Votes taken by osobaya

  1. .
    berserkers have violence in their blood. they unleash their fury
    on the enemy with ferocity, regardless of their own protection.
    «c’è stata una sparatoria! riesce a darci una mano? io e il mio amico fiken dobbiamo sbrigarci, ci sono almeno cento feriti!»
    Era così felice, il biondo. Confuso, molto confuso, ma soprattutto felice da morire. Quanto era stato fortunato, a trovare un ragazzo così (scemo) disponibile? Le nuove generazioni gli davano davvero tante gioie.
    Certo, aveva capito metà delle cose che aveva detto, ma quelli erano dettagli che avrebbero risolto in un altro momento: voleva davvero sapere cosa fosse la patata consacrata che stava ascoltando, ma aveva un obiettivo da raggiungere e non era farsi una cultura musicale.
    Nascosto al buio di una stradina, e sapendo che non lo avrebbe davvero visto in faccia, alzò gli occhi al cielo e solo successivamente un pollice in sua direzione per rispondere alla sua soddisfazione. Una persona normale si sarebbe anche sentita in colpa per quello che stava per succedere; non Wyborowa Moskovskaya, che quel sentimento non sapeva nemmeno dove fosse di casa.
    Attese paziente che l’italiano – ovviamente sapeva fosse della penisola: era nei loschi giri della mafia da quando era un adolescente, conosceva più abitanti del Bel Paese che non polacchi – e la sua preda si addentrassero nel vicolo, pregustando il momento in cui sarebbe entrato in scena con un sorriso beffardo a tagliare le labbra.
    Viveva di emozioni forti, Row – esplosive, incontrollabili, incontenibili; non era mai stato in grado di esistere in virtù di un sentimento leggero e sottopelle, senza dare il massimo sotto ogni punto di vista. Tendeva a giustificare così la propria pulsione alla violenza, quando gli veniva domandato: un modo come un altro per gettare fuori da sé ogni grammo di rabbia e di insoddisfazione, di gioia e divertimento, amplificandoli quanto più possibile per non dover rischiare che ristagnassero nella gabbia toracica.
    Così, non esitò nel momento in cui ebbe il mago a portata di mano per colpirlo con il calcio della pistola sulla testa, e vederlo perdere i sensi prima che potesse – lui, o il rosso al suo fianco – rendersi conto di cosa fosse successo. Non si curò minimamente, ma proprio zero, di guardare il ragazzo, la sua espressione o la sua sorpresa di fronte a quel gesto; piuttosto si lanciò sul tipo a terra per mettergli le mani addosso.
    Non per picchiarlo: va bene che si identificava in una persona manesca, ma non infieriva su qualcuno privo di sensi. Di solito. Solo quando trovò quello di cui aveva bisogno si poté ritenere soddisfatto, ed alzandosi ammirò la bacchetta appena rubata al buon samaritano. «grazie mille,» sorrise all’altro, puntando il catalizzatore sull’uomo: doveva testare la refurtiva, ed assicurarsi la sua lealtà. Per questo, lo trasfigurò in un orsacchiotto di pezza. «mi hai aiutato davvero molto!» gli si avvicinò, pupazzo sotto un braccio e l’altro sulle spalle del rosso. «io sono row comunque! come ti chiami?» chiaramente non avrebbe parlato con lui del fatto che era appena diventato suo complice in un omicidio – perché no, non avrebbe ritrasformato Tizio: doveva regalare un nuovo Pornhub a Troy! –, e che non ci fosse alcuna emergenza relativa ad una sparatoria – o meglio, quella c'era stata, però... «ho preso anche questo,» gli mostrò il portafoglio, perché le cose andavano fatte per bene. «andiamo a festeggiare?»
    wyborowa
    moskovskaya

    Silhouette of a shadow
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    guerriero berserker
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    mago
    leader
    polish mafia — 1975 2003s — teddy bearGot the devil on my shoulder, no angels around
    And by the time it's over, I know I won't be proud
    I'm burning all my bridges, burn them to the ground
    And all of my decisions, can't answer for 'em now
    no angels
    stellar
    Mother of Night, darken my step
  2. .
    berserkers have violence in their blood. they unleash their fury
    on the enemy with ferocity, regardless of their own protection.
    Seduto su di una vecchia cassa abbandonata ai bordi del vicolo – non di certo comodamente come avrebbe voluto, dal momento che era alta poco più della metà della sua coscia costringendolo a piegarsi su sé stesso più del dovuto, ma sapeva adattarsi perfettamente alle circostanze –, Wyborowa Moskovskaya dischiuse le labbra in un ghigno sincero e divertito, tenendo premuto lo schermo per ripubblicare il contenuto prima di far scorrere il dito e passare a quello successivo.
    «ti prego… ridammelo.»
    Di telefoni, in tutti quegli anni, il polacco ne aveva visti parecchi. Li aveva visti evolvere, cambiare giorno dopo giorno sotto i suoi occhi senza poterne mai realmente godere, vincolato in una forma che gli impediva anche solo di pensare di poterne afferrare uno e capire come si utilizzasse – una forma nella quale le memorie si sovrapponevano confusionarie, ed i ricordi di quegli oggetti divenivano sfocati la settimana successiva o il secondo subito dopo, ripresentandosi (forse) casualmente dopo un decennio senza dargli modo di ritrovare il filo conduttore che potesse legarli a tutte le altre immagini. Saperne riconoscere uno era stato semplice; capire come farlo illuminare, come arrivare alle cose nel suo interno, ed utilizzarlo in qualche mistica maniera era stato, come aveva saggiamente previsto, molto più complicato di quanto avrebbe dovuto essere necessario. Si era sentito un primate alle prese con la tecnologia prima di iniziare a prenderci dimestichezza, un biondo gorilla di un metro e novanta accartocciato su un cubo di legno nell’Inferius brutalmente sconfitto da uno strumentopolo di quattordici centimetri di lunghezza per sette di larghezza, l’indice teso come una lama sopra i cristalli liquidi che nulla aveva potuto contro di lui – se non rischiare di romperlo nello spingerlo un po’ troppo forte.
    Allungò distrattamente la gamba davanti a sé, andando ad impattare con la pianta del piede contro la faccia dell’uomo a terra, con particolare attenzione nel dedicare la maggiore pressione possibile nella zona del naso. «e statti zitto,» non distolse le iridi ambrate dall’iPhone, troppo preso dal video di husky siberiani ululanti come delle fottute ambulanze. «coglione.» odiava essere distratto dai suoi hobby, quasi quanto il venir fisicamente o verbalmente interrotto mentre stava facendo qualcosa: non poteva saperlo quel tizio qualunque ai suoi piedi che quello era esattamente il posto che gli spettava; che il nome di Row a quel punto della storia avrebbe dovuto essere un’istituzione da temere e rispettare, se un nano deficiente con fin troppi poteri non avesse fatto le sue strane magie impedendogli di scalare le vette dell’Olimpo.
    «è tutto quello che ho…» a quel punto, e solo sentendo il tono di voce spezzato, alzò appena il capo, accompagnando il movimento con un sopracciglio sollevato. Cosa credeva, che non si fosse accorto che oltre a non avere nemmeno un soldo in tasca, fosse un inutile babbano? Il polacco non era mai stato un vero e proprio purista del sangue magico, di certo non ai livelli dei propri genitori: onestamente se n’era sempre alquanto sbattuto il cazzo dei no-mag, quantomeno abbastanza da mischiarsi nei loro affari, sebbene credesse che a conti fatti fossero inferiori alla propria specie; l’inservibilità con cui l’aveva tacciato, era tutta per questioni personali. «lo so.»
    C’erano dei lati positivi nell’essere scomparso dalla faccia della terra per ventotto fottuti e lunghissimi anni. Certo, si era lasciato alle spalle un mondo diverso, un mondo che ricordava meno del previsto, e con questo tante persone: tra i vantaggi annoverabili, non rientrava di sicuro il viaggio in Polonia fatto appena tornato ad essere umano, e la poco piacevole scoperta che la donna per cui era stato maledetto era morta, e sua madre uccisa.
    Ma non guardava mai il bicchiere mezzo vuoto, Row. Era ancora un ventunenne, e per di più non esisteva. C’era una lapide col suo nome, e nessun corpo sepolto sotto di questo; era stato dato per morto, dopo essere stato considerato disperso per una decina d’anni.
    Era un fottutissimo fantasma libero di vagare senza dover badare alle conseguenze, svincolato da dogmi etici di cui si era sempre fatto beffe. Poteva fare il cazzo che gli pareva, e nessuno avrebbe mai nemmeno saputo della sua esistenza.
    «tanto non ti serve più,» le emozioni negative preferiva non lasciarle sedimentare nel petto, portandosele dietro come un macigno: preferiva incanalarle, e lasciarle disperdersi nell’aria – sotto una forma, o un’altra. Poteva essere una rage room, un incontro clandestino, una pistola puntata alla testa di un tizio qualunque capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il Moskovskaya poteva anche essere uno spettro errante, ma non poteva mica lasciare che qualcuno descrivesse alle autorità il suo aspetto; soprattutto non un babbano, loro e quella stupida fissa per gli identikit nelle stazioni di polizia. Manco uno che avesse saputo rendere gloria alla sua faccia, poi: oltraggioso. «grazie del regalo, non dovevi!» sorrise, docile come un agnellino, occhi ambrati a specchiarsi in quelli verdi dell’uomo ed a prendere nota del foro sulla fronte, prima di far girare il telefono tra le dita e lasciare quel vicolo.
    Non aveva trovato quello che cercava e, sebbene avesse guadagnato qualcosa che gli sarebbe tornato utile, la sua missione ancora non era cambiata: gli serviva una bacchetta. La sua… beh, sinceramente non voleva sapere cosa ci avesse fatto Kosmo, stava bene dove stava, ma non poteva di certo partire per quella gita fuori porta senza un catalizzatore.
    Se fosse stato possibile fregarsene di meno di quella missione, così come della situazione generale del mondo magico nel quale era tornato, il ventunenne l’avrebbe tranquillamente fatto. Però fregava a Troy, e tanto gli bastava: , aveva più volte cercato di smembrarlo, venderlo, bruciarlo vivo, abbandonarlo, lanciarlo dalla cima del K2, e lui stesso aveva cercato di creare un altarino con la sua foto in mezzo per sacrificarla a Satana, ma era tutto ciò che gli restava – volenti o nolenti era la cosa più simile ad un’amica, o ad una sorella, che avesse.
    «ehi!» l’occasione perfetta (forse: ormai le razze erano talmente mescolate tra di loro che risultava difficile beccare un mago) gli si presentò ancora prima di uscire da quel vicolo, quando vide un ragazzo passare proprio lì davanti. Si finse trafelato e sinceramente preoccupato, mentre gli posò la mano su una spalla – così gracile, che avrebbe potuto essere una preda facilissima da derubare. Non lo fece per due semplici motivi: il primo era che, appunto, non poteva sapere cosa fosse, ed avrebbe rischiato di fare un altro buco nell’acqua; il secondo era che si annoiava, e tanto valeva divertirsi un po’. «ti prego… cerca un mago,» precisò subito, così non avrebbe corso rischi: prevenire è meglio che curare, mh? «c’è stata una sparatoria…» chiamiamola così. «c’è della gente ferita, mi serve una mano…» gli sorrise caldo, senza far scemare mai la maschera di affanno dal viso, cercando l’assenso di lui nello sguardo fino a quando non lo ricevette.
    Seguì per un po’ la chioma ramata del probabilmente coetaneo – insomma, non gli dava l’aria di essere troppo più giovane di lui – fino a quando non si fu allontanato abbastanza ed ebbe fermato il primo passante, ed attese nascosto nell’ombra del vicolo l’arrivo dei “rinforzi”.
    Sperando con tutto il cuore che riuscisse a convincere qualcuno, ecco.
    wyborowa
    moskovskaya

    Silhouette of a shadow
    We are all one and the same
    guerriero berserker
    [ un tiro pa bonus ]
    mago
    leader
    polish mafia — 1975 2003s — teddy bearGot the devil on my shoulder, no angels around
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  3. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1975
    21 y.o.
    teddy bear
    wyborowa “row” moskovskaya
    C’erano delle cose che succedevano così in fretta, che era davvero complicato rendersi conto del susseguirsi degli eventi, o essere in grado di metterli in un qualche ordine cronologico – ma anche soltanto logico, per dire.
    Wyborowa Moskovskaya non avrebbe saputo come piazzare in maniera coerente tutti quei frammenti di esistenza vissuta su una linea del tempo, e fino ad un certo punto non gli era nemmeno mai interessato farlo.
    Non aveva mai pensato gli sarebbe servito, d’altronde, e sapeva sarebbe morto abbastanza presto da non avere bisogno di un album dei ricordi per quando la demenza l’avrebbe inesorabilmente costretto a ricercare in foto e diari le memorie della propria gioventù.
    Aveva ventun’anni compiuti da pochi mesi, quando era tornato a casa con il sangue rappreso sulle nocche che non era riuscito a lavare via ed aveva visto Magda seduta sulla panchina sotto al portico, lo sguardo basso sulle mani giunte sul ventre. Quando le si era avvicinato con il solito sorriso beffardo dipinto sul volto, e con dita gentili le aveva sollevato il mento per ammirarla, per soffiarle un bacio sulle labbra che rispondeva silente alle domande cui la ragazza sapeva lui non avrebbe replicato – dove sei stato, cos’hai combinato, di cui è quel sangue, ti prego tiratene fuori. Quando lei, contrariamente a quanto si era aspettato, non gli aveva rivolto alcuna di queste, ed aveva detto tre semplici parole: «jestem w ciąży.»
    Aveva ventun’anni, quando aveva deciso di non farsi rintracciare dalla ragazza, di sparire dai radar, perché cos’altro poteva fare? Non di certo prendersi carico di quella faccenda: di un bambino, lui, non sapeva che farsene. Non lo voleva, non era pronto, non avrebbe neanche lontanamente saputo come essere un padre – e nemmeno a dire un buon padre: uno di base, di quelli che potevi vincere con i punti dei cartoni del latte. La sua vita andava bene così com’era, non poteva immaginare di mandarla a puttane per un difetto di fabbrica dei profilattici.
    Aveva ventun’anni anche quando erano passati diversi giorni, addirittura settimane, e tra le lenzuola di altre batteva il chiodo per scacciare quello precedente: Magda era soltanto una delle tante, in fin dei conti. Quanto era stato con lei? Forse nemmeno mezzo anno; quanto gliene poteva fregare?
    Si rese conto, che la risposta era diversa da quella che aveva creduto.
    Aveva ventun’anni, dunque, quando aveva sentito il campanellino della porta tintinnare sopra la sua testa, occhi d’ambra a scrutare posti nei quali non aveva mai messo piede – e nei quali, sinceramente, mai avrebbe voluto o pensato di entrare. I gioielli, Row, era stato solito rubarli dai sontuosi cofanetti nelle case delle vecchie o sfilarli dai colli dei passanti, per poi indossarli o rivenderli ai migliori offerenti; si sentiva un elefante in quella cristalleria, e guardando le cifre appuntate sotto ogni pezzo comprendeva ancora di più perché non avesse mai comprato niente di quella roba lì. Era il gesto a contare, ed in quel caso più che mai: non sapeva che parole avrebbe usato per farsi perdonare, per farsi riprendere da una persona che forse non sarebbe mai stata la donna della sua vita, ma che semplicemente non l’aveva stancato nemmeno dicendogli che avrebbe sfornato un essere urlante, fastidioso, dispendioso e che magari aveva anche dei difetti. Tenere il frutto di quel rapporto, per il polacco, non era un’opzione di cui tenere conto – ma potevano affidarlo a sua sorella, magari, o lasciarlo a qualche sconosciuto che avrebbe saputo prendersene cura meglio di loro.

    Ventinove anni dopo, aveva ancora ventun’anni – e no, nella fatiscente e costosa gioielleria di Kolbudy non aveva affatto trovato un elisir di giovinezza. Aveva trovato un deficiente, e l’ultimo ricordo coerente che aveva era... era...
    C’entrava uno scrigno.
    No. Era un cesto.
    Doveva... recuperarlo. Il cesto o lo scrigno?
    Forse lo scrigno... ed era stato messo – no, lanciato nel cesto... e c’era il pancino di quell’orsacchiotta che avrebbe davvero... davvero voluto massaggiare. Oh sì!, voleva farle molti grattini.
    «ti piace, eh...» ed era quello che stava facendo.
    Ed era quello che stava facendo?
    Corrugò le sopracciglia, gli occhi sulla mano che non stava tenendo la nuca e le cui dita solleticavano con esperienza il tessuto marroncino.
    Così tante cose che non funzionavano, che. Che.
    Si alzò in piedi, trovandolo un movimento più complicato del previsto – il fatto che avesse avuto delle zampe in stoffa e fibre sintetiche incideva senza dubbio, ma il vero problema era il poco, e scomodo, spazio nel quale si ritrovava a muoversi –, le mani strette intorno al ferro; le labbra aperte, i polmoni pieni e pronti.
    Magda.
    Kosmo.

    Certo, nomi che avrebbe avuto molto piacere di urlare. Con sentimenti diversi, ma quello erano.
    Invece: «TROY!!!» saltò fuori dal cesto, scrollandosi di dosso un peluche che era rimasto attaccato dove non avrebbe dovuto.
    «TROYYYYY!!!»
    Corse.
    E corse.
    E corse, per tutte le corsie, ignorando molte cose – dalle occhiate, agli urli – fino a quando non la trovò. La strinse in vita, e sollevandola roteò su sé stesso.
    Felice. Umano.
    «SONO IO!!!» Anastasia? «PORNHUB!!!» quasi.
    «mammaaa perché quel signore è nudo?» «fatti i cazzi tuoi.» amen.
    I'm shit-faced sittin' on the sidewalk
    Ain't nobody listenin' when I talk
    I fall down and laugh
    But it really ain't funny, uh
3 replies since 3/3/2024
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