All monsters are human.

arwen

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +1    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline
    Rea Hamilton
    I never meant for you to fix yourself
    Schioccò le dita con aria annoiata, osservando le lingue di fuoco lambire la mano affusolata e risalire lungo l’avambraccio fasciato dalla giacca di pelle. Ovviamente non era reale, solo un illusione. Eppure, anche solo guardare la fiamma mangiarle le vesti con appetito crescente, le faceva sentire più caldo. La mente umana era incredibilmente modellabile, poteva essere come plastilina fra le mani di chi la sapeva gestire. Ci si poteva fare quello che si voleva, con la mente umana, se solo si era in grado di premerne i punti giusti. Rea Hamilton aveva appreso quell’arte con solerte curiosità, saggiandone la forza prima sugli individui più deboli, e poi su quelli che sembravano indistruttibili. Aveva imparato che nessuno era indistruttibile, per quanto fingesse di esserlo. Una pressione un poco maggiore, e tutto crollava lasciando macerie e polvere. Cosa rimaneva? L’ombra di un sorriso ed un frusciare ipnotizzante della giacca sulla canottiera sottile, tacchi alti che mangiavano chilometri alla ricerca dell’obiettivo successivo.
    La Hamilton era seduta su quello che un tempo doveva essere il muro portante di un qualche palazzo signorile, che alla lontana lasciava presagire ciò che un tempo era stato. Le cose cambiavano, le persone no. Potevano fingere di essere diverse, ma in fondo la vera natura rimaneva schiusa in un angolo, in attesa di prendere il sopravvento ed ingurgitare ciò che si era creduto di essere. Rea cercava di non mentire a sé stessa: era stata cresciuta credendo di essere una creatura corrotta. Aveva finito per crederci anche lei, abbastanza da diventarlo, ed ancora le persone cercavano di capirla. La cosa che sembravano non cogliere, era che non c’era assolutamente nulla da capire: era stata spinta nell’abisso, e le era piaciuto. Fine della storia, non era necessario mettere cornicette dove non c’erano. Picchiettò il piede contro il terreno asciutto, in attesa. La nebbia sembrava non abbandonare mai l’Inferius, dandogli un aspetto spettrale; quasi un monito a non metterci piede, che aveva invece l’effetto opposto di attirare le persone come falene al fuoco. Razionalmente si sapeva essere un posto pericoloso, eppure non si poteva fare a mano di addentrarsi in quel territorio sconosciuto ed apparentemente maledetto. Chi negava di essere attratto dal buio, mentiva: tutti sentivano l’affascinante solletico dell’ombra, anche chi si crogiolava sotto il sole della speranza. L’inferius era un luogo senza speranza, popolata dai fantasmi di chi aveva creduto troppo in un mondo che non meritava nulla. Giravano tante leggende su quel posto, eppure alla Hamilton piaceva farsene un’idea tutta sua: sentiva odore di odio nell’aria, di vendetta, di risate maligne dietro i cespugli che una volta proteggevano dagli sguardi indiscreti. Ne riconosceva il male, un’ombra riconosceva sempre un’altra ombra quando la vedeva, e se ne nutriva come un incubo si nutre di sesso e sangue. Respirò a pieni polmoni socchiudendo le palpebre, mentre un infinitesimale sorriso le alzava gli angoli delle labbra. Aspettava. Solitamente non era una persona particolarmente paziente, ma quel posto che ad altri infondeva terrore, le dava un senso di tranquillità paragonabile a quella per altri doveva essere casa. Dove altro poteva sentirsi a suo agio una creatura sporca come lei? Vedeva l’immagine dei suoi genitori indietreggiare spaventati la prima volta che aveva manifestato i suoi poteri, vedeva le catene della sala delle torture che le mangiavano i polsi, sentiva l’odore del sangue di cui si era macchiata e che aveva lasciato dietro di sé. Chi pensava che esistesse la redenzione per tutti, non conosceva Rea.
    Due anni prima, in una casa dall’aria allegra, la moneta era scivolata per due volte dalla sua stretta. Quando lei e Cersei erano entrate di soppiatto beandosi del silenzio che circondava il salotto color panna, ed avevano cercato , più per divertimento che per necessità, la scatoletta argentata, si erano soffermate parecchio a studiare le foto sorridenti della famiglia Undòmiel. Una bambina dagli occhi azzurri ed i capelli color ebano sorrideva all’obiettivo, spostando la sguardo dal padre alla madre con l’entusiasmo che solo i fanciulli possiedono. Per un breve, brevissimo momento, Rea aveva invidiato la spensieratezza che trasudava da quelle foto. Poteva sentire l’amore pulsare dalle pareti chiare della stanza, soffocandola, ma per un istante aveva desiderato sapere cosa si provava. Quella piccola parte di sé che sentiva ancora legata a ciò che aveva perso, come una moneta, aveva interrotto il suo giro per scivolare inerte sul tavolo. I coniugi Undòmiel rientrarono in casa, come da prassi, ed impugnarono le bacchette con un secondo di ritardo: Hamilton e Yaxley erano già pronte, sulla punta della lingua la maledizione che li fece scivolare convulsamente sul pavimento di marmo in preda a spasmi involontari. I loro tacchi risuonarono fra i gemiti della coppia, mentre si spostavano alla ricerca del manufatto. Non risposero mai alle loro domande, per cui ritennero opportuno e necessario porre fine alle loro sofferenze; giacevano ormai in una pozza di sangue scarlatto, quasi color ciliegia sotto il sole, e le forze li avevano abbandonati da qualche ora. “Che voi siate dannate” Sputò l’uomo fra sangue e rantolii, quasi sporcando le Jimmy Choo della Hamilton. Lei si abbassò e sporse il labbro all’infuori, aggrottando un poco le sopracciglia. La moneta cadde di nuovo sul tavolo in vetro, ma ci volle ancor meno tempo prima che ricominciasse il suo solito giro. Sfiorò la fronte dell’uomo in un bacio delicato, e sulla pelle sudata sussurrò: “Lo siamo già”
    Due anni dopo, l’erede della famiglia camminava ancora su quella terra, respirando l’aria rubata ai loro genitori, nascondendo il manufatto che non erano riuscite a trovare. Non le piaceva non riuscire nelle sue imprese, quel tarlo l’aveva ossessionata fin quando non era riuscita a rintracciare la mora. Insegnava ad Hogwarts, e ci avrebbe scommesso le sue nuove Louboutin che avesse preso la stessa strada dei genitori. Forse inseguiva la vendetta, proprio come Rea. Chissà se avrebbe apprezzato essere paragonata a lei, l’assassina dei suoi genitori. Stava giocherellando con il pugnale dentro la manica mentre i lunghi capelli castani ondeggiavano fra la schiena ed i seni, quando sentì un rumore di passi. Le bastò chiudere gli occhi un secondo e concentrarsi su due anni prima, per acquisire l’aspetto della defunta signora Undòmiel, che con impazienza e terrore attendeva il ritorno dell’amata figlia. Si lasciò scappare un breve sorriso, mentre immaginava il gufo che planando, quella mattina, aveva portato un messaggio ad Arwen.
    “La prossima volta che scegli di rischiare, assicurati che i tuoi cari siano morti per davvero”




    Scheda ▴ 24 ▴ Deatheater ▴ Pensieve code role by #epicwin for obliviongdr



    Edited by m e p h o b i a - 5/1/2017, 00:34
     
    .
  2. Arwen Undòmiel
        +1    
     
    .

    User deleted


    Liv Tyler as
    ARWEN UNDÒMIEL
    Il vero coraggio non sta nel prendersi una vita...
    large
    Pensieve ▽ ex-ravenclaw ▽ 22 anni ▽ Scheda
    tumblr_lj1v8so7bY1qci4ejo1_r3_500
    ...ma nel saperla risparmiare.

    Era mattina, una fresca mattina di ottobre ed a Hogwarts la vita scorreva abbastanza tranquilla, quel giorno Arwen non aveva lezione perciò poteva fare quel che preferiva, così si era alzata presto, alle cinque, si era vestita con il suo solito lungo vestito bianco ed ci aveva lasciato cadere sopra la grande mantella blu notte, aveva poi preso la spada riposta nel proprio fodero e se la era legata in vita. Infine la giovane era uscita dalle sue stanze e dopo aver controllato che il corridoio fosse sgombro si infilò al dito il prezioso anello bianco , svanendo nell'aria. Non poteva certo farsi vedere uscire dalla scuola a quelle ore senza un motivo, i maghi e gli studenti di certo non si lasciavano scappare nulla, meglio non destare sospetti. Agendo nell'ombra Arwen si sentiva protetta, nessuno poteva vederla, nessuno poteva attaccarla, nessuno poteva capire. Lasciatosi l'edificio alle spalle , si tolse l'anello tornando visibile ed si incamminò verso il lago nero, li se ne starebbe stata tranquilla almeno finché non fosse sorto il sole, estrasse la lunga spada dalla lama trasparente e si mise ad allenarsi. La ragazza provava affondi parate e contraccolpi in sequenza rapida, respirava a fatica e sentiva il battito del suo cuore accelerare sempre di più mentre le prime gocce di sudore si formavano sulla fronte liscia e scarlatta, in quei brevi momenti riusciva a scaricare tutta la tensione,tutta la sua impulsività che ad Hogwarts non le era permesso portare a galla, i ricordi riaffioravano inevitabilmente assieme al suo passato, un passato che voleva dimenticare ma che come un incubo continuava a tormentarla, ogni notte,ogni minuto, quando lasciava scivolare il pensiero. Si prese un momento di pausa trendo un respiro profondo , adorava l'arte della scherma! D'improvviso un gufo planò sopra la sua testa lasciando cadere una pergamena arrotolata, Arwen prese al volo il foglio e con curiosità lo srotolò, i suoi occhi lessero rapidi la breve frase prima di rimpicciolirsi a due fessure. La ragazza rilesse con il cuore in gola sentendo il bisogno di sedersi sulla riva pietrosa del lago. No. Non era possibile. Non poteva essere. Alla sorpresa iniziale di quel messaggio si aggiunsero subito dopo una valanga di domande, come, quando, dove, perché? I suoi genitori erano morti, aveva trovato il cadavere del padre in una pozza di sangue e aveva sentito le ultime parole dalla bocca di sua madre che le svelava il più grande segreto della famiglia prima di spirare tra le lacrime e le urla di Arwen che disperata chiedeva aiuto.
    Quel ricordo alla giovane sembrava ancora così vero, così vivo, così reale che senza accorgersene, si ritrovò il volto rigato dalle lacrime, Arwen afferrò e strinse in pugno la collana che pendeva dal collo... possibile che i suoi genitori fossero vivi? Cercò di riprendersi e analizzò nuovamente il biglietto, dove poteva andare? L'unico posto che ke venne in mente fu la sua vecchia casa, ormai abbandonata in un quartiere che tutti vociavano fosse fantasma, l' inferius. La giovane decise di andarci. Voleva delle risposte.

    Materializzatasi a Diagon Alley, la ragazza si lasciò il centro alle spalle e proseguì per una via secondaria dove iniziò ben presto a scendere una folta nebbia, Arwen non era più tornata in quell'edificio dal giorno del trasloco, nella speranza di riuscire a dimenticare quel che aveva vissuto ma a questo punti sembrava impossibile. Quando finalmente giunse davanti alla sua vecchia casa per poco non svenne, davanti a lei c'era una donna dai capelli mogano, gli occhi chiari, la carnagione pallida e perfetta, gli abiti tradizionali... sua madre. Un tumulto di emozioni trafissero la mente ed il cuore di Arwen che non riusciva a capacitarsi di quel che stava vedendo, era ferma immobile, con il cuore che batteva a stento. No non era possibile.
    Alla fine trovò la forza di scantarsi e di guardare in faccia la realtà, con voce titubante esclamò: <<mamma...? Ma non è possibile... tu sei morta... sua anni fa!Non puoi...>> la fine della frase le morì in gola, già... non poteva essere viva.
    winston,©
     
    .
  3.     +1    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline
    Rea Hamilton
    I never meant for you to fix yourself
    Che cosa patetica. Lo sguardo che la ragazza rivolse all’immagine della madre, fece venire alla Hamilton un tale voltastomaco che fu dura mantenere un espressione impassibile. Vedeva gli occhi azzurri riempirsi di lacrime, quasi vedeva i ricordi scivolarle crudelmente sotto pelle, ed anziché esserne intenerita, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era a quanto fosse patetico, quel modo di vivere. Vivere credendo in qualcuno, credendo che l’amore sarebbe bastato, e tutto sarebbe andato bene. Rea aveva imparato in fretta che amare era inutile: finiva sempre ad essere quella che si faceva male, che amava un po’ di più. Stare da sola era molto meglio: non aveva una famiglia da piangere, non aveva amici da proteggere, non aveva nulla. Esisteva sottilmente, sfiorando la vita degli altri solamente per rubarne un unghia, per cambiarle.
    “mamma...? Ma non è possibile... tu sei morta... sua anni fa! Non puoi..”
    Si morse la lingua, seccata. Com’era possibile che una ragazza del genere le fosse sfuggita per tutti quegli anni? Non sembrava brillare di arguzia con tutti quei non che, simultaneamente, racchiudevano speranza e dolore. La gamma delle emozioni umana era così vasta, e così malleabile, che la Hamilton trovava sempre accademicamente molto interessante studiarne le diverse sfumature. Si prese un minuto di silenzio per godersi l’espressione della Undòmiel, mentre la proiezione della madre di lei le rivolgeva un sorriso tristissimo, annuendo lentamente.
    Quel nuovo potere era davvero troppo divertente.
    Anziché sentirsi limitata da tutta quella tristezza, Rea ne era quasi inebriata. Tutto ciò che agli altri faceva male, riusciva a renderla più forte, come se le loro lacrime costruissero una fortezza di diamante attorno a lei: vedeva ciò per cui soffrivano, e si sentiva invincibile al pensiero di non avere i loro stessi punti deboli.
    Sbagliata, come al solito. Diversa. Malvagia.
    Schioccò le dita, e la figura della madre di Arwen scomparve in un vortice nero, come se qualcuno l’avesse smaterializzata con sé. Al suo posto emersero dalla nebbia un paio di Laboutin nere dal tacco alto, lunghe gambe fasciate da pantaloni neri, giacca di pelle, capelli color cioccolato ed un sorriso malizioso. Rea si morse leggermente il labbro, mentre chinava il capo verso destra, incuriosita. “Come sei cresciuta, Arwen” Esordì con voce soave, mentre lentamente avanzava verso di lei facendo scricchiolare le pietre sottili del viottolo sotto la suola delle scarpe. “Non abbiamo mai avuto il piacere di conoscerci” Le girò attorno, scrutandola dall’alto in basso, per poi fermarsi nuovamente di fronte a lei. Con quel lungo vestito bianco e quella sottospecie di mantello blu notte, sembrava una vergine sacrificale che aveva scelto il tempo, e l’epoca, sbagliati. A volte la Hamilton si scordava che i maghi avevano strani modi per vestirsi: e se lo diceva lei che era cresciuta a Presteigne dove ancora giravano le carrozze, era davvero un problema. “Tu hai qualcosa che voglio, ed io ho qualcosa che interessa a te: tua madre. Forza, ragazza, sorridi. È ancora viva, cos’è quel muso lungo?” Alzò le sopracciglia e sporse leggermente il labbro inferiore all’infuori, imitando il broncio della donna di fronte a sé. Ovviamente non era viva, ma Arwen non poteva saperlo. Dopotutto l’aveva vista davanti a sé, l’aveva vista con i suoi occhi: non poteva essere tutto inventato, giusto? quello era ciò che, probabilmente, nascondeva la Undomiel dietro l’espressione semi indecifrabile. Rea era brava a capire le persone.
    Che ne dici di uno scambio?” Sorrise ammiccante, spostando la chioma castana tutta sulla spalla sinistra mentre, la mano destra, correva ad assicurarsi di avere il pugnale sempre nel posto giusto.


    Scheda ▴ 24 ▴ Deatheater ▴ Pensieve code role by #epicwin for obliviongdr



    Edited by rea is back‚ bitches. - 13/4/2015, 23:26
     
    .
  4. Arwen Undòmiel
        +1    
     
    .

    User deleted


    Arwen Undòmiel
    THERE ISN'T COURAGE WITHOUT FEAR.
    Il ricordo di sua madre si faceva strada nella mente di Arwen con la stessa velocità del fuoco quando divampa nel bosco, emozioni, sorrisi, vent’anni di vita che la giovane ostinatamente evitava di ricordare per evitare di farsi del male, per evitare di rivivere quel tragico momento che ogni notte s’inoltrava nei suoi sogni trasformandoli in incubi da dove non c’era via d’uscita se non quella di svegliarsi e poi rimanere in piedi… In piedi Arwen, non sarebbe mai dovuta cadere, ne di fronte al suo passato, ne di fronte al suo futuro per quanto crudele ed irreale potesse rivelarsi. E quella sera era di fronte a sua madre. Impossibile. Doveva mettere in moto il cervello, sua madre non poteva essere viva. Il suo corpo giaceva ufficialmente in una tomba a Londra, effettivamente solo lei sapeva il luogo della sepoltura e dal giorno in cui erano morti i suoi non c’era mai più ritornata. Quindi quella che aveva davanti a se non poteva essere sua madre, ragiona Arwen, ragiona dannazione. Due anni spesi a temprare mente e fisico buttati, non doveva farsi coinvolgere dalle emozioni, non poteva dimostrare di essere debole e di desiderare la morte solamente per ascoltare nuovamente la voce dei suoi genitori, per riuscire a vederli nuovamente ridere , per non sentirsi più sola.
    Uno schiocco di dita. Un semplice schiocco di dita e la figura di sua madre svanì come se fosse stata fatta d’aria, come se fosse stata solamente un’illusione. Certo un’illusione. E mentre al posto della donna compariva una ragazza dai capelli castani Arwen si diede della stupida, ci era caduta, per un’istante, un solo singolo istante , aveva sperato che sua madre fosse di nuovo effettivamente li con lei. Il suo volto dapprima sorpreso ed incredulo si trasformò in un’espressione tesa, intrisa di rabbia e freddezza… la donna che aveva davanti sembrava essere soddisfatta , non la conosceva ma qualcosa le suggeriva di non fidarsi , di non credere e di non abbassare la guardia.
    “Come sei cresciuta, Arwen” queste furono le prime parole a rompere il silenzio di ghiaccio che si era creato tra le due giovani, “Non abbiamo mai avuto il piacere di conoscerci.” In pochi potevano vantare di averla vista crescere o di avere il permesso di prendersi una tale confidenza e quella ragazza non rientrava sicuramente nella lista dei suoi amici o conoscenti , Arwen non disse una parola rimanendo immobile mentre la tizia le girava attorno squadrandola da cima a fondo. L’aveva vista crescere… ma cosa diavolo…un pensiero si fece strada nella sua mente facendola rabbrividire, no non era possibile. “Tu hai qualcosa che voglio, ed io ho qualcosa che interessa a te: tua madre. Forza, ragazza, sorridi. È ancora viva, cos’è quel muso lungo?” No. Non poteva essere. Eppure era li di fronte a lei, con un sorriso malizioso ed uno sguardo sicuro e staccato… Quella donna era l’assassina dei suoi genitori, le sue parole erano state troppo dirette per essere fraintese, era lei che tranquillamente se ne stava li in piedi con faccia angelica mentre Arwen dovè tenere a freno i sentimenti che in quel momento l’avrebbero spinta a strangolare la donna senza pietà o a infilarle una lama nel petto. Quella donna era l’assassina dei suoi genitori , per due anni si era tormentata sul fatto di non essere arrivata in tempo, di non essere riuscita a vedere il colpevole o i colpevoli del dolore che si portava appresso ogni giorno, di non essere morta nel tentativo di difendere i suoi , di essere rimasta lì impotente in una pozza di sangue. Per i primi tempi Arwen aveva cercato dovunque, qualsiasi cosa, una traccia, anche solo delle voci o testimonianze che sperava la riconducessero ad una persona su cui poter sfogare la rabbia , una persona da incolpare, una persona su cui si sarebbe vendicata. Due anni, due anni ed ora quella donna era davanti a lei. Uccidila e falla finita. Uccidila e falla finita. Questo le suggeriva il suo cuore, voleva vedere quella ragazza morta, in un lago di sangue mentre esalava il suo ultimo respiro, voleva rivedere quella scena e per un momento sentirsi soddisfatta di quel gesto che aveva giurato di compiere non appena avrebbe messo le mani sulla persona che le aveva portato via l’unica cosa a cui teneva… la famiglia. Ma la vendetta portava con se un prezzo… un prezzo che forse l’anno prima sarebbe stata disposta a pagare volentieri, se ne fregava del mondo e di quel che poteva essere il suo futuro ma ora… ora era un insegnante, viveva ad Hogwarts a contatto con dei ragazzi che avevano bisogno di lei, era una spia, era una ribelle, si era rifatta delle amicizie, si era legata a persone nuove, uccidere quella donna avrebbe voluto dire voltare le spalle a tutti coloro che in quell’arco di tempo le avevano dimostrato affetto, l’avevano aiutata a vivere in pace con la sua coscienza perennemente turbata dai sensi di colpa. Non poteva farlo o forse non voleva, ma sicuramente da quell’incontro inaspettato voleva ricavarci qualcosa di buono e se voleva ciò doveva usare l’intelligenza e pensare prima di agire in maniera stupida.
    “E’ vero ma non credo sia un piacere conoscere la persona che ha distrutto la mia famiglia.” Iniziò Arwen con voce fredda quasi ironica, ripensando alle parole di quella donna “Tu hai qualcosa che voglio” eh già cominciavano a spiegarsi tante cose, ecco perché sua madre in punto di morte le aveva consegnato la scatola argentata, fortunatamente però l’assassina sembrava non sapere cosa ci fosse al suo interno o non lo voleva rivelare sperando che Arwen lo facesse per prima. “Solitamente quando qualcuno vuole qualcosa si presenta prima.” Esclamò quasi infastidita per poi continuare “Non so cosa potrei mai avere di tuo interesse ma per favore risparmiami i momenti melodrammatici, lo so per certo che mia madre giace in una tomba. Ed è te suppongo che devo ringraziare.” Concluse la giovane senza distogliere lo sguardo freddo dalla ragazza che aveva davanti, era così giovane… possibile che fosse stata in grado di compiere un atto simile? Beh si. La vita era piena di sorprese, il mondo stava andando alla rovescia ed Arwen ne aveva la prova ogni giorno quando girava per il castello. Di una sola cosa era certa, non avrebbe mai dato l’elessar o nenya nelle mani dei mangiamorte, ora sapeva per certo che i suoi genitori erano morti per evitare che accadesse e se necessario lei avrebbe fatto lo stesso oppure prima di morire li avrebbe distrutti , godendosi per un solo unico istante, le facce di chi impotente sarebbe rimasto a guardare i gioielli che si disintegravano sotto i loro occhi così come lei era rimasta a guardare la vita dei suoi genitori scivolare nell’oblio senza poter fare niente.



    ▴ Teacher of Fencing ▴ Spy for the Rebels ▴
    Scheda ▴ 22 anni ▴ Ribelle ▴ Pensieve
    code role by #epicwin for obliviongdr

     
    .
  5.     +1    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline
    Rea Hamilton
    I never meant for you to fix yourself
    Compassione. Quella parola aveva un suono così dolce, quando riempiva le labbra ed il cuore. Quella parola aveva un suono così vuoto, riflessa negli occhi scuri della Hamilton. Guardava Arwen, assisteva alla battaglia interiore della donna, e non provava niente se non un vago fastidio dato dal fatto che, ancora, non aveva ciò che si era ripromessa di ottenere. L’infinitesimale sorriso di Rea non scivolò dalle sue labbra, come una macchia di vino vermiglio su un tappeto color panna. Prometteva tante cose, quel ghigno appena accennato, nessuna delle quali sarebbe stata divertente per la Undòmiel. Poteva odiarla se voleva, ma Rea aveva solo eseguito degli ordini, il giorno in cui aveva ucciso i genitori di lei. E si era divertita nel farlo, perché amava il suo lavoro: stanare traditori, privarli della loro fiacca ed opaca vita, sapere che l’ultima cosa che i loro occhi avrebbero messo a fuoco sarebbe stato il suo volto. C’era un potere particolare nell’uccidere, una sensazione di strisciante goduria sotto pelle, di cui la mora non poteva che gioire. Non aveva mai compreso i sensi di colpa di chi, la notte, ripensava ai sogni infranti, al futuro senza più luce delle proprie vittime: per quanto la riguardava, quella luce l’avevano già persa nel momento in cui erano finiti sulla sua strada.
    Gli occhi della ragazza sembravano supplicare un Dio dimentico della loro esistenza, che quell’effimera illusione potesse essere reale. Il dolore, nelle sue iride azzurre, rimbalzava assente sulla pelle coriacea di Rea, incapace di provare empatia. Avrebbe voluto ridere di quella sofferenza, gioirne fiera, ma la verità era che non provava assolutamente nulla. Mirava solamente all’obiettivo finale, non le interessava chi, o cosa, avrebbe dovuto sacrificare. E se le avessero chiesto di rifarlo, l’avrebbe fatto ancora, e ancora. Attese pazientemente che l’espressione sorpresa di Arwen varcasse la soglia dello stupore per valicare quella dello sconcerto, ed infine schiccò le dita. L’immagine della madre sparì, come un sogno troppo vivido, lasciando spazio alla morbida e scura figura di Rea Hamilton, Pavor al Ministero, venticinque anni. Mostro per passione.
    Vide la rabbia nei tratti della ex corvonero. Vide il distacco rapido, come un cerotto strappato con energia su una ferita ancora sanguinante, e solo allora si permise di sorridere sinceramente divertita: non comprendeva il dolore, ma la rabbia era il suo terreno di gioco. Riusciva a sentire quella rabbia, riusciva ad assorbirla. La lasciò sedimentare in quel luogo buio che ogni uomo ha dentro di sé, compagna di giochi della propria, finchè anche quella parte estranea non divenne di sua proprietà. Socchiuse le palpebre, chiedendosi cosa stesse elaborando dietro quella facciata di fredda ed austera bellezza. Riusciva quasi a vedere le rotelline arrovellarsi per cercare di comprendere chi Rea fosse, con la fatica dovuta al liquido della passione a rallentarle. Avere una mente sgombra da affetti, e dal dolore, era un requisito quasi basilare per ogni buon sicario: una mente rapida era ciò di cui avevano bisogno le persone come Rea, che non fosse ingombrata dai sentimenti. Sciocchi e subdoli sentimenti, che si infiltravano in ogni più piccolo poro a loro disposizione, contaminando l’asettica razionalità.
    “E’ vero ma non credo sia un piacere conoscere la persona che ha distrutto la mia famiglia.” La Hamilton inclinò il capo all’indietro, dando fiato ad una risata secca e ferrosa, bassa come il ringhio di un felino. Quando lo sguardo color cioccolato si posò nuovamente sulla donna, dove ancora brillava quel soffio di ilarità, cominciò a muovere qualche distratto passo a destra ed a sinistra, l’indice della mano destra a sfiorare con delicatezza il labbro inferiore. “Oh, mi ferisci” Sporse il labbro, portandosi entrambe le mani al petto. Poteva sentire chiaramente il proprio cuore battere, placido e monotono come lo scivolare della rugiada su un bocciolo. “Solitamente quando qualcuno vuole qualcosa si presenta prima” Si morse l’interno della guancia, arricciando lievemente il naso. Alzando gli occhi al cielo, dando l’idea di star pensando e valutando seriamente le parole della giovane, Rea emise un grugnito soffocato. “Ma io non sono un qualcuno qualsiasi. Le regole della civile convivenza mi sono sempre andate piuttosto strette” Fece spallucce, rivolgendole una dispiaciuta occhiata di scuse. Il dispiacere, Rea Hamilton, non ricordava nemmeno cosa fosse. Tornò a sedersi sul muro che l’aveva ospitata precedentemente, apparentemente rilassata ma in realtà tesa come una corda di violino. Aveva imparato a non sottovalutare mai i suoi nemici, a non commettere l’errore che troppo spesso commettevano con lei, rimettendoci la pelle. “Non so cosa potrei mai avere di tuo interesse ma per favore risparmiami i momenti melodrammatici, lo so per certo che mia madre giace in una tomba. Ed è te suppongo che devo ringraziare” Voleva evitare i momenti melodrammatici? Ma… erano la parte più divertente, perché non sapeva apprezzare? Roteò gli occhi annoiata, reprimendo un piccolo sbuffo di disapprovazione. Strinse le labbra fra loro, improvvisamente seria. “Sembra ineccepibile come deduzione, ma io non so assolutamente di cosa tu stia parlando. Mi piacerebbe chiederti quale particolare meccanismo ti ha portato ad una risposta del genere, assassina dei tuoi genitori” Schioccò la lingua, ghignando malevolmente. “Ma in realtà, non mi interessa affatto. Comunque, se vuoi ringraziarmi, non sarò io a frenarti: mi piace quando mi viene riconosciuto un buon lavoro, indipendentemente che sia stata io o meno a farlo” Battè le palpebre con innocenza, incrociando le caviglie fra loro davanti a sé. Le seccava quando i suoi avversari non la rendevano partecipe del proprio pensiero: amava i monologhi, quelli strazianti che mirano a strappare il cuore. E ci provavano sempre, a lasciarle un segno, prima di rendersi conto che un cuore, Rea, non lo aveva. “Frequentavamo Hogwarts insieme. Corvonero, se non sbaglio” Disse indicandola con un vago cenno della mano. Scrollò i capelli castani, spostandone alcune ciocche davanti alle spalle con aria in apparenza distratta.
    E… ne sei davvero sicura, ragazzina?” Soave come una carezza nella notte, Rea lasciò che la sua voce seminasse il dubbio nelle orecchie di Arwen. “Sei davvero certa di aver perso tua madre per sempre? E cosa voglio… tante cose. Indubbiamente la pace nel mondo” Rise ironica, poggiando le mani l’una contro l’altra quasi in preghiera. “Non farmi dire cose scontate, Undòmiel: sai a cosa mi riferisco. A meno che tu non sia… come si dice al giorno d’oggi? Mentalmente arretrata, forse? Pensavo che i figli di Rowena fossero un poco più brillanti. Non si smette mai di imparare” Concluse con un sospiro malizioso, alzando le sopracciglia.

    Scheda ▴ 24 ▴ Deatheater ▴ Pensieve code role by #epicwin for obliviongdr

     
    .
  6. Arwen Undòmiel
        +2    
     
    .

    User deleted


    Arwen Undòmiel
    THERE ISN'T COURAGE WITHOUT FEAR.
    Aveva giurato che non si sarebbe fatta guidare dal sentimento di vendetta, aveva giurato che si sarebbe riuscita a lasciare tutto alle spalle, tutto, il dolore, la rabbia, l'angoscia, il rimorso. Aveva giurato di ricominciare d'accapo, di ricostruirsi una vita dove non avrebbe più sbagliato, dove avrebbe potuto compiere quel che i suoi genitori non erano riusciti a portare a termine, si era ripromessa tante cose Arwen forse perchè mai avrebbe immaginato che quel momento arrivasse con così poco preavviso. Due anni di silenzio, due anni in cui i suoi tentativi di trovare un colpevole erano stati solo buchi nell'acqua, nessuno sembrava aver visto, nessuno sembrava aver sentito, gli Undòmiel erano morti ed non era poi una novità che la gente venisse trucidata nella propria abitazione ormai le leggi del regime si piegavano con facilità al sol mormorarela parola ribelle. Non aveva mai capito la ragazza il perchè di quella scelta, i suoi non gliene avevano mai parlato, non toccavano l'argomento quasi fosse stato un disonore anche per loro, quasi come se si fossero dovuti abbassare a compiere un gesto che mai avrebbero intrapreso, non era riuscita a capire , non era riuscita ad evitare l'inevitabile. Sensi di colpa, odio, amarezza, un mix fenomenale per chiunque, non era ancora andata fuori di testa Arwen per il semplice fatto che aveva un lavoro che la teneva a contatto con le persone, che la teneva a contatto con il mondo e soprattutto, che la teneva occupata. Essere un'insegnante ed al contempo una spia le aveva insegnato a dosare le proprie energie ma soprattutto a porre attenzione alle piccole cose, ai gesti della gente, ai sorrisi, ai comportamenti, tutto aveva un proprio peso negli atteggiamenti di una persona, la Undòmiel si era sempre giudicata in grado di saper gestire qualsiasi cosa, si era giudicata abbastanza matura da poter superare anche la morte dei suoi genitori senza covare alcun tipo di risentimento ma ora, ora si rendeva conto che erano soltanto parole. Parole che le martellavano la testa, parole che cercavano di porre freno al suo istinto di farla finita, di prendere la bacchetta ed uccidere il colpevole di tutto quel dolore, il colpevole di quella strage rimasta impunita per troppo tempo. Rivedere il volto di sua madre, ritrovarsela di fronte così da nulla l'aveva sconvolta, sembrava così vivida, così rea-le #dovevo sembrava ancora respirare, sembrava quasi sorridere ed il cuoredi Arwen voleva solo che quell'illusione prendesse forma fisica, voleva soltanto che le mani di quella donna raggiungessero il suo corpo e lo stringessero ancora una volta, ancora un'ultima volta. Perchè quell'ultima stretta, quell'ultimo respiro, sua madre lo aveva dedicato ad una scatola, ad una dannata scatoletta argento che le aveva lasciato tra le mani attraversate da una linea rosso cremisi.
    Una risata fredda, una risata che ad Arwen sembrò in qualche modo familiare, eppure non aveva mai visto quella mora, non l'aveva mai incontrata prima di allora e non riusciva a capacitarsi di come l'avesse trovata, di come fosse riuscita a giungere a lei nonostante tutte le precauzioni, le coperture, nonostante il fatto che la Undòmiel era praticamente sparita da Londra per non farci più ritorno. "Non credo proprio di ferirti." rispose limitandosi ad osservare la tizia che le stava davanti senza scollarle per un secondo gli occhi di dosso,la tentazione di lasciarsi prendere la mano, di lasciarsi andare era così forte, era come se qualcuno le stesse suggerendo di compiere un errore, era come se le stessero dicendo che alla fin fine la sua era una buona causa, quell'atto avrebbe riportato un po' di giustizia in quel mondo assurdo.
    "Sembra ineccepibile come deduzione, ma io non so assolutamente di cosa tu stia parlando. Mi piacerebbe chiederti quale particolare meccanismo ti ha portato ad una risposta del genere, assassina dei tuoi genitori.Ma in realtà, non mi interessa affatto. Comunque, se vuoi ringraziarmi, non sarò io a frenarti: mi piace quando mi viene riconosciuto un buon lavoro, indipendentemente che sia stata io o meno a farlo" A quell'affermazione, la giovane fu costretta veramente a limitarsi, a sforzarsi di non prendere la donna e sbatterla al muro, non era una stupida, era a conoscenza di particolari che nessuno oltre a quel tanto agognato assassino senza nome poteva sapere, e Arwen lo voleva, in quell'istante voleva solo un dannato nome su cui scaricare le colpe, su cui scaricare l'odio e la rabbia. Ringraziarla... ringraziarla per un lavoro ben svolto, avrebbe dovuto ucciderla e liberare il mondo da gente come lei, da gente che pensava solo a se stessa e non vedeva nulla negli altri se non un possibile bersaglio. "Frequentavamo Hogwarts insieme. Corvonero, se non sbaglio" si prese un attimo cercando di ricordare, di ricordare se realmente si fossero incontrate a scuola o se quello era soltanto un modo per prendere tempo, per distrarla. La giovane non aveva mai prestato molta attenzione ai suoi compagni di corso, preferiva seguire le lezioni che chicchierare e poi passare di miracolo agli esami, i volti, le faccie ed i comportamenti di molti di loro però li rivedeva ancora nella sua mente, li rievocava a volte con disprezzo a volte con nostalgia. Ricordava Elijah, ricordava le loro sfide nella sala dei duelli, ricordava i tempi in cui stava finalmente trovando un motivo per scollare il naso dai libri e perdere quella morbosa vena per la scherma , ricordava come ci si sentiva a essere lasciati da parte, ricordava cosa significava perderere sopratutto quanto i sentimenti potessero fare male, ma tra tutto questo non ricordava quella donna, non riusciva a focalizzare il suo volto. "E… ne sei davvero sicura, ragazzina?Sei davvero certa di aver perso tua madre per sempre? E cosa voglio… tante cose. Indubbiamente la pace nel mondo"
    "Si." La risposta di Arwen fu secca, unica, non stava usando un tono rassegnato ma semplicemente lo stava affermando, lo stava realizzado forse anche lei soltanto in quel momento che nonostante tutto quello che avesse fatto nel futuro, sua madre, suo padre non sarebbero mai tornati indietro. Li aveva persi, li aveva persi e la vendetta, la vendetta non gli avrebbe permesso di sentirli nuovamente al suo fianco, doveva ormai imparare a conviverci, doveva imparare a convivere con quella solitudine, con quei sensi di colpa, con quella scena che le si ripresentava continuamente davanti agli occhi. Non poteva fare altrimenti, non aveva altra via di scelta, doveva lasciarsi alle spalle quella che una volta definiva famiglia, quella che una volta definiva casa. "Non farmi dire cose scontate, Undòmiel: sai a cosa mi riferisco. A meno che tu non sia… come si dice al giorno d’oggi? Mentalmente arretrata, forse? Pensavo che i figli di Rowena fossero un poco più brillanti. Non si smette mai di imparare"
    Chiedere ad Arwen di resistere oltre, di porre freno alla sua voglia di uccidere la mora era impossibile, non capiva perchè lo stava facendo, non capiva perchè sentiva il sangue ribollirle nelle vene , voleva solo farla finita e cominciava a non importarle più se fosse ritenuto giusto o sbagliato eliminare una persona, voleva farlo, doveva farlo. Doveva placare quella voce nella sua testa, quelle urla che continuamente le chiedevano solo una cosa, vendicarsi e mettersi l'anima in pace, vendicarsi e chiudere una volta per tutte quella storia. E nel momento in cui la giovane che aveva di fronte distolse lo sguardo, in quell'istante la Undòmiel si lasciò prendere la mano dall'istinto, si mosse di scatto prendendo di forza la ragazza e sbattendola al muro, estraendo la bacchetta e puntandogliela alla gola. La cosa strana è che la sua mano era ferma, la mano di Arwen che mai avrebbe nemmeno sfirato un'altro essere umano se non per legittima difesa , non dimostrava stavolta esitazione, che diavolo voleva fare? Che stava facendo? Ciò che era giusto... O forse ciò che riteneva giusto?
    Guardò il volto della donna, squadrandolo con gli occhi gelidi ed in quell'istante le sembrò di rivedere in quei dolci lineamenti quelli di una sua compagna di corso, quelli di una ragazzina poco più grande di lei, una sola cosa le venne in mente e quella utilizzò.
    "Non sono cose scontate perchè tu non sai esattamente cosa vuoi vero Hamilton?"
    Hamilton. Un cognome, solo questo, il nome ancora le sfuggiva ma ormai non aveva più importanza, si era stancata delle buone maniere, delle finte discussioni diplomatiche anche perchè la mora che le stava di fronte voleva ottenere ciò per cui l'aveva attirata in quel luogo.
    "Tu non sai cosa c'era in quella scatola che tanto cercavi di ottenere non è così?" le sussurrò senza mollare la presa, i suoi genitori erano forse realmente morti per dei dannati gioielli magici, per dei dannatissimi oggetti, non li avevano voluti consegnare a quella donna ma cosa mai poteva averli spinti a compiere un gesto così insensato? Erano manufatti antichi e potenti ma le loro vite, le loro vite erano sicuramente più preziose, non potevano essere paragonate a nulla, non potevano essere usate come merce di scambio. Eppure loro l'avevano fatto ed ora la domanda era... Arwen sarebbe stata pronta a fare lo stesso? Sarebbe stata pronta a sacrificare se stessa per custodire i segreti di una famiglia? No.

    *lo scoprirete nella prossima puntata NANANANANANA BATMAAAAN
    Si avvisa la gentile clientela che le puntate vanno in onda con frequenza ehm... trimestrale (?) perciò non assicuriamo che il prossimo episodio verrà trasmesso prima del 2016*



    ▴ Teacher of Fencing ▴ Spy for the Rebels ▴
    Scheda ▴ 22 anni ▴ Ribelle ▴ Pensieve
    code role by #epicwin for obliviongdr

     
    .
  7.     +2    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline
    Rea Hamilton
    I never meant for you to fix yourself
    Rea lo capiva, quel desiderio di vendetta dietro le iridi chiare. Forse l’unica cosa che potevano condividere, mentre Arwen stringeva con forza i pugni, presumibilmente desiderando di avere fra le mani il delicato collo da cigno della Hamilton. Vedeva l’odio, lo sentiva fisicamente. Ma quando mai una cosa del genere aveva toccato un Hamilton, Rea nello specifico? L’aveva sentito così spesso sulla pelle, da non farci più caso. Anziché esserne abbattuta ne usciva rinvigorita, come se quell’astio alimentasse la fiamma che da sempre costudiva al posto del proprio cuore. Guardami, Charlotte. Guardami, Amos. Guardatemi, e ditemi cosa vedete. Non era più la bambina che i fratelli ancora credevano di trovare dietro le sue iridi scure, e se i suoi genitori avevano avuto ragione, mai lo era stata. Sempre corrotta, sempre sbagliata. V’era una linea di pensiero secondo il quale Male e Bene non esistevano come concetti a sé, ma acquisivano forma solo quando espressi ad alta voce nella propria soggettività, visti con gli occhi di ciascun essere umano. Nel Mondo Magico, Rea non era parte del Male; eppure riusciva comunque a rientrare nella fetta di popolazione definita malvagia e non cattiva. La cattiveria implicava nella propria definizione un infantilismo che mai le era appertenuto, un dispetto che mai s’era azzardata a compiere. La malvagità di Rea Hamilton risiedeva nella sua capacità di sentire tutto e non farsi toccare da niente; nell’essere quello che la Notte aveva bisogno fosse, ed il Giorno temeva di diventare. Era la tentazione di allungare la mano verso la mela più succosa dell’albero, ben sapendo a cosa si sarebbe andato incontro. Era la menzogna sussurrata sulle labbra, la promessa di pelle calda contro la propria quando il freddo partiva da dentro. La malvagità della mora era nel suo essere così dannatamente giusta, da poter essere solamente sbagliata. Perché c’era un intero mondo, dietro quelle ciglia lunghe, che appena traspariva dai suoi sorrisi. Eppure un briciolo, infinitesimale frammento di quell’universo, era possibile coglierlo. Ed era quella la vera malvagità, il Male, lo sbaglio, il mostro: la consapevolezza che era umana. Provava qualcosa, la Hamilton, semplicemente non nel modo ritenuto dai più consono. Non era che non sentisse nulla, era che sentiva tutto. Lo elaborava, lo lasciava sedimentare così che diventasse parte di sé. Erano i sentimenti degli altri, e buon Morgan di certo non il dolore, a lasciarla indifferente: non le importava, non era un concetto così complesso da assimilare. Non era toccata dalla sofferenza della Undòmiel, perché non gliene poteva fregare di meno. Non li conosceva, erano traditori, ed il suo lavoro era uccidere traditori. Fine. Senza contare che non avrebbe concepito, neanche volendo, il legame della donna con i suoi genitori. Lei i propri ancora non li aveva uccisi solamente perché voleva farli soffrire, figurarsi. Ma quello non era certo il momento per le confidenze fra donne, anche perché se avesse potuto scegliere una compagna di chiacchiere, la Undòmiel non sarebbe rientrata neanche nella top 100. E sì, probabilmente Rea conosceva meno di cento persone, quindi se tanto mi da tanto… Fuori dalla ca$ta Hamilton. La cosa che la infastidiva maggiormente, era che non aveva paura di lei. Buffo, non era forse vero? Nessuno aveva mai paura della Hamilton, ed anche quando il pugnale perforava il cuore, non era il terrore ad illuminare per l’ultima volta il loro sguardo, quanto la sorpresa. Potevano anche non temerla, ma quel gioco lo guidava lei. La mano che avrebbe tenuto l’arma dalla parte del manico, sarebbe sempre, sempre stata la sua. Fino alla fine.
    Le sembrava di trovarsi lì da un anno buona questa, mentre Arwen Undòmiel continuava sia a non brillare di intelligenza, sia a non brillare di simpatia, il che era paradossalmente utopico: non c’era una qualche legge non scritta che rendeva gli stupidi divertenti, e le persone noiose incredibilmente brillanti? Beh, c’era da dire che ogni legge aveva la sua eccezione. Arwen non potè che confermare, per la gioia di noi tutti!, con una sola frase di essere proprio quell’eccezione: «Non credo proprio di ferirti» Ma non mi dire. Che cosa altamente scioccante. Un vero colpo di scena! Il lupo non soffriva, e Cappuccetto Rosso glielo faceva notare. Sarebbe stato adorabile, se solo non fosse già stato di una pateticità rara. La solleticò l’idea di eliminarla subito, senza pensieri e senza rimorso, così da doversi togliere l’inghippo di lì a qualche mese, o anno che fosse. Magari qualcuno avrebbe pianto la sua scomparsa –così giovane, una tanto brava ragazza! Salutava sempre-, ma avrebbero imparato ad andare avanti. Tutti sopravvivevano, ed in cuor loro gioivano che non fosse toccato a loro. Non le importava neanche più il motivo che l’aveva spinta a recarsi all’inferius, ossia gli oggetti che al Ministero le avevano detto di rintracciare e che lei sapeva essere in possesso della mora. Avrebbe tranquillamente potuto denunciarla, farla portare nella Sede Centrale così che ci pensassero i torturatori; farle perquisire casa. Avrebbe potuto fare mille e più cose, Rea Hamilton, che non avventurarsi lì per un incontro a quattr’occhi. Allora perché l’aveva fatto? Forse voleva vedere quanto il suo gesto avesse cambiato la ragazzina ritratta nelle foto; forse voleva solo vedere quanto fosse cresciuta, se fosse riuscita ad andare avanti.
    O forse, non aveva di meglio di fare, ed aveva un’insana passione per le sfide. Vi lascio indovinare quale fosse l’opzione più probabile.
    «Sì» Aveva già mentalmente denigrato la donna per la sua mancanza di loquacità? Se no, quello era indubbiamente il momento adatto. Morgan, prenditi la sua anima. La triste, quanto amara, verità, era che non la voleva neanche lui. Sentiva la sua risata da rastrellatore trollone nelle orecchie, mentre la obbligava a sopportare ulteriormente la presenza della ex Corvonero nella propria esistenza. Un vero peccato però che fosse così sicura della morte della madre, si sarebbe volentieri divertita un altro po’ lasciandola sulle spine. Così, per puro e sadico piacere. Invece doveva limitarsi a sopportare le sue occhiatacce, how rude, con un lieve sorriso enigmatico sulle labbra. Chissà se al concludere di quella conversazione avrebbe finalmente capito che per Rea Hamilton, Arwen Undòmiel neanche esisteva. Era un nome come un altro su una lista come un’altra, del tutto anonima se solo non fosse stata uno dei suoi incarichi. Non era una questione personale, Gesù, inizialmente non lo era stata. Ora cominciava a diventarlo, perché era veramente… inutile. Ecco, inutile sembrava l’aggettivo più adatto per la donna. Un vero peccato. Fra le cose che la Hamilton disprezzava nel mondo, casualmente v’era proprio l’inutilità.
    E fu così facile, ma devo davvero specificarlo?, ingannarla. Le bastò un rapido battito di ciglia per spostarsi lateralmente d’un passo, lasciando una copia di sé stessa di fronte alla Undòmiel mentr’ella, invisibile, osservava la scena a distanza ravvicinata. Puntò la bacchetta contro la gola della finta Hamilton, mentre l’originale si portava esasperata una mano alla bocca coprendo uno sbadiglio. Troppo facile. L’odio accecava anche l’occhio più attento, vero bambolina? Malgrado tutto v’era un energia in quell’impeto, così familiare, da farle sorgere uno spontaneo sorriso sulle labbra. Ancora inutile, per carità divina, ma perlomeno divertente. Come aveva osato cercare di metterle le mani addosso? Quello era l’inizio di una guerra personale, e Rea aveva mezzi per vincere che la Undòmiel si sarebbe sempre sognata. Ma questo, forse, lo scoprirete nella prossima role che apriremo nel duemilamai. «Non sono cose scontate perchè tu non sai esattamente cosa vuoi vero Hamilton?» Oddio, che emozione, alla fine aveva ricordato il nome di Rea! Avrebbe mai potuto il suo cuore contenere tutta quell’emozione? Passò indice e pollice agli angoli delle labbra, continuando a tacere per vedere fin dove sarebbe stata in grado di spingersi. «Tu non sai cosa c'era in quella scatola che tanto cercavi di ottenere non è così?» Con quanta tenerezza continuava a sfidare il pericolo, e con quanta sciocca innocenza riportava il problema a livello personale. Forse un giorno avrebbe capito che Rea era uno strumento, e non un fine. Almeno, non al Ministero. Sguainò il pugnale, pungendosi appena il polpastrello sinistro con la lama dell’arma. Quindi, con una lentezza riservata solo a coglierne più a lungo il piacere, si avvicinò alle spalle di Arwen; non appena ella si voltò, fu rapida a far sparire l’illusione mimando uno spostamento laterale, così che nuovamente se la ritrovasse in fronte. La schiacciò contro il muro, premendo con forza la lama contro il muro ed obbligando le mani di lei, con la stretta della propria, a rimanere immobili. «Sono un soldato, non è mio compito saperlo» sibilò appena, così vicina da sentire il fiato di lei sul proprio viso. Fece schioccare la lingua con disappunto, inarcando appena le sopracciglia. «Non credo che mamma e papà sarebbero felici di questo tuo poco dignitoso comportamento» Che bastarda senza gloria né onore, la Hamilton. Ma che se ne faceva della gloria o dell’onore, quando poteva avere il mondo intero? «Ora ho quel che mi basta» Ed era vero: Arwen sapeva qualcosa, poteva tranquillamente mandare qualcuno del Ministero.
    Oppure poteva usare quell’informazione in futuro. Ardua scelta? Non per la Hamilton. Posò con delicatezza le proprie labbra su quelle della Undòmiel, nel più casto dei baci. «La prossima volta che ci vedremo, potrei non essere così gentile» Ritrasse il pugnale, volgendole un ultimo occhiolino. Si allontanò d’un passo, estraendo rapida la bacchetta per una smaterializzazione.
    L’unica cosa che fece, per ovvi motivi, fu però rendersi invisibile ed inudibile, mentre volgeva le spalle alla donna. Tornò nel buio, a confondersi con un’oscurità da tempo immemore radicata nel suo animo. Tornò nella notte, dov’era giusto che anche i mostri riponessero le armi per riposare.
    Perché tutti i mostri erano umani.

    Scheda ▴ 24 ▴ Deatheater ▴ Pensieve code role by #epicwin for obliviongdr



    Un anno e due mesi, un anno e due mesi... ma ce l'abbiamo fatta. Ci vediamo su questi schermi.... un giorno, ma cambiate pure canale nel frattempo #wat


    Edited by clàrisse - 5/1/2016, 15:14
     
    .
6 replies since 1/10/2014, 15:50   471 views
  Share  
.
Top