Fizzing whizbees

Gerard | Maya

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    Fremeva, Maya. Fremeva dalla voglia di addentrarsi in quel mondo fatto di dolciumi di cui tanto le avevano parlato. Fremeva perché, fra una cosa e l’altra, non vi era mai davvero entrata, sempre troppo presa a fare altro l’opportunità di entrare in quel magico locale con le caramelle che uscivano da ogni angoletto, anche il più remoto, non si era mai presentata alla sua porta. “Sarah! Sarah! Vieni con me a Diagon, ti prego, oggi al Red Velvet fanno gli sconti!” scuoteva insistente l’amica, stesa nel suo letto a baldacchino e troppo presa dalla sua rivista dalla copertina rosso fiammeggiante per darle ascolto. Diagon era Diagon Alley, in caso non si fosse capito, alla giovane Hood piaceva abbreviare un po’ tutto. Era convinta che troncando le parole si risparmiasse tempo, e lei detestava perderne. Sciolse la coda di cavallo non troppo lunga che si era fatta qualche ora prima, convinta di non aver molto di meglio da fare; i capelli caddero, disordinati, sulle spalle delicate della ragazza, ancora decisa ad infastidire la compagna di stanza pur di trascinarla con sé. Lentamente, come un giaguaro che aspetta il momento giusto per assalire la propria preda, si avvicinò al materasso in punta di piedi, tentando di non far cigolare le grandi assi di legno che costituivano il pavimento del dormitorio. “Che cosa stai facendo Maya?” Sarah abbassò la rivista, gettandola sul proprio petto lasciando intravedere un’espressione accigliata in pieno volto. Rimase immobile per qualche istante, non sapendo bene cosa fare, o cosa dire. Frugava negli angoli più remoti del proprio cervello alla ricerca di una qualche risposta, una di quelle capaci di farti uscire vincitrice da qualunque situazione, anche la più assurda. Scese dalla posizione da fenicottero che aveva precedentemente assunto tossendo appena, strofinando i palmi morbidi sulla stoffa dei jeans che aveva indosso, guardandosi intorno. “Io? Nulla, perchè?” fu l’unica cosa che le arrivò alla mente. Fra tanti pensieri che si divertivano ad aleggiare nella sua testa, la più banale fu quella che ebbe la meglio, divenendo voce. “Oh va bene! Ma non ti porto neanche un’ape frizzola!” disse poi sbattendo il piede in terra, come una bambina viziata, mettendo il broncio ed uscendo rapidamente dal piccolo dormitorio. Non era da lei comportarsi così, affatto, ma i dolci avevano la strana capacità di trasformarla in una persona diversa, mutarla in qualcosa che non le assomigliava neanche lontanamente.
    A passo svelto camminava per la strada principale di Diagon Alley, forse delusa di non aver trovato nessuno disposto ad accompagnarla, forse semplicemente infastidita dal fatto che nessuno volesse uscire con lei, non badava a dove mettesse i piedi; guardava le punte delle scarpe, come incantata, andare avanti, superarsi a vicenda in una continua routine apparentemente infinita. La strada la conosceva a memoria, bastava seguire il sentieri di ciottoli - ovvero la strada principale - e vi si sarebbe trovata davanti senza troppa fatica. Sembrava esser stato ideato apposta per lei, quel posto, non avendo il senso dell’orientamento particolarmente sviluppato l’idea di una via capace di condurla esattamente dove voleva andare la faceva impazzire per la felicità. Si fermò improvvisamente quando una piccola cioccorana le tagliò la strada, irriverente, seguita da un bambino piuttosto grassoccio di circa sette anni, che la chiamava a gran voce ‘Ciocco’, convinto che questa lo ascoltasse. Trattenne a stento una risata quando, impacciato, cadde in avanti, andando a colpire con la faccia proprio il dolce che era scappato dalle proprie grinfie, lasciando così che il volto gli si riempisse di cioccolato. Maya portò una mano alla bocca, spostando lo sguardo non appena si accorse che quello di lui l’aveva scoperta a ridere di lui, poi riprese a camminare, superandolo, senza dire una parola. Si incontrava gente strana a Diagon Alley negli ultimi tempi, soprattutto nella zona antistante al Red Velvet, che avesse qualcosa nell’impianto di areazione capace di render folle chiunque vi entrasse? Scosse la testa, alzandola in direzione dell’edificio che le si presentava davanti, notando con gioia la quantità di bambini - tutti piuttosto in carne - affannarsi per scegliere più caramelle possibili. Scavalcò la soglia sicura di sé, Maya, inspirando a pieni polmoni quell’aria profumata al sapore di frutti di bosco e cioccolato insieme. Nelle iridi vitree e verdi si rispecchiavano le cascate di dolcetti, gli scaffali colmi di piccole confezioni colorate e altre decine e decine di alimenti tanto odiati dai dentisti. Con gli occhi che brillavano per tutto quel panorama, andava alla ricerca disperata del suo spazio, il suo preferito: la zona dedicata alle sue adorate Api Frizzole non poteva essere troppo lontana. In punta di piedi tentava di acquistare qualche centimetro in più, allungando il collo come farebbe una giraffa per vedere quanto più possibile le si presentava davanti. Giurò di aver calpestato il piede a qualcuno e -sicuramente- di essersi aggrappata ad un paio di testoline spettinate per mantenersi in equilibrio. Scese giù solamente quando l’insegna gialla e nera che tanto cercava entrò nel suo campo visivo, permettendo ai suoi polpacci di riposarsi appena per quello sforzo appena affrontato. Maya si avvicinò, spingendo fra i corpi accalcati, in direzione di quello scaffale, quando la sua pupilla incontrò un piccolo cartello con su scritto ‘Tavolini al piano di sopra” si illuminò. Non tanto perchè probabilmente vi era un posto libero, quanto più perchè l’immagine di una sedia confortevole le apparì alla mente. E stare seduta mangiando i suoi dolci preferiti doveva essere sinonimo di paradiso per lei. Le salì rapidamente, non preoccupandosi degli sguardi confusi della gente, né di quelli divertiti dei camerieri pronti a servirla e riverirla come si farebbe con una vera a propria principessa. Si lasciò accompagnare al tavolino, poco dopo arrivò un ragazzo ingessato a porgerle il menù. Volevano farle spendere tutti i galeoni che aveva, ne era certa.

     
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  2. hello!SPANK
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    Nel mondo esistevano innumerevoli famiglie, ma come gli Spankman non ce n'era nessuna: troppo numerosi, troppo rumorosi, troppo strani. Costituivano una categoria a parte. Il più giovane di loro ne era consapevole ed orgogliosamente portava il proprio cognome come uno stendardo, camminando a testa alta per la strada mentre alcuni storcevano il naso al suo passaggio. Con la testa riccioluta inclinata ad osservare il cielo – e non il pavimento su cui posava i piedi – destava la curiosità dei passanti ignari della sua provenienza, di chi fossero i suoi genitori e di quanto caotico potesse essere vivere nella stessa casa di altre undici persone: era solo un ragazzo come tanti altri, imbacuccato nel suo pullover fuori stagione e fuori moda, che camminava distrattamente per le strade della città. Teneva le mani infilate nelle tasche dei jeans stinti e strappati in alcuni punti, mentre pigiava il terreno con le proprie scarpe da ginnastica – tipo Converse – di un nero che forse una volta era stato brillante, ma che in quel momento sembrava malaticcio e morente. Stringeva le labbra in un fischiettío costante e allegro, nonostante le cupe nubi che coprivano il cielo estivo di quella Londra un poco strana: era stata una stagione anomala, piena di temporali e piena di serate passate a giocare a carte davanti al caminetto acceso. Urtò senza volerlo un altro pedone, quasi cadendo sul marciapiede ruvido e grigiastro: si sarebbe potuto fare male, magari aprirsi il labbro e perdere quel sorriso che comunque comparve sul suo volto, perchè quella era una bella giornata e nulla l'avrebbe rovinata, nemmeno le parole e lo sguardo scortesi che l'uomo in giacca e cravatta gli rivolse mentre si affrettava ad andare via; Gerard, dal canto suo, continuò per la sua strada. Sorrideva al mondo e sorrideva alla vita, convinto del fatto che ogni momento doveva essere vissuto a pieno, a modo proprio, intensamente e senza rimpianti: lui, dal canto suo, non aveva nulla da rimproverare al suo passato. Ciò che era stato rimaneva lì, fermo, a fargli da spinta per non fermarsi mai di fronte a nessuna difficoltà, a spingerlo sempre di più oltre le sue aspettative, oltre le sue possibilità. Il futuro si, era una di quelle cose che gli facevano una paura tremenda: il pensiero dell'ignoto di dopo, anche del secondo successivo a quello che stava vivendo, a volte lo lasciava in uno stato d'ansia tale da costringerlo a ingoiare mezza o più scatola di cioccolatini. E con il pensiero dei dolci e il sapore in bocca, aveva lasciato casa di corsa prima che qualcuno potesse fermarlo: stringeva la lista della spesa – che avrebbe usato come scusa in caso ce ne fosse stato bisogno – tra le dita sudate nascoste in tasca; l'aveva arraffata di corsa dalla bacheca della cucina e se n'era andato senza avvisare nessuno, uscendo dalla porta e non voltandosi più indietro: sapeva che, se l'avressee fatto, si sarebbe trovato a lottare contro lo sguardo malinconico della zia Margareth – malata di Alzheimer e notoriamente pazza – chiusa nella stanza del terzo piano, e gli sarebbe dispiaciuto per lei, sarebbe tornato indietro e si sarebbe chiuso in camera con lei a giocare a Scarabeo. E se c'era un gioco che Gerard odiava, quello era lo Scarabeo. Non gli era mai piaciuto e probabilmente non gli sarebbe mai stato granché simpatico, nonostante si sforzasse di giocarvi per accontentare la povera anziana che si era ritrovato di punto in bianco in casa: si sentiva un po' come un badante, mentre le sorelle se ne fregavano la maggior parte del tempo, il padre non c'era mai e sua madre era sempre troppo indaffarata per prendersene cura. I suoi cugini, parenti anche della donna, vivevano dall'altra parte del pianeta, e l'altro zio, quello del quarto piano, ero un vecchio scorbutico e depresso che stava sempre dietro a borbottare qualcosa, la maggior parte delle volte incomprensibile per l'udito umano: figurarsi se si sarebbe proposto per il tedioso ruolo d'intrattenitore! No, quello era un compito che spettava sempre al giovane Spank, che ogni tanto aveva bisogno di svago. Girò di scatto in una viuzza laterale della strada, sbucando poi nella caotica Diagon Alley. Il profumo di dolci e la visione di due belle gambe lo condussero istintivamente alla vetrina del Red Velvet, probabilmente la sua versione personale del purgatorio: senza pensare al suo diabete galoppante, decise di entrare e di godersi, per almeno quel pomeriggio, una cioccolata calda e un buon dolcetto profumato. Spingendo la porta, gli fu quasi impossibile sentire il suono della campanella dell'entrata dovuto all'insistente brusio che popolava il negozio, probabilmente uno dei più frequentati della via. La quantità di gente era soffocante e fu difficile per il ragazzo ritrovare quelle gambe che gli erano tanto piaciute, attaccate ad un paio di natiche tanto bello e che aveva le sembianze di essere anche molto morbido al tatto; la proprietaria di tali qualità saliva gli scalini che conducevano al piano superiore, provvisto di tavolini e camerieri, e lui non fece altro che seguirla – aprendosi strada tra la folla a forza di gomitate e spintoni. Rapito dall'ondeggiare dei capelli castani, quasi non si accorse di essersi piantato di fronte alla ragazza e di stare a guardarla con sguardo da triglia. « Non sono uno psicopatico. » disse, convinto che ciò avrebbe reso meno strana la sua presenza lì. « Sono solo un ragazzo innamorato del tuo sedere. »



    Edited by hello!SPANK - 21/9/2014, 20:40
     
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    Con lentezza disumana Maya sfogliava il libricino che le era stato posto, mentre con sguardo luccicante si perdeva fra le immagini in movimento che lo decoravano. Ammaliata avvicinò il volto alla carta, constatando che le voci che giravano su quel locale erano del tutto fondate; inspirò animatamente, lasciando che il profumo di cioccolato fuso le inondasse le narici. Con i polpastrelli giocherellò per qualche istante con il margine della carta rigida, prendendo un’altra annusata, decidendosi solo in un secondo momento a voltare pagina. Chiuse gli occhi questa volta, senza lasciarsi distrarre da descrizioni o nomi fin troppo dettagliati e riempiti di aggettivi articolati, inspirando a pieni polmoni quel che le sembrò una torta di mele. A casa Hood la torta di mele andava sempre a ruba, sarebbe stata capace di riconoscere quell’odore ovunque. Per qualche istante le riaffiorarono alla mente i ricordi della cucina sporca, sottosopra, con bucce di mele sparse qua e la e pasta sfoglia venuta male abbandonata a sé stessa sul ripiano. Lei e la madre adottiva si divertivano a prepararla, era una delle loro specialità. Allontanò il viso dal menù, preoccupandosi per qualche istante di cosa potrebbero aver pensato le persone che la stavano guardando lì nel locale. Incontrò un paio di occhi scuri sul fondo della stanza che, piuttosto arroganti, la guardavano storto, un misto fra incuriositi e alterati da tanta ingenuità. Si ricompose Maya, deglutendo e chiudendo quel libro pieno di delizie. Non si spiegava il perché la gente non si facesse mai i fatti propri, sempre pronta a puntare il dito contro o a parlar male di te. Li sentiva bruciare sulla sua pelle, quegli occhi, che però vennero sostituiti da un altro paio, sempre scuro. Sollevò l’indice in direzione del cameriere, attirando la sua attenzione e costringendolo ad avvicinarsi. Le iridi erano castane, con qualche pagliuzza dorata, decisamente più rassicuranti del tipo che, ormai annoiato, aveva puntato la propria attenzione da un’altra parte. “Una cioccolata calda e una fetta di Come Helga Comanda Seppur fosse un’affermazione, Maya pronunciò l’ultima parte dell’ordinazione come se fosse una domanda, insicura sul nome del dolce. Le torte di mele erano buone a prescindere, non avevano bisogno di un chissà quale nome simpatico capace di far venir voglia di infilare il volto nel listino per prenderne un morso. Il cameriere la guardò sorridente, appuntando qualcosa sul piccolo taccuino ed indicandole il grande bancone dove sarebbe dovuta andare a ritirare la sua magica fetta di torta. Dopo aver opportunatamente occupato il tavolino rigirando il cartellino ‘riservato’ si alzò, affrettandosi laddove le era stato consigliato di andare il prima possibile. Poteva sentire il sapore di pasta sfoglia e cannella inebriarle il palato anche solo al pensiero di quel dolce; Maya è una buongustaia, lo è sempre stata, e l’idea di poter sperperare il suo – seppur scarso – patrimonio in dolciumi vari l’elettrizzava. A differenza del piano sottostante, lì sopra si respirava un’aria più fresca, libera, senza quell’odore di camicia bagnata che infastidiva il naso di qualunque individuo. Attese educatamente il suo turno, tamburellando con le dita sulla superficie rigida del bancone, costringendo se stessa a non appoggiare il volto sulla grande teca di vetro ed ammirare la sfilza di biscotti e torte varie che le si aprivano davanti. Si sentiva in paradiso, Maya, ma darlo a vedere l’avrebbe probabilmente portata ad avere quello sguardo inquisitore ancora una volta su di lei.
    Non appena una ragazza chiamò il nome del dolche che aveva ordinato, la giovane Hood si alzò in punta di piedi, sventolando il braccio in aria per catturare la sua attenzione. Il piccolo piattino di porcellana le venne delicatamente appoggiato sui palmi pallidi, mentre con espressione ammaliata si perdeva nella spruzzata di zucchero a velo che ricopriva la grande fetta succulenta. Si voltò rapidamente, forse fin troppo, scontrandosi con un ragazzone piuttosto alto intento a sbarrarle la strada. Seppur inizialmente l’infastidì parecchio il dover interrompere quell’attimo di amore platonico nei confronti della meraviglia che teneva fra le mani, l’aver alzato lo sguardo in direzione del volto del colpevole la fece rilassare, vedendola sorridere involontariamente. Incontrò le iridi cerulee di uno studente di Hogwarts, che aveva avuto il piacere di incontrare di tanto in tanto fra i corridoi, constatando che nulla avevano a che vedere con quelle scure del tipo ambiguo intento ad osservarla poco prima. Ne rimase incantata per qualche istante, fin quando il proprietario di esse non parlò. Avvampò visibilmente Maya, lasciando che le gote si colorassero appena. Represse l’istinto di ridere nervosamente, limitandosi a mordere l’interno della guancia, alla ricerca disperata di un qualcosa da dire. La giovane Hood era sempre stata il peperino con la risposta pronta, eppure perché in quel momento le parole non ne volevano sapere di uscir fuori? ‘Ed io del tuo baby’ si ritrovò a pensare, ricordandosi di un pomeriggio quando, al castello, lei e Sophie avevano passato l’intero pomeriggio a stilare una classifica dettagliata sui ragazzi dell’ultimo anno. La voce dell’amica le risuonava nella mente, ridendo ed enfatizzando sul come quel Gerard non passasse affatto inosservato per il castello. “Ed io una ragazza innamorata di questa torta” le parole uscirono da sole, talmente veloci che neppure se ne rese conto. Avevano agito di loro spontanea volontà, uscendo dalle sottili labbra della ragazza senza richiederne il permesso. Trattenne un’altra volta l’impulso di emettere una risatina nervosa, indicando con lo sguardo il dolce che teneva sotto il naso. Ogni annusata era un colpo al cuore, per Maya, doveva assaggiarne un pezzo, e doveva farlo subito. “Quindi se non ti dispiace” con poca eleganza superò il ragazzo, rischiando di perdere l’equilibrio un paio di volte quando dei ragazzini grassottelli decisero all’ultimo momento di tagliarle la strada. Sana e salva giunse nel suo rifugio sicuro, concentrata unicamente sul piccolo angolo di paradiso che aveva deciso di esplorare e che la guardava, con occhi dolci, dal basso.

     
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  4. hello!SPANK
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    Spank aveva sempre avuto una strana malinconia dipinta nello sguardo, il sottile disegno della dolcezza che ormai aveva dimostrato essere insita nella sua natura; era il ragazzo simpatico che palpava il sedere alle cameriere e aiutava le anziane ad attraversare la strada. Quegli occhi erano grandi e azzurri, ma tanto caldi e tanto accoglienti! Era facile rifugiarsi in essi – come d'altronde erano comodi anche i suoi abbracci – lasciarsi andare a quella sensazione di tranquillità che naturalmente infondevano quando lui lo desiderava: iridi espressive come la più bella delle maschere del Carnevale, che saltavano allegre quando eccitato e si scioglievano in gelido liquido quando la tristezza gli stringeva il cuore. In quel momento, poi, avevano acquisito una speciale tonalità di languido blu dovuto alla piacevole sorpresa: in piedi, davanti a lui, non c'era altro che Maya Hood; si, quella morettina tanto carina che sentiva spesso chiacchierare rumorosamente in Sala Grande durante l'ora di studio e che a volte si era ritrovata ad essere l'oggetto delle sue osservazioni maschiliste e un poco stereotipate tipiche degli adolescenti in fase ormonale, quali “Io me la farei” – e se non uguali, per lo meno simili. Certo, se qualcuno lo avesse saputo, ne sarebbe rimasto sorpreso: essendo Gerard uno studente dell'ultimo anno si sarebbe potuto pensare che il resto dello studentato non gl'interessasse, che gli piacesse farsi i fatti propri e che non si accorgesse di come le tette delle ragazze del terzo anno crescessero sotto alle camicette di fine cotone bianco della divisa scolastica. Ma ai vispi occhi del ragazzo non sfuggiva nulla, nemmeno il rossore che in quel momento cominciava a colorare le gote della tassorosso che faceva da scudo tra lui e la vetrinetta delle torte: non immaginava che, con le guance così tinte, arrivasse ad essere tanto bella. Spesso l'aveva vista sorridere o ridere e l'aveva intravista di rimando mentre attaccava il suo pudding la mattina a colazione, ma mai si era intrattenuto ad osservarla con più attenzione di quella che usasse anche a tutte le altre ragazze degne di essere chiamate tali del dormitorio. In quel momento però, vista da così vicino e in una situazione che sfociava amaramente nell'imbarazzante, la trovava terribilmente attraente: i capelli lunghi erano stati lasciati sciolti, ricadendole sulle spalle come una lucente stola di seta color cioccolato; le labbra carnose erano premute in una sottile linea di disdesgno, dettaglio che la rendeva se era possibile ancora più carina. Le mani stringevano con veemenza il piattino con la torta che probabilmente stava desiderando di poter addentare. « Ed io una ragazza innamorata di questa torta » Jerry, non aspettandosi una risposta del genere, si trovò spiazzato. « Ora, se non ti dispiace. » lo schivò, superandolo con una nonchalance degna della più grande tra le dive. Uno sbuffo di disapprovazione uscì spontaneo dalla bocca del ragazzo, che però non distolse lo sguardo nemmeno per un secondo: segnandosi mentalmente dove la vedeva sedersi, si mise in coda per acquistare a sua volta una fetta di dolce. Con ben quindici persone davanti a lui, si ritrovò a pregare Batman che la huffle non avesse già terminato la sua torta e non fosse scappata via. « Cosa ti servo? » la voce della cameriera gli fece esplodere un cordialissimo sorriso sulle labbra, mentre maleducatamente le indicava con la punta dell'indice la mora seduta qualche tavolto più in là. Quello che mangia lei. Due porzioni. disse. Estrasse il portafoglio sgonfio dalla tasca dietro del pantalone. Poche monete ne uscirono tintinnando, a malapena sufficienti a pagare il conto del locale: per tornare a casa probabilmente avrebbe dovuto vendere il proprio corpo a qualche strega di passaggio. Con un piattino per ogni mano si allontanò dalla coda e si diresse al tavolino dove la giovane attaccava l'ultimo boccone di dolce: con non curanza, come se non significasse nulla, Gerard le lasciò scivolare la nuova fetta davanti al naso. Poi con un sorrisetto sornione, come sempre, le si sedette di fronte ed arraffando una forchettina provò a sua volta quello che doveva essere un pezzo di cielo e zucchero. « Cristo, quanto è buona. » e in effetti, lo era. Calda, bagnata... e spugnosa. Inghiottì. « Anche se ho la strana sensazione che le tue labbra devono essere ancora più dolci. » Si godette senza battere ciglio la reazione.

    Edited by hello!SPANK - 21/9/2014, 20:41
     
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    La torta giallognola si rifletteva nelle iridi chiare di Maya che, seppur scossa dal precedente incontro, si ritrovò con la forchettina argentata stretta fra i polpastrelli e le natiche ben poggiate sulla sedia legnosa in brevi istanti. Si crogiolò del profumo che quel dolce perfetto emanava, domandandosi se potesse superare in sapore la ricetta casalinga che tanto amava. Per la giovane Hood mangiare corrispondeva ad un attimo di raccoglimento, di preghiera, era uno di quei momenti della giornata che non potevano essere semplicemente ignorati perché fondamentali. Con decisione, ma allo stesso tempo con estrema lentezza, impugnò il piccolo arnese, affondandolo negli strati di pasta sfoglia e pezzetti di mela che costituivano la struttura di quella torta. Fece per avvicinare il boccone alle labbra, ma si accorse dei soliti occhi curiosi intenti ad osservarla, infastidendola. Arrivata allo stremo della sopportazione, e con la forchetta strabordante di paradiso allo stato solido, incastrò lo sguardo a quello dello sconosciuto, assottigliandolo ed aggrottando la fronte. Lì per lì pensò di assumere un’espressione più minacciosa, intimidatoria, ma si accorse ben presto di non esserne capace. Accorgendosi comunque di aver ottenuto l’esito sperato, permise al dolce di sprofondare fra lingua e palato. Un turbine di emozioni si impadronì di Maya: eccitata, rilassata, si sentì improvvisamente catapultata su di pianeta differente. Catapultata fuori dalla sua bolla e trascinata dolcemente in un’altra, più soffice e confortante, chiuse gli occhi emettendo diversi gemiti di piacere. Okay sì, non doveva sembrare del tutto normale agli occhi estranei, ma poco le importava tanto era concentrata sul suo piacere personale. Elettrizzata, accelerò il ritmo, impugnando la forchetta con più entusiasmo e decisione, fiondandosi letteralmente sulla piccola fetta. Ma come le belle esperienze, anche quella arrivò al termine, forse troppo velocemente secondo l’opinione di Maya. Si accorse tardi di aver esagerato, si maledisse mentalmente per non aver assaporato nel migliore dei modi ciò che le si presentava davanti, mortificata guardava il piatto vuoto, bianco. E le venne in mente di raccogliere le briciole, alla ricerca disperata di quel paradiso che aveva visitato fin troppo in fretta, senza deliziarsi dei particolari. Inutile dire che quando nel suo campo visivo apparve miracolosamente un secondo piatto, con la colpevole al centro dotata di zucchero a velo e tutto il resto, il suo cuore buono perse un battito. Spalancò gli occhi estasiata, sollevandoli rapidamente in direzione dell’artefice di tale gesto. Un mare la investì, e non le ci volle molto per collegare quelle iridi azzurre al ragazzo innamorato del suo didietro, mentre prendeva posto al suo stesso tavolino. Sorrise involontariamente, Maya, alla visione delle fossette di Gerard che, delicate, venivano fuori a fare la loro bella impressione. E sorrise ancor di più notando il dolce che teneva anche lui nel piatto. Distanziò delicatamente il suo vuoto per far spazio al nuovo più che fornito, costringendosi a non indossare i panni da psicopatica e a mangiare come un qualunque comune normale. Nonostante le buone intenzioni ci fossero, non appena l’angolino spigoloso ma soffice entrò in contatto con le sue pupille gustative un altro gemito di piacere uscì dalle sue labbra. Avvertì il cervello comandarle di scusarsi e smetter di emettere suoni ambigui, ma non gli diede ascolto “Oh, portami un’altra fetta di questa e te le faccio assaggiare quanto ti pare” un brivido le percorse tutto il corpo non appena si rese conto di ciò che uscì dalle labbra sottili. Non che le dispiacesse, insomma, con Sophie le era capitato più di una volta di fantasticare sul bel grifondoro dagli occhioni azzurri. Si tappò ugualmente la bocca con altra torta, arrossendo violentemente, deglutendo con forza per mandarla giù senza neppure masticarla, tanto era il nervosismo. “Dimentica quello che ho detto, ti prego” avvertiva le gote non voler tornare al loro colorito originale, rimanendo impuntate su quel rosa fin troppo acceso che non riuscivano a dare a Maya l’aspetto che avrebbe preferito per quell’occasione. Se ne andavano sempre per conto loro, le sue guance, prepotenti, noncuranti dei mille complessi che affioravano nella mente della giovane ragazza. Si sentiva debole, vulnerabile, e probabilmente lo era anche, ma l’idea di mettere al corrente chiunque la circondasse su cosa le frullasse per la mente la infastidiva. “Grazie per la torta comunque” biascicò. Nonostante l’idea che Gerard si fosse impadronito dell’altra metà del tavolino non le andasse a genio, il fatto che le avesse fornito un altro piccolo angolo di paradiso la tranquillizzò, facendogli acquistare punti.

     
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