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    «sei il fratello di Idem?!?;;;??;;;»
    «il suo preferito»
    «mpf, ne dubito. scommetto non sei nemmeno quello simpatico» doveva davvero condividere la neo-rilevata attività con lui Sembrava un incubo — e lo era.
    Non potevano essere più diversi, Poor e Willa, e lo si capiva già solo guardandoli; non parevano avere non una cosa che fosse una in comune, se non la sfiga per essere stati sorteggiati in quella specie di scherzo poco divertente.
    Sospirò pesantemente la special, e incrociò le braccia al petto, mentre Poor si cimentava in una spiegazione sommaria di cosa fare nel nuovo ruolo a loro rifilato.
    «è una mera questione di comunicazione efficace.»
    Dunque la Matthews partiva già svantaggiata: comunicare? Ugh, sembrava impegnativo e decisamente fuori dalle sue corde.
    «incontro fra domanda ed offerta dipende da esigenze di tipo fisico, certo, ma anche morale.»
    Sbadigliò, e nemmeno troppo delicatamente, un po’ come pandi alle lezioni di diritto al liceo. «che palle.»
    «conosci il tuo cliente.»
    «devo proprio?»
    «una chiacchierata in amicizia, le conoscenze giuste nei locali e non, e l'affare è fatto»
    «ti dirò,» sciolse le braccia e le lasciò cadere lungo i fianchi, passeggiando per la stanza e toccando qualsiasi cosa su cui riuscisse a posare le mani: era tutto impolverato e in uno stato di discreta penosità. «sembra davvero una noia mortale.» ok, aveva accettato, ma forse poteva ancora tirarsi indietro. Si fermò nei pressi di una colonna dove infiltrazioni d’acqua avevano gonfiato e crepato il colore, che ora veniva via come carta da parati strappata, e fece una smorfia, senza degnare Poor di attenzioni. «ma poi, dobbiamo selezionare le posizioni da sottoporre ai clienti? e se falliscono? io non voglio essere responsabile dei fiaschi altrui, eh. è un problema loro se non sanno fare il lavoro, o se si fanno segare al primo giorno.» andava detto. «ah, e poi non ho capito la storia di avere le conoscenze giuste.» a quel punto, rivolse le iridi ebano verso il suo socio e sollevò entrambe le sopracciglia. «io al massimo conosco qualcuno al san mungo, o ad hogwarts.» non così utili, probabilmente.
    Era chiaro che il suo ruolo in quel centro non sarebbe stato quello addetto ad occuparsi delle relazioni con i clienti e i partners, né quello amministrativo.
    E allora cosa aveva da offrire?
    Serrò le labbra a quel pensiero, rendendosi conto ancora una volta che senza un camice bianco a coprirle le palle, Willa Matthews non fosse nulla; quella consapevolezza non le piaceva.
    «senti,» si avvicinò a Poor e lo prese per la maglia, tirandolo appena, «mandiamo via quello lì,» indicò distrattamente il notaio nell’altra stanza, «e poi facciamo questa seduta. voglio capire dal vecchio che problemi abbia… cioè,avesse, pace all’anima sua, e chiedergli perché proprio noi.» Era chiaro che anche Poor fosse curioso, perciò tanto valeva andare avanti con quella storia.
    Tanto che aveva da fare lei, per quel giorno?
    (O per tutti gli altri, la risposta non cambiava: nulla)
    «tu conosci qualcuno che si intenda di contratti?»
    Come risposta, Willa offrì un sopracciglio arcuato — chiaramente un no.
    «puoi invitarlo qui, così possiamo chiudere la trattativa oggi ed iniziare a pensare a tutto il resto… domani. oggi abbiamo già dato»
    Ci pensò un attimo, poi fece schioccare la lingua contro il palato ed esordì con un «ok.» prima di tornare dal notaio, afferrare tutte le carte del caso eccetera eccetera (ma al disboscamento non pensava mai nessuno, con tutte quelle scartoffie?!!?) e poi lo accompagnò con gentilezza alla porta — more like: lo ammonì di lasciargli del tempo per pensarci e le chiavi del locale.
    Se ringhiò con fare vagamente minaccioso in direzione del tipo, rimarrà tra Willa e Dio; sperava che Poor chiudesse entrambi gli occhi e facesse finta di nulla.
    Si chiuse la porta alle spalle, e una volta rimasti da soli nell’ufficio rivolse a Poor tutte le sue attenzioni. Minaccia.
    «idem che dice? viene?»
    Prima si fossero tolti quel pensiero, prima avrebbero potuto andare avanti. E prima Willa avrebbe potuto decidere se ereditare davvero quel posto le interessasse o meno.
    Senza preoccuparsi di spostare nulla, prese posto direttamente sopra una delle scrivanie, gambe incrociate e gomiti poggiati sulle ginocchia. «nel mentre che aspettiamo,» tirò fuori il suo telefono e aprì l’app di consegna a domicilio, «ordiniamo sushi?» le priorità, sempre chiarissime. «e magari nel frattempo mi dici chi sei, edmund withpotatoes le pareva il minimo. «se dobbiamo davvero passare insieme il nostro tempo, e qui dentro per giunta» derogatory, «voglio sapere chi sei, e cosa hai combinato nella vita fino ad ora.» pausa. palpebre strizzate verso il moro. «e perché mai dovresti essere il preferito di idem. tanto non ci credo, e dopo glielo chiedo!»
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    La pazienza di Willa stava per esaurirsi, e ok che non fosse già molta in partenza, ma in quel momento stava raggiungendo proprio minimi storici.
    «non è di mia competenza saperlo»
    No?? Ma in che senso “non di sua competenza”. COSA DICI.
    «e di chi, allora?!» a chi doveva spaccare la faccia per avere qualche risposta che non fosse grugniti vaghi e parole senza senso (o peggio, termini legali che Willa non capiva assolutamente)?
    La Matthews aveva un sacco si cose da dire a riguardo, tutte bofonchiate a denti stretti e sforzandosi di non appiccicare l'uomo al posto di uno dei (terribili) quadri alle pareti.
    «io sono stato incaricato di contattarvi in caso di morte dell’uomo, di presentarvi il locale, e farvi firmare il contratto.»
    «facile, così»
    «Non vengo pagato per fare domande di cui non mi interessa la risposta.»
    «codardo»
    «Contattate un medium»
    «ma che–» mh. Ma sai che.
    Strizzò le labbra in una smorfia pensierosa, la cinetica, osservando l'uomo con gli occhi ridotti a due fessure. Forse il pagliaccio aveva detto una cosa giusta. Thinkin. Magari poteva chiedere a —«può lasciarci da soli un momento?»
    La voce del ragazzo al suo fianco la distrasse abbastanza da farle perdere il filo dei pensieri, e lo osservò inarcando un sopracciglio. Voleva davvero rimanere solo con lei? Coraggioso. A maggior ragione quando Willa si era voltata verso Poor con estrema lentezza, la musica dell'esorcista in sottofondo.
    «.» Un punto che si sentiva nello sguardo, e nelle vibes poco amichevoli che emanava la Matthews.
    Lo seguì comunque, lanciando occhiate al magiavvocato omertoso. «che c'è.»
    «sai che… Non è una cattiva idea. Mia sorella è medium, possiamo chiedere a lei»
    Hhh. Quanto le costava dover ammettere di star pensando anche lei la stessa cosa!!!!
    Cioè, non sulla sorella, ma sul medium– aspetta.
    «tua sorella?» thinkin. «withpotatoes…….» THINKIN HARD.
    Poteva… poteva forse essere….. «sei il fratello di Idem?!?;;;??;;;» dov'era lo sguardo dolce della medium, e il sorriso caldo. Poor era chiaramente una frode ambulante.
    E certo che conosceva la psicomaga, tra San Mungo e QG, DUH!!
    (Assolutamente non perché avessero provato a spingere Willa tra le fauci della special, prima alla morte di sua cugina Jane, e poi dopo la guerra, no, vi pare, assolutamente.)
    «sarebbe un investimento interessante, se fosse vero.»
    Willa non ci credeva molto, era titubante su più livelli riguardo quella situazione.
    «tu dici?» ma soprattutto: «hai esperienze come….collocatore?» ma come diavolo si chiamavano???
    «come cpi, non dovremmo neanche contare tanto sulla pubblicità. Immagino sia l’unico nei dintorni, quindi basterà… spargere la voce della sua esistenza, ma perlomeno avremmo zero competizione»
    Incrociò le braccia al petto, in ascolto.
    La competizione non l'aveva mai preoccupata, zero volte nella vita, anzi l'aveva sempre spinta a fare meglio, la trovava stranamente appagante. Era tutto il resto a farle venire un sacco di dubbi.
    «quanto sarà mai difficile trovare un lavoro ai disperati.»
    Eccola li, la gufata del secolo.
    «dovevi proprio dirlo, eh.» ma mannaggia.
    Sbuffò, la Matthews, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. Ok. Ok. Non aveva letteralmente nulla da perdere accettando quella proposta (se non, forse, la vita perché chi poteva dirlo che il vecchio Babusha non fosse morto per mano di qualcuno che ce l'aveva con il centro dell'impiego e non avrebbe cercato di far fuori anche loro), ma la parte burocratica ancora la convinceva poco: non era strano che, tra miliardi di persone, Babusha avesse scelto proprio loro, senza neppure conoscerli?
    Assottigliò le labbra e puntò le irisi scure in quelle del Withpotatoes, inchiodandolo sul posto. «ok.» sperava di non doversene pentire in futuro, «va bene, accetto. Ma i quadri orribili vanno via, voglio appendere il mio poster di Hulk.» le priorità!!!! E poi: «e quella seduta spritica la facciamo davvero perché voglio proprio vedere il morto cosa ha da dire a riguardo.»
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    SPOILER (click to view)
    devo uscire dallo slump scusa va così senza senso
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    willa matthews
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    Allora.
    Allora.
    Quello dello sport era un argomento particolarmente delicato da intavolare con Wilhelmina Yejin Matthews, e solo una come Emilian poteva azzardarsi a rischiare tanto e sperare di uscirne indenne — anche se, chiaramente, la Gibson aveva le priorità tutte sballate ma Willa si sentiva magnanima e avrebbe fatto del suo meglio per far rendere conto alla pirocineta di quanto si sbagliasse, prego non c’è di che.
    Però. Però. C’era un limite anche a quello che (il cuore già provato di) Willa poteva sopportare e quel «dimmi, collezioni sport violenti come le gemme dell'infinito di thanos?» era pericolosamente vicino al limite. Oh, fatele causa, sentite! La via per il cuore dell’americana era molto semplice una volta capito quale strada imboccare, e i sentieri più facili da percorrere erano due: sport e fumetti.
    Emilian li aveva appena scelti entrambi, nel giro di pochi minuti, e aveva lasciato la cinetica devastata e col fiato corto, manco avesse appena corso la fottuta maratona di New York.
    hhhhh.
    Era talmente tanto sconvolta che non riuscì nemmeno a replicare al commento successivo, o dirle che se voleva le avrebbe spiegato tutto lei del Quidditch — almeno… almeno quello avrebbe potuto continuare a farlo, no? Le avevano tolto già ogni aspetto bello dell’essere strega (le avevano tolto l’essere una strega) ma poteva avere ancora lo sport, giusto? Esistevano scope create appositamente per far giocare gli special, Willa avrebbe bullizzato Kyle e Zac affinché ne creassero una anche per lei, perché non poteva accettare che i suoi giorni di scorrazzate ad alta quota fossero finiti. Voleva ancora inseguire una pluffa e ribattere lontano i bolidi.
    Comunque. Tornando ad Emilian.
    La cinetica era ancora buggata, ferma all’altra donna che paragonava le sue figurine di sport collezionati alle gemme dell'infinito di Thanos.
    Willa era: conquistata.
    A lungo aveva dovuto fare i conti col fatto che i maghi, a meno che non avessero un background babbano come lei, raramente conoscevano nulla di fumetti, e raramente era capitato che qualcuno lasciasse cadere metafore e paragoni o anche solo hint che conoscesse alcunché dell'universo Marvel, nella conversazione. Il fatto che proprio Emilian l’avesse fatto, con una nonchalance tale da far sospettare alla Matthews che non era nulla di programmato, ma un commento spontaneo, avevano destabilizzato Willa.
    Oh Emi, mannaggia.
    «vediamo cosa succede se schiocco le dita?» che altro doveva dire??? SEND HELP??? Tanto peggio di così la situazione non poteva andare.
    (E invece: non c’era mai fine al peggio, o alle sue sofferenze.)
    «mi puoi dare quante botte vuoi, sono robusta»
    La serietà nello sguardo di Emilian triggerò (ancora di più) Willa, che lo sapeva fosse solo una battuta e non ci stava: l'altra poteva continuare a premere sui suoi nervi scoperti (e poco saldi.) ancora e ancora e– no, sapete cosa? Avete ragione: Willa Matthews stava per cedere. Lo sentiva nelle ossa. Nell’energia statica che sentiva ricaricarsi sotto i polpastrelli e nelle vene. Il fatto che Emilian fosse piegata in avanti, a pochi centimetri da lei, e le stesse accarezzando il braccio con una tranquillità disarmante, non aiutavano affatto.
    Willa mandò giù il niente, la gola secca e le labbra dischiuse. Senza parole.
    «dovrei cosa, willa?»
    Jesus Christ on a motorbike.
    Quindi era così che dovevano andare le cose? Con Emilian che la provocava ancora e ancora e ancora e Willa che sentiva ogni parvenza di controllo sgretolarsi come un castello di sabbia destinato a sparire nel giro di pochi secondi? Aiuto, terribile, sconsigliato.
    Ancora una volta, la neo special tentò di mandare giù il groppo che sentiva in gola, lo sguardo a cadere debole ed inerme sulle labbra della pirocineta, così vicine che le sue parole, Willa, poteva sentirle quasi accarezzare la propria pelle.
    Per tutti i barbecue del 4 luglio: a i u t o.
    «dovresti–» eh, bella domanda. doveva cosa? Willa aveva un paio di idee, ma nessuna le sembrava ottimale vista la situazione (lei, lei era la situazione) in cui si trovavano. Si schiarì la gola, e ci riprovò. «dovresti davvero chiudere il becco.» E vi giuro, ve lo giuro, e ve lo giura persino Willa sulla sua collezione di fumetti e action figures, avrebbe voluto finirla lì. Dire quelle parole, rimettere al suo posto Emilian Gibson, allontanarsi e annaspare in cerca d’aria, per riportare ossigeno ad un cervello che stava chiaramente soffrendo qualche disturbo momentaneo dovuto all’interruzione di qualche sinapsi O COSE DEL GENERE VA BENE? era difficile esistere, ragionare o essere razionali in quel momento.
    Ma Willa ci stava provando! Ci stava provando davvero.
    Perché non aveva minimamente programmato (o potuto prevedere) quel che fece l’attimo dopo, quando la sua mano salì alla nuca dell’altra special per imprimere leggera forza e avvicinarla ancora di più a sé, chiudendo del tutto la distanza tra i loro visi.
    Non era quello che intendeva con “dovresti chiudere il becco”, promesso!!, ma quando le sue labbra incontrarono quelle di Emilian, Willa per qualche interminabile secondo smise di avere pensieri coerenti e rimase in balia delle emozioni, e di ciò che non aveva saputo di voler fare fino a che il suo corpo non era entrato in modalità autopilota e aveva fatto da solo.
    Bastardo traditore.
    In quel momento c’erano solo loro due, sedute nel bel mezzo del relitto di una casa distrutta, labbra incollate le une alle altre, e la mano di Willa a giocare con i capelli di Emi, distrattamente, mentre la tirava a sé.
    Subito prima di staccarsi come se avesse preso la scossa, e portare quella stessa mano alle labbra arrossate.
    «oh cazzo.»
    Elisa, senti, parliamone, che hai deciso? Continui a far fare tutto il lavoro sporco a me? Abbiamo un sacco di ship eh, io segno tutto. SEGNO.
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    kinetik.
    savage
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    gifs25 | 1998kinetikwilla matthews
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    La cosa divertente era che Willa ora aveva la risposta alla sua domanda: sì, i maghi avevano un centro per l'impiego. Uno anche abbastanza discreto, a giudicare dal locale e dalle porte che vedeva affacciarsi sul corridoio, sebbene con quelle vibes un po’ abbandonate che avrebbero messo i brividini a chiunque (ma non a Willa Matthews).
    La cosa un po’ meno divertente, invece, era che uno sconosciuto qualsiasi lo avesse lasciato in eredità a lei — beh, a lei e al belloccio dall’aria scema che stava al suo fianco, certo. Mh. MHHHH. Ora sì che sentiva puzza di truffa. Willa era abbastanza certa di non aver mai conosciuto, né sentito nominare, tal “Sir Suvaska” («ma il titolo è vero? si tratta sul serio di un ‘sir’?» le domande importanti) ed era altrettanto sicura di non conoscere il moro, Edmund, con il quale avrebbe dovuto condividere proprio quegli uffici. Sembravano estratti da qualche generatore casuale di nomi, e messi lì in mancanza di qualcuno che avesse davvero voglia di prendere in gestione quel posto.
    (La ex grifondoro non escludeva che fosse proprio così.)
    Non poté non guardarsi intorno, lo sguardo a saettare da una parete spoglia all’altra, posandosi sulle scrivanie vuote e sulle cassettiere (che sperava non fossero piene zeppe di fascicoli; la parte amministrativa del lavoro – di qualsiasi lavoro – l’aveva sempre annoiata a morte) per poi fulminare Edmund per la battuta sulla piantina morta (sarebbe stata una convivenza molto difficile, ne era certa) e distogliendolo infine per gettarlo oltre le finestre opacizzate dalla polvere e dalla sporcizia.
    Sicuramente quel luogo aveva visto giorni migliori.
    (Sperava.)
    «sir Suvazska vi ha nominato nel suo testamento come unici eredi di questo locale.»
    L’attenzione di Willa tornò tutta per il magiavvocato, al quale rifilò un'occhiata guardinga. «perché mai avrebbe dovuto?» una domanda molto più che lecita da parte sua, alla quale l’altro non rispose, informandoli piuttosto che «dovete solo firmare gli atti, dopodichè sarà di vostra di competenza gestirlo. Ha lasciato anche un largo anticipo per i costi previsti da qui a dodici mesi, ma troverete tutto nel contratto di proprietà» All’uomo non sembrava nemmeno toccare l’idea che Willa potesse non voler riscattare quell’eredità: le sapeva così tanto di fregatura.
    Si strinse nelle spalle, sguardo poco cordiale, quando Edmund si voltò per cercare risposte in lei: non ne aveva. Ma in compenso aveva un sacco di domande. «per caso sir zazuera ci ha lasciato anche i suoi debiti?» non ne voleva, eh, stava già nei guai con i propri, «abbiamo una foto di questo Sir…va beh, del tipo? come ci ha trovati? io non conosco questo Sir Vattelapesca, sa? mai sentito in vita mia.» quindi perché avrebbe dovuto nominare proprio lei come erede?
    E l’altro caso umano, giusto, ma soprattutto: perché lei.
    «è forse una mossa di marketing? pubblicizzate così la vostra agenzia? bastava che lasciaste un volantino nella buca delle lettere, eh.» ma probabilmente lei non l’avrebbe mai letto, in effetti: così invece era venuta a conoscenza dell’esistenza di quel centro per l’impiego e magari poteva davvero trovare un lavoro che facesse al caso suo.
    (E no, non parlava della gestione dell’intera baracca, figuriamoci; a malapena riusciva a gestire se stessa.)
    Poi, ugh, in che senso “un contratto”, Willa non era pronta agli aspetti burocratici della cosa, non aveva (l'attenzione) le competenze necessarie per leggere un documento legale e capirlo, e dubitava che ne avrebbe mai avute; se proprio si trattava di un contratto vero, avrebbe dovuto portarlo ad uno dei suoi amici più intelligenti per leggerlo e capirlo al posto suo. Che sbatti.
    «mh. ok. Mi piacerebbe leggerlo con calma»
    Ecco, sì, bravo Edmundo.
    Annuì con convinzione alle parole del moro, incrociando le braccia al petto. «sì, anche io vorrei leggerlo con calma, non si aspetterà mica che accettiamo così su due piedi, no?» non sapeva nemmeno nulla né del posto, né del vecchio padrone. E Willa era avventata su molte cose, ma quando c’erano di mezzo responsabilità e soldi si teneva ben lontana dall’affrettare le cose — specialmente le prime.
    «quindi, per capire, sir-qualche-cosa è morto, no?» se c’era un testamento di mezzo, immaginava non se la passasse poi così bene al momento, pace all’anima sua, «e invece–»
    «e i… dipendenti…?»
    Uh, mannaggia. Le aveva rubato la domanda.
    Spostò lo sguardo scuro su Edmund, strizzando le palpebre contrariata, poi lo riportò sull’avvocato. «era un’azienda di famiglia, sono tutti morti» «non mi dire.» Ironia secca e grezza, quella dell'ex grifondoro, che non puntava a suscitare ilarità in nessuno ma solo a sottolineare ancora una volta come tutto quello fosse sospettoso af. «le cose che si fanno pur di non lavorare nell’azienda di famiglia, eh.» sarebbe stata una lunga attesa, per loro, se si aspettavano compassione ed empatia dalla special; non era proprio nella sua indole dimostrarsi disponibile quando era chiaro come il sole che c’era molto di ancora non detto in quella situazione.
    Lasciava con piacere fare il gnnegnegne ad Edmund e ai suoi occhioni da cucciolo (bastonato), quelli che, ne era certa, ammaliavano le MILF, conquistavano i cuori delle nonnine, e suscitavano il rispetto degli uomini di successo. UGH EW BLEAH.
    «quindi… tutto questo è...nostro. Ed è...pagato per dodici mesi»
    Il cenno d’assenso dell’avvocato provocò un grugnito di disapprovazione in Willa. «perchééééé» petulante e fastidiosa, come una bambina o come Wilhelmina Matthews. Ma non le sembrava di chiedere così tanto, no? Solo una ragione, un motivo che avesse senso.
    «ok, siamo fra amici, sia onesto con noi: dov’è la fregatura?»
    Allargò, esasperata, le bracci. ECCO!! E-C-C-O. Menomale che voleva saperlo anche lui, perché Willa stava per perdere la (poca) pazienza che le rimaneva.
    «volete vedere il resto?»
    «no.» prese il fascicolo offerto (non così) gentilmente da Equa, e lo arrotolò, agitandolo a mò di mattarello; non ci teneva particolarmente a fare il tour dei locali, ora che aveva appurato non fosse né un ospedale né una clinica, e nemmeno uno stupido sportello d’aiuto o un punto di guardia medica, non ne voleva più sapere nulla.
    Non riusciva a collocare se stessa, come avrebbe potuto mai trovare impiego ad altri maghi?
    E special?
    ...e babbani?
    Ugh, ma a quanta gente avrebbe dovuto dare supporto? Assurdo, bloccato.
    Piantò gli stivaletti a carrarmato sulla moquette scura, braccia incrociate al petto e sguardo serio.
    «voglio sapere come ci ha trovati, e perché proprio noi.»
    Poi un’occhiata in direzione di Edmund, e un cenno della testa come per dire: mi vuoi dare una mano o sei qui solo per riscuotere i soldi?
    Certo, la stessa Willa non avrebbe rifiutato la gentile concessione monetaria del morto, ma lavorare? Offrire supporto ad altri sfigati senza lavoro come lei? Ugh, hard pass: non ne sarebbe stata davvero in grado.
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    Se avesse potuto, Willa si sarebbe yeettata fuori dalla finestra seduta stante.
    Oh, aspettate un momento: poteva. Chi c’era lì per obbligarla al contrario? Nessuno la teneva in quella stanza, nessuno la stava forzando a restare. Eccetto la presenza della special accanto a lei, ovviamente, solida — e al contempo così fragile perché Willa lo sapeva: era destinata a rompere, a disintegrare, qualsiasi cosa; persino una cosa bella e fiera e sicura di sé come Emilian Gibson.
    Alzò distrattamente lo sguardo su quest’ultima, alle sue parole («c’è pur sempre la medicina babbana. c’è tanto tagliuzzare, secondo me ti piacerebbe» sì, vero, ma non sarebbe stata la stessa cosa) e distratta (stregata, rapita) dalla risata cristallina della pirocineta.
    «non hai bisogno di essere aggiustata»
    Forse la botta in testa l’avevano presa in due, perché Willa non sapeva come altro spiegare le improvvise – e mal calcolate, avrebbe aggiunto – parole che rivolse alla maggiore, sguardo serio e linea delle labbra tirata fino a far perdere loro colore. Quantomeno, erano parole vere: la Matthews non credeva che Emi avesse bisogno di essere riparata, né per la botta in testa né per tutto il resto.
    (E poi, comunque, non sarebbe stata di certo una Wilhelmina Matthews a risolvere i suoi problemi; il pin “I could fix him her” non si applicava alla neo special, nel suo caso era più corretta la variante “I could make him her worse”.)
    Col senno di poi, comunque, avrebbe preferito continuare a dire cose non-sense senza bisogno di spiegarle alla Gibson, piuttosto che soffrire quel momento di imbarazzo acuto alle parole della maggiore, il rossore del viso nascosto (malamente) dai capelli che cadevano sul viso; minchia, oh, proprio una grandissima Willa, non c’è che dire, zero game. Il problema era che non si fosse ancora ripresa dall’esplosione (letterale) di poco prima, e sentiva ancora troppe cose premere sulla pancia, sul costato, sulle labbra. Tutte cose che a cui non voleva pensare; perché lo sapeva – lo sapeva!! – non avrebbero portato a nulla di buono.
    Non era… non era fatta per quel genere di situazioni, lei.
    E prima Emilian se ne fosse resa conto, prima avrebbero potuto entrambe continuare con la loro vita. La conosceva troppo poco, nonostante le vicende degli ultimi mesi le avessero avvicinate più di quanto anni ed anni di amicizia con sua sorella Isabella avessero fatto; probabilmente Emilian aveva questa idea, nella sua mente, di una Willa che non sarebbe mai stata come l'originale — una Willa con più pregi che difetti, una Willa bilanciata, ordinaria; una Willa che sapeva quando abbassare la testa e accettare sconfitta e, soprattutto, matura abbastanza da non rispondere a tutto con un metaforico (e non) dito medio. Una Willa che valesse la pena.
    Una Willa che non era.
    L’idea che Emi aveva di lei doveva per forza essere sbagliata, no? Ma certo; in pochi inquadravano Willa per quello che era, e quando lo facevano non era mai nulla di positivo.
    Le sue (mal riposte) convinzioni vennero confermate da quel «certo, perché no» che strappò una risata di scherno all’americana, naso arricciato e occhi roteati con così tanta veemenza da riuscire a vedere l’interno della propria scatola cranica; così, su due piedi, le venivano in mente giusto uno o duecento motivi per cui dare una pistola a Wilhelmina Matthews fosse una pessima idea, ma dubitava avessero abbastanza tempo per elencarli tutti. «perché no» ripetuto, a mo’ di imitazione (incredula, beffarda) ma anche di conferma: non era affatto una buona idea, ma l’aveva vista?
    « «ero un’agente, sono addestrata a gestire le emergenze»
    La smorfia sul viso di Willa si accentuò, naso ancora arricciato, non troppo entusiasta all'idea di sessere definita un'emergenza, pur sapendo bene di esserlo, eccome.«sì beh, magari evitiamo di andarne a cercare altre, di emergenze» parole che forse colpivano un po’ troppo vicino casa, per entrambe, ma che la Matthews non riuscì a trattenere: rifrenarsi dal dare fiato alle parole così come prendevano forma nella sua testa non era mai stata la sua qualità più grande, duh.
    Fu abbastanza grata quando la conversazione ripiegò, inaspettatamente ma nel momento perfetto, su un argomento che Willa masticava da prima ancora di imparare a camminare: lo sport.
    Peccato che: «ewww no che schifo, dovevi rovinare tutto con il baseball» come EWWWW NO CHE SCHIFO???? EMILIAN???? Willa serrò i pugni e ne portò uno al petto, affranta e delusa.
    «rimangiati subito quello che hai detto. subito
    «ti rendi conto che lo sport superiore è il basketball, vero?» solo per la presa di posizione di andarle contro, la cinetica incrociò le braccia al petto e osservò Emilian, due schegge ebano dietro folte ciglia scure. «Non so di cosa tu stia parlando, è chiaro che questa botta in testa ti abbia davvero fatto molto male.» Non c’era preoccupazione nel suo tono di voce, ma avrebbe dovuto: la situazione era molto seria.
    A Willa il basket piaceva, non così tanto da considerarlo lo sport migliore d'America ma abbastanza da passare almeno sei o sette anni a giocare nella squadra della sua città prima, e al campetto con gli altri bambini poi. Ammetterlo, però, ora che Emilian aveva reso nota la sua posizione? Mpfff.
    Mai.
    E comunque preferiva mille volte il baseball, poco ma sicuro.
    «dovresti davv–»
    «aspetta- da quando ci sono i cacciatori nel baseball?»
    Cosa?
    Batté le palpebre un paio di volte, senza distogliere lo sguardo dal viso di Emi. «No, quello è il quidditch.» fece una pausa, confusa anche lei. «Ho giocato anche a quidditch» enfasi sull'anche — non c'era sport (violento), babbano o meno, che Willa non avesse praticato almeno una volta nella vita. «Dicevo solo per sottolineare la mia mira impeccabile.» CIò non toglieva il fatto che avrebbe evitato, se possibile, di maneggiare un’arma da fuoco; specialmente ora che sentiva di avere ben poco autocontrollo sulle proprie emozioni, o sulle sue reazioni (che non erano state mai, mai, pacate, nemmeno una volta, not once in her life).
    E pensava davvero di averla fatta franca, di poter chiacchierare ancora un po’ di sport e nient’altro, e invece no. «non ho capito, sai. cos’è che mi vuoi far vedere?»
    Meh, che palle.
    Cercò di non ritirarsi all’improvvisa vicinanza della Gibson, ma non riuscì a non irrigidirsi tutta, qualsiasi forma di controllo sul proprio corpo abbandonata del tutto. «n-niente. cosa vuoi che ti faccia vedere.» secca, brusca, con tutta l’intenzione di chiudere lì la questione.
    Intenzione che, era chiaro, non condivideva con l’altra special.
    «questa botta in testa mi ha reso proprio confusa, ahia»
    Eh, e allora che fai, non commenti con un: «ora te ne do una io, di botta.» derogatory, e assolutamente senza alcun sottotono kinky o sessuale, ma se ne pentì l’istante dopo averlo detto, sguardo a vagare bastardo e traditore, sulle labbra della maggiore, un po’ troppo vicine per i gusti della Matthews. «dovresti–» farti indietro? farti avanti? Non lo sapeva nemmeno Willa cosa voleva suggerire, le parole incastrate in gola e la lingua stretta tra i denti.
    C’era elettricità nella stanza, energia allo stato puro che minacciava davvero di far saltare non solo quel che rimaneva della casa, ma l’intero quartiere; Willa mandò giù il groppo il gola, un mix di bile, inadeguatezza e disagio, dischiudendo appena le labbra, ma rimase immobile al proprio posto, il viso a pochi centimetri da quello dell’altra, gli occhi ancora fissi sulle sue labbra invitanti, una tentazione che Willa era certa di non potersi permettere.
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    gifs25 | 1998kinetikwilla matthews
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    the silence is deafening
    && your heart is bleeding out
    but they don't care,
    they never cared at all
    C’erano tante cose che Willa rimpiangeva dei recenti avvenimenti, in primis aver lasciato che lo schieramento avversario vincesse la fottuta guerra, non aver fatto di più per il suo, o non aver preso a calci nel culo quelli che non ci avevano creduto abbastanza e che avevano sempre sostenuto che fosse già tutto scritto; rimpiangeva molte cose, ma non avrebbe mai creduto che a fare stramaledettamente male sarebbe stato, tra tutti, il pensiero di non poter più esercitare la professione di guaritrice.
    Aveva sempre sostenuto che spaccare le ossa le piacesse più che aggiustarle, ma non si era resa conto di quanto avesse investito, di cuore, tempo e passione, in quella carriera fino a che non le era stata strappata via: cosa se ne facevano di una guaritrice che non era più in grado di utilizzare una bacchetta magica?
    Willa aveva odiato tutti, dal primo all’ultimo — come si permettevano di licenziarla, di strapparle via quella vocazione che non aveva saputo di avere fino a che non aveva indossato per la prima volta il camice e ci si era sentita a proprio agio, comodo e calzante alla perfezione… come osavano? Per ripicca, Willa era disposta ad imparare da zero la medicina babbana: non ci stava ad essere allontanata dalle corsie e dalle sale, e dai suoi pazienti, e per le mutande di Grifondoro, da Hogwarts. Quei pochi mesi passati a lavorare accanto a Dakota erano stati intensi, nella loro breve durata, e Willa aveva imparato un sacco di cose che le avrebbero fatto comodo da sapere ai tempi in cui era stata lei a vestire la divisa da studentessa — ora rimpiangeva non esserseli goduti ancora di più.
    Le avevano detto che ci fossero altri modi per rendersi utili, e Willa aveva fissato con occhi scuri e inscrutabili, in attesa della lista puntata di impieghi pronti ad attenderla, quando era chiaro a chiunque che non ce ne fossero così tanti a prova di Wilhelmina Matthews — a maggior ragione, poi, ora che rischiava di radere al suolo un ufficio o un negozio al primo accenno di rabbia furente.
    Non vedeva la fila di datori di lavori pronti ad assumerla, e non poteva sopportare l’idea di passare ancora un solo giorno stesa sul divano di casa sua a mangiare gelato e a piangersi addosso. Aveva provato a cercarselo da sé, un lavoro, non era così inetta; ma nessuna esperienza era andata bene.
    Aveva tentato con la palestra, ma aveva rischiato troppe volte di prendere a pugni gli iscritti che facevano un commento di troppo sulla sua persona; aveva provato a lavorare ai Tre Manici, ed aveva rotto abbastanza calici, piatti e persino bottiglie da vedere il suo primo stipendio decurtato quasi totalmente per ricoprire quelle perdite; aveva offerto i suoi servigi come buttafuori al casinò di Jane, ma anche lì era finita in più risse di quante ne avesse sedate; aveva tentato il tutto per tutto facendosi assumere come maschera al teatro, e poi alla biglietteria dello zoo, ma aveva dato le dimissioni da entrambi i posti dopo un turno e mezzo di lavoro.
    Willa Matthews era nata per fare la guaritrice.
    Non si vedeva in nessun altro ruolo, e non c’era nient’altro che sapesse fare, a quanto pareva.
    Ma era così disperata che quando aveva ricevuto quella lettera chiusa dal sigillo del Ministero, era stata persino curiosa di scoprire di cosa si trattasse: magari qualcuno al centro dell’impiego magico (ma ce l’avevano, un centro dell’impiego magico?) aveva preso visione del suo (disastroso) curriculum e si era impietosito, decidendo di muoversi al posto suo e trovarle il lavoro perfetto.
    Un po’ ci sperava.
    Normalmente avrebbe cercato la puzza di truffa in una missiva come quella, ma in quel periodo era disposta a credere persino alla fatina dei denti, purché le portasse dei soldi.
    Poteva essere così surreale che qualcuno, al Ministero, stesse aiutando i neo-special che avevano perso il lavoro, per reinserirli nel contesto lavorativo del nuovo ordine?
    Sì, in effetti faceva quasi ridere come prospettiva, ma Willa c’avrebbe creduto se voleva dire avere una nuova occasione per rimettersi in gioco; magari le chiedevano di fare la guaritrice part-time (aveva letto fosse possibile, o forse era solo un miraggio dettato dalla disperazione) o qualcosa di simile.
    Oh, prima o poi la fortuna avrebbe girato no? Prima o poi qualcuno le avrebbe detto che poteva tornare a fare ciò che amava; prima o poi.
    Infondo, la lettera parlava di “posto nel mondo” e “missione”, poteva tranquillamente parlare della medicina. Al momento del suo arrivo all’appuntamento, Willa se n’era quasi convinta.
    «sono Verus Equa, un magiavvocato. Il mio cliente, sir Suvazska, ha richiesto espressamente la sua presenza e quella di -»
    Anche Willa guardò in direzione del moro al suo fianco, studiandolo con gli occhietti ridotti a due fessure: era lì per rubarle il posto? Lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani.
    «Willa. Matthews.» Si presentò all’uomo, senza distogliere lo sguardo accusatorio da “Edmund Withpotatoes”.
    Edmund, come il fratello infame dei Pevensie: Willa aveva già capito il tipo.
    «Signor Equa, di cosa si tratta? La lettera era abbastanza vaga a riguardo», e la special voleva sapere il prima possibile se le sue teorie erano corrette, o se aveva nuovamente sperato in qualcosa che non si sarebbe mai realizzato.
    «Vi spiegherò tutto una volta all’interno.» Maledetto bastardo, ci voleva un certo autocontrollo per non saltargli al collo e costringerlo a parlare subito; un autocontrollo che Willa aveva solo in parte. «Se volete seguirmi.»
    E che altra possibilità avevano?
    Willa lanciò un’occhiata di sottecchi al moro, poi si mosse velocemente per seguire il magiavvocato all’interno dell’edificio, entrando prima del Patatino. «Questo non ha l’aria di essere un ospedale,» commentò, mentre salivano le scale fino a raggiungere una porta anonima, uguale alle altre tre che si affacciavano sullo stesso corridoio, «è una clinica privata?» Se lo sarebbe fatto bastare, figuriamoci!
    «Una clinica?» Beh, non c’era motivo di suonare così sorpreso, infame di un avvocato; Willa lo inchiodò con lo sguardo, incrociando le braccia al petto. Allora l’uomo le rivolse uno sguardo sbrigativo, passandolo in maniera frettolosa anche sul Withpotatoes, prima di cacciare fuori una chiave dalla tasca e infilarla nella serratura di fronte a sé. «Temo ci sia stato un malinteso, signorina Matthews,» ma in che senso, quale malinteso, cosa stai dicendo vecchio, ti spacco la faccia. Ignaro delle minacce che vorticavano nella mente della cinetica, Equa spalancò la porta e gli indicò l’interno del locale.
    «Questo è un centro per l’impiego,» detto con voce bassa e scandendo bene le parole, come se li reputasse stupidi (.), «e voi siete i nuovi titolari.»
    «oh, fuck me gently with a chainsaw»
    Silenzio.
    «è una citazione.» e una [bestemmia]
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.


    SPOILER (click to view)
    mi dispiace, è andata cosi
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    willa matthews
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    about all the things that I'm avoiding
    «che parolone, ho solo battuto la testa. vedi che tra poco passa»
    «eppure parliamo la stessa lingua» per inciso, si riferiva all’americano; non avevano quello stupido accento d’oltreoceano che rendeva incomprensibile anche la parola più banale del mondo come acqua. Fu appena un borbottio, il suo, solo in parte divertito; c’era una punta di ironia nelle sue parole, ma non abbastanza da coprire il fatto che fosse dannatamente seria riguardo la botta presa: Emi poteva sminuirla quanto voleva, ma Willa non avrebbe ceduto.
    «e se te l’avessi detto io, te mi avresti ascoltato?»
    Anche rigirare la questione non avrebbe funzionato.
    «non è la stessa cosa, sono io la guaritrice qui.» Si interruppe, mordendosi l'interno della guancia. «Ero.» Faceva ancora male pensare a quello che avesse perso; e se piangere sulla sua carriera la rendeva una persona egoista, consideranto quanto avessero perso gli altri, in primis la donna di fronte a sé, beh, Willa non si era mai definita perfetta.
    Né era mai stata una che si arrendeva facilmente.
    Scosse piano la testa, abbassando le palpebre. «Anzi, sai cosa? Sono. Tutta questa storia non può cancellare anni e anni di servizio.» Di ossa rotte e riaggiustate; di studio matto e disperatissimo; di gavetta; di traumi, più psicologici che fisici, per tutte le cose che aveva visto passare in corsia. RIpetersi quelle parole serviva più a lei per convincersi che l’aver perso la magia non la rendesse meno Willa fucking Matthews. «Troverò un modo per continuare ad esserlo.» Poteva non avere più la magia per guarire le ferite dei suoi pazienti, ma esisteva sempre la medicina babbana. Con un po’ di sudore, e tanta caparbietà (e una buona dose di testardaggine che di certo non le mancava) Willa avrebbe potuto tenersi la sua mansione. Forse non proprio come l’aveva sempre amata e odiata, al contempo, e vissuta, ma poteva ancora arrangiarsi. In qualche modo.
    Non voleva pensare, però, che fossero solo le speranze deliranti di qualcuno che, a conti fatti, aveva davvero perso ogni certezza mai avuta; perciò lasciò correre, lasciando che fosse Emi a continuare la conversazione.
    Spoiler: col senno di poi, avrebbe dovuto continuare con la sua delusional era.
    «penso che se esplodessi io, butterei giù il reso della casa»
    «vogliamo fare a gara?» un sopracciglio a svettare verso la fronte, seria come la statua dell’Isola di Pasqua. «perché secondo me ho ancora un po’ di energia da espellere, e comunque questa baracca non mancherà a nessuno» chissà dov’erano finiti i proprietari: Willa non era certa di volerlo sapere.
    Ma la pirocineta non sembrava essere dello stesso avviso.
    «sai, willa» No, non sapeva, e con la mano della Gibson a giocare distrattamente sulla sua gamba, non era certa di volerlo sapere. Tentò di non irrigidirsi sotto il tocco distratto ed involontario, né di abbassare lo sguardo, tenendolo invece testardamente sul viso di Emilian. «hai dei modi davvero violenti di sfogarti» Sì beh, ma funzionavano! MH. E si concentrò su quello, sul tenere l’espressione stoica e impassibile, anche un po’ offesa, al commento della maggiore, per non pensare a come la mancanza della mano appena rimossa avesse lasciato un calore impossibile da negare, ancora più del tocco stesso.
    Si strinse nelle spalle. «ciascuno ha i propri.» «ma insomma, i miei includono bere e lo sparare al poligono, qualche volta del-» «appu— » «sesso del tutto casuale, attività fisiche a caso» « —nto»
    Aspetta.
    HHHH.
    Anche sapendo che fosse impossibile nascondere il rossore sulle guance, voltò comunque il viso verso la finestra, agganciando lo sguardo al più inutile dei dettagli; qualsiasi cosa pur di non incontrare lo sguardo dell’agente. Voleva credere che fosse stato un commento tanto per, il suo, anche perché non aveva assolutamente alcun motivo per hintare al sesso occasionale con lei. Con Wilhelmina Matthews. Cioè non che intendesse il sesso occasionale “con” lei. Insomma, parlare del sesso occasionale con lei. SI DAI UFFA. Avete capito. «preferisco quelli violenti» borbottò, perché cos’altro doveva dirle?! Emilian l’aveva mandata in palla.
    Willa non era così diretta come l’altra special, e dubitava lo sarebbe mai stata: aveva avuto le sue (terribili) esperienze, ma nulla che le avesse mai fatto dire “wow ok bellissimo lo voglio rifare”. Ogni volta era successo per puro caso, e senza che la grifondoro riflettesse più di tanto su ciò in cui si stava cacciando (storia della sua vita), perciò dire che fosse propriamente a suo agio con l’argomento sarebbe stato esagerato e falso.
    C’era da dire che terribili non era il primo aggettivo che le veniva in mente senza una ragione, eh. Erano state davvero, davvero terribili. Lei, loro, tutto. 0/5, sconsigliato. Forse aveva qualche problema, una malattia sconosciuta, qualcosa di irrimediabile: avrebbe spiegato tante cose.
    O forse lo viveva solo come una necessità e niente di più, perdendo tutto il piacere ad esso legato. EH, avrebbe spiegato tante cose anche quello. Ad ogni modo, per qualche motivo, non voleva che una come Emilian lo venisse a sapere: un cambio di argomento era necessario!
    «sai sparare? potrei portarti, una volta» Aggrottò le sopracciglia, confusa. «Vuoi davvero mettermi una pistola in mano?» La squadrò da capo a piedi, con aria seria. «La botta deve essere stata più forte del previsto, andiamo, ti porto all’ospedale.»
    She said, rimanendo assolutamente ferma.
    La risposta comunque era «sì.» Suo padre l'aveva portata al poligono da tiro svariate volte, e si era allenata numerose volte anche con le armi babbane, all'interno del QG. «gioco a baseball da tutta la vita» duhhh «ed ero una battitrice versatile, provetta cacciatrice. la mia mira è impeccabile.» L'unico motivo per cui non andava in giro con l'arma nella fondina era perché si reputava troppo imprevedibile per poter essere certa di non perdere le staffe e far fuori tutti. Non voleva essere l'ennesima notizia di cronaca.
    «Ma perché no, insomma.» pessima, pessima idea! «Io ti ho mostrato il mio, tu puoi mostrarmi i tuoi.» Un battito di ciglia più tardi, si rese conto della vaga (e del tutto involontaria!!!) allusione fatta. Cambiò di nuovo colore, giusto ora che aveva perso il rossore alle gote, e alzò in fretta le mani per scacciare qualsiasi malsana idea potesse venire alla special «Non- non stavo dicendo- cioè, hai capito, non volevo- grrrr» prese il viso tra le mani, di nuovo rotta. «Puoi spararmi qui e adesso, se vuoi.» non era manco una supplica, era proprio un invito a farlo, tanto ormai stava già implodendo da sola per la figuraccia.
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    Il fischio nelle orecchie non accennava a smettere, e Willa poteva giurare di sentire il cuore batterle direttamente nella scatola cranica; sapeva che non fosse fisicamente possibile, ma non poteva fare a meno di pensare che quel colpo terribile l'avesse sconvolta non solo a livello genetico, ma le avesse spostato anche qualche organo facendolo finire in posti dove non avrebbero dovuto essere.
    Che fosse poi realmente così, che l'avessero cambiata a livello più profondo, era un altro discorso, e non necessariamente ciò che intendeva la Matthews, ma okay.
    Provò a mettersi seduta, facendo leva su un braccio e mandando indietro i capelli caduti sul viso, mentre prendeva nota della devastazione provocata dall'onda d'urto e a fatica tratteneva una risata isterica. Lo sapeva! L'aveva sempre saputo; non avrebbe mai potuto beccarsi di qualcosa di carino come... Non so, la realtà artistica. La faunocinesi! O una cosa utile come la guarigione.
    No, doveva capitarle proprio quel potere potenzialmente distruttivo. Che razza di senso dell'umorismo bastardo che aveva il karma. Meglio non pensarci, o sarebbe esplosa di nuovo, probabilmente.
    Chiamò dunque l'agente, pur non riuscendo a mettere bene a fuoco la sua figura, ma notando comunque come avesse scelto di mantenere le distanze — non la biasimava, infondo. Anche Willa avrebbe avuto paura. E allora fu lei a muovere un passo – o meglio, un gattone – incerto verso Emilian, rimanendo a terra e trascinandosi tra schegge di legno e vetro, fregandosene dei nuovi tagli che si aprivano sulle braccia nude, e gli strappi sui jeans ormai rovinati. «Non ti preoccupare per me» la raggiunse, ma non si azzardò a muovere un muscolo anche solo per sfiorarla, per paura di fare peggio. «non dirmi quello che devo fare» non era il suo capo, no? Né il suo generale, non aveva alcun diritto di dirle cosa fare o non fare.
    Come sentirsi.
    La neo special strinse le labbra in una linea dura, puntando gli occhi scuri sul viso della maggiore, sforzandosi di mettere a fuoco eventuali danni di cui doversi occupare (e possibilmente non preoccupare), l'istinto da guaritrice a subentrare l'istante dopo lo shock del contraccolpo. Fece una conta veloce dei danni, non notando ferite profonde; giusto qualche taglio ed escoriazione qua e la, ma probabilmente una bella botta in testa. Inginocchiata di fronte alla maggiore, alzò un dito e lo piazzò davanti agli occhi di Emilian, invitandola a seguirlo con lo sguardo mentre lo muoveva lentamente verso destra, e poi verso sinistra. «ora stai meglio?» onestamente? Sì. Esplodere aveva effettivamente aiutato. «una favola. Quante dita sono?» ne alzò una sola, il dito medio; poi tornò seduta sui talloni, osservandola.
    Era colpa sua.
    Non c'era altro modo di mettere la questione.
    «assorbimento cinetico, vero?» Fece schioccare la lingua contro i denti, stringendosi nelle spalle. «a quanto pare.» Ironico, davvero fottutamente ironico. «non conosco così bene le sfaccettature di ogni potere,» dubitava che le conoscessero gli stessi ribelli estremisti, ma tant'è, «ma l'ho visto in azione qualche volta e— » con un cenno della mano, lasciò cadere l'argomento. «nonostante sia il periodo peggiore per desiderare una cosa del genere, avrei preferito rimanere come mio padre» babbana; perché con la magia, Willa c'era nata e già così aveva fatto incredibile fatica per addomesticarla e farla sua; ma un potere acquisito alla veneranda età di venticinque anni?! Non sarebbe mai riuscita a farlo suo, o a controllarlo. Contrariamente a quanto sosteneva la gente, lei non si era affatto calmata, né era diventata più matura e responsabile con il passare degli anni; era ancora pericolosa come la quindicenne grifondoro che terrorizzava il castello. «bella merda.» onesto, perché non sapeva essere nient'altro, Willa Matthews, se non brutalmente onesta.
    «sai cosa? questo è meglio di essere brilli. non pensavo che la stanza potesse girare così velocemente»
    Inclinò leggermente il viso da un lato, osservando Emilian. «si chiama trauma cranico» e nonostante la chiara mancanza di punteggiatura nella voce (.), il tono si fece comunque appena più morbido quando si rivolse nuovamente a lei. «scusa, non volevo farti del male.» e non sapeva comunque come farla stare bene, capite il suo grandissimo problema?! «a mia discolpa,» incrocio le braccia al petto, mettendosi poi più comoda sui detriti di vetro e legno, accanto alla pirocineta, «ti avevo detto di rimanere lontana» in generale, nella vita.
    Ma era contenta non le avesse dato retta.
    Si prese un momento per osservarla reclinare il viso all'indietro, occhi chiusi e respiro a farsi più regolare. La osservò, in silenzio, cercando di ricordarle che fosse una pessima idea dormire dopo una botta del genere, ma scoprendo di non riuscire a spiccicare parola. La gola si seccò ancor di più quando Emilian, sempre ad occhi chiusi, parlò al posto suo. «forse hai ragione, parlarne è inutile. ma ci sono modi più sani di sfogare la rabbia» non stava mica— oddio, stava suggerendo quello che Willa pensava che stesse suggerendo? Spalancò la bocca, a corto di parole e di fiato; boccheggiò in silenzio, distogliendo poi lo sguardo per portarlo ovunque purché lontano dalla maggiore. «sì, beh. esplodere funziona, consigliato.» annaspò, voce gracchiante e parole cavate a fatica da un gola serrata. Ma tu guarda se !!! le pareva quello !! il momento adatto. «anche rompere qualcosa. o urlare. O ascoltare la musica a tutto volume, o— » no, aveva finito i suggerimenti.
    Chiuse la bocca, tirando le ginocchia al petto e posando il mento su di esse. Il tutto, sempre evitando accuratamente di guardare Emilian — aiuto????????
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    Della calma di Emilian, Willa non sapeva cosa farsene.
    Le era completamente sconosciuta quella sensazione, quel vuoto così grande e profondo da risucchiare al suo interno qualsiasi altra emozione ci venisse a contatto; il battito cardiaco che, immaginava, fosse regolare sotto la gabbia toracica dell'altra — credeva di averlo avvertito, poco prima, quando le dita dell'agente si erano strette attorno al suo polso, ma si era resa conto che il vibrato impazzito fosse il proprio, e che Emi avesse fatto solo da riverbero a qualcosa che Willa già sapeva. Già sentiva.
    Soprattutto, quella calma lei non la capiva; avevano tutti il diritto di sentirsi arrabbiati, incazzati per giunta, per quello che avevano perso — ma Emi? Wren, Just, Moka? Persino Jane... Tutti loro avevano qualcosa in più per cui desiderare di urlare.
    E allora, perché non urlavano?
    Perché non si sentivano come lei?
    Perché — perché restare calmi. Come. Era loro diritto sentire di voler dare fuoco al mondo.
    E poi la colpì.
    Quella consapevolezza che, nel suo lutto e nella sua rabbia, Willa aveva mancato di realizzare fino a quel momento. Lo avevano già fatto; dar fuoco al mondo, intendo. Forse– no, quasi certamente era stato quello a svuotarli. Sapere che, pur senza volendo, potessero essere capaci di farlo di nuovo.
    E allora Willa si incazzava un po' di più; perché se non potevano farlo loro, qualcuno doveva. Poteva. E quel qualcuno era disposta ad essere lei, da sempre quella sbagliata, quella esagerata, quella devastante; avrebbe solo continuato a vestire i panni che per tutta la vita le avevano cucito addosso, e a buon ragione.
    Per Emi, per le altre ombre, per Hunter e Halley, per Bertie e il generale Day, persino per Erisha e Neffi. In quel momento sentiva di poter distruggere per tutti loro; tanto cos'era rimasto lì, se non il fantasma di quel quartiere di Phillies dove la stessa Willa aveva passato interi pomeriggi a giocare a palla con le sue cugine, o i bambini di tutta la via? Nulla, non era rimasto nulla.
    Quel poco che c'era, Willa l'avrebbe portato volentieri con sé.
    E sentiva di essere ad un passo dal farlo.
    Perché le parole di Emilian non la stavano aiutando, ma al contrario, la Matthews stava facendo suo tutto quel dolore silenzioso e personale che percepiva dalla pirocineta, e che non vedeva manifestarsi in nessun modo; non nello sguardo fermo, non nelle spalle dritte, non nella presa solida con cui le aveva stretto le mani.
    Ma lo sentiva nelle parole, nel tono rassegnato. In quel «ogni volta che chiudo gli occhi ho il terrore di riaprirli da un’altra parte, e di aver devastato un’altra città» e i quegli sbuffi di risata amara e sarcastica, di chi aveva già deciso che non ci fosse speranza; che bisognasse rassegnarsi alle conseguenze degli eventi, delle azioni, e accettare di aver beccato il bastoncino corto e di averla presa nel culo.
    Willa non poteva.
    Non voleva.
    E la faceva incazzare — dio, se la faceva incazzare!, che Emilian sostenesse di non sapere più cosa volesse dire stare bene. Non se lo meritava, non lei.
    Nessuno di loro.
    Posò lo sguardo sulla Gibson, ancora in ginocchio sul pavimento. Arresa. E la sensazione di pace e calma che aveva inconsciamente desiderato, in cui aveva sperato, contattandola e chiedendole di raggiungerla, sfumò, tingendosi dei colori accesi della furia.
    «cosa dicevano sempre al gruppo? che parlarne aiuta?»
    Non era arrabbiata con Emilian, ma in quel momento distinguerlo dal per Emilian era pressoché impossibile. Willa era solo furente, semplice e conciso.
    Con tutti, con nessuno.
    Con se stessa.
    Con Abbadon.
    «Sì beh,» solo quando aprì la bocca per parlare, si rese conto di quanto fosse sempre più difficile farlo. Del fiato corto e della morsa al petto; del cuore che aveva accellerato improvvisamente i battiti e del sudore ad imperlare la fronte. Sapeva riconoscerli i sintomi di un attacco di panico, ma non le era mai successo prima; li aveva visti solo nelle espressioni agonizzanti dei suoi pazienti. Si inginocchiò, mano a stringere la maglia e ad allontanarla dalla pelle già umida, come se quello potesse alleviare il senso di soffocamento. «Sto parlando,» poteva fingere che andasse tutto bene, anche sotto lo sguardo attento di Emi; ma non andava bene un cazzo, «e non sto decisamente meglio.» Provò a respirare, un lungo e profondo respiro per riempire i polmoni — niente. C’era altro a riempirli, energia che vibrava insieme all’ira; che le rizzava i peli sulle braccia, e le appanava la vista, e le faceva venire le vertigini.
    Non era un attacco di panico; stava perdendo il controllo.
    Di cosa, non ne aveva la certezza, ma aveva visto il Morales allenarsi col suo potere abbastanza da potersi fare un’idea.
    Appiattì la mano sul torace, provando a regolarizzare il respiro e a dimenticare che fosse incazzata oltre ogni modo, che il loro mondo fosse andato a puttante, che avessero perso, se non tutto, troppo.
    Non servì a un cazzo.
    Giusto il tempo di urlare a Emi di togliersi di mezzo, e provare ad allontanarsi da lei, rimanendo in ginocchio, e un ultimo «’fanculo» a premere fuori dalle labbra, e poi, finalmente, esplose.
    Letteralmente.
    Energia pura ad inondare la stanza, a distruggere quel poco dell’arredamento che ancora rimaneva in piedi, ad aprire una voragine sul muro di legno che separava la sala da pranzo dalla cucina. Energia, nuda e cruda, assorbita probabilmente tra un colpo e l’altro — quel giorno, e nel corso della vita. O che si era sedimentata per le troppe emozioni, chi cazzo lo sapeva, non era quel genere di dottoressa, Willa; non aveva mai saputo come funzionassero davvero gli special.
    Energia; che la sbalzò all’indietro, facendola finire contro l’unica parete salda dell’intero edificio. Che culo. Si aggrappò saldamente alla propria coscienza, rifiutandosi si lasciarla scivolare via, nonostante l’idea di chiudere gli occhi e riposarsi fosse allettante; non se lo poteva permettere. «Emi— » oddio, stava bene? La cercò, ancora distesa su un fianco e con i capelli sugli occhi a coprire la visuale; la cercò, vista appannata e vertigini che premevano come chiodi nella testa, e la nausea, e un malessere derivato da qualcosa che non poteva più negare, o fingere non esistesse. «Stai bene?»
    La cercò, perché era egoista e, nonostante tutto, aveva bisogno di lei.
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    «smettila, willa»
    Aveva dimenticato di non essere sola, almeno non fisicamente; nella sua testa, il dolore era egoisticamente solo il suo. Era sua la vita interrotta; era sua la rabbia che vibrava, e bruciava, nel petto.
    Ma la verità era che non fosse affatto da sola, in quello schifo.
    E che ci fosse chi stava peggio di lei.
    Incredibilmente peggio.
    Quando sentì le dita stringersi intorno al polso, e fare appena forza per farle mollare i vetri che aveva inconsciamente stretto nel palmo, le lasciò fare. Contro ogni stimolo nervoso, contro ogni aspettativa e abitudine, Willa non oppose resistenza.
    «guardami. guarda me»
    Ma quello — quello non lo fece. Non ne aveva il coraggio. Ironico, perché (la stupidità) l'audacia non le era mai mancata, arrivava anzi sempre svariati battiti di ciglia prima del buon senso; ma alzare gli occhi e cercare il volto di Emilian, in quel momento, le suggeriva una sola certezza, ed era quella che sarebbe crollata definitivamente se lo avesse fatto.
    Non la voleva lì.
    Non voleva che la vedesse così debole.
    E allora perché le hai scritto, Will?
    Perché Emilian l'aveva già vista — più di una volta, in quello stupido gruppo che cambiava ogni volta sede ma rimaneva sempre lo stesso; l'aveva vista rimanere seduta stoicamente su una delle scomode sedie di plastica, le braccia conserte e la linea delle labbra stretta e dura; l'aveva beccata accanto alle ciambelle, dita sporche di zucchero e guance gonfie di morsi calorici; l'aveva ascoltata mentre, in piedi, di fronte a tutti, raccontava nella maniera più vaga possibile di come avesse contribuito ad uccidere una stanza piena di piccoli prigionieri in quel della Siberia.
    Emilian aveva visto tutti i lati di Wilhelmina che la ex Grifondoro non permetteva a nessun altro di vedere; e, di rimando, Willa aveva avuto in cambio piccoli scorci sulla vera Emilian Cortés Gibson. Per quel motivo, perché avevano cercato di capire insieme come rimettere insieme i pezzi di due vite disintegrate e distrutte, per quel motivo le aveva scritto. Perché da quando non c'era più sua cugina Jane, aveva temuto di non trovare più nessuno forte abbastanza da essere in grado non solo di raccoglierla, quando in frantumi, ma di resistere quando metteva in mostra i suoi lati peggiori.
    Emilian l'aveva fatto.
    Emilian c'era riuscita; non si era tirata indietro quando aveva saputo, quando con rabbia e parole taglienti, Willa le aveva raccontato la vera ragione dietro gli incubi, che per settimane aveva tenuto solo per sé. Emilian era rimasta, e non l'aveva giudicata. I modi bruschi della Matthews non l'avevano spaventata, non l'avevano fatta scappare via.
    E non l'avevano neppure salvata.
    Se ripensava a quanto successo all'alba del primo giugno, Willa riprendeva a vibrare di rabbia e delusione. Non erano riusciti in un bel niente, solo a peggiorare le cose.
    Era egoista, Willa; aveva chiamato Emi perché sapeva di aver bisogno di qualcuno che la trattenesse dal compiere l'indicibile, senza pensare che la Gibson era stata costretta a fare ben peggio e lei non aveva potuto – né poteva – fare nulla per alleviare quel dolore. Cercava un balsamo per le proprie ferite, quando non aveva nulla con cui risanare quelle della pirocineta. Aveva solo rancore, e bile amara a risalire l'esofago, e tante atrocità da riversare su Abbadon conscia che avrebbero solo fatto morire dal ridere il Fondatore.
    Eppure l'aveva voluta lì. L'aveva necessitata.
    E ora che sentiva ogni fibra del proprio essere iniziare a cedere, pensava che forse aveva fatto una cazzata. L'ennesima.
    «per me puoi continuare fino a che non viene giù tutto» Bene, si ritrovò a pensare Willa, perché aveva proprio intenzione di farlo; distruggere era sempre stata la sua specialità, infondo, no? «ma non risolverà un cazzo, ok?» Sapeva anche quello. Sapeva anche fottutamente quello.
    Sospirò, e si mise seduta sui talloni, osservando i tagli poco profondi sui palmi lesionati. Voleva urlare per entrambe, voleva spaccare la faccia di Abbadon per se stessa, e per Emilian.
    Ma non avrebbe risolto un cazzo, e la maggiore aveva ragione.
    Sarebbe stato bello se fosse stato così semplice, uh?
    «sfogati con me, piuttosto»
    Non era facile nemmeno quello. Non era giusto. Emilian non c'entrava nulla — anzi, anzi; se c'era una col diritto di essere incazzata, lì, era proprio lei.
    A lei avevano strappato via tutto: vita, libero arbitrio, coscienza. L'avevano resa una marionetta nelle mani di un folle, e del suo gruppo di —
    Faceva ancora fatica a capire cosa fosse successo, la Matthews. Demoni? Mio dio, era tutto assurdo e inconcepibile, e fuori da quel mondo. Come poteva essere quella la nuova normalità?
    A fatica, ma senza timore, alzò finalmente lo sguardo verso Emilian. E l'unica cosa che riusciva a pensare era che non fosse fottutamente giusto. «Come fai,» la voce più dura del necessario, rotta, mentre studiava il viso della special al suo fianco, «ad essere così calma. Come fai Non era un'accusa, era piuttosto una disperata richiesta di condividere con lei quel segreto, per aiutarla. Willa non ce la faceva.
    «Ho un– un peso, qui», indicò una zona generale con la mano, all'altezza dello sterno, «che minaccia di soffocarmi.» Di distruggerla. «Come faccio a non voler distruggere tutto, come—» indurì la mascella, facendo vagare lo sguardo oltre la finestra già in frantumi. La guerra era arrivata anche lì, e quella devastazione non portava la firma della Matthews.
    Non ancora.
    «Sono incazzata da morire, Emi. Non penso a nient'altro da giorni,» penso a tutto quello che ci hanno tolto, a come ci hanno fregati spingendoci a combattere una guerra già persa; penso a te — a voi, che morite davanti ai nostri occhi; «non mi rimane che questo.» allargò le braccia, indicando il nulla. E attendere il manifestarsi di un potere che sperava non si sarebbe palesato mai.
    E poi si rese conto che, almeno lei, aveva ancora una vita che fosse sua e non dovesse temere costantemente di chiudere gli occhi e riaprirli senza sapere dove fosse, o cosa avesse fatto nel tempo perso nell'oblio più nero.
    Sospirò ancora, stavolta alzandosi e iniziando a misurare il perimetro della stanza un passo dopo l'altro. «Scusa, non— non volevo.» Si fermò, braccia lunghe contro i fianchi e sguardo serio. «Ma non lo posso accettare. Nulla. Non—» la indicó, ma non finì la frase, «n闻 si indicó, ma non finì la frase: stava alla Gibson riempire gli spazi vuoti nelle frasi che la furia di Willa non gli lasciava completare. «Come fai.»
    Più basso, più gutturale; vibrava nelle corde vocali e nell'anima, nella disperazione di aver perso il controllo di tutto. Di doversi reinventare una vita in un mondo che non era quello per cui aveva sempre combattuto. Credeva nelle rivoluzioni, la Matthews, ne era paladina e sostenitrice; ma non a spese dei babbani, ora schiavi alla mercé di special e maghi.
    Strinse i pugni per fermare il tremolio, rendendosi conto che non si fermava lì. Era nelle ossa, era nella gabbia toracica, nello stomaco, sulle labbra. Energia pura — era collera, era un veleno che stava pian piano logorando qualsiasi cosa. «Dimmelo, perché io non ce la faccio e avrebbe dovuto essere lei a supportare la maggiore, ma non ne era in grado. Con ogni probabilità, non lo sarebbe mai stata.
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    kinetik.
    savage
    1998
  11. .
    willa matthews
    Yesterday is yesterday, but today is today
    (&& I don't feel so great)
    The blood starts draining from my face
    the moment that I start to think
    about all the things that I'm avoiding
    Quando la prima scossa aveva fatto tremare il terreno, Willa aveva creduto di esserselo immaginata, e aveva dato la colpa alla testata che Cherry gli aveva appena mollato.
    Alla seconda, aveva portato le mani sul naso per assestare i danni e controllare che non glielo avesse rotto.
    Alla terza, aveva passato il dorso di una delle mani sotto le narici per impedire che il sangue colasse denso e acre fino alle labbra. Si, era rotto.
    Alla quarta, aveva guardo verso Cherry.
    Alla quinta, l'aveva presa per un braccio e tirata via dalla faglia che si stava aprendo sul pavimento.
    Erano cadute insieme; erano rotolate sull'erba umida e pregna di sangue amico e fraterno separatamente.

    Ci rimise poco, Willa, a rimettersi in piedi; era stanca, era dolorante, era messa male e non era certa di poter sopravvivere ad un altro scontro — ma era pronta a morire facendolo. Non era la sua prima battaglia, ma poteva essere l'ultima; non la preoccupava, quel pensiero. Era la sua vita, quella, e lei aveva scelto di combattere. Per riempire il vuoto di una mancanza prematura e troppo dolorosa, certo; ma era rimasta perché la causa, alla fine, le era entrata nella testa, nel cuore, nelle ossa. Così come l'idea di devolvere la sua stessa esistenza a combattere qualsiasi tipo di sopruso e ingiustizia: lasciar vincere Abbadon avrebbe spazzato via qualsiasi traguardo mai raggiunto, rendendo vano il sacrificio di ciascuno di loro.
    Si rimise in piedi, dunque, trovando per puro e benedettissimo culo la spada che aveva abbandonato minuti (ore?) prima: non sapeva cosa sarebbe uscito dalla faglia, o cosa sarebbe caduto da quello squarcio nel cielo, ma non era disposta ad affrontarlo a mani nude.
    La levò, stringendo l'elsa con entrambe le mani e puntando lo sguardo scuro verso l'ignoto, in attesa. E poi —
    E poi, li vide. Il generale Day, Amaranth. Ptolemy, Sinclair, Wren e Justin. Ma non solo loro; c'erano tutti. Alcuni li riconosceva, molti altri erano solo volti martoriati e occhi vuoti che avevano smesso di osservare il mondo. Provò ad aiutare tutti quelli che poteva – pochi, troppo pochi – e ad essere di supporto per quelli che provavano a farcela da soli. Che fottuto casino del cazzo.
    Urlò, in direzione di chiunque volesse farle la grazia di rispondere, qualche insulto intramezzato da domande serie tipo: cosa cazzo sta succedendo. E poi la risposta arrivò.
    Dai dannati walkie-talkie che tenevano legati alla divisa, rimasti silenti e inutili fino a quel momento, e che gracchiavano un «mi dispiace» a cui Willa non sentiva di poter credere.
    Inutile bastardo figlio di puttana, dov'era? Dove. Cazzo. Era. Lancaster. Li aveva mandati al macello — e loro avevano accettato perché erano quello, no? Agnelli sacrificali.
    Ma dove era, adesso che il mondo stava crollando su se stesso?
    Quanti altri dovevano morire prima che lui smettesse di professare inutili scuse e muovesse il culo per intervenire? Evidentemente, la risposta era: molti altri.
    Strinse la presa sulla spada — non c'era nulla di utile che potesse fare con quell'arma, non quando Seth in persona fece il suo arrivo.
    Non quando con un semplice gesto della mano, divise di nuovo gli schieramenti.
    Pro.
    Versus Contro.
    Ancora una volta, gli uni opposti agli altri. Qualsiasi cosa avesse intenzione di fare, Willa avrebbe combattuto. Sarebbe morta provandoci. E quando Abbadon afferrò Amaranth per la gola, la Matthews ebbe l'istinto di gettarsi contro di lui, spada sguainata e ringhio a vibrare dietro i denti. Suicida. Folle. Disperata.
    Non riusciva a muoversi — forse bastò quel poco a salvarle la vita.
    Prima di perdere tutto il resto.
    I rampicanti facevano male, ma le spore che avvelenavano il sangue e lo macchiavano irreparabilmente facevano peggio. Willa cadde a terra, schiacciata da una forza che veniva da dentro, e che veniva da fuori; energia che la trapassava, e che esplodeva a ritmi convulsi; sangue che bruciava e che ribolliva nelle vene, la magia che si faceva sempre più debole, sempre più diradata, fino a non essere più lì.
    Nemmeno una goccia, nemmeno una stilla a ricordare cosa fosse stata.
    Guarda, pa', sono come te adesso. Il babbano più magico che avesse mai conosciuto; l'unico uomo della sua vita, il suo eroe e il suo unico punto fermo. Sono come te, e avrebbe voluto che fosse vero. Lo desiderava più di qualsiasi altra cosa; perché l'alternativa — oh, fanculo, l'alternativa era peggio di qualsiasi altra prospettiva.
    Non disdegnava gli special, lei. Ma non avrebbe mai pensato di diventarne uno. Sperava davvero che nessun tipo di magia atticchisse nel suo sangue; se non poteva avere quella con cui era nata, non ne voleva nessuna.
    Tentò, invano, di rimettersi in piedi.
    E dovette accettare la verità: non ce la faceva.
    Così, da terra, come uno dei tanti cadaveri che s'erano salvati dall'essere fagocitati dalla faglia nera, osservò l'incubo continuare.
    Cercò i compagni ancora in piedi, erano salvi?, e li osservò uno ad uno mentre la nube nera li accerchiava e li inghiottiva. Tenne Emilian per ultima, occhi duri rivolti verso l'agente, e denti scoperti, fiducia distrutta.
    «Non ho intenzione di andare proprio da nessuna parte»
    E poi era sparita per tre secondi — o per tre ore. Cos'era il tempo, ormai?
    Willa aveva osservato i compagni d'armi, gli amici, svanire nel nulla e aveva urlato. Un grido ferale, a graffiare le pareti della gola e bruciare la poca aria che rimaneva nei polmoni.
    Ti ammazzo, cazzo, io ti ammazzo verme schifoso lurido bastardo.
    Urlò, perché non aveva nient'altro da fare. Il suo dolore, misto a quello degli altri, non faceva che accrescere il potere delle faglie e del pezzo di merda stempiato. Ma non le fregava niente. Non in quel momento, non quando i suoi amici e colleghi li osservavano tutti senza vederli, perduti al mondo; e a loro stessi.
    «sono più resistente di quanto non sembri»
    E poi era morta.
    [bestemmia], Emilian era morta.
    Davanti a tutti.
    Esattamente come sua cugina, giustiziata in piazza.
    Glielo aveva promesso che non sarebbe tornata al gruppo di supporto per colpa sua, e glielo urlò, solo telepaticamente, anche in quel momento.
    Sguardo vitreo e labbra semi dischiuse.
    Emilian non poteva sentirla, ma Willa sperava comunque di sì.
    E poi era tornata, e non era più Emilian. Era un'ombra, come quelle che la Matthews aveva rimandato al creatore nella feroce battaglia al Colosseo.
    Era morta, ed era diventata un'Ombra di Abbadon.
    Non così resistente, eh, Gibson?
    Non così fottutamente resistente.
    Un altro grido, in risposta all'invito a brindare di Abbadon.
    Un grido che non si sarebbe placato molto facilmente.

    Giorni dopo, Willa stava ancora urlando.
    Ad intermittenza, a volte a gran voce e a volte solo dentro di sé.
    Alle volte, urlava usando i pugni contro le pareti.
    Alle volte, soffocava le proprie grida dietro il cucino dell'ospedale. Ospedale da cui, per inciso, s'era dimessa dopo poche ore. Era ancora una fottuta guaritrice, non bastavano di certo una manciata di minuti e di spore tossiche per spazzare via anni e anni di studio e pratica. Sapeva ancora fare il suo lavoro; pure se non avrebbe più potuto farlo.
    Urlò di nuovo, stavolta scaraventando la vetrinetta in terra, schegge impazzite a rimbalzare in ogni dove — e se qualcuna finì col conficcarsi nella carne morbida, chi cazzo se ne frega, di certo non Wilhelmina Matthews.
    Odiava tutto.
    Odiava non potersela prendere con il diretto interessato.
    Odiava che odiasse così tanto.
    Odiava di sentire la pelle bruciare e i nervi pizzicare, scoperti, pronti a scattare. Odiava l'energia statica che percepiva vibrare intorno a sé, e il fatto di non sentire più nessun calore e nessuna sensazione familiare quando stringeva il catalizzatore magico; era un pezzo di legno vuoto e inutile, ormai.
    Con un gesto di disperata follia, di rabbia primordiale e incontrollata, Willa alzò il ginocchio e vi spezzò contro il ramoscello di tasso che per quattordici anni era stata la sua amica più fidata, e anche quella più restia a farsi capire e conoscere. Immaginava che, a quel punto, non ce ne fosse più bisogno. Che non ci fosse più tempo.
    Urlò ancora, cadendo in ginocchio sui pezzi di vetro, le mani a premere contro gli spigoli taglienti, noncurante delle ferite che aprivano i palmi morbidi.
    Il suo grido riecheggiò nella casa abbandonata di una città altrettanto desolata; non c'erano più babbani in quel quartiere di Philadelphia, persino i suoi genitori avevano (saggiamente) deciso di tornare in Inghilterra.
    C'era solo lei, e tutti i suoi infiniti rimpianti.
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    kinetik.
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    1998
  12. .
    w. matthews j. c.sharp
    This is not
    what you think it is;
    it's worse
    Le iridi scure erano fisse sul maxi schermo apparso al centro del cortile, le labbra serrate in una linea dura e le mani tra i capelli ancora biondo platino, a tirare appena. Ad un mese di distanza dalla Siberia, l’ultima cosa che Willa si meritava era uno psicopatico che radunava la folla e faceva il suo discorso da megalomane fanatico e infognato.
    Non se lo meritava proprio.
    Avrebbe voluto correre contro lo schermo e prenderlo a pugni; buttarlo giù un pixel alla volta, farlo saltare per aria, picchiarlo con la mazza rinforzata rubata ad un battitore, distruggerlo a mani nude. Avrebbe voluto farlo con l’uomo che stava parlando alla folla — ma non poteva. Non solo perché si rendeva conto che non sarebbe arrivata neppure a dieci metri di distanza dall’uomo, ma perché non poteva, punto e basta. Non riusciva a non guardarlo, a non ascoltarlo, a non odiarlo: Willa tendeva ad odiare tutti quelli che si permettevano di salire su un palco e prendere ostaggio una folla intera. L’intera nazione; al diavolo, l’intero pianeta, probabilmente. Fatele causa.
    Se quello che avevano detto alle ultime riunioni di ribelli era vero, avevano un cazzo di problema tra le mani. Non sapevano nulla di Seth, non sapevano cosa volesse né da dove arrivasse né perché fosse così forte.
    Oh, beh, almeno la prima di quelle tre cose potevano depennarla dalla lista, dopo quel pomeriggio: voleva rovesciare lo statuto di segretezza? Va bene. Willa poteva anche accettare l’idea di rivendicare finalmente un posto nel mondo senza sentirsi diversi, o doversi nascondere; ma farlo annientando i babbani? Oh, col cazzo.
    COL. CAZZO.
    Suo padre era un babbano. E amava sia lei, che sua madre. Non erano tutti uguali; non tutti avevano paura dei maghi. Willa non avrebbe abbassato il capo di fronte ad un nuovo Hitler; non ci stava.
    Se Seth voleva distruggere il mondo babbano, doveva passare prima sul suo cadavere.
    E l’avrebbe fatto. Ma non si mollava un cazzo.
    Non poteva — non poteva essere vero. Non stava succedendo. Fanculo, okay? Si meritava le ferie, non l’ennesima chiamata alle armi. Ma non poteva rifiutare. Non voleva rifiutare. Se quel coglione voleva la guerra, Willa gliel’avrebbe data. Dopotutto, per la giusta motivazione, avrebbe dichiarato guerra anche a Dio, la Matthews, se solo avesse creduto davvero in lui.
    A metà del discorso lasciò il cortile diretta verso l’infermeria. Odiava tutto. Voleva raggiungere l’ufficio di William e capire quale era la loro strategia: dovevano per forza averne una. Se quel figlio di puttana aveva dalla sua parte i ministeri esteri e il governo inglese, loro dovevano per forza fare qualcosa.
    «Infermiera Matthews»
    Chi cazzo era che le rompeva il cazzo. Cazzo.
    Si voltò, fumo ad uscire dalle narici, e incontrò lo sguardo azzurro di una legionaria. Sospirò, gettando solo un’ultima occhiata oltre le proprie spalle: William avrebbe dovuto aspettare. Sperava vivamente di beccarlo ancora in ufficio. Passò una mano sul viso stanco, i segni delle notti insonni ancora ben visibili sulla pelle pallida. «Dottoressa Matthews. Oppure Willa.» Essere chiamata “infermiera Matthews” era proprio brutto. E poi: era un fottuto medico, ok, se l’era guadagnato col sudore il suo titolo. «Che c’è?»
    «Sì, certo. Uhm, Sharp. Java. OK. Mh, può seguirmi a Different Lodge?» Doveva proprio? «C’è stato un incidente. E... Porti qualche benda.» L’altra ci pensò su un secondo, poi scosse la testa. «Un bel po’ di bende Ugh, ma cazzo. Non ce lo avevano un Guaritore, lì in mezzo? Non potevano aiutarsi da soli? MA LO SAPEVANO CHE STAVA SCOPPIANDO LA GUERRA? E che a Willa Matthews non fregava una beneamata minchia delle scaramucce da adolescenti? Cristo. Sospirò, ancora e sempre. «Va bene, vieni con me, andiamo a prendere qualche scorta. Perché intanto non mi dici cosa-» cazzo «-è successo?» Sospiro. Sospiro. Sospiro.
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    1998
    1995
    contro
    pro
    nurse
    legionnaire
  13. .
    Willa non vedeva l’ora di andare via da lì.
    Quel posto non l’aveva fatta stare meglio dopo la morte di Jane, e non l’avrebbe fatta stare meglio ora; gli incontri aiutavano solo chi ci credeva, e Willa dubitava di averlo mai fatto. Non a vent’anni, non quel giorno. Probabilmente, mai.
    Rimase seduta solo perché non aveva nessun altro posto dove andare, se non una casa silenziosa e un frigo vuoto — per lo meno lì avevano le ciambelle, e doveva solo tirare fino alla fine delle chiacchiere. Poteva farcela. Doveva solo fissare un punto imprecisato sulla parete in lontananza (check ✓), avere l’aria di una con un sacco di problemi (check ✓) e poca voglia di parlare (check ✓), e sarebbe arrivata incolume alla meta; bastava anche non chiudere gli occhi, non pensare alla Siberia, ai fottuti bambini, all’odore di sangue che pizzicava le narici, e a quello di bruciato che l’aveva quasi soffocata.
    Non doveva pensare allo sguardo vuoto di Dom, a quello carico di Mads, alla calma piatta di Javi, alle nocche bianche di Mac e alla freddezza di Twat; a Geneviéve che usava i bambini come scudo, all’ultimatum che aveva concesso ai volontari; al fatto che alcuni di loro, lei compresa, non avessero avuto alcun bisogno di riflettere su quale fosse la decisione da prendere. Non doveva ripercorrere quelle ore, rivivere i momenti, ricordare le conversazioni — i rumori. I pianti. Le voci.
    Alla fine, aveva chiuso gli occhi senza rendersene conto.
    Li riaprì solo quando sentì il rumore di sedie che strusciavano sul pavimento, e il vociare farsi più concitato intorno a lei. L’incontro era finito; poteva assaltare il tavolo delle ciambelle.
    Ne aveva una alla crema tra i denti e stava valutando di rubarne anche una al cioccolato, quando sentì una voce alle sue spalle. Non si voltò subito, certa che non stessero parlando con lei. «non sapevo frequentassi anche te questi.....posti» Ma a quel punto, lasciando perdere la scelta della seconda ciambella, spostò lo sguardo dai dolci alla figura che le si era piazzata accanto.
    E ci mise qualche istante prima di associare un nome al viso che le sorrideva mestamente; ci mise ancora di più a ricordare perché le fossero familiari, nome e viso.
    «Uh,» strappò un morso di pasta fritta, fianco contro il tavolo, mentre studiava la Gibson che l’aveva avvcinata, «potrei dire la stessa cosa.» Che ci faceva la sorella di Isabella ad un incontro simile?
    No, sapete cosa? A Willa non interessava: aveva già un sacco di problemi, non le serviva conoscere anche quelli altrui.
    «ho sentito che il caffè è decente, te che dici? non so se voglio rischiare» Osservò il thermos con il liquido scuro come se le avesse fatto un affronto personale.
    «Non mi fiderei... Non cambiano il filtro dell’acqua da almeno due anni, te lo dico io.» Agitò la ciambella a mezz’aria. «Sono qui per queste. Betty’s, la migliore pasticceria di New Orleans.» Per lo meno, quella rimaneva una costante degli incontri. «Il caffé è per chi vuole farla finita e non sa come.» Un pensiero macabro, il suo, specialmente in un posto pieno zeppo di gente fragile come quella, ma eh: a ciascuno i propri coping mechanisms, quelli di Willa erano sarcasmo, immagazzinare traumi e incubi senza parlarne, e chiudersi in se stessa.
    Addentò di nuovo la ciambella, osservando Emilian con curiosità e nemmeno una briciola di disagio nel mostrarsi sfatta com’era: capelli arruffati, e recentemente tinti di biondo (come se un cambio drastico nel look potesse spazzare via quanto successo in Russia), cappellino da baseball calato sugli occhi, borse scure che arrivavano quasi agli zigomi. Il ritratto della salute.
    La osservò.
    La osservò ancora.
    «Che fai, non le provi?» Se Emilian pensava che Willa avrebbe spiegato il perché della sua presenza lì, quel giorno, si sbagliava di grosso; ma parlare di qualsiasi altra cosa? Era la persona giusta. «Quella al cioccolato ha un bell’aspetto. Ma anche quella alla fragola.» Terzo morso alla ciambella scelta, ed era ad un morso di distanza dalla prossima vittima. Per il caffé, la Matthews conosceva un posto che faceva dei milkshakes da urlo; peccato che Emilian le suggerisse vibes da “caffé amaro come la mia anima” eccetera eccetera.
    E peccato anche che non volesse invitare una quasi sconosciuta a bere un caffé — non uscendo entrambe da un incontro del genere, poi. Willa non aveva voglia di parlare con nessuno di quelle cose, ma si sarebbe accontentata di fare un po’ di chiacchiere all’aria solo per passare il tempo, e ritardare il più possibile il sonno travagliato e costellato di incubi.
    wilhelmina
    willa matthews

    so, don't tell my mom I'm fallin' apart,
    she hurts when I hurt, my scars are her scars
    at least in her mind, her daughter is fine
    25 | 20.04.98 | Philadelphia (PA)
    nurse | healer | rebel
    ptsd | feeling guilty af
  14. .
    Il divano di casa Matthews non era fatto per i power nap, non quelli di ventidue minuti come insegnava la saggia, né tantomeno per quelli più lunghi. Gli anni, e la continua esposizione alle chiappone di Dan Matthews, l’avevano reso un luogo inospitale e poco adatto ai riposini, pomeridiani o notturni che fossero, ma Willa aveva perso il conto delle volte in cui si era addormentata su quei cuscini scomodi pur di non staccarsi dalle gambe di suo papà; le prime volte, Dan aveva posato la birra sul tavolino basso, aveva preso in braccio la bambina e l’aveva portata fino in camera, depositandola delicatamente nel proprio letto. Mina tornava in salotto dopo pochi minuti, ogni singola volta.
    Col tempo, Dan aveva rinunciato a quel viaggio senza senso fino al piano di sopra, e Mina aveva imparato a convinvere con il mal di schiena e dolori al collo derivanti da una nottata passata su quel divano vecchio come il cucco. Una sorta di masochismo, il suo, che premeva sulla nostalgia e sulla testardaggine di una bambina che, già da piccolissima, dimostrava di avere un bel caratterino (difficile).
    Willa non dormiva su quel divano da anni, dall’ultimo Natale che aveva passato a casa dei suoi genitori, due anni prima. Ma nel girarsi per trovare una posizione che fosse meno scomoda, le braccia attorno al proprio busto e le gambe rannicchiate fino al petto, le sembrava di essere tornata nel passato, a quelle sere in cui, pur morendo di sonno, si ostinava a rimanere sul divano accanto al papà per seguire le partite di NFL alla tv. L’unica differenza, era l’assenza delle mani grandi dell’uomo ad accarezzare i suoi capelli, in quel momento.
    Si massaggiò gli occhi con entrambe le mani, pensando che forse era stata un’idea stupida quella di tornare a casa quando sapeva bene che l’avrebbe trovata vuota.
    La conversazione telefonica con sua mamma era andata più o meno così: «oh, ma andiamo in Brasile per festeggiare il nostro anniversario, tesoro! non ricordi? te lo abbiamo detto mesi fa. va tutto bene? dobbiamo disdire il viaggio? è successo qualcosa? Mina, va tutto bene E la guaritrice aveva dovuto staccare la cornetta dall’orecchio, prendere uno, due, tre, dieci respiri profondi, prima di trovare la forza di parlare all’unico essere umano al mondo che potesse dire di conoscerla davvero bene. Mentire a sua mamma non era mai un’opzione, non quando Lee sapeva fiutare le bugie anche ad un oceano di distanza. «ma sì, è solo una giornata difficile a lavoro, mà» quella, almeno, non era stata del tutto una menzogna. Perché Willa, a lavoro, c’era tornata davvero. Dopo la Siberia, e dopo la quarantena, e dopo le notti insonni, e dopo gli incubi — era tornata al castello. Aveva indossato il suo camice bianco, aveva legato i capelli e messo in ordine le pozioni e le garze e la cazzo di buona volontà; perché il suo lavoro, contrariamente a quanto si potesse pensare, le piaceva. Cazzo, se le piaceva. Ma era difficile non sussultare quando incontrava il proprio riflesso e vedeva un camice simile al suo, ma imbrattato di sangue, e dei visi sconosciuti di cui però sapeva descrivere ogni linea e ogni imperfezione, tante le volte che li aveva rivisti nei suoi incubi.
    Avevano lasciato la Siberia da settimane, ma la Siberia non aveva lasciato loro. E lo vedeva nello sguardo cupo di Darden, quando la incrociava nel QG; nel modo in cui Moka sorrideva nascondendo dietro quel ghigno tutte le colpe che si portavano addosso; nei silenzi di Mads e in quelli di Tolé; nell’aria spaesata di Dominic e nelle rughe che, prima della missione, non aveva avuto. Quanto a lei, Wilhelmina aveva continuato sullo stesso percorso già intrapreso in Russia: labbra e pugni serrati, cuore serrato, occhi fissi sugli obiettivi futuri. Si ripeteva che poteva farcela, che prima o poi gli incubi sarebbero finiti e che aveva visto di peggio.
    Ma non era così.
    Cosa poteva esserci di peggio dello sterminio di un’intera stanza piena di ragazzini, già duramente provati da anni e anni di sperimentazioni?
    Quello che era successo a Novosibirsk faceva di loro dei mostri?
    Non aveva una risposta da dare a se stessa; e forse una risposta stava proprio . Nel silenzio, nel senso di colpa, nel modo in cui non riusciva ad incrociare il proprio sguardo allo specchio.
    Si mosse ancora una volta, le lamentele di ossa e muscoli messi a dura prova dal divano l’unico suono di una casa altrimenti silenziosa: non era stata una buona idea Smaterilizzarsi in America, sapendo che sarebbe rimasta sola, ma non aveva nemmeno voglia di tornare a casa. Sarebbe rimasta su quel divano scomodo, per qualche altra ora, nella speranza che la stanchezza fosse più forte dei ricordi e riuscisse a regalarle almeno qualche istante di spegnimento più che meritato.

    Quando Willa aprì gli occhi per l’ennesima volta, fuori il cielo sfoggiava la sua veste migliore con i colori caldi del tramonto: era sempre stato il suo momento della giornata preferito, quando il sole calava pigro ma inesorabile oltre l’orizzonte e sembrava gettare fuoco su ogni profilo che toccava. La distruzione, per certi aspetti, non le era così sconosciuta; era solo raro che arrivasse da dentro, quella volta.
    Sospirò, mettendosi seduta e portando i gomiti sulle ginocchia, la testa abbandonata tra le mani unite. Sua mamma aveva lasciato poco e nulla in frigorifero (il viaggio sarebbe durato un paio di settimane, e non contava di avere ospiti in quel periodo!) ma una Willa a stomaco vuoto era una Willa che non funzionava. Una delle poche cose che la Russia non le aveva tolto, al contrario del sonno, era la fame: almeno quella.
    Una doccia veloce, jeans e felpa indossati in due secondi, ed era pronta per affrontare almeno uno dei problemi di quel giorno. Una delle (tante.) cose belle dell’America era che bastava uscire di casa e mettersi in strada, e fast food sarebbero apparsi in ogni dove, come fossero funghi. Ma meglio. Willa aveva passato gran parte della sua vita a terrorizzare le vie di Phillies, e credeva di conoscere ogni luogo di quella città, sia la parte babbana che quella magica; eppure, anche Philadelphia era cambiata molto, negli anni.
    Proprio come lei.
    Perlomeno, il suo diner preferito era ancora aperto e, almeno quello, Willa poteva segnarlo nelle battaglie vinte quel giorno.
    Due doppi cheeseburger e una porzione di patatine extra large dopo, Willa non aveva più scuse; sapeva benissimo dove dovesse andare, cosa fare, era il vero motivo per cui aveva fatto ritorno in America. Il gruppo di supporto dove sua mamma l’aveva trascinata ai tempi della morte di Jane e che, stando alle sue indagini, era ancora aperto; un posticino tranquillo, nascosto agli occhi dei babbani ma facilmente trovabile per qualsiasi mago americano ne avesse avuto bisogno — bastava solo sapere dove cercare. E Willa, suo malgrado, lo sapeva bene.
    Un luogo non fisicamente lì, ma collegato a più città tramite passaporte che si attivavano nei giorni e negli orari prestabiliti per gli incontri.
    Raggiungerlo non fu difficile; allungare la mano per attivare la passaporta e lasciarsi trasportare fino al ritrovo, quello sì.

    Non parlava mai, Mina.
    Andava agli incontri perché Lee la trascinava, letteralmente, nella speranza che la aiutasse a processare il lutto — ma Mina rimaneva stoica nel suo silenzio.
    A distanza di anni, le cose non erano cambiate.
    Seduta infondo alla sala, l’ultima sedia dell’ultima fila, l’unica cosa diversa rispetto all’ultima volta che era stata lì era il tizio che parlava alla platea; non lo riconosceva, e distrattamente si chiese cosa ne fosse stato di Brett.
    Non parlò con nessuno, non guardò nessuno, occhi fissi su Simon – ciiiiao Simon – come se non fosse in grado di far entrare nient’altro nella sua bolla. Forse era così, o forse stava semplicemente rimandando l’inevitabile e prima o poi la bolla sarebbe scoppiata.
    wilhelmina
    willa matthews

    so, don't tell my mom I'm fallin' apart,
    she hurts when I hurt, my scars are her scars
    at least in her mind, her daughter is fine
    25 | 20.04.98 | Philadelphia (PA)
    nurse | healer | rebel
    ptsd | feeling guilty af
  15. .
    Sara...... non avevi ancora segnato Bertie........sei pessima........e poi vorresti pure il wkw????????? Mhhh mhhhhh sounds fakeeeeeee (💕)

    Ma grazie dell'up, pulcine, rimandavo questo momento da giorni .

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    Poi con l'account giusto aggiornerò anche .
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