Never Back Down

Liam

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  1. Ethienne Leroy
         
     
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    Ethienne Leroy

    20 Professore.

    « L'uomo è sempre sincero, soprattutto quando mente. »



    Tirai una lunga boccata, lasciando che il fumo stanziasse per qualche attimo nella mia bocca, prima di espellerlo dalle narici. Non mi era mai piaciuto fumare, non in particolar modo, eppure anche solo il semplice gesto di accendere la sigaretta con l'accendino, come facevano i babbani, aveva il potere di calmarmi.
    E, in quel momento, seduto a ridosso del muro della Sala delle Torture, le gambe allungate davanti a me in una posizione scomposta al punto che mi facevano sembrare un bambolotto rotto, avevo proprio bisogno di rilassarmi.
    Perchè rotto, anche se non ero una bambola, lo ero davvero. Ero rotto dentro, nel profondo, come se il mio cuore fosse ricoperto di tante piccola crepe che sanguinavano ad ogni battito, lasciando che mi dissanguassi in una lenta, interminabile e sempre più dolorosa tortura.
    Buffo, parlare di torture fissando le grandi manette d'ottone appese al muro, ancora sporche del sangue incrostato di Travis Morgan, Serpeverde del V anno, torturato fino a qualche ora prima.
    Riuscivo ancora a vederlo, attraverso il fumo della mia sigaretta: Il torace bianco, forse troppo magro, piegato in una posizione innaturale, la bocca chiusa in una smorfia di dolore, dolore che non poteva esternare, gli occhi gonfi di lacrime che non aveva più il coraggio di piangere ed io che lo fissavo, impassibile, qualche passo dietro al suo carnefice che si divertiva con lui come un gatto con il topo.
    Chiusi gli occhi, digrignando i denti. Se fossi rimasto in quel posto ancora a lungo sarei impazzito, e forse era proprio questo il motivo per cui il mio corpo non sembrava volersi spostare, come se si fosse irrimediabilmente attaccato al muro con il sangue rappreso che mi usciva dalle viscere che, marce, cercavano di espellere ciò che di peggio c'era in me.
    Iniziai a tirare colpetti con la testa contro il muro, sempre più forte, mentre spegnevo la cicca sul pavimento segnato con una forza tale che, se fosse stato in legno, avrei anche potuto spaccarlo.
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    Liam Callaway

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    «Ci sono delle persone che sono state considerate coraggiose perché avevano troppa paura per scappare.»



    Interessante come le giornate si susseguano in modo organizzato e ripetitivo. Che importa la divisione fra i giorni della settimana, quando uno vale l’altro? L’unica differenza era che dal Lunedì al Venerdì dovevo svegliarmi presto, mentre gli altri giorni potevo azzardarmi ad andare a dormire all’ora cui solitamente mi alzavo le giornate precedenti. E quando è una cosa così triste a scandire le giornate, diamine, vuol dire che qualcosa non va.
    Quel giorno avrei dovuto alzarmi presto, perché la scuola attendeva con ansia la mia presenza. Insegnante di Storia.. e chi l’avrebbe detto? Di certo non io, specialmente dopo un addestramento come quello avuto a Durmstrang. Eppure avevo il potere, perché la conoscenza è il potere. Ed io di cose ne sapevo, e fin troppe al dire di molti. Non che mi importasse particolarmente la loro opinione: finchè si limitavano a sparlarmi dietro come un branco di adolescenti dotati di un ambiguo senso dell’umorismo, potevano farlo fintanto che avessero fiato; quando cominciavano ad aspettarmi dietro angoli con una bacchetta in pugno.. lì si che cominciavo ad alterarmi. Come se potessero anche solo lontanamente prendermi alla sprovvista. Stolti. La maggior parte delle volte, non rovinavo nemmeno la piega perfetta degli abiti.
    Sapevo che alla maggior parte delle persone, quello stile di vita non piaceva affatto. Non sapevano perché, ma sentivano che dietro ogni loro azione vi era un retrogusto amaro, come la più prelibata Birra di Praga. Come se vi fosse qualcuno a muovere i fili invisibili della loro esistenza. Chiaramente si trattava di un modo come un altro per scaricare la colpa di gesti nefandi sull’altrui persona; si tende sempre a dare la colpa a qualcun altro, quando la situazione comincia a non piacere. Io ho tanti difetti, ma diamine, mi son sempre preso le mie responsabilità. Sapevo perfettamente che ogni cosa uscita dalle mie labbra era voluta, ogni gesto desiderato. Non rimangiavo nulla di quello che avevo fatto, dalla tortura al sushi mangiato la sera prima in un bel locale centrale.
    In classe le lezioni procedevano come da copione: i giovani fanciulli pendevano dalle mie labbra, avidi di sapere il loro passato. In molti credevano che Storia fosse la materia più odiata, ma si sbagliavano; o forse non avevano mai avuto me come insegnante, in tal caso avrei potuto capirli. Finite le lezioni liquidai con un cenno tutti i ragazzini famelici di informazioni, perché non avevo alcuna intenzione di fermarmi più tempo del previsto per un gruppo di adolescenti troppo curiosi. La curiosità uccide il gatto. Per le domande durante le lezioni ero sempre disponibili, ma quando queste rubavano il tempo alle attività extracurriculari, la cosa mi infastidiva alquanto.
    Un ragazzotto dell’ultimo anno si avvicinò alla cattedra incurante dei miei gesti. Alzai lentamente lo sguardo su di lui, gli occhi scuri che promettevano pomeriggi nella sala delle torture. Quando vidi che lo smidollato si tratteneva dal tremare, e che gli occhi nocciola erano così spalancati da lasciar intravedere troppa cornea, gli accennai di avvicinarsi di più con un movimento secco del capo, leggermente disgustato da un comportamento così vigliacco. “Spero, per te chiaramente, che sia una cosa di vitale importanza” Sapevo che il sorriso che incurvava le mie labbra non era nient’affatto amichevole; se volevano un insegnante simpatico, Trasfigurazione era qualche aula più in là. Deglutì. Mi parve si chiamasse.. Gabriel, o Gerard.. qualcosa con la G. “Mi hanno detto che deve andare in Sala delle Torture, professor Callaway” Inarcai un sopracciglio, esortandolo a continuare. “Dicono che deve guardare se è tutto a posto. Se lui è ancora lì, o se l’han portato in infermeria.” Annuii fra me e me alzandomi in piedi, mentre G indietreggiava. Incutere timore mi piaceva. Quando non ne suscitavo affatto, le persone rischiavano di scavare un po’ troppo a fondo. Rischiavano di scoprire cose di Liam Callaway che sarebbero rimaste al sicuro solamente ben sepolte sotto metri e metri di terra.
    La sala delle torture non era altro che una porta infondo ad un lungo corridoio. Il fatto psicologico incideva parecchio: quel tragitto con le mani legate, ben sapendo come sarebbe finita una volta chiusi nella stanza, era già l’inizio della punizione. Di solito le urla riecheggiavano fra le pareti. Grida liberatorie che rimbalzavano da una pietra all’altra, quasi si ricaricassero di salto in salto per aumentare il loro grado di saturazione a dismisura. Come se non potessero mai esprimere abbastanza quanto facesse male, quanto ne avessero abbastanza. Troppo volte avevo assistito in prima persona alle torture inflitte lì dentro. Non dico di essere un uomo sensibile, e che tutto quello toccasse qualcosa all’interno del gelido Callaway; alcune scene però, sono ancora ben impresse nella mia memoria. Scene in cui il sottoscritto fissava sorridente la preda incatenata al muro, i polsi e le caviglie legate fra loro, un pugnale incastrato fra le costole; il sangue ormai raggrumato le attaccava i capelli scuri alla fronte, alle spalle, alla schiena; lunghi rivoli avevano segnato scie rosse sulla pelle candida come madre perla. Non era morta, affatto. Se lo fosse stata, sarebbe stato tutto incredibilmente più facile; le avevano perforato i polmoni: il respiro usciva a rantoli, un suono viscido che probabilmente non potrei mai dimenticare. Agonizzante, sofferente, ma senza alcuna via di scampo. Gli occhi quasi vitrei; avevo sperato per lei che avesse perso conoscenza. Quando roteò lentamente gli occhi azzurri su di me, il sorriso si cristallizzò sulle mie labbra. Mi avevano obbligato a mantenerlo, altrimenti avrei dovuto far compagnia alla ragazza. A quanto pare alcune risposte date ai vertici nel modo scorretto, non piacevano più di tanto.
    Arrivai alla porta senza quasi accorgermene. Spinsi distrattamente l’uscio nel modo più silenzioso possibile. La scena che mi si parò davanti era terribilmente triste, così maledettamente melodrammatica da costringermi a fissarla qualche momento prima di esternare a Leroy la mia presenza. Ecco il classico esempio di qualcuno che, palesemente, non aveva accettato il suo status quo.
    Stava prendendo a testate il muro. Idea geniale, come avevo fatto a non pensarci anch’io? Potremmo creare un nuovo sport; altro che Quidditch. Era pure al chiuso, così si poteva praticare anche con il freddo, la pioggia e la neve.
    Mi osservai negligentemente le unghie. “Se il tuo scopo è avere una testa ovale come quella di Malfoy, ci stai riuscendo. Se la preferisci di forma rettangolare, posso sempre prendere un libro, o una pietra, e darti una mano. Basta chiedere, amico. Io sono sempre disponibile”
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    L’intonaco gratinato del muro, a contatto con la mia nuca, produceva un toc-toc ben poco rassicurante ma non ci feci caso. Il dolore, seppur si trattasse di una sofferenza minima rispetto a quella patita dal ragazzo che fino a poco tempo prima era stato torturato senza pietà.
    Tuttavia, con tutto il dolore del mondo, non sarei mai riuscito a riscattare l’umiliazione subita da quel ragazzino. Come avrei mai potuto riuscirci, io che ero stato il suo carnefice? Io che ero stato la sua ultima speranza, e che avevo tradito la sua ingenua fiducia perchè troppo codardo per ribellarmi una volta per tutte.
    Ogni mattina mi alzavo dal letto e vivevo le giornate come se nulla fosse, spezzandomi in due: Da una parte c’era Ethienne Leroy, fidato soldato, spia e amico. Dall’altra il Professor Leroy, duro, freddo, malvagio, ed ero arrivato al punto da non sapere più quale fosse il vero Leroy. Colui che giocava a fare l’eroe, o colui che viveva per inerzia, sforzandosi di adattarsi ad una vita che in fondo alla sua anima rinnegava? 
Mi stavo trasformando in una sorta di Dottor Jekyll e Mister Hyde, e presto non sarei più riuscito a rispondere delle mie azioni.
    “Se il tuo scopo è avere una testa ovale come quella di Malfoy, ci stai riuscendo. Se la preferisci di forma rettangolare, posso sempre prendere un libro, o una pietra, e darti una mano. Basta chiedere, amico. Io sono sempre disponibile”
    Mi fermai appena un attimo prima di colpire il muro per l’ennesima volta ed aprii un occhio, mettendo a fuoco la figura di Liam Callaway in piedi davanti a me.
    “Toglimi una curiosità” Mormorai con voce roca, come se le parole faticassero a venir fuori “Perchè il nome di Malfoy è sempre sulle tue labbra? C’è qualcosa che devo sapere?”
    Inarcai un sopracciglio in direzione del mio collega, mentre un pigro sorriso mi saliva alle labbra.
    Sentii freddo sulla nuca, come se qualcosa di gelido mi stesse scivolando lungo il collo sotto la maglietta e mi portai una mano sulla testa. Quando la ritrassi, osservai per qualche attimo le dita sporche di sangue con sguardo vacuo, poi scrollai le spalle e tirai un’ultima testata al muro, rimanendovi appoggiato come se fossi privo di forze.
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    Liam Callaway

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    «Ci sono delle persone che sono state considerate coraggiose perché avevano troppa paura per scappare.»



    Ogni uomo ha i suoi limiti, anche se alcuni li nascondono meglio di altri. Il sottoscritto faceva parte della seconda categoria, chiaramente, mentre Leroy.. sembrava stagliarsi più nel mezzo. Una via che non era né bianco né nero, un incostante sfumatura di grigio che poteva essere prima l’uno e poi l’altro. Che poi a me il grigio non era mai piaciuto; colore più triste non poteva esistere. Sai che cosa interessante, essere il miscuglio di nero e bianco in diverse percentuali. Un emozione. Metaforicamente parlando, davvero fantastico. Ma forse non mi piaceva perché non si adattava bene alla mia carnagione.
    Quella stanza in particolare non mi metteva particolarmente a disagio. Al dolore, alla sofferenza, alle urla ed al sangue ero abituato. Mi metteva più ansia entrare in un posto cui emozioni preponderanti non erano affini alla mia indole, tipo un parco giochi per bambini. Non li ho mai sopportati, nemmeno quando ero un pargolo. Tutte quelle risate, quei bambini che giocano fra loro.. raccapriccianti. Ho sempre preferito rimanere da solo, leggere un buon libro, andare in esplorazione insieme ad Aaron, allenarmi con lui e cercare continuamente di superare ostacoli che parevano insormontabili. Giocare non era mai rientrato fra le mie priorità. Fare amicizie poi.. non ne parliamo. Non mi piaceva avere molti amici, erano un punto debole. Li vedevo come un pericolo per me, e per loro stessi. in caso qualcuno ce l’avesse avuta con me, cosa che stranamente accadeva spessissimo, ci avrebbe messo poco più di due secondi per sapere come arrivare al nocciolo della questione. Come attaccarmi senza nemmeno sfiorarmi con un dito. Per questo contavo così tanto su Sales, perché lui era bravo quasi quanto me, e avrebbe saputo difendersi. Per questo odiavo a prescindere tutti gli altri.
    Continuai ad osservare leggermente annoiato la scena, chiedendomi quale fosse precisamente il motivo di tanto accanimento nei confronti dei muri del castello. Era un vago interesse, come quando una domanda sollecita i nostri pensieri, ma non abbiamo voglia di scovare la risposta.
    “Toglimi una curiosità”
    Alzai lentamente lo sguardo inarcando entrambe le sopracciglia, mentre il sorriso ironico continuava ad aleggiare agli angoli delle labbra.
    “Perchè il nome di Malfoy è sempre sulle tue labbra? C’è qualcosa che devo sapere?”
    Scrollai le spalle ed entrai nella stanza, andando ad appoggiare la spalla ad uno spiraglio della parete libero di catene ed altri attrezzi. Il freddo parve penetrarmi la camicia, come se in quella stanza facesse più freddo che nel resto del castello. Cosa che avrei ritenuto improbabile, se non avessi conosciuto la nota sadica della preside.
    Ci sono tante cose che devi sapere, ma Malfoy non è fra queste. Le teste rettangolari non sono mai state il mio debole” accennai con le mani al capo. Draco, il guardiano, aveva proprio qualcosa di strano. Sembrava che da piccolo l’avessero tirato fuori dall’utero della madre con l’uso di uno sturalavandini. “In compenso probabilmente non sai che mi piace il caffè, che fumo sigarette babbane, che adoro ubriacarmi almeno cinque giorni su sei, che sono dannatamente simpatico ed affascinante.. no aspetta, le ultime due cose le sapevi per forza. Sono palesi” Incrociai le dita ed allungai le braccia sopra id me, stiracchiandomi come un gatto satollo. Il sorriso sornione sulle mie labbra non era per niente adatto a quella strana situazione –sala delle torture + collega con la testa sanguinante- ma non potevo finger per davvero che mi interessasse qualcosa al di fuori della mia stupenda persona. Eppure, non potevo nemmeno fingere di non aver visto niente. Sospirai e mi sedetti per terra a fianco a lui, non prima di aver controllato sistematicamente che il pavimento fosse pulito.
    Te ne prego, illuminami: perché stai prendendo a testate una parete?” chiesi nel tono più ironico che potessi permettermi senza risultare offensivo. “Qual è il tuo problema, esattamente? Parlane con zio Callaway” estrassi la bacchetta e con un movimento del polso ed un incantesimo di appello feci comparire una bottiglia di Whisky direttamente dal mio armadietto personale. La aprii e gliela porsi. Far alcolizzare qualcuno è sempre il modo migliore per ottenere informazioni, e chissà perché pensavo che il segreto di Leroy potesse interessare anche me, per una volta.
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    Con i miei colleghi mi ero sempre limitato ad un rapporto incentrato prettamente sul lavoro. Adesso, come quando ero studente, io non avevo amici. Non avevo confidenti, non avevo nessuno su cui contare se non me stesso e, ovviamente Ted Lupin. Ma lui ero solo il mio datore di lavoro, il capo della Resistenza. Era suo dovere essere una persona sulla quale contare, perchè era suo dovere difendere chi l’aveva seguito in quell’assurda lotta contro un regime che, in fondo, andava bene alla maggior parte della popolazione.
    Ted Lupin era stato per me, e per quelli come me una bandiera, un guida, una nuova luce. Ci aveva guidato fuori dal mondo i cui eravamo costretti a vivere, ci aveva raccontato storie di pace, amore e fiducia che sembravano essere favole, alle nostre orecchie e, poi, ci aveva istigato alla guerra. Una guerra silenziosa, un guerra che andava combattuta dall’interno e io, forse perchè troppo avventato, forse perchè troppo buono -anche se propendo più verso la prima ipotesi- combattevo questa guerra in prima fila ogni giorno, rischiando oltre alla mia vita quella di centinaia di studenti.
    Per che cosa combattevo? Riflettei, lasciando che il sangue colasse dalla nuca lungo la spina dorsale, denso e caldo come una carezza. Erano più le vite che non riuscivo a salvare, a sanare, che quelle che salvavo. Erano più i ragazzi che si univano al regine nonostante tutto quello che avevano subito, che quelli che riuscivo a condurre lontano da una vita di odio e sofferenze.
    Stavo combattendo una battaglia inutile, perchè non aveva senso battersi per qualcuno che non voleva essere salvato.
    Puntai lo sguardo vacuo verso Liam Callaway, che senza che me ne accorgessi mi si era seduto al fianco. “E’ la parete che cozza contro la mia testa, non il contrario. E’ una parete sadica, volta alla tortura, come tutto in questa stanza” Parlai convinto, il tono di voce calmo, freddo e distaccato che usavo ogni volta che sentivo che qualcuno stava cercando d intromettersi nella mia sfera personale, anche se ero consapevole di aver appena blaterato cose senza senso.
    Senza aggiungere altro afferrai la bottiglia di Whisky che mi porgeva il mio interlocutore e la portai alle labbra, lasciando che il liquido mi bruciasse la gola, e infiammasse le mie membra.
    “Quella frusta, là, ha sfregiato più corpi di quante persone potremmo mai conoscere nel corso della nostra vita, e lo stesso vale per quelle catene, che hanno spezzato polsi, braccia, gambe di ragazzi anche solo..” Mi fermai di colpo, e mandai giù un altro sorso di Whisky, poi porsi la bottiglia a Callaway. Non potevo continuare, rischiare di espormi troppo o avrei rovinato il lavoro di anni.
    No, il rapporto con i miei colleghi doveva mantenersi su un piano strettamente professionale.

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    Liam Callaway

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    Se ad Hogwarts avesse lavorato anche un maledetto psicanalista, avrebbe guadagnato più soldi al castello che in qualunque altra parte del mondo. Era pieno di svitati: e pensare che Leroy mi era sempre sembrato un tipo a posto. Un po’ strano forse, ma non ci avevo mai scambiato abbastanza parole per avere un giudizio reale su di lui. Inoltre, non me n’era mai importato un accidente. Il fatto però che l’avessi colto in flagrante mentre amoreggiava con il muro della sala delle torture, mi obbligava a prestare più attenzione del necessario. Liam Callaway si ritrovava, un’altra volta, a fare il buon samaritano della situazione. Sorpresa! Probabilmente stavo diventando troppo buono, non c’era altra spiegazione. Forse ogni giorno mi somministravano una dose di bontà senza che me ne rendessi conto, perché cominciavo a farmi tristezza da solo. Fra un po’ potrei arrivare al punto di portare qualche ragazza da madama Piediburro: semmai finissi in una situazione simile, chiederei ad Aaron di uccidermi. La cosa divertente, è che lui lo farebbe, se avessi delle motivazioni abbastanza buone da farmi credere.
    “E’ la parete che cozza contro la mia testa, non il contrario. E’ una parete sadica, volta alla tortura, come tutto in questa stanza”
    Dio, che collega simpatico. Un’intensa vena di sarcasmo, così densa che si poteva assaporarla, ed anche un sentore di.. rammarico? Un’altra anima pia distrutta per le vite di cui erano stati privati molti giovani. Insomma, si prospettava un altro pomeriggio interessante. Oppure avrei potuto far finta di niente e dileguarmi con qualsivoglia scusa: però, se poi avessero trovato impiccato il corpo del mio collega, mi sarebbe dispiaciuto. Stavo decisamente diventando troppo buono. Merda!
    Cercai la vena sadica di Callaway, quella conosciuta in tutto il mondo magico, e me l’avvolsi attorno come una vecchia coperta consunta. Il sorriso che mi spuntò sulle labbra non fu affatto piacevole. “Ma non mi dire. Dopotutto questa non è la Sala delle Torture, è la Sala Vacanze, giusto? quella dove solitamente portiamo i ragazzi a prendere un cocktail completo di ombrellino colorato” Inarcai un sopracciglio, mantenendo il tono di voce in una via di mezzo fra il divertito e l’annoiato. Che discorsi idioti che stava facendo: era chiaro che fosse adibito alle torture. Il fatto che il muro andasse volontariamente contro la sua testa, poi, era un altro discorso. “E poi la parete non è sadica, ha solo bisogno di affetto. Mettiti nei suoi panni: secondo te qualcuno si ferma mai ad accarezzarla, o a sussurrarle parole dolci?” accarezzai con le dita le fredde pietre che delimitavano l’area della stanza, ammiccando con lo sguardo in direzione di Leroy. “In realtà, vorrebbe riempierti di baci su quell’adorabile viso imberbe” il fatto che ci fossero ragazzine che ammirassero Leroy, per me era fonte di estremo rammarico. Sopportavo a mala pena il fatto che qualcuno facesse sogni romantici su Sales, ma Leroy.. dai, davvero? Il classico biondino con gli occhi azzurri che le bambine sognavano a cavallo di una scopa, un clichè fin troppo rinomato. Il sogno preso in prestito di generazione in generazione, usato così tante volte che ormai appariva sbiadito.
    Si appropriò della bottiglia di whisky quasi che ne andasse della sua vita stessa. Se gli piacevano così tanto gli alcolici, non potevamo non andare d’accordo. Sarei passato sopra il fatto che al centro dell’attenzione, in quella scuola, ci fosse anche lui. Potevo persino lasciargli un po’ di spazio nel mio cono di luce, ma non troppo.
    “Quella frusta, là, ha sfregiato più corpi di quante persone potremmo mai conoscere nel corso della nostra vita, e lo stesso vale per quelle catene, che hanno spezzato polsi, braccia, gambe di ragazzi anche solo..”
    Ah, discorsi pericolosi in posti pericolosi. Non che a me interessasse seriamente che il giovane avesse qualcosa contro le torture, contro i metodi didattici usati al castello. Per quanto mi riguardava, poteva anche far parte della Resistenza e star organizzando un attentato a scuola: anzi, se levava di torno la Howe mi faceva anche un favore. Non era divertente essere cattivi, quando lo erano tutti quanti. Presi la bacchetta e la puntai in direzione della porta, lanciando l’incantesimo muffliato in modo che, anche vi fosse stato qualcuno fuori dalla porta, non avrebbe udito una sola parola di quella conversazione. Chissà, magari sarebbe anche diventato uno svago interessante. Diedi un sorso di whisky, prima di riportare la mia attenzione su Ethienne. Era di un solo anno, mi pareva di ricordare, più giovane del sottoscritto, eppure sembravano anni.
    Anche solo.. cosa? Avanti, continua. Stai quasi diventando interessante” feci cenno con la mano di proseguire, mentre la bottiglia veniva appoggiata nel territorio neutro fra me e lui. Schioccai la lingua. “Strumento interessante, la frusta. Il fatto che sia stato creato dai babbani, e che di fatto noi gli abbiamo rubato l’idea è divertente. Specialmente se consideriamo il disprezzo verso la razza inferiore. Che poi, chissà chi l’ha deciso che siano inferiori” Scrollai le spalle, buttando giù un’altra golata della bevanda incendiaria.
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