making grown men cry

[preq. 011] row ft. mimmo

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    Seduto su di una vecchia cassa abbandonata ai bordi del vicolo – non di certo comodamente come avrebbe voluto, dal momento che era alta poco più della metà della sua coscia costringendolo a piegarsi su sé stesso più del dovuto, ma sapeva adattarsi perfettamente alle circostanze –, Wyborowa Moskovskaya dischiuse le labbra in un ghigno sincero e divertito, tenendo premuto lo schermo per ripubblicare il contenuto prima di far scorrere il dito e passare a quello successivo.
    «ti prego… ridammelo.»
    Di telefoni, in tutti quegli anni, il polacco ne aveva visti parecchi. Li aveva visti evolvere, cambiare giorno dopo giorno sotto i suoi occhi senza poterne mai realmente godere, vincolato in una forma che gli impediva anche solo di pensare di poterne afferrare uno e capire come si utilizzasse – una forma nella quale le memorie si sovrapponevano confusionarie, ed i ricordi di quegli oggetti divenivano sfocati la settimana successiva o il secondo subito dopo, ripresentandosi (forse) casualmente dopo un decennio senza dargli modo di ritrovare il filo conduttore che potesse legarli a tutte le altre immagini. Saperne riconoscere uno era stato semplice; capire come farlo illuminare, come arrivare alle cose nel suo interno, ed utilizzarlo in qualche mistica maniera era stato, come aveva saggiamente previsto, molto più complicato di quanto avrebbe dovuto essere necessario. Si era sentito un primate alle prese con la tecnologia prima di iniziare a prenderci dimestichezza, un biondo gorilla di un metro e novanta accartocciato su un cubo di legno nell’Inferius brutalmente sconfitto da uno strumentopolo di quattordici centimetri di lunghezza per sette di larghezza, l’indice teso come una lama sopra i cristalli liquidi che nulla aveva potuto contro di lui – se non rischiare di romperlo nello spingerlo un po’ troppo forte.
    Allungò distrattamente la gamba davanti a sé, andando ad impattare con la pianta del piede contro la faccia dell’uomo a terra, con particolare attenzione nel dedicare la maggiore pressione possibile nella zona del naso. «e statti zitto,» non distolse le iridi ambrate dall’iPhone, troppo preso dal video di husky siberiani ululanti come delle fottute ambulanze. «coglione.» odiava essere distratto dai suoi hobby, quasi quanto il venir fisicamente o verbalmente interrotto mentre stava facendo qualcosa: non poteva saperlo quel tizio qualunque ai suoi piedi che quello era esattamente il posto che gli spettava; che il nome di Row a quel punto della storia avrebbe dovuto essere un’istituzione da temere e rispettare, se un nano deficiente con fin troppi poteri non avesse fatto le sue strane magie impedendogli di scalare le vette dell’Olimpo.
    «è tutto quello che ho…» a quel punto, e solo sentendo il tono di voce spezzato, alzò appena il capo, accompagnando il movimento con un sopracciglio sollevato. Cosa credeva, che non si fosse accorto che oltre a non avere nemmeno un soldo in tasca, fosse un inutile babbano? Il polacco non era mai stato un vero e proprio purista del sangue magico, di certo non ai livelli dei propri genitori: onestamente se n’era sempre alquanto sbattuto il cazzo dei no-mag, quantomeno abbastanza da mischiarsi nei loro affari, sebbene credesse che a conti fatti fossero inferiori alla propria specie; l’inservibilità con cui l’aveva tacciato, era tutta per questioni personali. «lo so.»
    C’erano dei lati positivi nell’essere scomparso dalla faccia della terra per ventotto fottuti e lunghissimi anni. Certo, si era lasciato alle spalle un mondo diverso, un mondo che ricordava meno del previsto, e con questo tante persone: tra i vantaggi annoverabili, non rientrava di sicuro il viaggio in Polonia fatto appena tornato ad essere umano, e la poco piacevole scoperta che la donna per cui era stato maledetto era morta, e sua madre uccisa.
    Ma non guardava mai il bicchiere mezzo vuoto, Row. Era ancora un ventunenne, e per di più non esisteva. C’era una lapide col suo nome, e nessun corpo sepolto sotto di questo; era stato dato per morto, dopo essere stato considerato disperso per una decina d’anni.
    Era un fottutissimo fantasma libero di vagare senza dover badare alle conseguenze, svincolato da dogmi etici di cui si era sempre fatto beffe. Poteva fare il cazzo che gli pareva, e nessuno avrebbe mai nemmeno saputo della sua esistenza.
    «tanto non ti serve più,» le emozioni negative preferiva non lasciarle sedimentare nel petto, portandosele dietro come un macigno: preferiva incanalarle, e lasciarle disperdersi nell’aria – sotto una forma, o un’altra. Poteva essere una rage room, un incontro clandestino, una pistola puntata alla testa di un tizio qualunque capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Il Moskovskaya poteva anche essere uno spettro errante, ma non poteva mica lasciare che qualcuno descrivesse alle autorità il suo aspetto; soprattutto non un babbano, loro e quella stupida fissa per gli identikit nelle stazioni di polizia. Manco uno che avesse saputo rendere gloria alla sua faccia, poi: oltraggioso. «grazie del regalo, non dovevi!» sorrise, docile come un agnellino, occhi ambrati a specchiarsi in quelli verdi dell’uomo ed a prendere nota del foro sulla fronte, prima di far girare il telefono tra le dita e lasciare quel vicolo.
    Non aveva trovato quello che cercava e, sebbene avesse guadagnato qualcosa che gli sarebbe tornato utile, la sua missione ancora non era cambiata: gli serviva una bacchetta. La sua… beh, sinceramente non voleva sapere cosa ci avesse fatto Kosmo, stava bene dove stava, ma non poteva di certo partire per quella gita fuori porta senza un catalizzatore.
    Se fosse stato possibile fregarsene di meno di quella missione, così come della situazione generale del mondo magico nel quale era tornato, il ventunenne l’avrebbe tranquillamente fatto. Però fregava a Troy, e tanto gli bastava: , aveva più volte cercato di smembrarlo, venderlo, bruciarlo vivo, abbandonarlo, lanciarlo dalla cima del K2, e lui stesso aveva cercato di creare un altarino con la sua foto in mezzo per sacrificarla a Satana, ma era tutto ciò che gli restava – volenti o nolenti era la cosa più simile ad un’amica, o ad una sorella, che avesse.
    «ehi!» l’occasione perfetta (forse: ormai le razze erano talmente mescolate tra di loro che risultava difficile beccare un mago) gli si presentò ancora prima di uscire da quel vicolo, quando vide un ragazzo passare proprio lì davanti. Si finse trafelato e sinceramente preoccupato, mentre gli posò la mano su una spalla – così gracile, che avrebbe potuto essere una preda facilissima da derubare. Non lo fece per due semplici motivi: il primo era che, appunto, non poteva sapere cosa fosse, ed avrebbe rischiato di fare un altro buco nell’acqua; il secondo era che si annoiava, e tanto valeva divertirsi un po’. «ti prego… cerca un mago,» precisò subito, così non avrebbe corso rischi: prevenire è meglio che curare, mh? «c’è stata una sparatoria…» chiamiamola così. «c’è della gente ferita, mi serve una mano…» gli sorrise caldo, senza far scemare mai la maschera di affanno dal viso, cercando l’assenso di lui nello sguardo fino a quando non lo ricevette.
    Seguì per un po’ la chioma ramata del probabilmente coetaneo – insomma, non gli dava l’aria di essere troppo più giovane di lui – fino a quando non si fu allontanato abbastanza ed ebbe fermato il primo passante, ed attese nascosto nell’ombra del vicolo l’arrivo dei “rinforzi”.
    Sperando con tutto il cuore che riuscisse a convincere qualcuno, ecco.
    wyborowa
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    polish mafia — 1975 2003s — teddy bearGot the devil on my shoulder, no angels around
    And by the time it's over, I know I won't be proud
    I'm burning all my bridges, burn them to the ground
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    gli anatemi hanno la resistenza e la capacità adatti per attutire l'offensiva avversaria, dando una possibilità in più per sferrare attacchi decisivi contro i nemici.
    «Può non -» un gran sospiro lasciò le labbra del tassorosso nell’alzare il telefono al cielo – controluce e sperando che quello potesse servire a qualcosa, rigirandosi prima a destra e poi a sinistra nel cercare un minimo di segnale in quel luogo dimenticato da Dio. Si era perso. Si era dannatamente perso. Si era santopiripillamente perso. Si era stramaledettamente santopiripillamente perso e tutto perché aveva creduto troppo in sé stesso – ecco perché non era solito farlo! Non era neanche sicuro che in quell’angolo di mondo il proprio cellulare prendesse, ed il fatto che avesse scaricato preventivamente la sua playlistTM di Spotify poteva essere un segno della provvidenza del Malatesta, ma quello non era il caso.
    «Eh ma Dio santo -» un secondo sospiro lasciò le labbra di Mimmo, ma questo comportava il doverla ributtare dentro in qualche modo, e con essa l’acre odore che riempiva quelle strade a fargli arricciare la punta del naso in un’espressione di disgusto. Non che fosse un tipo schizzinoso, si intende, doveva solamente abituarsi all’aria di città - nonostante avesse lasciato le campagne di Cerignola già da anni. Certo, aveva vissuto decisamente giorni peggiori (il suo preferito era l’essere stato l’essere morso da un licantropo in una notte di luna piena, se ve lo stesse chiedendo!), ma era anche vero che avesse vissuto momenti migliori, ed il ritrovarsi in un labirinto di vicoli ciechi e cunicoli non propriamente illuminati non rientravano in questa categoria.
    «Okay Mimmo, pensa…» sussurrò a sé stesso una cosa non del tutto scontata, il pugliese, il quale portò nuovamente il cellulare in tasca. Il tornare indietro non era un’opzione valutabile e quindi venne cancellata dalla lista mentale che il ramato stava facendo, specialmente se questo si metteva un obiettivo in testa – e quella mattina era stata dedicata alla ricerca di erbe e piante utili alla creazione di pozioni ed unguenti; generalmente utili, certo, ma nel quartiere generale e tra le schiere dei ribelli in generali c’era una certa aria di tensione: qualcosa stava per accadere ed era necessario tenersi pronti. Questo era abbastanza per il Malatesta per mobilitarsi. Andava... bene, immaginava. In realtà non voleva sbilanciarsi più del dovuto a riguardo, più che altro perché quell'equilibrio si era re-instaurato da troppo poco tempo perché potesse considerarlo anche lontanamente stabile. Era tutto ancora abbastanza caotico, in realtà, ma perlomeno stavano cercando di dargli un senso, di sistemare le cose, ed era forse quella la cosa più importante. Certo, il fatto che Mimmo credesse ad ogni cosa che gli si dicesse era un altro discorso, forse più strettamente collegato al fatto che era suo tipico ficcarsi in situazioni del genere. Una pedina come tante, non c’era bisogno che Ale capisse davvero.
    «Va be’, godo …» si strinse semplicemente nelle spalle, dando un piccolo tap tap sulla cuffietta sinistra per poter far ripartire un po’ di musica, cappuccio che si mise in testa e che strinse un po’ tirando le estremità dei laccetti rossi ed un terzo grande sospiro. Se non poteva battere quella situazione, allora ne sarebbe diventato il main character – e se non si fosse potuto andare indietro, allo sarebbe andato in avanti. Allungò le braccia e, come se fosse in un music video, ondeggiava da un lato e l’altro del vicoletto, scansando topi che rosicchiavano spazzatura, gente che provava a vendergli altri tipi di erbe, siringhe ridotte a minuscoli pezzetini di vetro sparsi in giro, tombini semi-aperti che lasciavano trapelare un forte odore di morte, e soprattutto un ragazzo svenuto a terra con il setto nasale rotto - chiaramente un indicatore del pericolo incombente, ma che il Malatesta decise di ignorare alla luce di quanto detto più sopra: nessuno avrebbe potuto rovinare il suo momento, anche se ciò significava tradire il suo istinto da crocerossina. Una zona particolare l’Inferius, e stava iniziando ad abituarcisi.
    Sarebbe volentieri andato avanti così se non fosse che qualcosa (un armadio a tre ante Ikea probabilmente chiamato Fiken) o, meglio, qualcuno (alto e largo come un armadio a tre ante ikea probabilmente chiamato Fiken), catturò letteralmente la sua attenzione: smash, direbbe Mimmo se non fosse per l’espressione preoccupata sul volto del suo interlocutore. Mimmo portò a sua volta una mano sulla spalla dell’altro, scambiandolo come un qualche saluto locale di cui non era a conoscenza (vivere per la strada gli aveva insegnato che l’importante era adattarsi all’ambiente, anche se le pratiche potevano sembrare strane) per poi esclamare: «Oddio, è finalmente arrivato il mio momento!» si tolse una cuffietta dalle orecchie e impacciatamente recuperò il proprio telefono dalla tasca posteriore dei pantaloni, controllando lo schermo dello stesso sebbene sapesse perfettamente quale canzone gli stesse distruggendo i timpani in quel momento – e come dargli torto. Prese un gran respiro, trattenette per qualche attimo l’ossigeno sulle pareti dei polmoni per pronunciare con voce chiara e forte: «sto ascoltando “patata consacrata” di QueenJ, grazie mille per averlo chiesto!» perché Mimmo Malatesta era comunque un tipo educato, e gli avevano insegnato a ringraziare sempre, anche quando si andava di fretta.
    Si voltò di spalle, fece un sorriso cordiale e fece un passo in avanti – movimento che si bloccò a mezz’aria quando il cervello del Malatesta processò il fatto che il movimento delle labbra del suo interlocutore, forse non troppo più grande di lui ma decisamente non cresciuto ad acqua e taralli, non corrispondeva allo scenario onirico che si era costruito in testa. Non gli aveva chiesto che canzone stesse ascoltando, no! Stava chiedendo… aiuto?
    «UNA SPARATORIA?!» si portò drammaticamente una mano sul torace, girando lo sguardo prima a destra e poi a sinistra, poi in alto e infine in basso, come se una risposta stesse arrivando da una creatura terza e non dall’individuo che gli stesse chiedendo aiuto. Forse era arrivato il momento di riporre le cuffiette da dove erano state prese ed iniziare ad ascoltare. «Okay, ci sono: sparatoria, feriti, mago, aiuto. Capito!» pronunciò probabilmente mangiandosi metà delle parole o pronunciandole con un forte accento, tanto da renderle comunque incomprensibili – ma l’importante è che il suo cuore avesse capito il suo cervello, e questo era ben percepibile dal fatto che avesse tirato un pugnetto alla spalla del suo interlocutore prima di correre nella direzione opposta con un «AMO CI PENSO IO!».
    Mimmo, ma tu non sei un mago? Mimmo era tante cose, tra cui essere un mago. Nei momenti di panico però non si poteva chiedere tanto da qualcuno che non sapeva gestire più di due emozioni alla volta; quindi, non era poi così da biasimare. Con il fiatone per aver corso più di tre minuti di fila, il pugliese si prese un attimo di pausa chinandosi in avanti con il busto e abbassando le ginocchia, portando le mani sulle cosce mentre il petto si alzava e abbassava rapidamente alla ricerca di aria – ma almeno qualcuno lo aveva trovato!
    «LEI, AMO, SIGNORE!» avete presente il segno internazionale d’aiuto? Mano aperta e poi pugnetto? Ecco, Mimmo stava facendo quello nell’attirare l’attenzione di un povero malcapitato, probabilmente sulla quarantina (un brutto target, direbbe qualcuno) e con l’aria di essere un mago – come lo sapeva? Certe cose si sapevano e basta. Si avvicinò a quella non così tanto losca figura dato che questa a stento si reggeva in piedi, l’odore nell’alcol nelle narici di Mimmo e l’ingenuità dalla sua parte: «c’è stata una sparatoria! Riesce a darci una mano? Io e il mio amico Fiken dobbiamo sbrigarci, ci sono almeno cento feriti!» dettaglio assolutamente non vero e assolutamente non reale, ma la drammaticità era nel sangue di Mimmo così come le orecchiette le cime di rapa erano nel suo stomaco. Probabilmente il signore farfugliò qualcosa di incomprensibile, sguardo perso nel vuoto e sull’orlo di una crisi di pianto per aver speso tutto il suo stipendio in un rum scadente – ma il Malatesta si sentiva utile all’umanità, e voltò il capo per cercare il suo amico Fiken ed alzare i pollici in segno di vittoria.

    MIMMO
    MALATESTA

    "smash -
    wait what was the game???"
    difensore anatema
    [rimuove 5-10 pa da attacco avversario]
    MAGO
    APPRENDISTA
    hufflepuff — 2007— rebelMentre la notte s'accende
    come le sigarette che mi fumo,
    una coltellata
    coltellata
    gazzelle
    moonmaiden, guide us
     
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    «c’è stata una sparatoria! riesce a darci una mano? io e il mio amico fiken dobbiamo sbrigarci, ci sono almeno cento feriti!»
    Era così felice, il biondo. Confuso, molto confuso, ma soprattutto felice da morire. Quanto era stato fortunato, a trovare un ragazzo così (scemo) disponibile? Le nuove generazioni gli davano davvero tante gioie.
    Certo, aveva capito metà delle cose che aveva detto, ma quelli erano dettagli che avrebbero risolto in un altro momento: voleva davvero sapere cosa fosse la patata consacrata che stava ascoltando, ma aveva un obiettivo da raggiungere e non era farsi una cultura musicale.
    Nascosto al buio di una stradina, e sapendo che non lo avrebbe davvero visto in faccia, alzò gli occhi al cielo e solo successivamente un pollice in sua direzione per rispondere alla sua soddisfazione. Una persona normale si sarebbe anche sentita in colpa per quello che stava per succedere; non Wyborowa Moskovskaya, che quel sentimento non sapeva nemmeno dove fosse di casa.
    Attese paziente che l’italiano – ovviamente sapeva fosse della penisola: era nei loschi giri della mafia da quando era un adolescente, conosceva più abitanti del Bel Paese che non polacchi – e la sua preda si addentrassero nel vicolo, pregustando il momento in cui sarebbe entrato in scena con un sorriso beffardo a tagliare le labbra.
    Viveva di emozioni forti, Row – esplosive, incontrollabili, incontenibili; non era mai stato in grado di esistere in virtù di un sentimento leggero e sottopelle, senza dare il massimo sotto ogni punto di vista. Tendeva a giustificare così la propria pulsione alla violenza, quando gli veniva domandato: un modo come un altro per gettare fuori da sé ogni grammo di rabbia e di insoddisfazione, di gioia e divertimento, amplificandoli quanto più possibile per non dover rischiare che ristagnassero nella gabbia toracica.
    Così, non esitò nel momento in cui ebbe il mago a portata di mano per colpirlo con il calcio della pistola sulla testa, e vederlo perdere i sensi prima che potesse – lui, o il rosso al suo fianco – rendersi conto di cosa fosse successo. Non si curò minimamente, ma proprio zero, di guardare il ragazzo, la sua espressione o la sua sorpresa di fronte a quel gesto; piuttosto si lanciò sul tipo a terra per mettergli le mani addosso.
    Non per picchiarlo: va bene che si identificava in una persona manesca, ma non infieriva su qualcuno privo di sensi. Di solito. Solo quando trovò quello di cui aveva bisogno si poté ritenere soddisfatto, ed alzandosi ammirò la bacchetta appena rubata al buon samaritano. «grazie mille,» sorrise all’altro, puntando il catalizzatore sull’uomo: doveva testare la refurtiva, ed assicurarsi la sua lealtà. Per questo, lo trasfigurò in un orsacchiotto di pezza. «mi hai aiutato davvero molto!» gli si avvicinò, pupazzo sotto un braccio e l’altro sulle spalle del rosso. «io sono row comunque! come ti chiami?» chiaramente non avrebbe parlato con lui del fatto che era appena diventato suo complice in un omicidio – perché no, non avrebbe ritrasformato Tizio: doveva regalare un nuovo Pornhub a Troy! –, e che non ci fosse alcuna emergenza relativa ad una sparatoria – o meglio, quella c'era stata, però... «ho preso anche questo,» gli mostrò il portafoglio, perché le cose andavano fatte per bene. «andiamo a festeggiare?»
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