spiritual hangover that I can't shake

post miniq 05 | ft. check

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    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    L'aveva visto di nuovo.
    L’aveva visto di nuovo: per quanto cercasse di scacciare l’immagine dalla mente, era sempre lì, che fosse sveglio o che provasse (inutilmente) a dormire.
    Le immagini erano sempre lì, impresse dietro palpebre strizzate tra loro, con ferocia e disperazione, e marchiate a fuoco nel libro dei ricordi che aveva pian piano ricominciato a scrivere. Erano lì, e così anche lui — fermo, seduto sul selciato fuori dal resort, con gli occhi fissi sull'intera struttura che si stagliava sul promontorio contro le prime luci del tramonto. Una struttura discretamente grande, su tre piani, con più stanze di quante potesse (o volesse) contare; una struttura che, a vederla da fuori, sembrava solida e stabile, ben piantata nelle sue fondamenta sin dal giorno della sua apertura, svariati anni prima come indicava l’insegna all’entrata.
    Non avrebbe saputo dire, né allora né oggi, come ci fosse arrivato fin lì — forza della disperazione, probabilmente. O paura che Twat lo prendesse a calci nel culo se non avesse corso veloce come mai in vita sua pur di uscire di lì. Terrore di riaprire gli occhi e rendersi conto fosse tutto un sogno, che nessuno fosse arrivato lì per salvarli.
    Quale che fosse stata la sua ragione in quel momento, Hans non aveva perso nemmeno un attimo a pensarci su, e non avrebbe mentito a se stesso dicendo di averlo fatto: non aveva mai avuto un grande istinto di sopravvivenza in sé, ma persino lui aveva saputo subito che rimanere lì fosse da folli. Da idioti. Certo che sarebbe andato via; aveva mai avuto forse la possibilità di compiere una scelta diversa? No, mai; non lui.
    In qualche modo, comunque, sulle sue gambe o forse guidato da chi era riuscito ad uscire precedendolo, era arrivato fuori; e, seduto, aveva osservato il Lotus per interminabili minuti. Cos’altro (poteva) aveva da fare? Non poteva tornare a casa, quando non sapeva nemmeno dove si trovasse e quanta distanza ci fosse dalla sua attuale posizione a New Hovel; e poi, l'aveva saputo subito che non sarebbe stato in grado di farlo da solo.
    E poi, anche volendo, anche potendo, non avrebbe potuto far ritorno lo stesso — non senza gli altri.
    Lo aveva visto di nuovo, accarezzato dalle luci rossastre del tramonto: il portone d’ingresso con il fiore di loto intagliato, e aveva atteso che Twat e Mac lo varcassero per raggiungerlo. Loro, perché degli altri Hans non aveva nemmeno registrato la presenza; nei suoi pensieri, densi come melassa, faticavano a starci tutti. A malapena ci stava lui<i>.
    Lo aveva rivisto, occhi spalancati nel buio di camera sua, il fiato corto come in quei lunghissimi istanti in cui, fuori dal Lotus, aveva atteso. E atteso. <i>E atteso
    . Ma il momento non era mai arrivato, e Hans se ne era rimasto lì, ginocchia strette al petto nel vano tentativo di scaldarsi e di proteggersi e di convincersi che andava tutto bene anche quando non andava bene un cazzo, e aveva osservato incredulo l'intero resort sparire davanti ai suoi occhi.
    L’aveva visto, ma non lo aveva necessariamente capito subito. La sua mente si era rifiutata di processare, di elaborare.
    Di accettare.
    Per un attimo, o forse per ore era stato certo di averlo solo immaginato; doveva essere stata un'allucinazione, no? Per forza, gli edifici non sparivano nel nulla da un momento all'altro. Non sarebbe stata certo la prima volta che Hans Belby vedeva qualcosa che non c’era — più. Che non c’era più.
    Ci era voluto un po’ più del necessario per far sì che quel pensiero mettesse radici e prendesse forma nella sua testa e, tutto sommato, se non fosse stato Hans, sparito lui stesso in circostanze misteriose poco più di un anno prima, e con la sua buona dose di esperienze inspiegabili e ai confini della fottuta realtà alle spalle, probabilmente ci avrebbe messo ancora un minuto in più per arrivare alla realizzazione che fosse tutto vero.
    Sobrio, non sobrio; non importava. Sapeva quello che aveva visto, ma rimaneva comunque difficile credere che fosse successo davvero. Non voleva accettarlo.
    Persino così, sdraiato nel letto con gli occhi chiusi e strizzati così forte da riuscire persino a vedere giochi di luci scoppiare dietro le palpebre serrate, aveva sperato fino all'ultimo di esserselo immaginato; persino dopo giorni, ancora una parte di lui provava a crederci.
    Uno scherzo della sua già provata psiche, si ripeteva, dettato dagli eventi, e dagli apparenti dieci giorni di prigionia di cui non aveva memoria, e della droga somministrata senza il suo permesso.
    C’erano così tante motivazioni che avrebbero potuto giustificare tutto quanto. Motivazioni alle quali Hans aveva cercato di appigliarsi con tutto se stesso per rimanere sano. Aveva immaginato tutto — glielo avevano detto – a lui, a loro, agli sfortunati (o fortunati, a seconda dei punti di vista) sopravvissuti. – e a momenti alterni ad Hans piaceva credersi abbastanza stupido da crederci. Avrebbe fatto meno male.
    Eppure, ricordava come quel maledetto giorno, quando aveva riaperto gli occhi – senza nemmeno rendersi conto di averli chiusi –, di fronte a sé aveva trovato solo il vuoto laddove avrebbe dovuto riconoscere la forma del resort svanito nel nulla.
    E il silenzio, rotto solo dal respiro pesante — lo stesso di quella mattina (e molte altre precedenti), nel suo letto, al risveglio dall’ennesimo incubo.
    L’aveva visto di nuovo.
    Aprendo gli occhi di soprassalto e scrollandosi di dosso le coperte, il suo primo pensiero era stato, familiare e per un attimo confortevole nella sua possibilità di essere per davvero, che avesse immaginato tutto.
    Che se lo fosse inventato.
    Qualcuno gli aveva dato del pazzo – ha chiaramente dei problemi, hai sentito che di recente è stato ricoverato per un'overdose? non il più affidabile, chissà cosa gli frulla nella testa, cosa non si fa per un po’ di attenzioni – ma Hans sapeva ciò che aveva visto. Lo sapeva. E ne aveva la conferma ogni volta che, come in quel momento , scivolava fuori dalla sua stanza e andava a bussare a quella di Twat senza ricevere risposta.
    Per giorni aveva resistito all'impulso di aprirla e infilarsi dentro, tenendo fede al tacito patto stretto tra i due special di non azzardarsi mai troppo oltre la linea di confine che entrambi avevano tracciato per la necessità di avere i propri spazi — patto che l'emocineta aveva rotto a causa di forza maggiori, l’anno prima, assumendosi di fatto l'ingrato compito di guardiano di Hans.
    Ma lui che diritto aveva di intrufolarsi nella stanza di Twat durante la sua assenza? Nessuno.
    Farlo, inoltre, avrebbe significato darla vinta ai pensieri intrusivi che suggerivano che l'altro non sarebbe più tornato.
    Era tutto diverso, in quell'occasione.
    Ogni volta che Twat aveva qualcosa da fare (e Hans non chiedeva mai cosa, non era affar suo saperlo) lasciava sempre scritto un messaggio — mai una data di ritorno, ma sempre una nota che facesse credere in un rientro. Prima o poi.
    non finire i miei biscotti
    ho scaricato il film di cui parlavamo
    lezione mercoledì sera
    Piccole cose, che il Belby spesso ignorava perché fuck you twat, mangio i biscotti che voglio quando voglio pur sapendo che non lo avrebbe fatto — era comunque un modo come un altro che spingeva l'empatico a credere che l'amico sarebbe tornato. Prima o poi.
    C'era solo un biglietto che non aveva mai aperto, e Twat glielo aveva dato mesi prima, dopo il rientro di Hans a New hovel post riabilitazione, ed era stato accompagnato da poche parole e da una stretta così forte intorno al braccio dell'allora ancora pirocineta, che Hans aveva saputo subito contenesse qualcosa di importante.
    «nel caso dovesse succedermi qualcosa» e il Belby aveva sentito l'irrefrenabile voglia di alzare gli occhi al cielo e commentare con un secco «cosa mai dovrebbe succederti» — ma era più intelligente di così e sapeva che le possibilità fossero infinite, in un mondo come il loro. Lui, poi, che era la prova lampante che gli incidenti o le sparizioni misteriose potevano capitare in qualsiasi momento, pur senza volerlo.
    Pur credendo, scioccamente, che non sarebbe mai servito. L'aveva accettato, e l'aveva messo via, credendo fermamente che non ne avrebbe mai avuto bisogno; di tutte le (poche) persone che gravitavano intorno alla sua orbita, l'ultima che Hans avesse mai immaginato potesse andare via, quella era stata Twat. Gli avvenimenti del Lotus avevano dimostrato l'esatto contrario, e avevano lasciato uno squarcio nel petto dello special, e un vuoto che andava ben oltre il silenzio che sentiva prevenire oltre la porta chiusa della stanza dell’amico.

    Non aveva perso tempo a confrontarsi con nessuno di quelli lasciati indietro — perché, onestamente, chi cazzo siete. Non li conosceva, e non aveva voglia di imparare a farlo solo perché si sentiva in dovere di, avendo condiviso qualcosa. Aveva già troppe amicizie nate in seguito a traumi, grazie tante.
    Erano confusi i ricordi che l'avevano accompagnato dal Lotus, a Londra. E poi di nuovo a New Hovel. Ricordava vagamente di aver visto Dominic — era lì per la sua amica, quella rossa e col carattere troppo irruento per far sì che Hans la trovasse gradevole e di compagnia. Aveva visto le facce dei suoi vicini nel quartiere special e aveva letto sui loro visi domande di ogni tipo, a cui aveva lasciato che rispondesse il suo aver fatto ritorno. Aveva ignorato tutto il resto, perché non aveva risposte da dare ai continui dove sono finiti di Joey, o di Gaylord, o di Taichi. O di chiunque altro provasse a fermarlo per chiedergli qualcosa. Pochi, è vero; dopotutto, era un pazzo. Gli edifici non svanivano nel nulla.
    Aveva passato più tempo in casa di quanto avesse creduto possibile, fin quando l'aria e il silenzio non si erano fatti opprimenti. Orion, sopravvissuto a quei pochi giorni di solitudine tra la partenza di Twat e il ritorno di Hans, era stato felice di avere nuovamente qualcuno contro cui premere il muso umido, un petto su cui acciambellarsi per riposare. Era stato forse la ragione per cui Hans aveva resistito qualche giorno anziché qualche ora, prima di non farcela più e uscire da lì come se ne andasse della sua sanità mentale.
    (Era esattamente così.)
    Doveva allontanarsi, o avrebbe ceduto e messo sottosopra la camera di Twat per trovare dell'erba che, lo sapeva, era nascosta da qualche parte in quella casa; non poteva credere che l'amico si fosse sbarazzato di ogni cosa, solo per non dare a lui modo di cadere nella tentazione di provarci di nuovo. Era combattuto a metà tra il desiderio di scoprire se si fosse sbagliato o meno, e quello di non darla vinta a una dipendenza che aveva passato l'intero anno precedente a combattere.
    Piuttosto, aveva afferrato un quadernino dal cassetto in cui l'aveva rilegato anni prima, aveva messo il guinzaglio ad Orion ed era uscito, senza una meta.
    Meta che, svariati minuti (od ore; non era troppo affidabile quando si trattava dello scorrere del tempo) si era rivelata essere il giardino pubblico di Diagon Alley, con i suoi viali alberati e le panchine e fin troppi passanti per essere una mattina random di una giornata altrettanto random, e gelida.
    Trascinato da un Orion entusiasta di vedere finalmente altri esseri umani e canini, e dall'avere la compagnia di qualcuno che non fosse solo ed esclusivamente Hans (comprensibile), lo special ignorò perlopiù chiunque incrociasse il suo cammino (una delle sue specialità) fino a trovare una panchina libera e in disparte, dove riposare le gambe stanche. E fumarsi una sigaretta — un'alternativa banale e poco soddisfacente a quello che avrebbe desiderato davvero, ma doveva farsela bastare.
    Gli occhi, intanto, evitavano con cura di posarsi sul quaderno che aveva arrotolato e stretto nel pugno, incapace di iniziare anche solo a pensare qualcosa da scriverci; sapeva non dovessero essere necessariamente frasi coerenti, e che lo scopo di quell'insieme di fogli fosse proprio quello di accogliere i suoi pensieri così come nascevano, confusi e ingarbugliati e sbagliati e distorti, ma aveva ancora problemi, anche dopo tutti quegli anni, a credere potesse essere una vera soluzione.
    Ma, d'altronde, cos'altro gli rimaneva?
    hogwarts
    ivorbone
    special bornempathneutralmessed up

    what a shame we all remain,
    such fragile broken things,
    i question every human
    who won't look in my eyes;
    scars left on my heart
    formed patterns in my mind.


    indovinate? Role libera.
    Sorry not sorry, avevo bisogno di elaborare.
    Potete avvicinarvi (per accarezzare il cane.) ma non è detto che Hans dia segni di vita, non posso promettere nulla. Se siete dei sopravvissuti al Lotus come lui, stategli lontano (cosa?cosa.)
    Scherzo.

    Forse.
     
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    check vibe-bigh
    29.02.2003
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    era da un po, ormai, che check non si riconosceva più.
    non tanto guardando la propria immagine riflesse nello specchio, dove gli occhi verdi continuavano a ricambiare il suo sguardo con quella punta di rammarico che non era mai riuscito a spiegarsi. aveva un anno in più, ma nessuno sarebbe stato in grado di dirlo: la stesse espressione tesa, i muscoli a guizzare come scariche elettriche allena sotto la superficie della pelle. una rabbia trattenuta a languire come le ceneri di un falò ormai spento — ma non del tutto.
    ci aveva fatto l'abitudine, il vibe.
    era riuscito persino a conviverci, perché che alternative aveva? impazzire, forse; seguire quella voce dal profondo della foresta una volta per tutte, lasciandosi alle spalle cose che si ostinava a credere di non volere.
    non era quello, a renderlo un estraneo.
    ma la paura.
    il peggior sintomo di una malattia che li stava debilitante, gli toglieva forza e concentrazione.
    il timore, del tutto insensato e ingiustificabile, di aver mostrato troppo; una volta permesso ad Hans di aprire la porta si era fottutamente dimenticato di richiederla. e con la corrente, attraverso quello spiraglio era passato di tutto: sentimenti sempre più difficili da ricacciare giù in gola, desiderio, persino preoccupazione.
    dieci giorni.
    di nuovo.
    la missione di salvataggio alla quale non aveva partecipato.
    perchè non poteva.
    Harold, che spariva nel nulla insieme ad un cazzo di edificio in cemento armato, finestre porte letti fondamenta e tutto il fottuto circo.
    si era detto che non gli importava così tanto.
    quel coglione del belby, sempre a cacciarsi in qualche guaio — li conosceva tutti, check, dal primo all'ultimo; mesi e mesi ad evitare il minore, ma senza mai perderlo di vista. un altro esempio che faceva di lui un perfetto sconosciuto: non era mai scappato dalla verità, il ventunenne. mai nella vita. si faceva vanto di saperla affrontare meno degli altri, al punto da renderla quasi in gioco.
    una sfida, che aveva smesso improvvisamente di vincere.
    lo aveva capito aprendo gli occhi sulle assi marcescenti della stamberga, con la pelle nuda e troppo calda graffiata dal legno grezzo. ci era passato così tante volte da perdere il conto, nudo e vulnerabile in quei primi istanti dove la confusione si mescolava alla consapevolezza — istintivo, guardarsi intorno e aspettarsi il peggio. sangue, che non fosse scordato dalla sua stessa pelle spaccata e ricomposta.
    lo aveva capito, di aver perso, quando la figura di Hans rannicchiato sulla poltrona aveva invaso il suo campo visivo; gli occhi chiusi, il respiro pesante. così vicino, una mano mollemente abbandonata a sfiorare il pavimento, da far credere si fosse addormentato così — sentiva ancora quelle dita premere piano dietro le orecchie, check. scivolare lungo il muso, arrischiarsi sulla coda e le zampe.
    purtroppo, cristosignore, ricordava anche quanto successo prima.
    più di tutto, forse, era stato un attimo di debolezza che anche volendo non poteva attribuire alla luna. il potere di renderlo qualcun altro, quello check non gliel'aveva mai concesso.
    «posso?» teneva entrambe le mani in tasca, il vibe, ma riuscì comunque a indicare Orion con un cenno del capo. nemmeno tentò di fingere fosse passato per caso, che quell'incontro stesse avvenendo per caso: con loro due non funzionava così. c'era sempre un motivo, una spinta dall'alto, la ricerca di qualcosa che evidentemente entrambi avevano le loro belle difficoltà a identificare. lo aveva seguito? certo. dopo un silenzio radio durato così tanto che sarebbe stato logico aver dimenticato l'ultima cosa detta; non era così, non per check. ricordava perfettamente di aver guardato l'altro negli occhi, il mento leggermente sollevato a mostrare una sicurezza che non provava più, e avergli chiesto scusa.
    di aver perso il controllo, per essere andato un po troppo oltre.
    dando la colpa al momento, alla situazione peculiare, mentendo.
    e poi chi era il coglione?
    [mood in the background: 👉]
    non attese una risposta che sapeva sarebbe potuta essere negativa — avrebbe dovuto. accucciandosi sui talloni, spinse la mano destra in direzione dell'animale, lasciandogli però il dovuto spazio. come aveva fatto Hans durante quella notte, peccando di una fiducia infine ricambiata. poteva mordere quelle dita tese, perché l'istinto nemmeno cento dosi di antilupo potevano sopprimerlo, ma aveva preferito lasciarsi accarezzare. toccare, guardare, conoscere. non era certo di poter fare altrettanto in forma umana, il vibe «lo capisco, se preferisci che me ne vado» sollevò le iridi verde acqua sull'empatico solo una volta, quasi a cercare la risposta sul suo volto prima che aprisse bocca.
    qualcosa, l'esperienza forse, gli suggeriva che poteva benissimo non farlo.
    e tornò ad osservare Orion, perché in fondo era un codardo come tutti quelli che aveva preso per il culo fino a quel momento; con il cane non aveva bisogno di esprimersi a parole. verità o menzogna, smettevano entrambe di contare qualcosa: rimaneva solo ciò che l'animale riusciva a percepire, vibrazioni sottili tra i polpastrelli di check e i nervi sensibili sotto la pelle spessa. tra bestie, poi, era anche più facile capirsi.
    «è scomparsa anche mia sorella» aveva sentito voci, il custode. sui rapimenti, su coloro che erano andati a salvare le persone sequestrate; racconti confusi di combattimenti, braccia mozzate, gente drogata che girava su se stessa e colpiva gente a caso senza riuscire a fermarsi.
    sapeva che qualcuno aveva deciso di rimanere.
    altri semplicemente se n'erano andati.
    una quarantina di persone scomparse senza lasciare traccia, e tutto ciò che rimaneva erano i racconti surreali di chi in quell'hotel ce li aveva lasciati — senza guardarsi indietro.
    solo allora lo guardò, le labbra tese su una domanda che non era ancora pronto a fargli. non pensava nemmeno che potesse importargli qualcosa di Harold, figurarsi mostrare preoccupazione per qualcuno che in fondo non conosceva: erano estranei con una goccia di sangue in comune a scorrere nelle vene, niente di più.
    fosse scomparso anche Dustin sarebbero stati tutti più felici.
    giusto?
    giusto.

    keeper
    former durmstrang
    21halfbloodwerewolfpretend idgaf

    wait im just about to break
    im pushing through the pain
    believe me you can't get away
    too late to fight
    you've lost your mind
    crossed the line, crossed the line
     
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    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    La sigaretta che stringeva fra le dita non stava sortendo affatto l'effetto placebo che Hans aveva, stupidamente, sperato.
    Il fumo, dall'odore troppo acre per poter essere scambiato con quello dell'erba, persino volendoci credere molto forte, gli pizzicava il naso e bruciava poi i polmoni quando Hans aspirava generosi tiri dalla paglia portata alle labbra, ma non spazzava via i pensieri e i ricordi la confusi del Lotus.
    E Hans ne aveva, francamente, le palle piene.
    Sospirò, e reclinò la testa all'indietro valutando se fosse stata una buona idea o meno quella di uscire.
    Probabilmente no, ma l'alternativa sarebbe stata quella di tirare fuori il regalo che aveva ricevuto al compleanno e perdersi con la testa fra le nuvole, nemmeno troppo metaforicamente, considerando che potesse decidere di rifugiarsi (di isolarsi) sul fottuto pianeta Nettuno, anche se non per davvero. Era comunque un ottimo meccanismo di (non) coping, uno che, lo sapeva, avrebbe finito con l'abusare.
    La riusciva quasi a sentire la voce atona di Twat nelle orecchie, ad ammonirlo esattamente come Hans sapeva avrebbe fatto (se fosse stato lì): «non si usa così, Hans.» e ancora, senza distogliere lo sguardo gelido dal coinquilino, «te lo tolgo».
    Ma una dipendenza era una dipendenza, a prescindere dalla sua forma, e Hans Belby trovava sempre il modo di trasformare una scusa in qualcosa in grado di distruggerlo se usato senza moderazione — Twat avrebbe dovuto saperlo meglio di così, piuttosto che regalargli un mezzo per scappare dai problemi.
    (E no, non parlava del pugnale che aveva trovato nella scatola regalo insieme al pianeta magico in miniatura. Checché ne dicesse la gente, non aveva istinti suicida lo special.)
    Socchiuse un attimo gli occhi, evitando di pensare a come lo stuzzicasse l'idea di riprendere Orion e tornare a casa, lottando contro se stesso per rimanere seduto immobile su quella panchina, le gambe incrociate e il guinzaglio incastrato al polso per evitare che il cane si allontanasse troppo.
    Forse un po' troppo concentrato su quell'intento, al punto da lasciar scivolare, senza rendersene conto, deboli ma consistenti filamenti di potere verso l'esterno, come capelli troppo corti o troppo ribelli che sfuggivano capricciosi alla presa asfissiante di un elastico molto stretto.
    Aveva imparato, in quei mesi, a controllare il nuovo potere; poco ma sicuro si era impegnato per farlo. Una volta tolto il disprezzo e il ribrezzo che da sempre lo aveva portato ad odiare la pirocinesi, per quello che aveva sempre rappresentato nella sua testa, e una volta accettato il fatto che non ci fosse una soluzione diversa al suo problema, che non potesse estirparlo alla radice come se fosse un'erbaccia cattiva e malata, non gli era rimasto altro se non imparare a conviverci.
    Aveva dovuto farlo, se non altro perché essere bombardato di emozioni per lo più asfissianti, ovunque andasse e qualunque cosa facesse, si era rivelato essere davvero qualcosa di molto poco piacevole.
    Non si sarebbe spinto così tanto oltre da reputarsi un maestro nell'arte dell'autocontrollo, ma poteva per lo meno andare in giro senza rischiare di venire sopraffatto da emozioni non sue, e sgretolarsi sotto il loro peso. Le sue spalle erano troppo magroline per poter sopportare quel genere di fatica; e lui troppo stanco di ogni cosa per non tentare almeno di darsi una possibilità di farcela.
    Riusciva a controllarsi quanto bastava da non rischiare di influenzare involontariamente chi gli stava intorno (non che provasse così tante emozioni da considerarsi un grande rischio per la società, andava detto) o, al contrario, di finire con il confondere emozioni altrui per sue.
    Qualcosa ancora tendeva a scivolare tra le pieghe di un controllo non ancora perfezionato a dovere (e temeva l'avrebbero fatto sempre), ma erano perlopiù rumori di sottofondo, dei ronzii che, col giusto impegno, poteva fingere di non percepire.
    Erano stati il modo in cui aveva iniziato a riconoscere la firma di chi lo circondava, e di percepirne la presenza ancora prima di vederli; un modo di classificazione al pari della cadenza di passi, o del respiro più o meno pesante.
    In quel caso specifico, avrebbe descritto quella di Check come un brusio basso e profondo, insistente; un ringhio silenzioso, o più semplicemente una rabbia radicata nelle ossa e impossibile da scrollare via.
    Un mix che, si rese conto il Belby in quel momento, quando non c'era finiva inconsciamente a cercare; e quando appariva, senza avviso e senza un pattern regolare che rendesse possibile prevederlo, aveva il retrogusto di qualcosa di familiare.
    Gonfiò i polmoni di aria e di fumo, e trattenne entrambi per qualche istante, gli occhi ancora – testardamente – chiusi.
    Non aveva bisogno di vederlo oer sapere che fosse lì, e se solo fosse stato un po' meno preso da tutto il resto, avrebbe potuto rendersi conto che ci fosse sempre stato, anche quando la figura del custode era ben lontana dal palesarsi.
    Poteva scusare quella piccola fuga di potere, quella quasi impercettibile perdita di controllo, con la stanchezza che sentiva pesare nelle ossa?
    Aprì gli occhi l'istante prima che Check parlasse, ma tenne le iridi ghiaccio su Orion — esattamente come il Vibe.
    «posso?»
    Si strinse nelle spalle, Hans; non era a lui che doveva chiederlo — Orion era una creatura (fin troppo) intelligente, e poteva decidere da solo se volesse essere accarezzato o meno.
    Non gli chiese da dove fosse arrivato, perché fosse lì, né tentò di spostare lo sguardo sulla figura ora accucciata del maggiore; c'erano delle scuse che aleggiavano su loro, pesanti come ogni altro loro scambio — perché fosse mai che quei due scambiassero qualche parola leggera e senza infiniti possibili risvolti da (non) analizzare in seguito.
    Scuse alle quali, mesi prima, Hans aveva risposto con un silenzio pregno di significato, e le spalle strette che sembravano esser diventati l'unica risposta che fosse in grado di fornire al Vibe. Come se avesse paura di aprire la bocca per dire qualsiasi cosa; come se temesse di dire quella sbagliata, o peggio, di non avere nulla da dire.
    «lo capisco, se preferisci che me ne vado»
    Lo sentì per un istante su di sé, lo sguardo penetrante del lupo, e gli concesse la grazia di non ricambiarlo; qualcosa gli diceva che fosse meglio così per entrambi, e non serviva sintonizzarsi sulle emozioni del maggiore per farlo.
    Quello di Hans, al contrario, scivolò sui fogli che stringeva ancora in una mano, mentre l'altra portava la sigaretta alle labbra per uno degli ultimi tiri che ne segnavano la fugace esistenza.
    Non gli aveva detto anche lui quasi la stessa cosa, quella notte di luna piena?
    E, per tutti i santi, avrebbe dovuto farlo; andare via, e non guardarsi indietro. Lasciare Check ai suoi demoni (non solo metaforici) e dare a se stesso più spazio per respirare. Un margine di errore.
    Ma non l'aveva fatto, no?
    Tirò le labbra in una linea sottile, e scosse appena la testa.
    No, non andare.
    Troppo (stanco, distrutto, rotto) codardo, per dirlo ad alta voce. Non si stava meglio nei silenzi? Perché da un anno scarso a quella parte, Hans parlava anche troppo — e solo quando non aveva assolutamente nulla da dire.
    «è scomparsa anche mia sorella»
    Solo allora, seppure dopo interminabili istanti, alzò gli occhi su Check, e per la prima volta dall'inizio di quell'incontro si permise di lasciarlo indugiare un attimo.
    Non gli sembrava diverso dall'ultima volta che si erano visti, ma era anche vero che Hans avesse preso già da tempo l'abitudine di non fidarsi di ciò che vedeva, non quando da praticamente tutta la vita lottava contro (non così) sporadici episodi in cui la realtà smetteva di avere un senso e si accartocciava su se stessa, lasciandolo confuso e vulnerabile.
    Tentennò lo stesso, nel prendere nota del profilo marcato, la mandibola serrata, il taglio degli occhi particolare e inconfondibile, e quella che sembrava essere una domanda che non riusciva a prendere forma a premere sulle labbra strette.
    Finì la sigaretta, e con un movimento lento la spense contro la panchina. «c'era molta gente,» ricordò più a se stesso, che all'altro; c'era stata pure troppa gente. E lui non era stato in condizioni di riconoscere nessuno di loro, trascinato in basso da un vizio a cui era stato ripresentato contro la sua volontà; aveva avuto pochi fari a far luce nel mare in tempesta che erano stati i suoi pensieri in quegli ultimi frangenti, e nessuno di loro era stato la sorella di Check.
    Non gli chiese se gli mancasse, perché se c'era una cosa che Hans aveva imparato del custode era che non avesse un rapporto così profondo con i suoi fratelli maggiori, e perché era Hans: non avrebbe presunto che, solo perché fratelli, in quelle circostanze Check si sentisse più vicino a lei. E non tentò nemmeno di frugare tra le emozioni del maggiore per cercare quella risposta, perché non era affar suo.
    Ma si sentì comunque in dovere di abbassare nuovamente gli occhi, sulle mani ora congiunte in grembo, e scusarsi per tutto quello che non aveva fatto. Non avrebbe mai potuto—
    Aiutare. Rimanere lì. Combattere.
    «mi dispiace»
    Aveva seguito l'istinto, e le minacce, e aveva cercato la via d'uscita convinto che gli altri avrebbero seguito poco dopo; il finale di quella storia nessuno avrebbe potuto mai prevederlo.
    Si rese conto di aver morso l'interno della guancia solo quando assaporò il gusto metallico del sangue — ed allora strinse più forte.
    Non era mai stato nulla se non un egoista, Hans Belby. Bravissimo a deludere le aspettative, e le persone, e a non preoccuparsene.
    «l'hai cercata?» in quei dieci giorni i cui, a quanto pareva, erano rimasti sequestrati da qualcuno ancora senza nome, e senza faccia.
    Mi hai cercato?
    Aveva già la risposta a quella domanda, Hans, e non si sorprendeva a sapere che fosse no; non era la prima volta che Hans Belby spariva nel nulla e senza lasciare alcun biglietto o traccia per essere trovato — ma, dio!, sperava vivamente fosse l'ultima. E dieci giorni, per Hans e Check, non erano nulla se non una parentesi di qualche istante tra un incontro e l'altro. Sapeva già, l'empatico, che Check non avesse avuto nemmeno il tempo per realizzare che fosse sparito.
    E poi, la domanda che non si azzardava a fare a nessuno, ad alta voce; né a stesso, in silenzio.
    Li ritroveremo?
    I risvolti alle possibili risposte non gli piacevano, e per una volta nella sua stupida vita, Hans Belby sceglieva volutamente di rimanere nell'ignoranza.
    Faceva meno male.
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    I parchi richiamano sempre alla memoria ricordi. Rimangono impressi, per qualche motivo; pregni di nostalgia per un tempo passato. Magari la persona ora di fronte a voi ha pensato a quando, da bambino, passava le giornate a litigarsi l'altalena con i suoi compagni, o quando da ragazzo ha dato il suo primo bacio - chissà, magari su quella stessa panchina.
    Il perchè sia lì, non importa. Fra tutti i posti in cui avrebbe potuto smaterializzarsi, un tonfo vuoto e liquido a pochi passi da voi, ha scelto quello.
    Istinto.
    E forse razionalmente non riuscite a registrare nulla di lui. Non riuscite a vedere di che colore abbia gli occhi - scuri, vi direte in un secondo momento - o se abbia o meno le lentiggini - le ha, come noterete da quanto spiccano sull'incarnato pallido. Il rosso dei capelli permane anche quando cade senza emettere alcun suono.
    Non un sospiro. Non un sibilo.
    Qualcosa l'avete registrato, però. Un'ondata di terrore, mescolata a qualcosa che sulla lingua, se Hans sa riconoscerlo, ha il sapore del sollievo. Qualcos'altro, di cui non riesci a discerne le note. Una necessità che non ha tempo di concretizzare a parole, una mano al cuore e l'altra abbandonata distratta lungo il fianco.
    Non avete neanche bisogno di avvicinarvi, per sapere sia morto. Possiede il vuoto che solo chi ha abbandonato il piano mortale, ha.
    Magari vi chinate sul suo corpo. Magari non lo fate. In entrambi i casi, non vedete nulla che possa averne causato la morte.
    Nessuno si ferma a guardare. Il resto del mondo va avanti attorno a voi, solo fischi più pronunciati per richiamare i cani che, incuriositi dall'accaduto, si sono accostati.
    Ma hanno visto: pochi minuti dopo, un paio di Cacciatori inviati dal Ministero vi squadra. Non vi fanno domande; voi certo non avete tempo di farle a loro. Vi rivolgono un misero e solenne cenno con il capo a volersi fingere rassicurante.

    Così come sono arrivati, spariscono con il cadavere senza lasciare alcuna traccia.
     
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    check vibe-bigh
    29.02.2003
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    era sempre piacevole fare conversazione con Hans.
    in passato aveva avuto diverse occasioni per apprezzare la parlantina poco sciolta dello special, lì dove i silenzi riempivano ogni spazio con un rumore statico di sottofondo e lasciavano che il non detto dicesse tutto. ma dal primo momento in cui si erano visti, dentro quello stanzino minuscolo che sembrava più un ripostiglio, check aveva fatto del cavargli di bocca un frammento di verità alla volta la sua missione personale.
    non poteva semplicemente concedere all'altro di tenersi dentro i propri pensieri accettando non volesse condividerli con (lui) il mondo, no; doveva scavare, spinto e provocato nel farlo proprio dalla testardaggine con cui Hans tendeva a chiudersi in se stesso. più si accartocciava, proteggendo la parte più esposta di sé, più il vibe si sentiva in dovere di affondare le unghie e i denti per scoprire cosa ci fosse di così importante — di così terribile, da salvaguardare.
    senza rendersi conto, pur avendo le prove davanti agli occhi, che a suo modo faceva esattamente la stessa cosa: un meccanismo di difesa vecchio come il mondo stesso, ma al quale check aveva modificato gli ingranaggi. invece che ritirarsi, nascondendo agli altri lo spicchio di verità più intima e impronunciabile per tenerlo tra le costole, lui mostrava le zanne e attaccava. premeva, schiacciava, cercava i muri e ci sbatteva contro le persone, non in a kinky way.
    non gli era mai importato abbastanza, per quello.
    o per qualunque altra cosa.
    i risultati stavano tutti li, nella sua compostezza di fronte alla sorella scomparsa nel nulla; nel sopracciglio corvino appena sollevato, quando era giunta la notizia che Justin fosse morto e tornato in vita. non aveva concesso loro il lusso di una seconda occasione, ma nella barriera eretta a propria protezione non c'era nulla di personale. semmai, e qui inizia la parte contorta, il contrario: il fatto che check si fosse dato la pena di tenere entrambi a debita distanza dimostrava la prepotenza con cui, senza fare assolutamente nulla, Dustin e Harold rischiavano di insinuarsi sotto la pelle. era il sangue, quello che scorreva nelle loro vene e li aveva tenuti insieme quando il mondo attorno era crollato inghiottendoli — se la storia amava ripetersi, aveva certo modi peculiari per farlo.
    «c'era molta gente» annuì, distratto. il muso del cane gli premeva contro l'interno della mano aperta, cercando una carezza in più da quello che probabilmente riconosceva a tratti come un suo simile; più animale che persona, check vibe, poco ma sicuro «si, ho letto» una leggera stretta di spalle, a chiudere la questione. non era per quello, accusarlo di qualcosa, che aveva tirato in ballo l'argomento: non rientrava nella schiera di persone decise a linciare i testimoni solo per essersi allontanati dall'hotel finché ne avevano avuto l'occasione. al loro posto probabilmente avrebbe fatto lo stesso. sollevò il capo solo quando Hans concluse la frase, iridi verde acqua a sondare il volto dell'altro alla ricerca di una risposta che già conosceva «e di cosa, hans? di essere ancora qui?» vivo, tangibile, non disperso chissà dove.
    fece quasi per aggiungerne un'altra di domanda — cosa pensavi di poter fare rimanendo?
    ma le labbra rimasero saggiamente incollate tra loro.
    faceva sorridere e riflettere che di fronte a chiunque altro il custode avrebbe rincarato la dose senza porsi alcun problema etico o morale; la sua ricerca spasmodica della verità sarebbe bastata da sola a strizzare il belby come uno straccio bagnato, fino a non lasciare nemmeno una goccia. una replica fedele del loro primo incontro.
    check però a quel pensiero non sorrise.
    lo faceva sentire strano, e vulnerabile. e debole. di nuovo dritto sulle gambe, con Orion a dargli un'ultima annusata prima di concentrarsi su qualcosa molto più interessante nella porzione di erba accanto alla panchina, per qualche istante il ventunenne si limitò ad osservare Hans in religioso silenzio. faceva parte del loro rapporto frammentato, quello studio quasi clinico delle espressioni dell'altro quando le parole trovavano la forza di venire espresse a voce. proprio perché non erano abituati, e tra le righe rimaneva un mondo sommerso impossibile da ignorare.
    ma poteva sempre provarci.
    «non sapevo nemmeno che fosse sparita» la questione non era quanto fossero legati — o se non lo fossero affatto: dieci giorni nell'au social di check erano un misero granello di sabbia nella vastità dell'oceano. aveva preso pause ben più lunghe tra un'interazione umana e l'altra, soprattutto considerato che nel mezzo gli toccava subire la tortura degli studenti sempre tra i piedi. poi, che una volta saputo con certezza hold si fosse volatilizzata, il custode sarebbe intervenuto per cercarla, quello era un altro paio di maniche.
    anche Hans era un altro paio di maniche.
    per lui, check vibe aveva un risposta pronta sulla punta della lingua. ricacciata in gola con tanta forza da costringerlo ad inghiottire l'aria densa attorno a loro.
    troppo densa.
    «stavo-» non aveva il dono della preveggenza, ma una natura scomoda a premere sotto la pelle sì: un battito in più nel petto, un brivido alla base della nuca; le narici dilatate nel percepire odori che forse nemmeno esistevano. elettricità statica. istintivamente, diede le spalle al belby puntando le iridi acquamarina su un punto accanto a loro che sapeva essere vuoto. non lo era più.
    non chiese se aveva bisogno di aiuto.
    non tentò nemmeno un passo nella sua direzione.
    per un istante i loro sguardi si incrociarono, ma gli occhi del giovane erano rivolti altrove — nostalgia, rammarico, terrore, serenità.
    quando cadde, invece di fare un passo avanti check indietreggiò: fino a raggiungere Hans, il braccio destro leggermente sollevato dal fianco come a voler bloccare qualunque tentativo dell'empatico di intervenire. perché lo sapevano entrambi, che non c'era più niente da fare, e l'arrivo dei cacciatori subito dopo rafforzava l'idea del farsi i fatti propri per campare cent'anni.
    non disse nulla, finché non si ritrovarono di nuovo soli «un normale pomeriggio al parco» fu l'unico commento che abbandonò le labbra del ventunenne, mentre gli occhi chiari cercavano sui volti delle persone a spasso un segnale qualunque di preoccupazione o morboso interesse, senza trovarlo. una piccola parentesi di ordinaria follia, tutto li.

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    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    «e di cosa, hans? di essere ancora qui?»
    Già, di cosa gli dispiaceva, di preciso? Non di certo di essere sopravvissuto – il fatto che “fosse ancora lì” era superfluo, soprattutto quando non era certo di essere (o essere mai stato) presente in quel piano materiale al cento percento –, perché era sempre stato egoista e troppo chiuso, e concentrato, nella sua bolla per pensare agli altri; o alle conseguenze che le sue azioni potevano avere su gli altri.
    L'aveva capito, invece, a sue spese, qualche giorno prima.
    Di occasioni ne aveva avute fin troppe, a pensarci bene, ma in nessun caso era stato troppo lucido per rendersi conto di quanto le sue azioni avessero arrecato preoccupazioni a quei pochi individui che lo conoscevano e lo consideravano amico (ancora uno shock, per l'empatico, rendersi conto della cosa). Solo da quando aveva smesso, per forza di cose, di lasciare alla droga il pieno controllo sulla sua mente e sulla sua vita, si era reso conto del male provocato — non tanto a se stesso, quanto più a tutti gli altri. Degli spaventi, della rabbia, che certe sue azioni, che fossero state volontarie o meno, avevano suscitato in loro.
    Quando era sparito la prima volta per quattro mesi, non aveva scelto di farlo; era successo, e non si era assolutamente reso conto della gravità della cosa, neppure dopo. Neppure quando era tornato e aveva trovato la sua stanza sgombera dai suoi effetti personali e sguardi confusi al suo rientro, gente convinta che sia lui che Mac fossero ormai concime per qualche campo coltivato chissà dove.
    Ma aveva, inconsciamente o meno, deciso di buttare la sua vita una pasticca dietro l'altra, e non aveva nessuno da incolpare per l'overdose, se non lui stesso. Non ricordava quasi nulla di quei momenti, o del dopo; di certo non ricordava l'intervento reattivo di Twat, né il modo inconsueto con cui il cuore dell'emocineta aveva preso a battere sotto il peso di una preoccupazione che non voleva far diventare certezza, o gli sguardi stanchi e i respiri pesanti di un Dominic che non gli doveva nulla, eppure aveva passato ogni pausa e ogni secondo libero dei suoi turni, accartocciato su una poltrona scomoda al suo capezzale, durante i giorni di ricovero al San Mungo. E non ricordava nulla delle reazioni di Taichi, perché Hans aveva deciso che fosse meglio evitare ogni genere di contatto con l'altro special, fino a che non avesse riguadagnato una minima parvenza di controllo sulla propria vita, perché sì.
    Sapeva di aver fatto male ad ognuno di loro, e non solo, in un modo o nell'altro, ma non era mai stato in grado di processare quell'informazione, né aveva voluto farlo, perché troppo lontano da lui il concetto di affetto o di vicinanza; non apparteneva di certo ad uno come il Belby, che per un motivo o per un altro, aveva sempre tenuto lontano tutti prima che potessero abbandonarlo — come sapeva, senza sé e senza ma, che avrebbero fatto.
    Non aveva scelto,invece, di sparire di nuovo per dieci giorni. Era successo, e non sapeva come, non sapeva perché, ma ciò che sapeva era che l'intervento dei volontari che aveva sfondato il portone del Lotus per recuperarli, era un po' colpa sua. E di tutti gli altri, certo, ma ad Hans non fregava mai abbastanza degli sconosciuti — a malapena si interessava a quelli che, effettivamente, conosceva. Era stupido, ed era irrazionale, ma non poteva non sentirsi in colpa per il fatto che qualcuno fosse andato a cercarlo e fosse sparito nell'intento. Era un'ironia crudele, quella lì. Una alla quale il Belby non riusciva a smettere di pensare.
    Era terribile avere qualcuno che fosse abbastanza vicino al cuore da farlo stare così; non era una creatura programmata per provare cose (disse, l'empatico) e di certo non era fatto per i sensi di colpa e il rammarico e la consapevolezza di aver spinto, anche solo involontariamente, qualcuno a mettersi in pericolo per salvare la sua pelle.
    Che poi le persone in questione fossero un Mac (che sarebbe arrivato in capo al mondo per chiunque, a prescindere o meno dalla presenza di Hans all'interno del Lotus) o un Twat (legato, per motivi che ancora Hans faticava ad elaborare, ad altri ostaggi rinchiusi nel resort insieme a lui così come lui era legato suo malgrado a Joey e Dominic) non cambiava assolutamente nulla. Hans sapeva che sarebbero partiti per quella missione a prescindere da tutto, così come erano partiti per la Siberia senza pensarci due volte; ma non rendeva più leggero il peso sul cuore nel sapere di aver contribuito, ancora una volta, a preoccupazioni che si sarebbero potute evitare se solo non avesse gravitato nella loro stessa orbita. Ci pensava spesso, a quell'esito, e si rendeva conto di essere quel genere di persona si cui si fa meglio senza — era, dopotutto, quello che aveva sempre cercato di far capire a chiunque.
    Da una parte, era quasi grato al Vibe per il suo condividere, almeno in parte, lo stesso genere di egoismo che caratterizzava anche Hans — era una persona in meno da far preoccupare, e una in meno per cui preoccuparsi.
    Sentiva dal modo in cui il maggiore aveva impostato la domanda che ci fosse altro che volesse aggiungere, ma non lo fece, ed Hans tenne gli occhi bassi, e colpevoli, su Orion, lasciando, seppur controvoglia, la possibilità a Check di studiarlo in silenzio e trarre, dal suo, tutte le risposte che preferiva; non era certo di saper mettere a parole quei pensieri, o le motivazioni per cui fosse dispiaciuto, né l'avrebbe mai fatto. C'erano cose che preferiva non dire, Hans; era abituato ad essere un'isola chiusa su se stessa, e più spesso che non si ritrovava a pensare che fosse la soluzione migliore, per tutti.
    «non sapevo nemmeno che fosse sparita»
    Quello non lo sorprendeva affatto, era pur sempre di Check che ai parlava, chiuso nella sua roccaforte e incurante del resto del mondo; ma, anche se pochissimo, Hans conosceva Mood e gli pareva strano che non avesse saputo delle sparizioni, o informato suo fratello. Famiglie disfunzionali: Hans ne sapeva qualcosa, e comunque non abbastanza per impicciarsi di quello che accadeva in casa Vibe-Bigh.
    «stavo-»
    Così come era arrivato, il momento
    (– di cosa?)
    passò.
    Hans non seppe mai cosa Check stava — facendo? Pensando? Chissà, impossibile dirlo con il custode. E anche se Hans avrebbe potuto aspettare, cm pazienza, e poi domandare, si conosceva abbastanza bene da sapere che non l'avrebbe mai fatto.
    Fosse stato chiunque altro, avrebbe potuto persino leggere quella risposta nella (non così vasta) gamma di emozioni del Vibe, e trarre da solo le sue deduzioni, oppure esortarlo a riprendere il discorso e finire la frase.
    Ma era lui, e non avrebbe fatto nessuna delle sue cose; le risposte gli piacevano solo quando non avevano il potenziale di toccare un po' troppo vicino casa, e non aveva bisogno della conferma verbale di Check per sapere che non si fosse accorto nemmeno della sua sparizione.
    La punta di fastidio, che Hans riconobbe subito come unicamente sua, non aveva modo di esistere — nulla di nuovo, no?
    Eppure.
    Piegò lateralmente le labbra, stringendo la morsa dei denti sull'interno della guancia già sanguinante, e l'istante dopo fu quasi grato all'interruzione improvvisa; qualsiasi cosa, pur di distrarsi da quei pensieri intrusivi e scomodi.
    Certo, avrebbe preferito un altro genere di distrazione, una diversa da un fottuto cadavere a esalare l'ultimo respiro proprio di fronte a loro, ma non poteva essere esigente nelle circostanze in cui si trovavano.
    Avrebbe anche voluto accorgersene prima, ed essere pronto, o quantomeno non seguire inconsciamente la figura del Vibe con lo sguardo, prima di posarlo suo malgrado sul viso pallido e incrociare quello spalancato, terrorizzato e distante, del ragazzo apparso dal nulla. Avrebbe voluto un sacco di cose, il Belby, ma non significava necessariamente che potesse ottenerle, o indirizzare il corso degli eventi secondo la piega che più lo aggradava.
    Registrò solo marginalmente il braccio di Check ad allungarsi nella sua direzione, invitandolo a non intervenire (come se avrebbe mai potuto farlo), perché le sue attenzioni erano ancora tutte per il corpo ormai esanime rivolto a terra, quella bocca leggermente dischiusa e l'impossibile sensazione di leggerezza che gli era sembrato di percepire subito prima che lo sguardo dello sconosciuto perdesse anche l'ultima scintilla di coscienza e vita. Sollievo, ancora più che paura; il conforto di chi, forse, sapeva di essere finalmente libero — non importava il prezzo da pagare.
    Avrebbe dovuto essere terrorizzato, o magari non aveva avuto il tempo di realizzare cosa stesse succedendo; gli sembrava impossibile, comunque, specialmente con ancora appiccicata addosso la sensazione liberatoria che non poteva essere sua, e poteva quindi appartenere solo a quello che ormai era un corpo privo di vita come tanti altri, trascinato via dai cacciatori.
    Da dove erano arrivati?
    Con gesti meccanici, impegnato in una guerra contro se stesso per distogliere lo sguardo dal punto ormai lasciato vuoto e dove fino a pochi istanti prima c'era stato il ragazzo con i cappelli rossi e le lentiggini, Hans raccolse un Orion spaventato e lo strinse al petto, cercando di dare conforto al cane tanto quanto a se stesso.
    «un normale pomeriggio al parco»
    Solo a quel punto riportò le iridi chiare sul maggiore, ricordandosi dove fossero, quando, perché. C'era stata una punta di angoscia negli ultimi istanti del ragazzo morto; l'ansia e il timore di
    (– essere trovato di nuovo)
    qualcosa che Hans non sapeva, né voleva provare a spiegarsi in quel momento. Permaneva sulla pelle di Hans come se fosse sua. Magari, semplicemente, aveva amplificato solo qualcosa che era sempre stata lì pur senza che lo special se ne rendesse conto.
    Realizzò di aver osservato il Vibe in silenzio per troppi istanti quando sentì Orion tentare di divincolarsi dalla sua presa, e allora batté più volte le palpebre, risvegliandosi da quell'incubo ad occhi aperti.
    «è stata una pessima idea» venire (al mondo.) al parco, e se ne pentiva sempre di più quando era ormai troppo tardi.
    Non si era nemmeno accorto di essere scattato in piedi, chissà quando tra l'arrivo del cadavere ambulante e la smaterializzazione dei cacciatori, ma registrò perfettamente quando le gambe iniziarono a muoversi da sole, dirette verso casa — l'unico posto che conosceva in cui poteva illudersi di essere al sicuro, pur sapendo che non fosse assolutamente così, perché spesso era proprio da lì che fosse sparito, ma dove altro poteva andare?
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