni o meno. Un ottima giocatrice di poker, avrebbero detto. Un passatempo fuori dal comune, avrebbero osato altri. Lei preferiva vederli soffrire lentamente, mentre quello che pensavano fosse solo un passatempo carezzava la ferità un po’ più fresca, un po’ più profonda, un po’ più tossica. “Taffy, portaci un Analcolico e degli stuzzichini” Rea inclinò la testa all’indietro e rise, realmente divertita da quella situazione surreale. Ma Damian, pensi davvero che potrei approfittarmi di te in un momento di debolezza? Pensavo mi conoscessi, ormai. Mi piacciono le sfide, altrimenti non c’è gusto Concluse in un sussurro lezioso, mentre scendeva dalla scrivania per prendere posto sulla poltrona che Icesprite le aveva così gentilmente appellato. Per me un bicchiere di bourbon, e anche delle amarene…per favore Arricciò le labbra verso il basso e annuì piano, complimentandosi con sé stessa. Infine lanciò un’occhiata allusiva all’uomo seduto di fronte a sé: sono una brava ragazza.



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    Strinse le dita sul bracciolo in pelle nera, della poltrona sopra la quale stava comodamente seduto, ne tastò la consistenza, rigida, fredda e posò lo sguardo sulla sua mano pallida, così in contrasto con il colore scuro della poltrona. Vide le sue dita muoversi appena, scosse da un tremolio da cui non riuscì a sottrarsi. I ricordi della battaglia erano confusi, ma riaffioravano alla mente poco a poco facendolo sentire un po' meno spaesato, in po' meno fuori luogo in quell'ufficio ed in quella vita. Era di nuovo lui, Damian, con alle spalle un bagaglio di ricordo più o meno completo. Fece un tuffo in mezzo alla luce, e tentò di afferrare e conservare i ricordi per non perderli ancora. Aveva combattuto bene, e poi, un'esplosione improvvisa aveva mandato tutto all'aria. Aveva battuto la testa contro un cantone di pietra ed aveva perso i sensi nel covo dei ribelli. Un pessimo epilogo, sul serio. Strinse più forte il bracciolo della poltrona, lasciandovi il calco delle proprie dita, ma così facendo riuscì a scacciare il tremore. "Vi siete divertiti?" Le parole di Rea facevano da sottofondo ad un mare di pensieri in piena. Ricordò come aveva puntato la bacchetta contro uno dei ribelli, ricordò il movimento esatto del polso e le parole scandite con precisione. Quasi rivide la foga nel proprio sguardo, illuminato dalla scintilla dell'odio. Sorrise, sollevando lo sguardo sulla donna. Sorrise perché ogni volta che Rea Hamilton esprimeva la propria opinione, Damian si rendeva conto di quanto in fondo, fossero diversi, sebbene all'apparenza potessero sembrare molto simili. Rea era il fuoco, a Damian era il ghiaccio.
    Non è il divertimento che conta alla fine, no? Si sistemò meglio sulla poltrona, facendo aderire la schiena contro lo schienale morbido, mentre con lo sguardo, assolutamente neutro, percorreva i lineamenti della ragazza. Conta se l'obbiettivo è stato raggiunto e temo che il mio gruppo abbia fatto un buco nell'acqua. Inarcò un sopracciglio, come se l'argomento non lo toccasse fino in fondo, poteva apparire superficiale, ma navigava in acque pericolose, fallire non gli era concesso. Direi di no, comunque. Sospirò. Certamente, se fosse riuscito nei suoi obbiettivi, si sarebbe divertito di più. Temeva che fosse andata esattamente come adesso ricordava. Ripensando alla bevanda, forse avrebbe preferito un alcolico...Aveva desiderato ricordare tutto, ed alla fine forse dimenticare non era stato così terribile. Ripensò ai ribelli e al fatto che aver scoperto il loro Quartiere generale non era servito a niente. Ma forse, non tutto era stato inutile, anche loro avevano subito un duro colpo, e avrebbero dovuto faticare un po' per rimettersi in piedi. Era un'ottima occasione per organizzare una seconda spedizione. Non avrebbero dovuto dargli il tempo di rimettersi in piedi, ma stanarli di nuovo, cogliere l'occasione di far leva sui loro punti deboli. Ma...adesso doveva smettere di pensare. Il mal di testa era sempre presente, mai scomparso e lo avvisava che aveva bisogno di riposo, che si stava portando al limite, di nuovo. Come quando rimaneva al Ministero oltre l'orario di lavoro, come quando si era ritrovato con Rea, tempo prima, da soli. A nulla era servito tentare di sbarazzarsi del ricordo, qualcosa dentro di lui lo aveva obbligato a non farlo, a farlo marcire dentro di se per sempre. Poco dopo, ciò che aveva richiesto all'elfo fece bella presenza sul tavolino dinnanzi a sè. Persino il caffè. L'aroma della bevanda riempi la stanza, e nonostante l'orario, Damian non poté resistere dal deliziarsene. "Ma Damian, pensi davvero che potrei approfittarmi di te in un momento di debolezza?" Sorrise, di nuovo, perchè a quelle parole si immaginò come una vergine in gonnella, pronta ad essere azzannata da un lupo. Quel pensiero era così divertente..."approfittarmi di te"
    Non penso che tu voglia farlo. Concluse, scuotendo piano la testa. Ma terrò gli occhi ben aperti, non si sa mai, HAMILTON. Ci scherzava nonostante tutto, ironizzava su quel fatto passato per dargli meno potere di quello che in fondo aveva sul serio. Riempì una tazza di caffè fumante, e senza attendere la ragazza, lo sorseggiò provando il piacere del gusto amaro sulla lingua. Il caffè era davvero una delle poche bevande che sapevano prenderlo come poche cose, era forte, naturalmente amara ma indispensabile per lui, ed era una bevanda babbana. Riguardò Rea, che aveva preso posto sulla poltrona al suo fianco. Allora, come ti trovi in questo livello? È di tuo gradimento? Domandò interessato. Si domandava come una tipa come la Hamilton che, sebbene apparentemente intelligente e brava ragazza, restava una nata babbana, potesse lavorare nel suo stesso piano. Troppe cose gli sfuggivano, Damian aveva troppe domande lasciate senza risposta da quando aveva iniziato a far lavorare il cervello i primi anni di vita. Ma fare insinuazioni sarebbe stato come accendere un fuoco in un luogo inondato di benzina, non era saggio, non adesso che aveva iniziato finalmente a sciogliersi anche sotto lo sguardo scuro della donna, scuro come la bevanda che stava assaporando.


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    Rea Hamilton
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    Alzò gli occhi al cielo, sentendosi una sciocca per aver chiesto ad Icesprite se si era divertito. Più che per la risposta, scontata in fin dei conti, del Mangiamorte, rimpianse la propria –forse troppo? - sottile ironia. Damian sembrava incapace di divertirsi, ed in effetti era coerente con il suo disturbo ossessivo compulsivo di controllo del mondo. Lasciare i freni inibitori? Godersi un momento, anche breve, di quell’esistenza? Impossibile. Se poi fosse sfuggito dai binari? Forse era quello che vedeva in lei, quando la guardava. Una deviazione. Quasi le spiaceva avergli causato un tale dispiacere, rendendolo un traditore al medesimo livello di altri esseri umani, lui che di umano sembrava aver poco. Quasi, Dio mio: stiamo pur sempre parlando della Hamilton. Inclinò il capo sorridendo lievemente, chinandosi per prendere il bicchiere che l’elfo aveva poggiato sulla scrivania. Ne studiò il contenuto, arricciando il naso compiaciuta quando il sentore dell’alcool le bruciò le narici. Si avvicinò anche la ciotola con le amarene, prevedendo che Damian non le avrebbe nemmeno degnate di un’occhiata. “Non penso che tu voglia farlo. Ma terrò gli occhi ben aperti, non si sa mai, HAMILTON” Il ghignò si allargò sulle labbra, le quali lasciarono intravedere i denti bianchi dietro ad esse. Che tipo, Dam. Incrociò le gambe e prese un’amarena dal picciolo, infilando il tutto in bocca. Remesciò qualche secondo, socchiudendo le palpebre, infine tirò fuori la lingua, mostrando soddisfatta il nodo che era riuscita a fare con la parte verde del frutto. Avrebbe voluto mostrare al suo collega che era riuscita a fare una fontana, le sarebbe bastato un briciolo del suo potere, ma non doveva fare il passo più lungo della gamba. Non sarebbe stato credibile. Riaprì gli occhi, annuendo e scrollando le spalle. “Se rispondessi sinceramente non sarebbe divertente” Flirtare, per Rea Hamilton, era come respirare. L’unico, probabilmente, modo che conosceva per interagire con le persone, indipendentemente dall’età, o dal sesso del suo interlocutore. Con alcuni, chiaramente, era più divertente che con altri. La provocazione era un gioco sottile, implicava conoscere quando perdere e quando prendere il controllo, sapere cosa l’altro volesse sapere –o cosa si aspettava- e offrirlo. Per questo adorava punzecchiare personaggi come Nate, o come Damian: nel primo caso, il suo migliore amico viaggiava sulla stessa lunghezza d’onda; nel secondo… Icesprite era così adorabilmente incapace a flirtare, che era quasi troppo esilarante per il suo cuore sensibile. Senza contare che, perlomeno, Henderson era quasi sempre sicuro del fatto che lei stesse scherzando. Il punto interrogativo pressochè perenne dietro gli occhi chiari di Damian, era una gioia. Starà facendo sul serio? E chi lo sa, ohohoh. Aveva dimostrato di saper fare sul serio, quando voleva. Mi raccomando sugli occhi aperti, Icesprite: il lupo cattivo è in città Ammiccò in tono serioso, alzando le sopracciglia ed accompagnando la frase con un sorso di whisky. Era interessante quanto quell’immagine, apparente metafora di una fiaba che Damian nemmeno avrebbe dovuto conoscere, potesse calzare a pennello sulla Hamilton. Così adorabile, dall’esterno, così apparentemente lontana, innocua finchè non si accorciavano le distanze. E tutti morivano dalla voglia di avvicinarsi al lupo, anche solo per guardarlo un po’ più da vicino. Però lei mordeva solo su richiesta.
    Lasciò ricadere il capo sullo schienale della poltrona, rimpiangendo di non poter usare la magia per avvicinarsi il cibo senza dover usare il braccio. Nuovamente infilò un’amarena fra le labbra, spezzando però il picciolo fra i denti, e poggiando ciò che ne rimaneva all’interno della bacinella. Scettica, rivolse la sua attenzione a Damian. Come poteva, fra le migliaia di domande che poteva rivolgerle, scegliere proprio quella giusta? Era quello il motivo per cui gli si era avvicinata, la prima volta. Per quanto a Damina non piacesse ammetterlo, c’era feeling fra loro due. Non era colpa di Rea, se una bottarella e via era bastata per far prendere le distanze all’uomo. Sarebbe stato ipocrita però, da parte sua, dire che non era mai successo. Faceva quell’effetto, che poteva farci? *i’m adorable* Di mio gradimento Ripeté divertita, a bassa voce. L’hai chiesto davvero? Si morse il labbro inferiore, senza smettere di sorridere. Adorava Damian, ogni secondo di più. Sì, Icesprite. Mi aggrada molto Rispose sofisticata, forse con un po’ troppa enfasi e l’accenno di un occhiolino. Merito dei colleghi, indubbiamente. Tutti così…” Si portò l’indice a picchiettare sul mento, in cerca della parola adatta per classificarli. Lo sguardo vagava sull’ufficio buio, cercando chissà dove la risposta. Disponibili Concluse, riportando gli occhi scuri e maliziosi sull’austera figura del Pavor. Andiamo, gliele serviva su un piatto d’argento. E sì sapeva, l’unico modo per resistere a una tentazione, era cedervi. “Mi dispiacerà dovermene andare. Ma non ti preoccupare, passerò a salutarti. Non sentirai la mia mancanza, almeno non troppo” Fece spallucce, finendo il contenuto ambrato del bicchiere. Perché, santo cielo, ogni volta gli elfi domestici erano così taccagni sull’alcool? Una smorfia dispiaciuta, prima che con stizza lasciasse scivolare il contenitore ormai vuoto sul tavolino. A tal proposito, visto che me lo chiedi… mi servirebbe un favore Sbattè le palpebre innocentemente, mentre sornione le dita affusolate creavano disegni astratti sul bracciolo.
    Era impossibile dire di no alla Hamilton, specialmente se si trattava di Rea.



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    Damian icesprite
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    Il gusto amaro del caffè, così intenso ed in grado di svegliare persino le statue di Hogwarts, presto assunse un retrogusto pungente, lacerante fin dentro la pelle. Il calore lo invase e sentì il collo della camicia farsi più stretto, soffocante. Tossì una volta, due, allargandosi ancora di più il nodo della cravatta con un dito. Stava male, non perché Rea gli avesse appena dato notizia del suo imminente trasferimento, anche se data la reazione di Damian, sarebbe stato plausibile che fosse sconvolto per tale annuncio. Un pavor in meno era sempre negativo per il loro livello. Ma no, il motivo era un altro. Lanciò uno sguardo alla tazzina, pensando di essere stato avvelenato dall'elfa che da sempre aveva maltrattato, come era solito fare con tutti gli elfi, meno quelli che bazzicavano casa sua. Era sicuro che un giorno, quella dannatissima creatura avrebbe provato ad ucciderlo, ciò che però lo sorprendeva, era che lui fosse stato scelto come vittima prima di Rea, che invece sembrava stare bene. Tossì un'altra volta, provando a dissimulare quel malessere con un Ho assaggiato caffè peggiori, ma questo è terribile, sorrise. Stava meglio. Si inumidì le labbra pensando di aver scampato il peggio. Pensò anche che probabilmente l'elfa non lo aveva voluto avvelenare, ma forse aveva solo pisciato nella sua tazzina, sempre che ne fosse in grado. Non poteva sapere, invece, che il peggio sarebbe arrivato presto, non poteva nemmeno intuire che quell'elfa gli aveva davvero manomesso la tazzina e che solo due ore prima era stata liberata, con un indumento, da un suo pavor ed adesso era pronta a sparire in Guatemala, con il sorriso stampato sulle labbra scarne e grigie. Dicevamo... Riprese possesso di sè per l'ennesima volta quella sera. Perché questa decisione? Domandò, non nascondendo nel tono di voce lo stupore che si palesava anche nei suoi occhi chiari, fissi in quelli scuri di Rea. Quella notizia lo toccava? Probabilmente sì, ma non avrebbe accennato ad un minimo cedimento di fronte alla ragazza, nonostante il suo sguardo sempre freddo al momento parlasse per lui, dicendo cose che a voce non avrebbe mai manifestato: Hamilton, servi più qui che altrove. Un altro colpo di tosse, e le guance perennemente pallide assunsero un colorito anomalo, di un rosa tendente al rossastro. Sentì a malapena Rea parlare di un "favore", certo, come no! Il caldo si fece ancora presente, più potente di prima e Damian sentì ogni volontà scivolare via da lui, come gocce d'acqua sulla pelle, la sentiva abbandonarlo, ed improvvisamente si alzò in piedi abbandonando la poltrona, guidato da qualcos'altro che sicuramente non erano le sue intenzioni. Fece qualche passo a lato della poltrona, ben distanziato dal tavolino ma ancora dinnanzi alla Hamilton che probabilmente lo osservava incuriosita, o meglio confusa, da quella reazione. Stava succedendo qualcosa, ed era evidente. Tentò di sgomberare la mente, di riprendere possesso di sè stesso e delle proprie azioni, ma il suo corpo sembrava guidato da qualcosa. N-non capisco riuscì a dire, ma fu inutile cercare di opporsi: pur essendo un ottimo legilimens, scarseggiava invece sul lato dell'occlumanzia, ma questo era un segreto che avrebbe portato con sè nella tomba, o ci avrebbe provato. Per adesso le cose non stavano andando poi tanto bene. Le sue gambe partirono in automatico, tuffandosi in una danza che di maschile aveva ben poco. Saltellò un volta sul posto, poi la gamba destra sfrecciò flessa verso l'alto, tornò a terra, saltellò di nuovo sul posto e la stessa gamba ripartì verso l'alto stavolta dritta, talmente dritta e slanciata che Damian, con evidente espressione di panico in volto, giurò di essersi strappato un muscolo, forse anche due. A niente servì lamentarsi a gran voce per quel dolore lancinante. Le gambe si muovevano da sole in una danza senza fine, tante volte, infinitamente. Aveva immaginato tante scene imbarazzanti, tante e ne aveva anche vissuta qualcuna, ma mai, MAI si sarebbe sognato di ballare il Can-Can davanti a Rea Hamilton, senza nemmeno averlo voluto e nemmeno con il vestito adatto.
    COSA DIAVOLO STA SUCCEDENDO?! Concentrò ogni forza sul desiderio di fermarsi, di riuscire a prendere la propria bacchetta che fortunatamente aveva nella giacca e non nel pantalone.
    Le mani che fino ad allora erano rimaste salde poggiate sui fianchi, adesso si mossero secondo il suo volere e riuscì a prendere la bacchetta dal taschino interno alla giacca. Finite!
    Finalmente le gambe si bloccarono, ma dovette rovesciarsi sulla poltrona perché impossibilitato a rimanere in piedi per il dolore. Il volto era in fiamme, il respiro affannato ed ancora il panico nello sguardo. Che razza di figura da pagliaccio aveva fatto?! "Posso spiegare" no, non poteva spiegare niente. Non c'era niente da dire, ma qualcuno avrebbe perso la testa per mano sua quella sera.Ti farò questo favore, se tu mi farai il favore di dimenticare ciò che hai appena visto.


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    ho perso una scommessa ciao
     
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    Rea Hamilton
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    Rea aveva ingollato il contenuto del suo bicchiere senza battere ciglio, e Damian, che aveva del caffè fra le mani, stava affogando. Qualcosa non andava. Non pensò nemmeno per un secondo che fosse per la notizia del suo trasferimento, né si pose il dilemma del dovrei alzarmi e dargli una pacca sulla spalla?; rimase a godersi la scena, chiedendosi pigramente quando avrebbe smesso di tossire. Stava morendo? Sarebbe stata una storiella davvero esilarante da raccontare ai posteri: il grande Pavor Damian Icesprite morto per un caffè di traverso. Già riusciva ad immaginarsi i titoli in prima pagina del giornale. Peccato che a lei, almeno momentaneamente, servisse vivo e vegeto. Sbuffò annoiata, infilandosi fra le labbra una nuova amarena, attendendo che la smettesse con quelle scenate. “Ho assaggiato caffè peggiori, ma questo è terribile” Rea ricambiò il sorriso assottigliando le palpebre, lanciando un’occhiata alla tazza fra le sue mani. “Non riesci nemmeno più a reggere il caffè? Pensavo avessi problemi solo con il whisky. Troppo forte per te?” Si strinse innocentemente nelle spalle, come se quella non fosse stata una –nemmeno troppo- sottile frecciatina. Cosa ci poteva fare, era così dannatamente divertente che proprio non poteva trattenersi dall’elargire quella sua simpatia al resto del genere umano, per quanto poco questo la meritasse. Un atto di compassione, ecco. E poi osavano perfino dirle che era una stronza. Ma per favore, almeno usate l’articolo determinativo. “Dicevamo... Perché questa decisione?” Le dita della Hamilton scivolavano distratte sul contenitore fra le sue braccia, lo sguardo distante verso un punto imprecisato davanti a sé. Non aveva la benchè minima intenzione di dire a Damian Icesprite che passare al livello dei Cacciatori era il modo più semplice per trovare esperimenti disposti ad aiutarla, né che in quel modo avrebbe avuto più informazioni possibili riguardo i dottori ed i loro laboratori. Nessuno sapeva quanto quell’esperienza avesse segnato la Hamilton, quanto fosse cambiata –e non in meglio. Nessuno sapeva che aveva perso i suoi poteri, diventando il relitto che in tanti guardavano con disappunto. Diventando un abominio, più di quanto già non fosse. Sapeva, Rea, che per raccontare una menzogna bisognava avere dal proprio lato la ragione, e la conoscenza. Sapeva che una bugia con i fiocchi nasceva dalla verità, da ciò che lei conosceva ed il suo interlocutore ignorava. Mentire, così come manipolare, era un’arte sottile nella quale era diventata maestra. “Cacciare ribelli non è più divertente come una volta” Rispose semplicemente, roteando gli occhi verso Damian. “Babbani e maghi che hanno perso il senno, invece, sono una sfida degna di Rea Hamilton. Sai quanto mi piacciono le sfide” Arricciò il naso sorridendo, lanciandogli un’occhiata eloquente. Ma questi sembrava distratto: ricominciò a tossire, e ben presto le guance cominciarono ad acquisire un’adorabile tonalità rosata che mai avrebbe pensato di vedere sulle gote di Damian Icesprite. Tenero. Forse stava davvero per morire. Non capiva se la cosa la preoccupasse, o se continuava ad esserne divertita. Se fosse morto le sarebbe mancato? -Sì, perché mentre Damian combatteva per la sua vita, Rea si poneva domande filosofiche ed esistenziali, senza essere turbata dalle circostanz4- Mh, magari un pochino, doveva ammetterlo. Quando Icesprite si alzò in piedi, la Hamilton rimase comodamente seduta sulla poltrona, lo sguardo però sull’attenti ed il corpo teso all’azione. Non sembrava una minaccia, ma… non si sapeva mai. L’espressione di Rea si fece più seria e guardinga, lontana dalla leggera ed arrogante malizia che il resto del tempo incurvava le sue labbra. In cuor suo, Rea era sempre attenta, ma preferiva mostrarlo solo di rado. “N-non capisco” La mora inarcò le sopracciglia, stupita, confusa ed interessata. Qualcosa che Damian non capiva? Allora stava davvero per succedere qualcosa di eclatante. Si sporse per lasciare il contenitore sul tavolino, poggiando i gomiti sulle ginocchia. Ma quello che vide, signori e signore, non l’avrebbe mai scordato. Mai. E con il suo nuovo potere, avrebbe perfino potuto rivederlo ogni qual volta avesse voluto. Accade qualcosa che Rea mai avrebbe pensato di vedere in vita sua: una continua prima volta, con Damian Icesprite. Non smetteva mai di stupirla! Ebbene sì, perché cominciò a ballare. A ballare, il pavor che spesso aveva ritenuto incapace perfino di ridere. Vedere il serioso Icy alzare le gambe in modo ritmato, in quello che doveva essere un can can, fu troppo perfino per lei, che non si stupiva di nulla. E cominciò a ridere, come mai ricordava di aver fatto in vita sua. Rideva, Rea, e Gesù, piangeva perfino. Era una di quelle cose che avrebbe raccontato allo sfinimento alle nuove generazioni, che avrebbe scritto sui libri, sperando che nessuno mai dimenticasse. Ma perché quando succedeva qualcosa di così epico, era sempre l’unica a poterne godere? “COSA DIAVOLO STA SUCCEDENDO?!” Forse, alla fine, sarebbe stata lei a morire. Si premette le mani sul ventre piatto, incapace di smettere. Non si sentiva più i polmoni, lo stomaco, la gabbia toracica perdio. Lanciò un’occhiata alla tazza ormai abbandonata sul tavolino, e non ci volle molto perché entrambi comprendessero cos’era accaduto. Quella che provò Rea fu invidia: perché non ci aveva mai pensato lei? Doveva trovare l’elfa prima che lo facesse Damian, liberarla e farle i suoi più sinceri complimenti. Quando l’incanto finì e l’uomo cadde a peso morto sulla poltrona, con un sorriso sincero sulle labbra Rea applaudì con vigore, scuotendo il capo. “Non avevo mai assistito ad una performance del genere. Bravissimo Icesprite. Me la rifai vedere quella mossa con la gamba? Potrebbe tornarmi utile” Esordì con infinita serietà, facendogli l’occhiolino. “Ti farò questo favore, se tu mi farai il favore di dimenticare ciò che hai appena visto.” E tornò a ridere, alzando gli occhi al cielo. “Non credo possa mai succedere, Damian. Certe cose non si dimenticano. Ma sarò ben felice di ricambiare il favore: non mi piace essere in debito più di quanto non piaccia a te” Concluse, tornando –forse- composta. Quello sì che era un ricordo che avrebbe volentieri ripercorso nei momenti di noia.
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    Damian icesprite
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    Si era risistemato con una dignità estrema, maggiore di quella che avrebbe avuto in altre circostanze, come se fosse doveroso, per lui, recuperare un po' di punti persi dinnanzi al mondo intero, nonostante solo gli occhi di Rea avessero assistito a quella scena pietosa.
    cAIZ0v3
    Ripensandoci, rise. Una risata di gusto che lo costrinse a piegarsi sulle ginocchia e poggiare la fronte sulla mano. Un altro effetto della bevanda assunta poco prima? No, una risata sincera, dovuta all'assurdità della circostanza. Avrebbe comunque fatto un salto al San Mungo, di nuovo. Non sia mai che quel dannato caffè agisse a distanza di ore come un veleno. Non temeva la morte, il giovane Icesprite, ma se avesse saputo di dover morire per un caffè corretto da un elfo, probabilmente avrebbe scelto di uccidersi lui stesso ancora prima... Anche morire per mano di un ribelle sarebbe stato più dignitoso, forse addirittura morire per mano di una nata babbana. Smise di ridere. « Uno stupido scherzo, niente di più. » Spiegò a Rea, che aveva applaudito alla sua performance, seriamente colpita, e nessuno poteva sapere cosa le frullasse seriamente in quella testa castana. Chissà quante risate mentali, o forse, stava empaticamente piangendo per lui. Poteva solo fingere di non esserne particolarmente colpito, quando invece avrebbe volentieri seguito quell'elfo per tutto il Ministero, per ucciderlo. Ma cosa si sarebbe raccontato di lui? I giornali di Gossip non aspettavano altro che un suo passo falso, per metterlo in prima pagina. Accavallò una gamba sull'altra, pacatamente e con movimenti disinvolti. Fu anche tentato di prendere il bicchiere d'acqua ancora sul vassoio, per mandare via il retrogusto di caffè che aveva in bocca il quale, probabilmente, da quel giorno gli avrebbe portato solo brutti ricordi. Ma fermò la mano a metá strada, esitando, sorrise alla ragazza e prese il bicchiere pieno. Con altrettanta disinvoltura lo svuotò in una pianta affiancata alla sua poltrona e poi con un colpo di bacchetta lo ripulì e riempì di nuovo.
    « Aguamenti. » Questa volta bevve senza esitazione. Mentre la ragazza nella poltrona di fianco spiegava i motivi per cui aveva scelto di lasciare il livello dei Pavor, Damian si convinceva che la noia non fosse una motivazione abbastanza valida, non per fare un cambio di lavoro, non per lui, ed a meno che la Hamilton non la prendesse come un gioco, doveva esserci altro per forza.
    BVN4tC0
    Inarcò un sopracciglio alle sue parole, che non lo convincevano, ma non ribattè. Certo, anche cacciare i babbani difettosi - ma anche non difettosi eh - era importante, ma li vedeva come una minaccia minore, perché finchè collaboravano con il Ministero, e finché il Ministero riusciva a gestirli ed usarli per i propri scopi, seppur malati, erano utili. « Allora, mi parlavi di un favore...» Passò direttamente alla parte interessante del suo discorso. « Di cosa si tratta? » Ripoggiò la tazza, ora vuota, sul vassoio. Icesprite non era sicuramente un tipo disponibile a fare favori gratuiti al prossimo, nemmeno se "il prossimo" era una gentile fanciulla come Rea Hamilton, Ma...se anche lei avesse potuto rendergli il favore - davvero casualmente aveva qualcosa da chiederle - avrebbe potuto soddisfare - o almeno provarci - la sua richiesta. « Parliamone...allora, si da il caso che la tua disponibilità genuina » La guardò, alzando entrambe le sopracciglia. Genuina? Ma dove? « Mi sia utile. » Le fece cenno con la mano, invitandola a parlare. « Prima tu. »


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    Rea Hamilton
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    La discussione si stava dilungando un po’ troppo per gli standard di Rea Hamilton. Lei preferiva andare subito al sodo, anche se il suo sodo era molto diverso da quello altrui. Arrivava al nocciolo della questione per vie traverse, ed anziché fiondarsi subito al nucleo della faccenda spalancando la porta senza remore, bussava delicatamente per preparare il proprietario all’assalto. Una tecnica affinata negli anni, che le aveva permesso di giungere a tutti gli obiettivi che si era prefissata. Non era mai troppo irruente, ed anzi sapeva dosare la sua aggressività a seconda di chi si trovava dinanzi. Conosci il tuo nemico, giusto? Equilibrio e controllo, era quello il trucco. Con Icesprite non aveva nemmeno più bisogno di applicarsi, avevano lavorato insieme per anni. Senza contare che, poteva anche non mostrarlo, ma Rea sapeva quanto fosse turbato dalla sua persona. Non perché fosse particolarmente bella ed affascinante – anche se lo era, just sayin- quanto per il fatto che rappresentava un momento di debolezza. Davvero orribile scontrarsi con l’amara, sincera, verità: si poteva fingere per anni, addirittura per un’intera vita, ma erano tutti esseri umani. E gli esseri umani sono deboli, senza distinzione di sesso, razza, o età. Perfino Rea sapeva riconoscere di non essere invincibile, di aver fatto degli errori. Ma, come la maggior parte delle cose, non le importava. Vivere ancorati nel passato era stupido ed infantile, privo di alcuna utilità. Tutto quello che faceva, lo faceva guardando al futuro. Il presente non era altro che un trampolino verso l’indomani, e l’indomani era un giorno più vicino al giorno dopo ancora. Alzò gli occhi al cielo con un sorriso divertito, domandandosi pigramente se quel singolare episodio potesse tornargli utile in futuro. Magari avrebbe potuto iscriverlo a qualche corso di danza. “Uno stupido scherzo, niente di più” Rea rispose mettendo le mani avanti, le sopracciglia inarcate a sottolineare un sorriso sardonico. “Non devi giustificarti con me. È bello che tu ti sia lasciato andare, mi sento onorata” Annuì compiaciuta arricciando il naso. Com’era comprensiva, Rea Hamilton, mentre intrecciava le dita fra loro poggiandole sul ginocchio. Dopotutto era stato davvero bravo, che motivo aveva di vergognarsi? La danza era un’arte da elogiare. Un vero peccato che nessun altro avesse assistito.
    Quando spiegò le sue ragioni riguardo il cambio di carriera, non potè fare a meno di notare lo sguardo cinico del collega. Probabilmente pensava che fosse un motivo stupido e superficiale, ma la cosa non la riguardava nemmeno un po’. Poteva pensarla come preferiva, Rea non era il genere di donna che spiega le sue vere intenzioni solamente per non incorrere in giudizi negativi. Lei sapeva il perché aveva deciso di cambiare lavoro: bastava ed avanzava, non doveva saperlo anche lui. Se avesse voluto dare spiegazioni, avrebbe parlato direttamente con il Superpavor, cosa che non le andava particolarmente a genio. Avrebbe fatto domande scomode, e lei avrebbe dovuto … sistemare la faccenda. Preferiva non dover incorrere nel gioco sporco, quando poteva evitarlo. “Allora, mi parlavi di un favore. Di cosa si tratta?” Fu davvero lieta del fatto che Damian non avesse ritenuto opportuno spingersi oltre nella conversazione. Era anche quello il motivo per il quale aveva deciso (più o meno. Diciamo che aveva ritenuto una fortunata coincidenza che fosse stato lui a entrare in quell’ufficio e non qualcun altro) di parlarne con lui. “Parliamone...allora, si da il caso che la tua disponibilità genuina” Oh, quanta ironia Icesprite. “Mi sia utile. Prima tu.” Si inumidì le labbra, inspirando lentamente. “Nulla di che. Dovresti parlare con il Superpavor e con il Capo dei cacciatori…” Iniziò, seguendo con lo sguardo le unghie ben curate che disegnavano cerchi sulla poltrona. “… e farmi da garante” Riportò l’attenzione sul suo interlocutore, un sorriso leggero sulle labbra. Un sorriso che non arrivò agli occhi scuri, incredibilmente seri. “Abbiamo lavorato insieme per anni. Sai che sono brava in quello che faccio, Damian” Concluse seria, senza nemmeno accennare ad un tono malizioso (il quale, comunque, sarebbe stato legittimo). Avrebbe voluto dire tante cose, Rea Hamilton: avrebbe voluto dire che lei si meritava quel lavoro, perdio; avrebbe voluto dire che rivoleva i suoi poteri, e che quello era l’unico modo per avvicinarvisi; avrebbe voluto dire che le avevano tolto tutto, e che quello era il suo turno. Ma non lo fece, e mai l’avrebbe fatto, limitandosi ad un tono strettamente professionale. “Cosa posso fare per te?” Domandò, inclinando leggermente il capo. Non sembrava il genere di persona che richiedeva favori, o almeno, non l’aveva mai reputato tale.
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  13. don't joke with icesprite
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    Damian icesprite
    be careful
    Se esisteva qualcosa che riusciva ad apprezzare in Rea Hamilton - oltre i suoi tanto evidenti pregi, ovviamente - era proprio che, come lui, sapesse andare dritta al sodo, in tutti i sensi. E Damian poteva affermarlo con certezza, così come probabilmente anche tanti altri che avevano avuto il piacere di conoscerla. Nonostante questo, non sarebbe stato del tutto esatto dire che Icesprite disprezzava le chiacchiere. Le amava, in verità, in particolare quelle altrui. Era attraverso le chiacchiere altrui che riusciva a capire tante cose riguardanti il mondo ed i suoi tanti segreti. Non erano rare le volte in cui Icesprite si era fermato in un bar più tempo del dovuto, solamente per ascoltarne i chiacchiericci. E le chiacchiere degli ubriachi avevano sempre qualcosa di interessante da rivelare. Altre volte, sempre per lo stesso motivo, si era recato da Amortentia o da Madama Piediburro o ai Tre manici, sempre sotto forme differenti. Si poteva dire, in effetti, che Damian fosse davvero un cliente fisso di quei locali, a fronte di ciò non ci si poteva certo stupire se alla domanda sul "perchè lui non avesse un attimo di tregua per prendere un caffè in compagnia" sorridesse divertito. Gran parte del suo lavoro consisteva nella caccia, e lui cacciava davvero, nei modi più che più si confacevano con la sua persona. Le chiacchiere facevano parte del suo lavoro, questo non era in dubbio, ma al momento andare dritto al sodo lo avrebbe liberato di un peso. Voleva sapere quale favore Rea volesse chiedergli, temeva, in fondo, di non riuscire a soddisfare la sua richiesta, temeva che, ad un suo No, lei lo avrebbe ricattato. Perchè Rea era così, imprevedibile, e Damian mai si sarebbe potuto fidare di lei, nemmeno se fosse stata sincera. La Hamilton era una piaga, era bella certo, ma era pur sempre una piaga. Rimase ad ascoltare le sue parole, con attenzione, riflettendo non appena lei ebbe terminato il suo discorso. "Fare da garante" non era qualcosa che Icesprite era solito fare, perchè principalmente odiava questo tipo di mentalità, basata sulle garanzie, sugli incozzi. Non era raro che qualcuno, scioccamente convinto di essere suo amico, gli chiedesse una mano per saltare la fila e passare direttamente ai piani alti del Ministero. Ma non era il caso di Rea, la conosceva, sapeva quanto fosse determinata e brava nel proprio lavoro - in realtà, Icesprite era convinto che se l'occasione si fosse dimostrata vantaggiosa per lei, Rea avrebbe mollato tutti i compagni e colleghi di lavoro ed li avrebbe pugnalati alle spalle. Uno alla volta. Con un coltellino da burro. Ed in questo caso, il suo trasferimento non sarebbe potuto essere più che positivo, così come non averla più come collega d'ufficio. - Ma soprattutto...quello era uno scambio di favori. Mettere due parole per lei con il Capo cacciatori non sarebbe stato uno strappo alle sue regole, in fin dei conti.
    Ma certo, niente di più semplice Rea. Sventolò la mano in aria. Dopo aver creduto che avrebbe potuto chiedergli l'impossibile, quella era proprio un'inezia. Per quanto possa valere la mia parola...inarcò un sopracciglio a quella frase. La sua parola valeva...abbastanza. Sperava in effetti di aver dimostrato ai colleghi che per lui niente era un gioco e che se avessero voluto affidarsi a qualcuno di responsabile, avrebbero dovuto fare il suo nome. Lo farò. Ciò che ti vorrei chiedere io forse è più...complicato. Ha a che fare con una minorenne. Annuì. Niente che aveva a che fare con i giovani poteva dirsi semplice, proprio niente, meno che mai se quella giovane in questione era la viziata di sua cugina. Mia cugina Sheridan, figlia del defunto zio Riordan Lestrange, non ha più una casa. Una storia molto triste. Disse, vagamente annoiato ma sincero. Quando Riordan era morto, Damian ne era rimasto colpito. Era con lui che aveveva passato il suo primo periodo da orfano, quando i suoi erano morti, ed era grazie a lui che aveva sviluppato un'insana passione per le Arti Oscure. Sua madre, la stratega Logan, l'ha ripudiata perchè lei ha perso i propri poteri nei laboratori. So che hai da fare ma...si tratta solo di un mese, da agosto a settembre e Hogwarts non può ospitarla, io non ne sono in grado. Puoi fare qualcosa?
    In fondo, molto in fondo, Damian sperava che, vivendo con Rea, Sheridan avrebbe consolidato i suoi già blandi saperi su come vivere al mondo. In fondo, un po' ci teneva a quella ragazza, era pur sempre sua cugina, sangue del suo sangue. Se avesse imparato ad essere più furba, tutta la famiglia ci avrebbe guadagnato qualcosa.



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    Rea Hamilton
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    Raramente chiedeva favori, la Hamilton. Odiava essere in debito con qualcuno, dover dare un prezzo a ciò che da sola, nolente, non riusciva ad ottenere. Nelle trattative, sarebbe stato difficile trovare qualcuno migliore di lei: se solo l’avesse desiderato, avrebbe potuto prendere un albero in cambio di una sola mela, elogiando il frutto con tale maestria e raffinatezza da far credere, al proprio interlocutore, che quell’affare fosse più vantaggioso per lui che per lei. Era una dote, bisognava ammetterlo, ma non un talento naturale: l’aveva imparato a sue spese, anno dopo anno; neanche Rea Hamilton era nata così, era stata solo obbligata dalle circostanze. Ormai, non era nulla più che una macchina da guerra, la mente razionale e calcolatrice e le mani che repentinamente coglievano il cuore del nemico senza scrupoli, cogliendolo nell’atto stesso del battere. Eppure v’era un’eleganza, in quel suo modo di fare, che la rendeva agli occhi del suo pubblico affidabile nella sua inaffidabilità, un controsenso apparentemente illogico. E dico apparentemente perché, se aveste conosciuto Rea, ne avreste perfettamente compreso il meccanismo. Quella situazione, comunque, piaceva meno a Rea che a Damian Icesprite; dover dipendere da qualcuno perché impossibilitata a mettersi in bella mostra a causa di quello che le avevano fatto, era per lei davvero inaccettabile. I riflettori che da sempre erano stati puntati su di sé, erano ormai obbligati a seguire vie traverse, illuminandole appena il profilo un secondo prima che ella si chiudesse la porta alle spalle. I Dottori le avevano strappato via il lavoro costruito in quei maledetti dieci anni, da quando ancora frequentava Hogwarts, e la Hamilton non aveva il perdono facile –un modo come un altro per dire che lei, all’assoluzione, proprio non cedeva. Un’altra cicatrice che avrebbe costruito il suo trono, ma non per quello avrebbe bruciato di meno. Ma cosa poteva cambiare, a Damian, mettere una buona parola per lei? Oltre ad essere estremamente affascinante, carismatica, divertente e persuasiva, era anche una risorsa importante per il Ministero: lo sapeva lei –ovvio-, e di certo lo sapeva Icesprite. Si trattava di pura formalità, giusto perché non aveva alcuna intenzione di parlare con i suoi superiori; temeva, Rea, che le facessero troppe domande e finissero per scoprire il suo losco segreto, tacciandola per criminale a causa della sua non dichiarata natura di ex strega. Loro, dall’alto della loro esperienza, non avrebbero mai potuto capire. Non avrebbero mai compreso cosa significava doversi scavare una strada da sé perché il mondo, ricco di pregiudizi, continuava a buttare terra sulla propria buca; non sapevano cosa significava, quando ci si trovava finalmente al finire di quel percorso, ritrovarsi sotterrati sotto altri cumuli di terra. Non avevano mai provato il bruciore delle dita graffiate e delle unghie spezzate in cerca di una via d’uscita. L’avrebbero solo reputata un mostro, un pericolo.
    Avevano ragione su entrambe le definizioni; l’ironia della situazione era che non se ne fossero accorti prima, dato che lo era sempre stata.
    «Ma certo, niente di più semplice Rea» Il sorriso della Hamilton, da appena accennato si fece via via più marcato, più sincero ed allo stesso tempo illusorio, come tutto di lei. Non si era aspettata una risposta negativa da parte di Damian: il pavor non era uno sciocco, e sapeva che un favore della Hamilton ne valeva cento di quelle stupide, inezie burocratiche che tanto, pur nella loro piccolezza, la limitavano. Il punto era: cosa le avrebbe chiesto in cambio? «Per quanto possa valere la mia parola» Rea rispose al sopracciglio inarcato del collega con una risata bassa e sinceramente divertita, mentre poggiava il mento sopra le proprie mani intrecciate. «Andiamo, Damian, fai il modesto con me? Pensavo avessimo superato questa fase da un pezzo» Un occhiolino ed un mezzo sorriso malizioso, che Icesprite avrebbe potuto interpretare a piacimento. Poteva essere, e non era indubbio con la Hamilton, un allusione a quella ormai lontana nottata passata in compagnia; oppure poteva, come raramente accadeva, essere un accenno a quella, per quanto particolare, collaborazione che li aveva uniti negli anni precedenti. Forse non proprio amici, ma erano colleghi di vecchia data. Nel bene e nel male, Damian. E se sono presente nell’equazione, sicuramente più nel bene che nel male. «Lo farò. Ciò che ti vorrei chiedere io forse è più...complicato. Ha a che fare con una minorenne» … si era aspettata tante cose, da Damian Icesprite. Perfino che le domandasse di andare a fare shopping con Anjelika, nella peggiore delle ipotesi.
    Ma quello? Nulla che avesse a che fare con dei bambini, poteva essere qualcosa di buono. Specialmente se il favore in questione veniva chiesto a Rea Hamilton, non proprio l’istinto materno incarnato donna. Aveva quasi timore di sapere come avrebbe continuato la frase, ma inarcando le sopracciglia lo invitò a proseguire. «Mia cugina Sheridan, figlia del defunto zio Riordan Lestrange, non ha più una casa. Una storia molto triste» Mentre Damian continuava a parlare, un lento ed ironico sorriso increspò le labbra carnose di Rea, che a stento si tratteneva dallo scoppiare a ridere. Immaginava già come si sarebbe conclusa la faccenda, e non poteva che trovarla incredibilmente esilarante: le stava davvero, davvero, chiedendo di fare da baby sitter a sua cugina? Magnifico. «Sua madre, la stratega Logan, l'ha ripudiata perchè lei ha perso i propri poteri nei laboratori. So che hai da fare ma...si tratta solo di un mese, da agosto a settembre e Hogwarts non può ospitarla, io non ne sono in grado. Puoi fare qualcosa?» L’espressione divertita della Hamilton si fece, nel proseguire del discorso, più fredda e distaccata. Stava valutando l’ipotesi in maniera del tutto interessata: una Lestrange, figlia di una stratega importante; cugina di un Pavor altrettanto importante, legata al cognome degli Icesprite. Le avrebbe fatto comodo una simile… vicinanza, non si poteva negare; così giovane, per di più! Avrebbe potuto insegnarle qualche trucco, istruirla. Non si trattava di manipolazione, l’avrebbe fatto per lei. Quelli erano i risvolti positivi della faccenda, ma c’era qualcos'altro, nelle parole di Damian, ad aver attirato la sua attenzione, gelando i fini tratti del volto di Rea: ripudiata perchè lei ha perso i propri poteri nei laboratori. Non sapeva, né in fondo voleva sapere, il motivo che aveva spinto il Pavor a chiederle un favore del genere: buon Dio, quale persona sana di mente metteva una ragazzina fra le mani di Rea Hamilton? O si fidava davvero tanto, o desiderava che la uccidesse nel sonno, forse perché reputata anche da lui una macchia nella famiglia. Damian Icesprite era un uomo tutto particolare, bisognava ammetterlo. Lui vedeva qualcosa, nella Hamilton, che pareva indurlo a pensare che fosse una buona soluzione affidarle la cugina. Assurdo? Neanche troppo secondo Rea, considerando che da sè si sarebbe reputata un’ottima possibilità –per entrambe. Semplicemente, si stupì che se ne fosse reso conto proprio lui. Rimase qualche secondo in silenzio, lo sguardo chino e pensieroso, mentre valutava la proposta. Non conosceva Sheridan, ma la situazione descritta da Icesprite le ricordava fastidiosamente, come un prurito alle mani, la sua vita: reputata un mostro dalla donna che l’aveva generata, ripudiata da casa propria per qualcosa di cui non aveva colpa. Oh, la cosa la faceva alquanto incazzare. Non si trattava di empatia… o meglio, anche. In particolare però, l’aspetto interessante era il territorio in comune che Rea e Sheridan avevano. Non sapeva chi ella fosse, né quale potere avesse o che genere di persona fosse, ma non aveva alcuna importanza: poteva gestirla. Poteva migliorarla, ed ella, in futuro, avrebbe potuto tornarle utile. Il favore richiesto da Damian, al concludersi di quella trattativa, pareva decisamente più positivo per lei che per lui. Alzò gli occhi sull’uomo, sorridendo sorniona. «Mi stai chiedendo di fare da baby sitter? Ammiro l’audacia» Sorrise a labbra strette, sbattendo languidamente le ciglia. «Sarà per me un onore ed un piacere ospitare Sheridan, se ella lo desidererà» Come se qualcuno sano di mente potesse non desiderarlo. Rispose melliflua, celando all’uomo la scintilla di malizioso divertimento. Non preoccuparti, ragazzina, ci pensa Rea a te. «Sto cercando casa, quindi mi premurerò di farti avere l’indirizzo in tempo per l’estate. Confido che rispetterai la tua parte dell’accordo» Si alzò in piedi, ciondolando sinuosa nella sua direzione per poi siglare l’accordo con una stretta di mano. Chissà se aveva compreso a cosa stava andando incontro, con quella richiesta. Le stava offrendo una piccola adepta su di un piatto d’argento; Rea sarebbe stata il mentore che lei, alla sua età, non aveva avuto. «Come sempre, parlare con te è stato un piacere. Mi mancherai, Damian Icesprite» Verità? Menzogna? Una via di mezzo? Chi avrebbe potuto dirlo. Si avvicinò abbastanza da posare delicatamente le labbra sulla sua guancia, donandogli solo un ultimo, sadico, ed illusorio quanto concreto ricordo della loro serata speciale. Non aveva un motivo particolare, neanche per rafforzare la volontà dell’uomo nel volerla allontanare dal terzo livello; che dire, ognuno aveva un modo di divertirsi tutto personale.
    Quello di Rea era infastidire, adorabilmente, il genere umano.
    E tutti, incomprensibilmente (ma neanche troppo), continuavano ad amarla. Bello essere un Hamilton, eh?
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