we don't know where to find what once was in our bones

[ pre-quest11 | ft. fake ]

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    Benjamin millepied era un libro aperto.
    di quelli con la spirale a tenere insieme le pagine, che volendo puoi anche girarle all'indietro per leggere più comodamente — dai due anni in su.
    raccontava una storia semplice, proprio come lui, cristallina in ogni minimo dettaglio; non poteva nascondere niente dietro lo specchio limpido degli occhi chiari, sempre sgranati sul mondo, e nemmeno voleva. lì dove kadabra hansen era perfettamente consapevole delle gocce di se stesso che stillava con parsimonia e spesso a malincuore, ficus viveva felice e incosciente del proprio cuore a battere fuori dalle costole, privato della benché minima protezione.
    ci pensavano i ben10 ad averne cura per lui.
    Come il diciassettenne si prendeva cura di loro.
    Ciascuno a modo suo, perché era questa la principale peculiarità: erano un’accozzaglia di colori e sentimenti, coriandoli lanciati alla rinfusa il giorno di carnevale. Ogni ben condivideva qualcosa di proprio e prendeva ciò che offrivano gli altri – sì, persino Mona.
    «cazzo, che pena»
    benjamin millepied era un libro aperto, e che non stesse bene glielo si leggeva in faccia.
    Non sorrideva più spesso come prima, segnale decisamente allarmante. Inutile dire che di suo, dell’intera situazione, ci avesse capito molto poco; assorbiva i sentimenti delle persone a lui vicine, senza sapere come elaborarli: il dolore di balt, la frustrazione di paris, il febbricitante fermento di bennet. Molto più consapevoli di quanto lo fosse ficus, ma questo non lo rendeva meno preoccupato. Conosceva alcune delle persone scomparse, la sua anima gemella era dispersa chissà dove, e anche se non avesse riconosciuto i volti stampati in centinaia di volantini affissi in tutta londra, il peso a premere sul petto sarebbe stato lo stesso.
    «ma lo avete visto in faccia? Neanche gli avessero ucciso il gatto»
    una normale, basica reazione da essere umano, giusto? Avere a cuore la sorte di cinquanta persone strappate a forza dalle loro vite, senza la possibilità di scegliere – o, almeno, così credeva. Gli svariati giri nell’internet erano riusciti a (confonderlo) incuriosirlo nonostante la gravità della situazione, come sempre quando in ballo c’erano complotti e cospirazioni. Nella sua top5 dei video consigliati su tiktok si potevano trovare inevitabilmente ricette di torte salate, cuccioli salvati da morte certa, case infestate e dove trovarle, nonché tutto il repertorio di adam kadmon e roberto giacobbo.
    Coincidenze?
    Gnek.
    Io non credo.
    «spero quasi che quel coglione del kayne sia morto»
    ficus, fino a quel momento intento a fissare con aria assorta una nuvola del tutto simile al profilo di un Acalajakhagangatshahaha1, battè lentamente gli occhi riemergendo dal suo torpore; aveva le gambe piene di formiche, un pizzicorio elettrico dovuto all’aver mantenuto la stessa posizione per troppo tempo. Gli capitava fin troppo spesso di zoommare via, perdersi su dettagli ai quali quasi nessuno faceva caso. Poteva rimbalzare da un’informazione all’altra, dimenticando la prima appena posati gli occhi sulla seconda e così via, o rimanere inebetito ad osservare la stessa cosa per ore.
    Forse, se il trio di serpeverde appostati dietro l’angolo spalle al muro come una rock band degli anni settanta non avesse fatto il nome di theo, il millepied sarebbe ancora là.
    «una checca in meno. due, se Paris decide di farla finita»
    e poi qualcuno osava sostenere che le sue battute non facessero ridere.
    Dovevano avere un differente senso dell’umorismo, perché il raglio da asini che gli giunse alle orecchie un’attimo dopo raccontava di una storia davvero spassosa; troppo per evitare di piegarsi in due e sputacchiare saliva come una sara in faccia ad alessandro. Sui gusti personali delle persone il tassorosso non amava emettere giudizi: per lui era sempre bello ciò che piaceva, giusto ciò che rendeva felici.
    ma i ben si prendevano cura di lui.
    E lui si prendeva cura di loro.
    Ciascuno a modo proprio, era quella la regola non scritta.
    «ehilà, salve!»
    il modo di ficus, rinomato e apprezzato dai più grandi intenditori, era sempre lo stesso.
    Sorrise al terzetto, sbucando da dietro l’angolo con un movimento mai fluido, le braccia incrociate dietro la schiena; gli sguardi, ricambiati dopo un’istante di esitazione dovuta al rendersi conto di non essere più soli, dovettero sollevarsi di parecchi centimetri prima di incontrare gli occhi chiari del ragazzo. occhi buoni, su questo non si discuteva.
    D’altronde, quello che faceva ficus non lo faceva mai con cattiveria.
    «mi dispiace interrompervi, davvero. Ma sono miei amici, quelli di cui state parlando. Non sono nemmeno qui per difendersi, voglio dire–» si strinse nelle spalle, mentre i suoi interlocutori prendevano mentalmente nota della stazza del loro avversario e valutavano il da farsi. è più grosso di noi, pensavano, ma siamo in tre e lui da solo: un’osservazione per la quale benjamin gli avrebbe concesso un applauso.
    Sapevano anche contare!
    «fatti i cazzi tuoi, slanderman»
    mai una volta che gli facessero un complimento per le sue bellissime braccia oblunghe, oh.
    «ok, scusate» mostrò loro entrambi i palmi, due badili che potevano essé piuma, ma che quel giorno evidentemente dovevano diventà fero. Sorrise ancora, mentre afferrava il più vicino per il bavero della divisa e se lo tirava più vicino «davvero, avrei preferito non farlo, scusa» perché era un ragazzo polite e ben educato. Nothing but an angel, se un angelo si fosse preso la briga di lanciare qualcuno contro un muro dopo una parabola discendente di quasi tre metri.
    Una storia che si scrive da sola, al contrario di questo post.

    Era stato divertente, tutto sommato.
    Anche tre contro uno, anche se le aveva prese, anche se si era accollato la colpa per aver iniziato.
    un po’ meno allegra, così a intuito, l’ora in sala torture che lo attendeva come punizione. Non era il primo tour in sei anni, quella verginità l’aveva ormai persa, ma non ci finiva abbastanza spesso da essersi abituato all’idea. E quando la porta si chiuse alle sue spalle, dopo essere entrato (spinto dentro è più realistico), non potè fare a meno di inghiottire a vuoto saliva che non aveva – dopotutto, era pur sempre un ragazzino. Con un occhio nero e il labbro spaccato, nemmeno un segno sulle nocche delle mani: al tirare pugni preferiva caricare testa bassa come un toro al rodeo.
    «buonasera, signor torturatore?»
    gniiiiiiii gni gniiiiiiiiiiii gnigni gniii gniiiiii

    Meme-Criceto-Triste-1200x675

    1: simile ad una piccola capra con il muso da stambecco, l'acalaja è un animale pigro ed insofferente dai poteri ipnotici: il suo verso, ma soprattutto i suoi occhi, sono in grado di indurre altri animali (o peggio: persone) a fare qualunque cosa.


    «PARLATO»

    benjamin ficus
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    Non aveva mai avuto bisogno di quantificare il tempo. Un giorno, per Fake, aveva lo stesso identico peso di un secondo. Di un anno. Batteva le palpebre, ed a susseguirsi c'erano solo giornate su giornate sempre uguali, perfino considerando quanto atipica fosse la sua normalità. Non n e aveva neanche una percezione vera e propria, volendo essere del tutto onesti. La settimana prima ricordava un aperitivo con Ryan concluso cinque anni antecedenti, ed ancora sembrava incapace di scollarsi di dosso la sensazione che Godric sarebbe rientrato da lavoro da un momento all'altro, pur avendo il Pavor abbandonato la nave l'anno prima. Perfino passato, presente e futuro avevano iniziato a non avere più forma né significato per il Cheena, che sapeva di essere Fake, ma sentiva anche di essere stato qualcun altro, e di poter diventare una via di mezzo fra i due.
    Eppure.
    Eppure, quei giorni li sentiva appiccicosi come asfalto appena versato. Guardava l'ora, e non cambiava mai; ogni mattina, segnava un'alba sempre vecchia. L'energia febbrile del Cheena, anziché accumularsi, era andata di giorno in giorno scemando, sedimentandosi in qualcosa di freddo ed ordinato che non gli apparteneva. Sorrideva di rado, e quando lo faceva, era solo per mostrare denti affilati e sporchi di sangue. Non era solito sentirsi in trappola, Fake. Era sempre stato in grado di trovare una via d’uscita, e laddove non presente, crearla - colmava le lacune intellettive con uno spirito creativo ed una forza bruta ed ignorante. - ma non. Non. Non. Aveva la sensazione che ogni tentativo di rialzarsi da terra, equivalesse ad una spinta più forte, e se i cinquecento giorni procedenti non ne fossero stati abbastanza una prova, quegli ultimi (giorni? Mesi? Settimane? ore?) gli fecero quasi dimenticare di essere umano e non oggetto inanimato. Un animale acquatico sulla terraferma, da quanto il fiato venisse a mancare.
    Era stato uno dei primi a sapere del ritorno dei Sei, i privilegi di essere un ministeriale!, e se all’inizio aveva sperato che significasse sarebbero tornati tutti, si era convinto a farsi bastare l’idea di poter fare qualcosa. Che fosse finalmente il suo momento per smetterla, cazzo, di aspettare. Quale occasione migliore per torturare qualcuno? L’O’Sullivan non aveva una famiglia a cui fare ritorno, la Nott era ormai stata declassata prendendo parte alla guerra contro Abbadon, e la sparizione (ancora) di Scarlet, sarebbe passata del tutto inosservata. Ma no, figurarsi. Gli avevano detto che i suoi servizi non fossero richiesti, e che ci volesse una mano più… gentile. Un tocco delicato. I Cacciatori avevano avuto il compito di interrogarli, in maniera più o meno convenzionale, e … basta. era finita così: gli avevano detto di tornare a Hogwarts – e di quanto il suo lavoro fosse necessario, fondamentale, e sei stato un acquisto eccellente per la scuola - di continuare con la sua vita - come se ne avesse ancora avuta una - e di rimanere in attesa mentre i grandi si occupavano delle scartoffie.
    L’avevano svuotato di tutte le scintille che avevano provato, testarde, ad accendersi, soffiando su ciascuna di loro come candeline su una fottuta torta di compleanno. Aveva perfino smesso di essere arrabbiato, Madein Cheena. Era solo, sempre che di solo si potesse parlare, triste. In ogni momento della sua giornata, Fake trascinava la sua tristezza come un’ombra, portandola ovunque andasse. Non sapeva fingere, né per se stesso, né per chi ne avrebbe avuto bisogno – Ty, Clod, Kiel. Non voleva fingere, perché vaffanculo, ok? Pensava di essere del tutto legittimato ad avere il cuore spaccato a metà, e sentirlo pulsare comunque come un arto fantasma. Portava la sua miseria addosso senza vergogna, come fosse un nuovo tatuaggio o una cicatrice. Entrambe, forse.
    Non si volse quando sentì la porta aprirsi e chiudersi. Non lo fece neanche quando sentì la voce - signor torturatore? per chi l’aveva preso, il loro papà un vecchio?! - preferendo rimanere a fissare la parete del castello contandone ogni roccia, come ogni cazzo di bravo psicopatico che si meritasse. Per quanto lo riguardava, la tortura poteva tranquillamente essere quella. Rimanere in silenzio ed essere ignorato lo era, per lui. Lasciò passare un paio di minuti – o forse pochi secondi – prima di girarsi lentamente verso il ragazzino. Tutto insieme, una spinta dei palmi sul pavimento nel sollevarsi abbastanza da riuscire a saltare e sistemarsi a gambe incrociate di fronte allo studente che osservò dal basso. Molto basso, o era l’altro molto alto - non sapeva quale delle due, sentendosi come Sara il Lunedì mattina sulla sua nuova sedia piedistallo. L’espressione corrucciata del Cheena, si sciolse in fretta in meravigliato stupore.
    Uhm. Ficus? Ficus-kEDAVRA?
    Non l’aveva mai visto da quelle parti, al contrario di Mini. Il fatto che avesse iniziato a lavorare ad Hogwarts per conoscerli, non significava che l’avesse effettivamente fatto: li aveva spiati, certo, come ogni fratello maggiore che si rispettasse, ed aveva aggiornato settimanalmente Kieran su quanto avesse scoperto, finchè aveva potuto. Poi si era tenuto tutto per sé, geloso perfino di quello. Battè le palpebre, boccheggiando senza nulla da dire. Era come ritrovarsi di fronte ad un vip, capito? Peggio, forse, perché una stella del cinema sarebbe stato uno sconosciuto, ed a quel ragazzino, in un’altra vita, aveva insegnato a glassare i muffin ed a non fare torti verdi yoda radioattive. «perchè sei qui?» FICUS! Guardò oltre le spalle del ragazzino, come se stesse nascondendo dietro di sé qualcun altro. Considerando la stazza, non era così impossibile. Reclinò il capo, prendendo nota dei segni di lotta sul viso di Ficus. DI FICUS. L’aveva già detto? Kieran non ci avrebbe MAI credu oh.
    Oh. Umettò le labbra, schiarendosi la voce. «da solo? Dove sono gli altri» indicò vago con l’indice il proprio volto, riflettendolo perplesso su di lui.
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    i luminari offrono le proprie conoscenze e abilità in favore del bene comune. ottimi guaritori, mirano a proteggere i compagni contro le intemperie del campo da guerra
    non era facile essere un bimbo 2043.
    e questa è l'unica frase che sono riuscita a mettere per iscritto dopo venti minuti di attenta riflessione fissando il vuoto? woah.
    woah.
    che poi, non occorreva essere un filosofo per arrivare alla stessa conclusione in meno tempo — come avrebbe mai potuto essere facile? vivevano in un mondo che non era il loro, ma lo stesso ci avevano conficcato le unghie fino a spillare sangue; scavando, sotto la superficie e dentro le persone che entravano a fare parte del loro microcosmo personale, alla ricerca di qualcosa ormai dimenticato. cancellato, come un colpo di spugna dato male: esistevano differenti gradazioni di incuria, nella pulizia di quei ricordi che nessuno era riuscito ad eliminare del tutto.
    macchie difficili, da grattare con insistenza e olio di gomito.
    la full experience nel tunnel dell'orrore riservata ai vigilanti la lasceremo momentaneamente da parte per questioni personali, colpisce ancora un po troppo vicino a casa. per gli altri sfigati ignari di star vivendo una seconda possibilità - quando il desiderio di molti era fermarsi a metà del viaggio originale e sperare de morí prima -, rimaneva la sottile e fumosa consapevolezza di trovarsi nel posto sbagliato al fottuto momento giusto — un must have: quel pizzicore cronico in fondo alla gola, una lettera scritta a mano e un vaffanculo intradimensionale.
    per quanto riguardava rob, ovviamente lo sfigato era barry.
    sullo spettro delle reazioni alla notizia, barrow skylinski si piazzava in una zona di pericolo che l'emergenza l'aveva solo sfiorata: vomitino come rito obbligato di passaggio, fase emo con tocchi edgy ed evidenti soft spot, inconsolabile e inutile tentativo di sfuggire ad un destino che sembrava già scritto (e lo era, cazzo. nero su bianco, con una calligrafia piccola e frettolosa che gli apparteneva tanto quanto l'incapacità di Lynch a tenersi strette le persone importanti).
    qualche fortunello invece era ancora all'oscuro di tutto. una categoria a parte, anche questa suddivisibile in un milione di sfumature, ciascuna ad aggiungere qualcosa alle altre — o a togliere: c'erano gli Eddie di questo mondo, ai quali nessuno si sarebbe sognato di raccontare la verità. ma ve lo immaginate? rob no ed è meglio cosi, non diteglielo mai. certi ricordi, grattati via dalla superficie come sporco incrostato, era meglio rimanessero sepolti più a lungo possibile.
    sapete cosa, ho dimenticato cosa volessi dire a inizio post.
    forse il punto era che se fake avesse deciso di raccontare tutto a ficus in quel preciso momento, la reazione del Tassorosso sarebbe rientrata in una categoria a parte. forte della visione entusiastica del mondo e i suoi misteri, pronto ad accettare qualunque assurda stranezza come possibile e reale; curioso, si sarebbe avvicinato al cheena andando contro qualunque istinto di sopravvivenza, mani sulle ginocchia e sguardo critico — però non ci somigliamo così tanto, il primo pensiero. mille domande, ma nessun dubbio nemmeno mezzo: era nato per credere in qualunque cosa, Benjamin Millepied, e mai così profondamente come nelle cose che sperava fossero vere.
    viaggi temporali e realtà alternative? un sogno, forse una favola.
    «perchè sei qui?» ficus seguì lo sguardo di fake e si diede un'occhiata alle spalle, trovando solo la porta chiusa. hm, ok: magari il maggiore era un medium e con loro nella stanza si trovava anche il fantasma di uno studente testa calda morto da chissà quanti anni. aveva già tutta la storia in mente, il Tassorosso, come rob con i post; il problema, lo stesso per entrambi, era mettere le parole per iscritto «da solo? Dove sono gli altri» ci mise forse qualche secondo di troppo, ma alla fine capì — non era quella la prima domanda che si aspettava.
    forse perché su madeen cheena giravano troppe voci, esclusivamente sussurrate negli angoli bui, che lo dipingevano come un individuo inquietante e sadico, il tipo alla Hannibal Lecter che amava cucinare le proprie vittime e servirle in tavola agli ospiti con un buon vino e contorno di fave. sotto le sopracciglia bionde aggrottate, ficus lo osservò con attenzione; non vide denti aguzzi a fare capolino da labbra rosse di sangue, o occhi spiritati da pazzo furioso.
    sembrava solo stanco.
    il motivo forse avrebbe potuto immaginarlo. nel dubbio non lo fece: non si spingeva tanto oltre, la mente del diciottenne. prendeva per buono quello che riusciva a captare, empatia funzionale solo per metà «oh. Lloyd è in infermeria» il volo contro la parete di pietra non gli aveva giovato «gli altri hanno detto che sono stato io a cominciare, e volevano solo difendersi» sollevò le spalle, spostando l'attenzione da fake all'arredamento peculiare della sala, chiedendosi distrattamente quale dei molti attrezzi sparsi qui e là sarebbe stato il primo riservato per la sua punizione. sempre questione di curiosità, mai a valutare le conseguenze «che è vero, in realtà. stavano parlando male dei miei amici, e non mi sembrava giusto considerando che Theo non può difendersi da solo» un sorriso, morbido nonostante il grumo di sangue rappreso, gli spuntò prontamente sulle labbra: se qualcuno gli avesse chiesto perché stava raccontando i fatti suoi ad uno sconosciuto con il compito di strappargli via le unghie (non funzionava così la tortura????), non avrebbe saputo rispondere — sembrava la cosa giusta da fare «ma tanto ce lo andiamo a riprendere. lui e anche il fratello di balt» fake: ?????? che poi, ficus mica l'aveva capito chi fosse il fratello di balt «non voglio che siano tristi» si riferiva al monrique e a Paris, ma per qualche ragione non sentì il bisogno di specificare. chi vuole intendere intenda, probabilmente non il cheena.

    benjamin ficus
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    le lame mortali non hanno clemenza nè compassione per i nemici, e la loro furia va a discapito di loro stessi.
    Si sentì vulnerabile ed esposto sotto lo sguardo di Ficus, tanto che, seppur inconsciamente, si rannicchiò maggiormente in se stesso, studiandolo con mai abbastanza cauti occhi blu.
    Diversi da quelli di tutta la sua famiglia, senza dubbio – con loro, non condivideva neanche un grammo di DNA. Non una predisposizione genetica all’essere mancino, o malattie ereditarie da passare di figlio in figlio come una silente condanna. L’unica cosa che aveva condiviso con loro era stata la sua vita, e Toast era riuscito a perdere anche quella.
    «oh. Lloyd è in infermeria. gli altri hanno detto che sono stato io a cominciare, e volevano solo difendersi» Inarcò le sopracciglia, continuando ad osservarlo incuriosito. Che strana specie umana era, Benjamin Millepied, con quella testa oblunga e gli arti troppo dilatati per essere reali. Quello sguardo così sincero che Fake fu lì lì per confessare tutti i propri crimini.
    Non quelli veri. Non li riteneva tali, il Cheena. Tutti gli altri, quelli per cui perdeva fondamentali minuti di sonno, tipo aver mangiato l’ultimo pacchetto di cracker o aver accidentalmente allagato il bagno, od i vari appuntamenti al buio con cui aveva incastrato Ty fingendo sempre di esserne ignaro. Credeva di aver incolpato il Linguini per cui lavorava almeno un paio di volte. «che è vero, in realtà. stavano parlando male dei miei amici, e non mi sembrava giusto considerando che Theo non può difendersi da solo» Theo…. E chi cazzo era, Theo. Non c’era un bentheo. Li aveva studiati, ok? Piegò il capo sulla spalla, strofinando la guancia contro il tessuto liscio della maglia. Lungi da Fake connettere i puntini e capire parlasse di quel Theo – the one and only! - considerando avesse scoperto, dopo un accurato studio con mappe concettuali e decine di post it colorati, che per quanto Ficus andasse d’accordo con tutti, non avesse… altri amici all’infuori della sua setta.
    Gli piacevano tutti i ben, eh. Tutti tutti. Un grande fan.
    E si domandava se anche loro si sarebbero persi com’era successo ai Golden. Chi fossero i loro Ryan e Jack, e Godric – chi sarebbe rimasto a stringerne i cocci e ricordare come fosse stato far parte di qualcosa.
    «ma tanto ce lo andiamo a riprendere. lui e anche il fratello di balt. non voglio che siano tristi»
    Molto da valutare, ed una mente semplice con cui farlo. Corrugò le sopracciglia, battendo lento le palpebre verso il Tassorosso. Aprì la bocca per dire qualcosa di stupido ed incoerente tipo ma è pericoloso, perché non era mai stato quel tipo di persona. Atterrò in scivolata su uno strizzato «già» esitante, la lingua stretta fra i canini.
    Non era quello responsabile in famiglia. Non lo era stato neanche per Kadabra. E che avrebbe dovuto dirgli, poi? Ma neanche ci conosciamo, come un piagnucoloso bambino di tre anni che implorasse un altro po’ di tempo? La vita era fatta anche di quello: occasioni trovate, e perse. «già» ribadì, più deciso, schiarendosi la voce e spostando la propria attenzione su un imprecisato punto del muro. «vado anche io. Con i miei amici» quelli che erano rimasti; gli avanzavano dita su una mano. «non voglio più -» sentì l’eco del proprio tremore a rimbalzare fra le piastrelle del PP, le dita di Claudia a carezzargli i capelli. «essere triste» provò a sorridere. Non era la sua qualità migliore. Ogni volta che ci provava - sempre, quindi - mostrava denti piccoli ed affilati, tirando la pelle del viso ed evidenziando di conseguenza la cicatrice ad occupare la parte superiore della faccia. Un taglio preciso, dalla fronte alla guancia, passando per l’occhio salvo per un pelo. Spostò la bocca di lato, mordicchiandone distratto l’interno.
    Un po’ voleva tenerselo, lì con lui. Non per tantissimo, ma quanto aveva aspettato e sarebbe mai ricapitato e ma chi sei, e chi sono, e siamo qualcosa?. Si rendeva conto di non avere un cazzo da dire, però. Lingua appiccicata al palato, ed occhi incollati al soffitto. Così inspirò, solo in parte tremulo. «dovevi dargliele più forte» gli indicò la porta con un cenno del capo. Poteva non sembrare, ma aveva un codice d’onore. Non irremovibile, ma abbastanza resistente da potercisi aggrappare ed usarlo come scusa prima di mettersi a piangere di fronte ad un ragazzino che neanche lo conosceva.
    «la prossima volta se ti serve una mano, chiamami» poggiò il gomito sul ginocchio, ed il mento sul palmo aperto. «sei un ficus libero»
    Ma non ti aveva mai detto il suo nome.
    «l’albero» era un albero, almeno? Era sempre stato ua pippa in erbologia.
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