Essence of Dittany

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    Evan Devereux
    Slytherin • 17
    «In the blood I fulfilled myself»


    Aveva raggiunto il suo baule, dopo aver fasciato la nuova ferita con un rapido incantesimo.
    Una brutta infezione sul braccio sinistro, conseguenza del suo mutilarsi nei luridi spogliatoi del Campo da Quidditch, gli aveva impedito d’infierire ancora su quell’arto. Conscio che tentare di incidersi il braccio destro con il fastidioso impedimento attorno al gomito del sinistro avrebbe portato solo a conseguenze più disastrose del tetano che, con grande probabilità, si era preso a causa di quella saputella dell’Italie, decise di ripiegare su altro. Le gambe, che portavano molti meno segni rispetto ad altre parti del suo corpo, gli erano sembrate una buona alternativa.
    Un taglio preciso, con la solita lametta che nascondeva in una piccola scatola dietro al lavandino, lungo il polpaccio destro. Una ferita più profonda del solito. Non era abituato allo strato più resistente d’epidermide che celava i muscoli, più tonici e sviluppati, delle gambe. L’esperienza avrebbe giovato, così com’era stato per i polsi.
    La prima volta era quasi morto dissanguato, vittima di quel panico che l’autoconservazione gli suggeriva e che solo dopo aver soffocato quel poco che gli rimaneva della sua coscienza era riuscito a superare.
    Per questo non perse la calma, quando constatò che, sotto i vestiti e i libri, la sua boccetta d’Essenza di Dittamo era vuota. Con quelle poche gocce che gli rimanevano, addossate alle pareti di vetro della bottiglietta, non avrebbe mai potuto fermare l’emorragia che, nonostante la sua pacatezza, stava dissanguando il suo corpo.
    Per questo, dopo aver cambiato rapidamente con la bacchetta la benda attorno al polpaccio, già zuppa di sangue, si avviò verso l’infermeria.
    Era notte. Hogwarts dormiva e lui era silenzioso, anche in quello stato. Ma, soprattutto, conosceva a memoria i turni di ronda. Aveva studiato a lungo i professori e i prefetti. Fino a saperne a perfezione le abitudini.
    Correva un rischio non da poco, questo era certo. Ma l’alternativa era morire dissanguato e non poteva permetterselo: non che non volesse, ma, prima, doveva ritrovare suo fratello Aaron. La liberazione, la morte, sarebbe potuta venire solo dopo.
    Non aveva a disposizione il tempo necessario per lanciare gli incanti dissimulanti. Quella maglietta e quei pantaloni corti non celavano nulla di ciò che, nel corso degli anni, aveva fatto al proprio corpo. Una ragnatela di cicatrici. E il suo sguardo spento.
    Il suo cervello si era spento appena, zoppicando, si era richiuso la porta della sua camera alle spalle. Si riaccese solo quando, dietro di sé, vide uno spiraglio di luce. Le ante dischiuse dell’infermeria.
    Rapido, corse verso l’armadietto dei medicinali. Cercando di fare meno rumore possibile, mosse qualche boccetta. La bende, dopo tutto quel risalire le scale dalle profondità dei sotterranei di Hogwarts, erano nuovamente cremisi.
    La vide. Mosse una mano per prenderla. Sentì il contatto con il vetro gelido.
    Si stupì. Sentiva ancora.
    Avvertì un rumore dietro di sé.
    Era stato scoperto. Si preparò a mentire, come era solito fare. Eppure, in quell’istante, quando già la sua mente correva verso una scusa, comprese veramente la situazione. Era nudo.
    Completamente, nonostante i vestiti. Il suo segreto svelato si tramutò in un bagliore di panico nei suoi occhi.


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  2. *Tristan*
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    chace12
    Tristan Rosier
    Infermiere • 25
    «Non può esistere l'arcobaleno, senza pioggia...»


    Dormiva, stranamente. Un sonno leggero dava sollievo alla sua mente e alle sue membra. Le solite immagini tristi e sanguinose si mescolavano ad espressioni felici. C’era Ilary, nel suo sogno. Rideva.
    E poi c’era Perseus. E suo padre. Era come rivivere i flash della sua vita in maniera scomposta. C’era Karen, il ciondolo che si illuminava. E poi di nuovo facce terrorizzate e dolenti di persone torturate.
    Era un misto. Era la sua vita.
    Si svegliò di sua volontà, forse stanco di tutta quella confusione nella sua testa. Ora c’era solo il chiarore della lampada che aveva lasciato accesa. Bevve una sorsata d’acqua, rendendosi poi conto di essersi addormentato vestito. Ma la tuta era abbastanza comoda da non intralciargli i movimenti.
    Si alzò, accostandosi alla finestra del piccolo alloggio adiacente all’infermeria, quando sentì un rumore.
    Qualcuno era entrato.
    Qualcuno che probabilmente aveva bisogno del suo aiuto.
    Sfoderò la bacchetta (non si è mai troppo prudenti), ed entrò in infermeria, accendendo la luce.
    Una figura si muoveva furtiva avanti all’armadietto dei medicinali, cercando qualcosa.
    “C’è un motivo per cui l’armadietto è aperto. Lo è perché chiunque può prendere ciò che gli serve, senza entrare di soppiatto di notte…basta chiedere”.
    Disse quasi svogliato, con la testa ancora da un’altra parte.
    Uno studente fuori dai dormitori. Un bocconcino succulento per chi smaniava all’idea di torturare qualcuno.. ma non per lui. Non gli interessavano più quel genere di cose.
    Si avvicinò, e vide le fasce cremisi, rendendosi conto di essersi sbagliato.
    “Per gli dei, stai sanguinando!!”
    Esclamò poi affrettando il passo. Era ferito al polpaccio.
    “Che…?”
    Che ti è successo? Avrebbe voluto chiedere. Ma poi lo sguardo passò alle sue gambe, e alle sue braccia esili.
    Rimase quasi impietrito. Aveva tagli e cicatrici su tutti gli arti. Tagli netti, precisi, non legati alle torture.
    Erano tagli auto compiuti, ferite inferte per masochismo forse, o per motivi che non conosceva.
    Guardò il ragazzo, incrociando i suoi occhi scuri. Non sapeva che fare, né che dirgli.
    Un passo alla volta. Prima avrebbe curato la ferita recente.
    “Siediti.”
    Disse in tono tranquillo, indicando il lettino accanto.
    Non sarebbe stato facile, lo sapeva. Lo vedeva dal suo sguardo spaventato..lo sguardo di un’animale in gabbia che non ha via di fuga.
    “Come ti chiami!?!”
    Chiese, cercando di farlo sentire a proprio agio, e cercando di allontanare quel senso di oppressione e preoccupazione che attanagliava il suo stomaco ogni volta che guardava quei segni incisi nella carne.
    Era così giovane, eppure dannato.


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  3. ~e.d.
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    Evan Devereux
    Slytherin • 17
    «In the blood I fulfilled myself»


    Era pronto a tutto, ma non a quello. Era stato uno stupido a pensare di riuscire ad intrufolarsi nell’infermeria senza essere scoperto. Avrebbe dovuto lanciare su di sé gli incanti di Dissimulazione, come era solito fare. No, lui non era preparato ad essere svelato.
    Lui doveva essere perfetto. Lui non poteva sbagliare. Eppure, lui era imperfetto, tanto. Eppure, lui continuava a sbagliare. Stava perdendo il controllo.
    Aveva bisogno di altro dolore: la sofferenza gli donava una straordinaria lucidità. Prima ancora di voltarsi, la sua mano corse sul gomito sinistro e premette con forza. Quella ferita infetta, in cui le sue dita avevano scavato con violenza, gli mandò una fitta violenta alla testa.
    Doveva mentire. Sempre.
    Dove aveva lasciato la sua bacchetta?
    Era l’infermiere. In pochi attimi si sentì sommerso di parole. Lo aveva visto. Non gli era sfuggito nulla.
    Doveva mentire. Comunque.
    «Quella?» gli chiese, facendo un cenno alla ferita sul polpaccio «Non è nulla di che». Sorrise, educato e gentile. Come se il rivolo di sangue che stava scendendo lungo la sua gamba dalla benda zuppa e dipanata non fosse nulla. Non era nulla, si corresse. Avrebbe voluto aggiungere che aveva visto di peggio, ma non lo fece.
    Sarebbe stata una verità.
    «Mi spiace averla svegliata» esordì poco dopo, portandosi una mano alla testa e spettinandosi un po’ i capelli «E mi spiace anche d’essermi intrufolato qui di soppiatto. Volevo un po’ di Pozione Pepata, penso d’essermi preso l’influenza».
    Se la mano di quel ragazzo, poco più anziano di lui, si fosse sporta per poggiarsi sulla sua fronte, avrebbe sentito il calore della febbre. Certo, questa era generata dall’infezione e non da un malanno stagionale, ma, fino a quando aveva la benda attorno a quella ferita, lui non poteva saperlo.
    «Sarei venuto domani mattina, prima delle lezioni, a dirle di questa mia visita» continuò dopo qualche istante «Glielo giuro».
    Quelle parole dovevano apparire come una pregante implorazione: era uno studente, scoperto di notte fuori dal proprio letto oltre l’orario del coprifuoco, doveva apparire spaventato, timoroso di finire nella Sala delle Torture. In realtà, non vedeva l’ora di finire in quella stanza. Smaniava all’idea che qualcuno gli desse il cambio, visto che le troppe ferite, oramai, gli impedivano di infierirsene altre con la stessa sicurezza di un tempo.
    Come a comprovare la sincerità delle sue parole, lasciò che, nel suo pugno chiuso, l’etichetta della Pozione Pepata, che aveva preso casualmente in mano mentre cercava di avvicinarsi all’Essenza di Dittamo, fosse ben visibile. In un qualche modo, sperava che l’attenzione dell’uomo si concentrasse solamente su quella boccetta scura. Non sulla sua pelle. Non su quella serie di cicatrici che risaliva la sua carne sempre con maggiore ferocia.
    Perché lui era lì, di fronte ad uno sconosciuto potenzialmente pericoloso, che cercava di tenersi addosso in tutti i modi un rattoppo di vestito.
    Gli aveva detto di sedersi e gli aveva chiesto come si chiamava. Evan aveva opportunamente evitato entrambe le richieste.
    La sua voce mostrava sicurezza. Il suo corpo, invece, con quelle sue mani dannate che continuavano a scorrere il lungo e in largo cercando di coprire più possibile, facevano trasparire che, dentro al suo petto, purtroppo, c’era ancora qualcosa. Era paura.
    Evan Devereux era un animale braccato che cercava di trovare una soluzione da quella spiacevole situazione. Era spalle al muro.
    Per questo quel suo passo, che in tutti i modi cercò di non rendere claudicante ma che, purtroppo, gli riuscì comunque alquanto traballante, stonò con le sue parole.
    «Io tornerei a letto» provò «Penso d’aver bisogno di dormire un po’».
    Era passata una settimana da quando era riuscito a chiudere gli occhi per più di un’ora. Di solito, rimaneva chiuso in bagno, costretto in un angolo, raggomitolo su di sé contro il pavimento gelido ad aspettare che il troppo sangue perso lo facesse svenire.


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  4. *Tristan*
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    chace12
    Tristan Rosier
    Infermiere • 25
    «Non può esistere l'arcobaleno, senza pioggia...»


    Cosa può fare uno studente sorpreso fuori dai dormitori di notte, a far qualcosa che non dovrebbe fare, se non negare l’evidenza ed inventarsi una storia credibile?
    <<quella? Non è nulla di che.»
    Deviò il ragazzo, con sorrisino innocente. Tristan sopirò, alzando gli occhi al cielo.
    “Certo, ma voglio lo stesso darci un’occhiata. Se non è niente farò in un’attimo”.
    Cielo, ma perché doveva rendere tutto più difficile?? Era grande, non un bambino che ha paura della puntura.
    «Mi spiace averla svegliata. E mi spiace anche d’essermi intrufolato qui di soppiatto. Volevo un po’ di Pozione Pepata, penso d’essermi preso l’influenza. Sarei venuto domani mattina, prima delle lezioni, a dirle di questa mia visita».
    Sembrava sincero, e davvero dispiaciuto, ma qualcosa non quadrava, e lui lo sapeva.
    “Non devi scusarti, è il mio lavoro…ma sappi che hai rischiato grosso a venire qui a quest’ora. Puoi prenderla, comunque. E’ accanto a quella del dittamo che hai appena preso, e che credo ti serva anch’essa.”
    Disse semplicemente guardando la benda sanguinante, e lasciando intendere che la sua storia non reggeva. Non aveva bisogno di giustificarsi…insomma, non in infermeria.
    Anche se quei segni sul suo corpo continuavano a dargli quel forte senso di impotenza e apprensione, verso quel ragazzo, che cercava di difendere sé stesso anche in quelle circostanze.
    Il ragazzo ignorò il suo invito a sedersi, ed eluse le sue domande.
    Era come un’animale in cattività, pronto a scappare per tornare nell’habitat in cui si sentiva protetto.
    «Io tornerei a letto. Penso d’aver bisogno di dormire un po’».
    Tristan alzò il sopracciglio. Era buono e caro, ma non gli piaceva essere preso in giro.
    “Temo sia impossibile. Ci sono le ronde, e tu sei fuori dal dormitorio. Hanno già fatto fuori uno della tua età ieri, nella Sala delle Torture, e non intendo vederti fare la stessa fine. Puoi dormire qui, se vuoi.”
    Disse in tono calmo, ma leggermente più freddo.
    “So cosa sono…” disse accennando ai segni che creavano orribili disegni sulla sua pelle.
    “E se ciò di cui hai paura è l’essere giudicato, sappi che non lo sarai. Voglio solo aiutarti…Evan”.
    Calcò un po’ più quel nome, mantenendo un tono calmo e rassicurante, guardandolo negli occhi. Ebbene si, sapeva come si chiamava. O meglio aveva collegato il volto al nome ora che lo aveva più vicino. Coglierlo di sorpresa, era questo l’obbiettivo.
    “Per favore…”
    Chiese infine con un filo di voce, sperando che collaborasse. Non voleva vederlo finire in Sala Torture, come vittima, o peggio, come aguzzino. Già, perché infliggere dolore e morte era una punizione ben più severa del riceverne. E i mangia morte lo sapevano…sapevano far leva sulle debolezze altrui. Ti leggevano nella mente, carpivano segreti, ti mettevano di fronte alle tue più grandi paure. Lo avrebbero ridotto in pezzi in un istante.
    Ma lui voleva proteggerlo. Il perchè?? Non lo sapeva...forse vedeva qualcosa in fondo a quegli occhi scuri... o forse era semplicemente stanco di tutta quella violenza.


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  5. ~e.d.
         
     
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    Evan Devereux
    Slytherin • 17
    «In the blood I fulfilled myself»


    L’infermiere conosceva il suo nome. E sapeva anche cos’erano le sue cicatrici.
    Si atteggiava, poi, come qualcuno che era a conoscenza di quale fosse la cosa giusta da fare, di quale comportamento fosse il più corretto da adottare e di quali soluzioni avrebbero finalmente messo fine ai suoi problemi.
    Nei suoi occhi leggeva come, rapidamente, lo stava circoscrivendo in un cerchio. Eppure, Evan sapeva bene che ciò di cui il giovane uomo si vantava di comprendere, in realtà, non era altro che una strato superficiale di ciò che lui era veramente. Una scorza ricolma di cicatrici e un paio d’occhiaie pesanti su un corpo tormentato.
    Percepiva nitidamente che l’altro stava cercando, per motivi che non conosceva, d’aiutarlo e di proteggerlo, ma non riusciva ad accettare che ciò fosse rivolto a lui. Lasciarlo fare, lasciare che fossero le mani di qualcun altro a sfiorare le sue ferite, a curarlo, sarebbe stato un modo per volersi bene, per aiutarsi. E lui, maledizione, non voleva farlo. Non riusciva a farlo.
    Aveva bisogno del dolore, aveva bisogno di farsi del male, aveva bisogno di punirsi. Non meritava altro.
    Sapeva che non sarebbe riuscito ad accettare il contatto di un estraneo sulla propria pelle nuda. Sulla sua carne maciullata non nascosta da un incantesimo Dissimulante.
    In passato aveva ceduto spesso il suo corpo, nella sua interezza e senza alcuna riserva, come se fosse una merce da porre in vendita, come un qualcosa di cui era smanioso di liberarsi. Eppure, aveva concesso loro sempre una bugia. Una menzogna perfetta che pacificava il suo rimorso, ma che adempieva perfettamente anche al suo di compimento.
    No, non riusciva ad accettare d’essere toccato.
    Eppure, sapeva che quel ragazzo, padrone di quel piccolo mondo che era l’Infermeria grazie ad una laurea in Medimagia, non gli avrebbe permesso di andarsene da lì. Quindi rimaneva immobile, implorando che quella situazione si dissolvesse nella fragilità di un sogno e sperando che un’idea lo illuminasse.
    Non accadde nulla. La sua testa rimase vuota. Dopo quel “per favore” i suoi pensieri parvero sentirsi in dovere di non aggiungere più nulla.
    Avrebbe potuto maltrattarlo, spingerlo ad odiarlo, così da causarsi altra sofferenza, ma non lo fece. Avrebbe potuto rispondergli in malo modo e ricordargli che la ronda c’era anche quando, non molto tempo prima, era uscito dal suo dormitorio per venire in quel luogo.
    «Non ho bisogno d’aiuto».
    Quelle parole, ultimo baluardo della sua fragilità, gli uscirono dalla voce come una costatazione strascicata. Non c’era tenacia o arroganza, nella sua voce. Era un debole tentativo di convincersi che poteva sopravvivere anche da solo. Anche senza che nessuno gli porgesse la mano. Lo toccasse.
    Evitava il suo sguardo. Era lì, immobile nella sua vergogna. E nel timore.
    «Faccio da solo» aggiunse poi, mentre, afferrando la boccetta d’Essenza di Dittamo, si allontanava dall’infermiere.
    Zoppicando, senza mascherare più l’evidente dolore che la ferita gli procurava, sanguinando copiosa, si avviò verso l’ultimo lettino. Era vicino alle ampie finestre che davano su quella notte oscura e, poi, sul Lago Nero. Si sedette e tirò piano al busto la gamba.
    Il dolore, quando compì quel movimento, fu lancinante. Non placò i suoi tormenti.
    In quel momento semplicemente non ne aveva. Non c’erano segreti da nascondere, né bugie da raccontare.
    Vide le proprie mani cominciare a tremare e non capì. Non capiva perché il suo cervello, ora, ordinava al suo corpo di smetterla, di non continuare a mutilarsi, di concedersi qualche istante di pace. Una tregua.
    Perché si conosceva abbastanza da sapere che, se avesse sciolto quella benda, avrebbe ricominciato a ferirsi. Lì, senza ritegno né autostima.
    «Ho bisogno di una mano».
    Ripensandoci poi, in futuro, non avrebbe saputo dire come quelle parole fossero uscite dalla sua bocca. Eppure, dopo anni, finalmente le sue labbra avevano composto una frase sincera.


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    Edited by ~e.d. - 14/6/2013, 01:12
     
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  6. *Tristan*
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    chace12
    Tristan Rosier
    Infermiere • 25
    «Non può esistere l'arcobaleno, senza pioggia...»


    «Non ho bisogno d’aiuto».
    Aveva di nuovo ignorato tutto ciò che gli aveva detto, ed aveva costruito un muro ancora più alto. La sua corazza impediva agli altri di fargli del male…ma non lo salvava da se stesso.
    Tristan rimase immobile, vicino all’armadietto dei medicinali continuando a fissarlo.
    “D’accordo.”
    Restò immobile mentre lo vide dirigersi zoppicante verso l’ultimo lettino, con la boccetta di essenza di dittamo in mano. Non disse nulla.
    Si chiese solo il perché di tutto questo. Perché un ragazzo così giovane doveva ridursi così? Gli dispiaceva davvero, vedere un così giovane studente accanirsi sul suo corpo. Per cosa poi? Per allontanare il dolore mentale? Per affogare i pensieri nel sangue?
    Non lo sapeva. Sapeva solo che lui non ci era riuscito.
    Ci aveva provato una volta. Era quasi morto dissanguato. Ma quando aveva capito che il suo tormento non se ne sarebbe andato aveva fermato il rivolo cremisi.
    Aveva provato con le droghe, con l’alcool, con l’amore.
    Nulla era servito ad annegare i sensi di colpa, o a cancellare dalla sua mente gli occhi delle persone che aveva ucciso con le sue mani.
    Sentiva le loro voci ogni notte, si sentiva investito dai loro sguardi privati dell’innocenza. Aveva fatto la sua anima in pezzi per diventare qualcuno, ed invece si era ridotto ad essere un relitto.
    Un anima dannata che cercava redenzione nelle persone che incontrava, che inseguiva fantasmi per avere risposte che non avrebbero cambiato nulla.
    Chissà cosa lo spingeva ad odiarsi tanto? Che la sua anima fosse macchiata quanto quella dell’infermiere che voleva curarlo? Che avesse anche lui bisogno di espiare delle colpe? O forse il disagio aveva un’altra fonte?!? Ciò che era certo era che quella storia durava da molto, visti i tagli, e che il ragazzo non aveva mai affrontato la situazione.
    Ma poi alcune paroline lo svegliarono da quei suoi pensieri.
    «Ho bisogno di una mano».
    Tristan alzò lo sguardo verso di lui, come risvegliato da un sogno.
    Si era esposto. Aveva avuto coraggio…Già, perché ci vuole molto più coraggio per chiedere aiuto, che per andare avanti da soli.
    Annuì, e si avvicinò a lui, prendendogli la gamba delicatamente, e stendendogliela.
    Guardò un’attimo la ferita, poi, senza dire una parola si avviò verso l’armadietto, prendendo una fiala rossa. Poi tornò da lui.
    Il muscolo è reciso…” . Disse, tanto per rompere il silenzio, e per informarlo su ciò che stava facendo al suo corpo. A quel corpo di cui era tanto geloso.
    “Questa pozione è più potente del dittamo…Ripara i tessuti, prima di cicatrizzare, e previene le infezioni.”
    Ne passò alcune gocce sul taglio, e questo si richiuse pian piano. Anche il muscolo ne sarebbe uscito riparato. Certo, la cicatrice sarebbe restata, ma per quella non avrebbe potuto far nulla, come per le altre, d’altronde.
    Evitò di fare domande, anche se ne avrebbe avute un milione. Ma lui sicuramente non avrebbe risposto.
    Notò poi la fasciatura al braccio. Lo piegava goffamente, e non totalmente.
    “Posso fare qualcosa per il tuo braccio??”
    Stavolta chiese il permesso, evitando di urtarlo ancora di più.
    Ma nonostante sorridesse il senso d’oppressione allo stomaco non si allontanava. Era lì, come una bestia che gli graffiava sotto lo sterno.


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    Evan Devereux
    Slytherin • 17
    «In the blood I fulfilled myself»


    I suoi occhi, vuoti ma attenti, si focalizzarono su quel giovane uomo.
    Era alto, certamente più di lui che rimaneva ancora seduto sul lettino. Il suo sguardo ceruleo correva rapido lungo il suo corpo, constatando cose che lui non poteva sapere. Lo osservò studiare con attenzione la profonda ferita che si era inferto sul polpaccio. Gli disse che aveva reciso il muscolo.
    Per un attimo, non poté scacciare il pensiero che avrebbe potuto scendere più in profondità. I suoi capelli, mentre era chino su di lui, si riempirono di riflessi tremuli. Le candele, con le loro fiaccole insicure, sfumavano quel castano chiaro in una venatura di fiamma.
    Lo vide allontanarsi dal lui. Per quanto sapesse che la buona educazione sconsigliava di farlo, trasse un forte respiro di sollievo quando le sue mani smisero di toccarlo. Per quando gentili e dal tocco leggere, gli erano estranee. Sconosciute.
    Lo osservò tornare con una boccetta rossa. Cercò di memorizzarne la forma, poi, sarebbe stato il turno dell’odore. Si conosceva abbastanza, infatti, da sapere che ne avrebbe avuto ancora bisogno.
    Tristan Rosier.
    Quello era il nome dell’infermiere. Non sapeva neppure quando lo aveva imparato.
    Quando gli chiese se poteva fare qualcosa per il suo gomito, si limitò ad avvicinarglielo, dopo aver tolto la benda. Non era uno spettacolo particolarmente affascinante.
    L’infezione era grave e tutto il gomito, gonfio e arrossato, portava i segni evidenti di un’eccessiva trascuratezza. Avrebbe dovuto prendersene maggiore cura. Constatò, con un’espressione non proprio entusiasta, che si era formato anche del pus.
    «Devo fare presente alla Italie che dovrebbe far pulire gli spogliatoi» commentò, cercando di riacquistare la sua maschera. Scherzare e attirare l’attenzione su altro, questa era spesso la sua strategia.
    Non riusciva a pensare a nulla, se non al bruciore diffuso che quelle dita affusolate gli lasciavano sulla pelle.
    Avrebbe voluto aggiungere altro, ma non aveva nulla da dire.
    Silenzio.


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  8. *Tristan*
         
     
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    Tristan Rosier
    Infermiere • 25
    «Non può esistere l'arcobaleno, senza pioggia...»


    Era come trovarsi a maneggiare un’oggetto antico di cui non conosci la funzione. Presti attenzione a non scalfirlo, ma non sai bene come muoverti, perché potresti danneggiare parti che magari non ritieni importanti, e che invece sono funzionali all’oggetto stesso.
    Ovviamente il paragone è un po’ freddo, e non rispecchia appieno la realtà.
    Ma quel ragazzo era uno scrigno chiuso, e ad ogni passo temeva di innescare la reazione sbagliata in lui. E la brava di aprire quello scrigno dovette lasciare spazio alla massima cautela.
    “Ferula”…Disse puntando la bacchetta sulla ferita ormai richiusa. Bianche bende la avvolsero. Avrebbero evitato che si infettasse, ed avrebbe dovuto tenerle per poco.
    Passò poi ad esaminare il suo braccio, che il ragazzo gli porse senza fare obbiezioni stavolta.
    Aveva un taglio, in condizioni pessime. L’infezione correva per tutta la ferita, e probabilmente era anche dentro. Il continuo rigetto di pus e sangue le impediva di cicatrizzare normalmente.
    Guardò il ragazzo dubbioso, passandogli poi la mano sulla fronte. Scottava, segno che l’infezione era estesa.
    E lì il dubbio gli si ripresentò avanti. Cosa poteva indurre un giovane della sua età a trascurarsi ed odiarsi così tanto, da rischiare di morire in preda ad una stupida febbre, causata dal suo stesso tentativo di infliggersi dolore?
    Quella ferita doveva fargli davvero male.
    «Devo fare presente alla Italie che dovrebbe far pulire gli spogliatoi.»
    Rialzò lo sguardo, guardandolo perplesso. Aveva il senso dell’umorismo, nonostante tutto. Ammirevole.
    “Glielo farò presente io…Anche se dovrei far presente a te che un’infezione del genere può causare una morte lenta e dolorosa. Ma probabilmente lo sai già...”
    Evitò di fargli tutta la ramanzina sui rischi che correva.
    “Hai fatto l’antitetanica?”
    Chiese semplicemente, allontanandosi poi per prendere un disinfettante , degli asciugamani e dell’ovatta. Prese anche un laccio emostatico, che gli legò stretto sopra la ferita.
    Ammonirlo non sarebbe stato una buona idea. Sembrava già abbastanza consapevole di ciò che faceva…e magari se l’era sentito dire centinaia di volte che ciò che faceva era inutile.
    “Devo riaprirlo e pulirlo. Farà male.”
    Almeno l’aveva avvertito, anche se immaginava che il dolore fosse qualcosa che non gli era nuovo.
    Lo guardò, aspettando che gli facesse un cenno…che gli dicesse che era pronto.
    Non si era mai confrontato con pazienti del genere… Un paziente difficile per certi versi, ma con il quale rischiava di rimanere emotivamente coinvolto.
    Nonostante non approvasse ciò che si infliggeva, perché col seno di poi ne aveva capito l’inutilità, portava il peso di averci provato anche lui. Provato ad affogare il dolore interiore con quello fisico. Ma non era bastato. Era stato inutile. Aveva dovuto accettarsi per ciò che era. Un mostro. Un’assassino. Un relitto umano che aveva distrutto la propria anima in mille pezzi, e l’aveva seppellita insieme alle persone a cui aveva fatto del male.
    Guardò distrattamente le cicatrici del ragazzo.
    Erano tantissime. Non aveva risparmiato alcun angolo del suo corpo.
    “Come fai?...” Chiese quasi sovrappensiero. “…a fermarti in tempo intendo.”
    Se aveva la forza di fermarsi, e di non lasciarsi morire, cosa alquanto difficile…come faceva a non averne per affrontare la realtà, il dolore e le difficoltà?


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  9. ~e.d.
         
     
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    Evan Devereux
    Slytherin • 17
    «In the blood I fulfilled myself»


    Bende fresche e bianche si strinsero attorno alla sua gamba. La ferita, sotto quella stoffa leggera, si era praticamente già rimarginata: per questo, non appena sarebbe rientrato nella sua stanza, le avrebbe tolte, coprendo il tutto con i soliti incanti Dissimulanti. Il fatto che l’infermiere avesse scoperto la sua bugia non significava che questa, oramai, andasse svelata: continuava a studiare le mossa del ragazzo, solo di qualche anno più anziano di lui, per cercare di capire in quale momento gli sarebbe stato più semplice rubargli la bacchetta.
    Un semplice Incanto di Memoria sarebbe stato più che sufficiente per cancellare il poco tempo che i due avrebbe trascorso assieme.
    Aveva già strappato un ricordo ad una persona, in passato. Poteva farlo nuovamente.
    Il suo unico problema era che non sapeva se voleva farlo. Da anni nessuno si prendeva cura di lui come l’infermiere stava facendo in quell’istante.
    Nessuno aveva mai visto la sua vera pelle, nessuno lo aveva toccato veramente. Quel contatto umano, maledizione, aveva riacceso in lui ricordi che sperava di aver cancellato definitivamente dalla propria testa.
    Rispose a quell’accenno di ramanzina con un sorriso. Non sincero, certo, ma con una punta di realistica ilarità.
    Morte lenta e dolorosa: non era, questa, la perfetta descrizione della sua esistenza? La sua vita era gi una morte lenta e dolorosa, lui si stava solo mobilitando per cercare di rendere quello strazio più rapido. C’erano momenti, nell’arco delle sue giornate, in cui era convinto di farsi quasi un piacere, d’aiutarsi: tentava di mettere fine a tutti i suoi inutili tormenti. C’erano momenti in cui non si sentiva un’autolesionista, ma un benefattore verso se stesso.
    E chi, sapendo la sua verità, avrebbe potuto negargli almeno quest’illusione?
    «Sì, l’ho fatta». Guardandolo, vide, per un attimo, l’evidente difficoltà con cui cercava di rapportarsi a lui. Comprese che, per un medimago, non doveva essere semplice scendere a patti con il fatto che qualcuno ambisse a farsi del male, disprezzando il proprio stesso corpo. Eppure, lui non era uno sciocco e aveva ancora qualcosa da fare, prima di lasciarsi morire. Ottenuta la sua vendetta, allora sì, svuotato da ogni senso, avrebbe potuto far scendere la lama più in profondità a farla finita. E allora, finalmente, avrebbe ottenuto quel silenzio da lui tanto cercato. Per questo, con una certa frequenza, chiedeva andava da sua cugina Essence al San Mungo. Era stata lei, sconfitta nel tentativo di farlo smettere, a dirgli quali contromisure prendere e come comportarsi con le ferite. Sarebbe andata da lei se la ferita non fosse migliorata, nei giorni successivi a quella notte.
    L’infermiere, intanto, era tornato con disinfettante, asciugamani e ovatta, pronto a riaprire la ferita. Sentì il contatto freddo della sua pelle fragile contro il laccio emostatico. Poi, rimase fermo, in attesa del suo benestare.
    «Se tentenni perché ti trema la mano, dimmelo subito che preferisco fare da solo» gli disse. Avrebbe dovuto sorridere, nel tentativo di smorzare la situazione, ma quello era pur sempre il suo braccio e non era affatto uno spettacolo piacevole. Gli avvicinò il braccio, come ad invitarlo a procedere.
    Si sistemò meglio sul lettino. Non sapeva che fare della mano che non era stretta nella presa dell’infermiere. L’abbandonò sulla gamba. Non cercava neppure d’afferrare qualcosa su cui sfogare la sofferenza che, lo sapeva bene, stava per giungere. Rimase immobile.
    Poi giunse la domanda. Una delle tante di cui sapeva, prima o poi, avrebbe dovuto rendere merito.
    «Ho fatto tanta pratica» disse gelido, indicando con uno sguardo rapido il proprio corpo «La prima volta, mi sono fatto prendere dal panico» continuò indicandogli una cicatrice, molto sbiadita, all’interno del polso sinistro. Alla fine, il taglio procedeva curvandosi e slabbrando quella che, un tempo, doveva essere stata una ferita profonda. «Ho reciso un paio di nervi e troncato di netto una o due vene, mia cugina Essence ha dovuto lavorare parecchio per ridarmi la sensibilità alla mano».
    Lo guardò negli occhi.
    «Quando la lama smette di incidere l’epidermide e passa al muscolo, il rumore che emette è leggermente differente. Più grave. Il sangue esce più copioso, l'odore si fa più pregnante, il dolore più intenso» proseguì, senza alcuna inclinazione nella voce. «Non vuoi sentire tutti i particolari, credimi. Non voglio sentirli neppure io».


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  10. *Tristan*
         
     
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    chace12
    Tristan Rosier
    Infermiere • 25
    «Non può esistere l'arcobaleno, senza pioggia...»


    Uno strano miracolo la vita. Una strana creatura l’uomo. Riesce strano pensare come tante sfaccettature di una personalità possano essere intrappolate in un corpo. Un corpo troppo piccolo per contenere tanti aspetti diversi, tante parti, tante aspirazioni. Un corpo che a volte non senti tuo, che vedi come un’appendice tangibile della tua anima. Una parte superflua, che alcuni tentano di modellare, e che altri trascurano, dediti a qualcos’altro.
    Chissà come quel ragazzo considerava quel suo corpo? Solo lui lo sapeva, probabilmente.
    E non avrebbe ceduto. Non avrebbe parlato, né mostrato ciò che provava per è stesso, come si considerava…Era ermetico. Solo con sé stesso, l’unica persona di cui si fidava.
    E Tristan sbatteva contro un muro. Un ostacolo più duro del solito.
    Continuò comunque a fare il suo lavoro. Quella era l’unica cosa che gli era rimasta. Non poteva aiutare sé stesso, ormai era perduto. Ma poteva aiutare gli altri, e doveva farselo bastare. Nonostante stesse andando contro tutto ciò che aveva creduto fino a quel momento, continuava per quella sua nuova strada, e ci restava, incapace di tornare indietro, o andare avanti.
    Era come in un limbo. E in quel momento in quel limbo aveva incontrato un’altra anima tormentata. Poteva sentire il suo grido d’aiuto, senza che lui emettesse nessun suono.
    Si sforzò di allontanare la mente da quei pensieri poco sensati, e di concentrarsi sulla ferita del ragazzo.
    «Se tentenni perché ti trema la mano, dimmelo subito che preferisco fare da solo»
    Alzò lo sguardo, incrociando quello del giovane, ed abbozzò un sorrisetto.
    “Tranquillo, so quel che faccio.”
    Rispose semplicemente, prendendo poi il suo braccio.
    “Recido”.
    La sua bacchetta divenne uno strumento di precisione. Iniziò a passarlo sulla ferita semi-richiusa. Inizialmente sulla superficie, poi sempre più a fondo, lentamente, fino quasi a sentirla stridere. Il pus più interno e liquido iniziava a vedersi e a muoversi, col tipico rumore biascicante di pelle lacerata che viene mossa.
    L’odore che emanava era nauseante. Veramente una brutta ferita.
    Iniziò a raschiare pian piano lungo i lembi di pelle, fino ad arrivare alla carne viva, fino a far uscire sangue non infettato. Con l’asciugamano sotto la lasciava ricadere fuori.
    Pian piano iniziava a rivedere il braccio normale.
    Tolto tutto il pus da dentro iniziò a ripulire l’esterno, togliendo via anche le croste infette. Sanguinava abbastanza, ma il ragazzo sembrava esserci abituato. L’altro suo braccio era disteso. Come se non provasse dolore, come se non gli stesse facendo poi tanto male.
    Finì di pulire per bene. C’era tanta di quella sporcizia in quel taglio da poterci fare un’arma batteriologica. Portava i guanti, almeno.
    Prese il disinfettante e ce lo gettò copiosamente, raccogliendolo sotto con l’asciugamano per non bagnare il letto. Attese, poi prese la boccetta rossa e versò un po’ del suo contenuto nel taglio, che teneva divaricato con le dita.
    Era incredibile come quel ragazzo sembrasse non provare dolore. O forse lo provava, ma non lo manifestava in alcun modo. Non si irrigidiva, non si ritraeva.
    Poi lui stranamente rispose alla sua domanda. Domanda un po’ azzardata e forse troppo personale.
    «Ho fatto tanta pratica .La prima volta, mi sono fatto prendere dal panico.Ho reciso un paio di nervi e troncato di netto una o due vene, mia cugina Essence ha dovuto lavorare parecchio per ridarmi la sensibilità alla mano. Quando la lama smette di incidere l’epidermide e passa al muscolo, il rumore che emette è leggermente differente. Più grave. Il sangue esce più copioso, l'odore si fa più pregnante, il dolore più intenso. Non vuoi sentire tutti i particolari, credimi. Non voglio sentirli neppure io».
    Lo ascoltò quasi rabbrividendo, mentre continuava a far rimarginare la ferita ora pulita.
    Diceva quelle cose come se fosse la cosa più naturale del mondo. Come se non potesse esserci nulla di diverso. Come se il suo corpo non fosse che un esperimento per lui. Come se la sua fosse quasi una passione, e questo era inquietante.
    “E se trovi la forza di fermarti ogni volta…come puoi non trovare la forza di non farlo? Che ti da tutto questo?!?”
    Forse stava diventando un po’ troppo invadente. Ma i suoi dubbi erano fondati in fondo. Il suo tono di voce era tranquillo. Teneva lo sguardo sulla ferita, che ora fasciava. Non voleva violarlo oltre.


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  11. ~e.d.
         
     
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    NEUTRALE • 17 • SLYTHERIN
    EVAN DEVEREUX


    Dopo tutto quel parlare, Evan volle solo rimanersene in silenzio. L’infermiere aveva afferrato il suo braccio, con gentile decisione, mandandogli una fitta al cervello. La ferità, lo sapeva bene, era peggiore di quanto l’apparenza suggerisse. Nonostante ciò, si impose un silenzio che, per le sue labbra, screpolate e sanguinanti per i molti morsi che si era inferto nel corso della nottata.
    Gli era stato detto di restarsene tranquillo e lui lo avrebbe fatto, obbedendo senza remora. Sopprimeva tutto di sé, senza grosse difficoltà: rispetto al resto, pensieri e rimpianti, farlo con la sua volontà gli riusciva particolarmente semplice. Per lui era come soffiare su una candela. Una stupida fiammella traballante, nulla di più, e si ritrovava a procedere come un automa, eseguendo inconsciamente azioni semplici e che non richiedevano nient’altro che l’abitudine per essere fatte. Sopportare il dolore, per lui, era quasi all’ordine del giorno, da anni, da ben prima che cominciasse ad auto mutilarsi. Sua madre lo aveva temprato, acciaio e Maledizioni Senza Perdono. Ricordava ancora, quasi fosse un monito per se stesso, l’odore del cuoio misto a quello ferroso del proprio sangue. Quella donna aveva un modo tutto suo di dimostragli affetto. Era quello, per lui, l’amore. In fin dei conti, lui amava se stesso follemente, secondo i precetti che gli erano stati impartiti.
    Studiò con attenzione le mosse dell’infermiere, cercando di fissare nella propria mente ogni passaggio, sapendo che in futuro avrebbe potuto averne bisogno e che, neppure sotto la più feroce della minaccia, sarebbe ritornato in quel luogo. Quel pensiero gli ricordò la sua nudità: le maniche corte della maglietta non celavano le sue ferite, più o meno cicatrizzate. Il braccio libero, quello non vittima delle cure parsimoniose di Rosier, corse a stringere la spalla opposta. Avrebbe voluto portarsi le ginocchia al petto e fingere d’essere altrove. Nascondersi, svanire per magia. Purtroppo, non aveva neppure la propria bacchetta con sé.
    La sua ferita venne raschiata fino a quando il pus, denso e d’un giallognolo ricco di sfumature verdastre ed insane, non lasciò spazio alla carne e al sangue. Quel gesto era doloroso, in maniera dannata, eppure la sua espressione rimaneva invariata, troppo presa da altro: troppo presa dal nulla.
    Il disinfettante, se possibile, fu un tormento persino maggiore. Quella strana sostanza all’interno della boccetta rossa, invece, fu un tocco gentile, fresco e rigenerante. Non sapeva di cosa si trattasse, ma aveva un qualcosa di miracoloso.
    «Dovrei procuramene un po’» mormorò, con una voce flebile, segno evidente del fatto che quello era più un pensiero sfuggito, pronunciato con un tremore incerto. Si sporse leggermente, piegando il busto in avanti, mentre le sue dita si stringevano attorno alla piccola ampolla. Le face fare un giro completo, ma non vi trovò etichette. Era stato rapido, tanto da poter passare come un ottimo giocatore di Quidditch, se non odiasse quello sport e se la sua salute non fosse stata così cagionevole. Ma del resto, era colpa sua e, in fin dei conti, rinunciava a tenersi tra le gambe un manico di scopa senza troppe remore.
    Per un attimo, pensò di intascarsi la pozione, facendosi uscire un “grazie” poco sincero, pronto a correre verso l’uscio dell’infermeria e, poi, fino all’oscuro angolo di sotterraneo dove era situata la Sala Comune degli Slytherin.
    Ma, poi, l’infermiere se ne uscì con l’ennesima domanda. Una di troppo, per i suoi gusti. Era stanco di tutti quei quesiti. Si passò il pugno chiuso sulle labbra tumide ed arrossate, unico punte di colore, assieme ai suoi occhi scuri, in quel volto pallido ed emaciato. Sul dorso rimase una striatura cremisi. Riprese possesso dell’arto che aveva lasciato alle sue cure, quasi strappandoglielo dalle mani. Con un’abilità rara, in una persona in grado di utilizzare solo cinque dita, finì di fasciarsi la ferita.
    Si alzò in piedi di scattò. Ne ottenne, in cambio un violento giramento di testa che lo costrinse ad appoggiarsi alla sponda del letto che aveva appena lasciato. Sul suo viso si dipinse un sorriso soddisfatto.
    «Non c’è nessuna forza, se non la vendetta, che mi spinge a fermarmi» gli disse, guardandolo, ora che era in piedi, leggermente dall’alto «La mia unica forza è quella che mi convince ogni volta a non andare fino in fondo. Il mio è un martirio che amo subire nell’ombra».
    La sua mano, quella il cui braccio, all’altezza del gomito, era ora fasciato, si addentrò nei lunghi capelli dell’infermiere Rosier. Con una dolcezza che credeva d’aver dimenticato, lo spettinò. Così facendo, la sua testa non poté fare altro che piegarsi leggermente all’indietro così che i loro sguardi, dopo essersi evitati, fossero obbligati ad incontrarsi.
    «Ti dovevo una risposta, visto che sei stato così gentile da offrirmi un giro sulla mia giostra preferita, ma per il futuro, preferirei tenessi a mente che sono stato educato secondo il precetto per cui la bellezza deve essere accompagnata dal silenzio» continuò, mentre le sue dita si soffermavano sul mento di lui «Non sono tipo da confessioni a cuore aperto, mi pare ovvio» continuò, asserendo ovviamente al suo evidente problema. Si chinò su di lui, su quel ragazzo di qualche anno più anziano di lui, toccandogli le labbra con le proprie. Senza sentimento o significato.
    «Nessuno ci insegna ad apprezzare realmente il silenzio».
    Si allontanò, procedendo a ritmo serrato verso la porta. Ne toccò la cornice e si fermò, trattenuto da un impulso irrefrenabile. Si voltò verso l’infermiere.
    «Tregua, questo mi dà. Non c’è una medicina, per quella, vero?».
    Nella sua voce, dopo anni, finalmente c’era un bagliore di speranza.

    -jaime©



     
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  12. *Tristan*
         
     
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    chace12
    Tristan Rosier
    Infermiere • 25
    «Non può esistere l'arcobaleno, senza pioggia...»


    Un'anima intrappolata in un corpo non suo. Un ragazzo cresciuto troppo in fretta e con troppa solitudine. Questo sembrava essere il ragazzo che si trovava davanti… Un ragazzo le cui cicatrici non erano che un vago riflesso delle ferite che portava dentro. Ogni striatura sulla sua pelle corrispondeva ad un taglio sanguinante. Ma non erano i suoi arti a sanguinare, Probabilmente era il suo cuore.
    Il giovane infermiere continuò a prendersi cura di lui, sempre attanagliato da quel senso d’angoscia. Così giovane, e già dannato per l’eternità. O forse per poco. Questo sarebbe dipeso da quanto il giovane Evan sarebbe stato in grado di amare se stesso, o di odiarsi, allungando la propria agonia.
    Le sue mani si muovevano leggere e rispettose, mentre il paziente irrigidiva i muscoli. Quasi provasse repulsione nell’essere toccato. Non voleva violarlo oltre, non più di quanto già stesse facendo.
    «Dovrei procuramene un po’>>.
    Disse lui, interessato alla boccetta rossa, che in un attimo gli sfilò dalle mani.
    “Resinae Paracelsiae. Non è un composto facile da trovare, e rarissimi sono gli alchimisti in grado di crearla. Le resine che la compongono provengono da ogni parte del mondo, ed il procedimento è assai complicato!”
    Le sue parole erano tranquille e gentili. Tentava in qualche modo di smorzare l’invisibile tensione che c’era tra loro. Non poteva abbattere il muro, sarebbe stato chiedere troppo.
    Ci aveva provato, ma ciò che aveva ottenuto era stato un muro ancora più alto. Il ragazzo tirò via il braccio, finendo di fasciarselo da solo. Muoveva le bende con grande maestria. Sembrava quasi che volesse fuggire da lì, da quella compagnia. Si muoveva celermente, il suo tono era distaccato.
    Lo vide vacillare quando si alzò in piedi. Avrebbe voluto aiutarlo, ma si rese conto che erano state le sue parole a ferirlo maggiormente.
    «Non c’è nessuna forza, se non la vendetta, che mi spinge a fermarmi. La mia unica forza è quella che mi convince ogni volta a non andare fino in fondo. Il mio è un martirio che amo subire nell’ombra».
    Vendetta? Tristan rimase perplesso. Quel ragazzo viveva solo per vendetta?
    Puoi biasimarlo, o giudicarlo, Tristan?
    La sua coscienza lo riportava a ciò che era la realtà. Non era quello, in fondo anche il suo obbiettivo? Per cosa viveva se non per trovare la verità, e compiere vendetta? Il voler aiutare gli altri, diventare un uomo migliore…quello non era che sopravvivere! Aveva dimenticato da tempo cosa significasse vivere. Lo aveva dimenticato da quando aveva perso Karen. Non viveva più da quando aveva perso sé stesso, facendo a pezzi la sua anima, e lasciandola negli sguardi vuoti delle persone che aveva ucciso.
    Non riuscì a replicare. Nemmeno quando lui gli passò la mano tra i capelli, sovrastandolo. Occhi negli occhi. L'abisso più scuro nel cielo più aperto.
    «Ti dovevo una risposta, visto che sei stato così gentile da offrirmi un giro sulla mia giostra preferita, ma per il futuro, preferirei tenessi a mente che sono stato educato secondo il precetto per cui la bellezza deve essere accompagnata dal silenzio. Non sono tipo da confessioni a cuore aperto, mi pare ovvio».
    E poi si chinò su di lui, stampandogli un bacio in bocca. Freddo, insensato, come se fosse un rigido manichino senza sentimenti. E forse lo era, lo erano entrambi.
    Lo guardò, con gli occhioni azzurri sgranati. Tra il perplesso e l’incredulo. Non provò nulla, se non un leggero imbarazzo, e un po’ di stordimento per l’assurda situazione.
    «Nessuno ci insegna ad apprezzare realmente il silenzio».
    Disse poi, allontanandosi. Un tipo strano. Eppure intelligente, e riflessivo. Un vero peccato che fosse già condannato, uno spreco enorme.
    “Perdonami. Non volevo spingerti oltre la tua volontà. Cercavo solo di conoscerti, aiutarti se potevo. Ma non è nelle mie competenze dirti cosa fare, né giudicarti.”
    Le sue parole erano calme, e finalmente consapevoli di chi aveva di fronte.
    «Tregua, questo mi dà. Non c’è una medicina, per quella, vero?>>
    “No, non c’è.” Rispose, quasi rattristato. “ Ma nemmeno la vendetta, o la morte possono servire da medicina. La prima, non è che l’inizio di una nuova agonia, ben più dolorosa e incurabile. La seconda è codardia, o pace immeritata. Non farti più male di quanto non te ne stai già facendo… dimentica la vendetta."
    Parola toccanti Tristan! Peccato che a far la predica sei proprio tu. Lo stesso Tristan Rosier che cerca vendetta. Lo stesso che ha desiderato la morte come fine dell’agonia. Lo stesso che ha distrutto tutto ciò che aveva, e che ogni giorno continua ad andare più a fondo.
    Ma in fondo, era davvero così sbagliato cercare di evitare a quel ragazzo il suo stesso destino? La sua non era che una velata richiesta.
    Era sicuro che nemmeno avrebbe ascoltato le sue parole. Se ne sarebbe andato, varcando quella porta e tornando al suo dolore e ai suoi propositi. Restò lì seduto, consapevole di aver parlato più a sé stesso che al giovane Serpeverde, consapevole del suo martirio, eppure convinto delle sue scelte.


    made by mæve.



    Dopo secoli eccomi che rispondo. Sono imperdonabile! .-. *fa gli occhioni dolci a Edduccio suo* :3
     
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  13. ~e.d.
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    Evan Devereux
    Slytherin • 17
    «In the blood I fulfilled myself»


    Troppe parole, per lui. Vedeva il giudizio negli occhi dell’infermiere e lo trovava odioso: se non fosse stato per quelle sue ferite scoperte, svelate, il ragazzo probabilmente lo avrebbe solamente ritenuto strano, ma, dopo poco, gli avrebbe voltato le spalle e avrebbe proseguito sulla propria strada senza infastidirlo. Non era stato così. Aveva sentito il bisogno di chiedergli scusa per ciò che aveva detto, aveva sentito il bisogno di ricordarli come si sarebbe risolta la sua esistenza. Agonia o codardia. Alzò le spalle.
    «Dimenticherò le tue parole, magari in un bicchiere di qualcosa di alcolico».
    Alzò la testa, perdendosi nell’ombra del corridoio: se si fosse sbrigato, avrebbe evitato la ronda. Tra le dita dalla mano destra, ben celata, stringeva quella boccetta rossa. Gliel’aveva rubata, distraendolo con un bacio. Per farlo tacere, per poter agire indisturbato.
    «Se è questa la punizione per la mia colpa, io non mi opporrò. Soffrirò, questo sì, ma almeno non sarò come te» gli disse, senza guardarlo neppure «Io non mento a me stesso per dormire la notte».
    Lui, semplicemente, non dormiva quasi mai, di notte. Era tempo perso, sprecato.
    Come quello che lo tratteneva lì.
    «Ricuci le ferite del tuo cadavere» continuò, ora inchiodando il proprio sguardo a quello ceruleo di lui «Quando avrai finito, potrai venire a farlo con il mio. Non sarò io cacciarti».
    Gli fece un sorriso. Tiepido, insipido, sussurrato. Non vero, ma neppure completamente bugiardo.
    «Grazie» concluse, alzando quasi a manifesto il braccio bendato «E scusa se ti ho svegliato».
    Tacque, lasciandosi cadere, di nuovo, nel buio. All’improvviso, quasi sì stupì di non aver avvertito il tonfo sordo del suo corpo contro il pavimento. Le mura intimavano al silenzio.


    made by mæve.


    fine :3
     
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