Back and forth

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  1. Allons-y‚ Alonso!
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    Amelia
    The Schrödinger's cat

    Ci si abituava al sapore del sangue. A dir la verità non era neppure tanto male, ma questo, Amelia aveva ormai compreso, non era il caso di ammetterlo.
    Continuò dunque succhiare il liquido caldo dal suo labbro inferiore, ignorando il leggero dolore che ciò le procurava. Beh, forse il labbro sarebbe guarito se avesse smesso di importunarselo, ma ormai quel gesto le risultava fin troppo automatico: aveva cominciato a farlo pure nel sonno, quando aveva gli incubi.
    Ah, gli incubi.
    Relegata nei laboratori, quasi non le pareva di averli: viveva già in un incubo, ed ogni brutto sogno si scoloriva e si perdeva nella matassa dei grigi e rossi giorni di supplizio.
    Ma una volta che i soccorsi l’avevano fatta evadere, lei tra i tanti, si ritrovò ad affrontare una nuova pagina della sua vita. O meglio, si ritrovò ad affrontare la vita in sé, nel mondo che, per quanto fosse afflitto dalle ombre del suo passato, era sempre un dono immenso dopo tutto quello a cui era stata sottoposta. Ma ecco che gli incubi –mai realmente cessati- rendevano ogni notte attesa con timore. Perché i suoi incubi, talvolta sul suo passato, talvolta ansiogeni e surreali, alla fine la conducevano nello stesso luogo: i laboratori.
    Quando gli “studenti speciali” furono sistemati ad Hogwarts, gli incubi di Amelia non cessavano di venirla a trovare ogni notte così, senza quasi accorgersene, la sua mente si abituò e, in un modo o nell’altro, lei cesso di svegliarsi madida di sudore nel bel mezzo della notte. Ciò non significava però che gli incubi avessero smesso di arrivare: erano puntuali come sempre, e lei era costretta a sorbirseli tutti, finché l’alba non fosse l’avesse salvata dalle torture che il suo stesso corpo e la sua stessa mente le infliggevano.
    Beh, incubi a parte non se la passava male.
    *Incubi e morti a parte non se la passava male.
    **Incubi, morti ed allucinazioni di svariato genere a parte non se la passava male.
    Le sue giornate al castello erano tutte uguali e sempre meno interessanti. Non le importava granché delle lezioni e non era particolarmente interessata alle interazioni sociali, principalmente perché era difficile spiegare che Non è che non ti voglio ascoltare, sono semplicemente distratta dallo spirito di tuo nonno/zio/defunto a caso che mi urla in testa cercando di persuadermi a riferirti un suo messaggio o chiedere cose come Scusa se te lo chiedo, ma sono l’unica che vede quel bambino con una maschera a gas che chiede in giro se sei la sua mammina?. Perciò no, Amelia non aveva molti amici a castello, e non era interessata ad averne: l’idea di ritrovarsi in frangenti sociali non risultava particolarmente affascinante.
    Seduta all’ombra di un albero all’esterno del castello, corrugò appena le sopracciglia facendo scorrere lo sguardo sulle righe d’inchiostro del libro che aveva poggiato sul grembo. Non che stesse leggendo sul serio, ma fingersi impegnata nella lettura teneva alla larga possibili attacca tori di bottone. Piuttosto che dal tomo che teneva tra le gambe incrociate, la curiosità di Amelia era attirata da un’unica domanda: perché nel castello si ostinavano tutti ad usare delle cazzo di prime per scrivere quando una biro poteva essere più che sufficiente? Maghi.
    Venne riscossa dai suoi pensieri grevi di implicazioni filosofiche quando scorse due piedi ed un paio di gambe di fronte a lei.
    Lasciò il su sguardo scivolare lentamente sulla figura che le si trovava davanti: due piedi piccoli, vestiti con stivali da pioggia gialli,le gambette magre, il torso esile che terminava un capo dai capelli biondi, senza volto.
    Frederick.
    Quella consapevolezza prese forma nella sua mente repentinamente come il battito del suo cuore cominciò ad aumentare. Per un attimo indugiò sul volto cancellato. Sembrava quasi composto da fumo che cercasse di assemblarsi invano in una qualsiasi forma, ma che restava indefinito.
    Da piccola, Amelia credeva in una qualche sorta di connessione voodoo tra gemelli: quando infatti sognò la morte del fratello scomparso, Frederick, si ritrovò a credere che ormai per lui fosse finita. Ed infondo doveva avere almeno un po’ ragione poiché di fronte a lei si ritrovava il fantasma del gemello, di due anni circa più grande rispetto a quando era scomparso.
    Se qualcuno dice che ad avere a che fare con i morti ci si abitua o ha davvero un ottimo autocontrollo o è un bugiardo. Perché in quel momento Amelia aveva, come ogni singola volta in cui le capitasse di vederlo, voglia di mettersi ad urlare. Piangere. Implorare perdono.
    Ma non lo fece. Deglutì invece, cercando di regolare sa respirazione, mentre con un tremore appena percettibile delle mani, lasciò scivolare il libro a terra.
    Quella volta le risparmiò, grazie al cielo i “Dovevi essere tu”, dandole le spalle e cominciando a camminare, lentamente, a piccoli passi.
    Voleva essere seguito. Amelia ne percepiva la volontà.
    Così, lentamente, si alzò, abbandonando il libro a terra. Fece del suo meglio per non sembrare sull’orlo di un crollo nervoso o, perlomeno, per scacciare l’attacco di panico in arrivo.
    Ed avanzò, seguendo quelle piccole spalle che ondeggiavano.
    Non sarebbe mai dovuta andare in quella maniera. Nulla di tutto ciò che era capitato alla madre, al fratello e a lei sarebbe mai dovuto succedere.
    Una volta la mare le disse, quando Amelia insisteva a proporre teorie secondo le quali i compleanni fossero inutili, la madre le disse che, ricordare gli anni che passavano aiutava a rendersi conto di quanto, nel bene o nel male, si fosse arrivati lontano. Una cosa era certa: Amelia non avrebbe mai desiderato arrivare così lontano.

    La torre dell’orologio.
    Era lì che l’aveva condotta.
    -Perché qui?- sussurrò, mentre saliva una scricchiolante rampa di scale dopo l’altra.
    Giunta al penultimo piano, la figura ombrosa si voltò verso Amelia. Nel fumo del volto, per pochi istanti prese forma tangibile un un sorriso mesto. Frederick sparì.



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    Jayson Matthews
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    Godere delle piccole cose. Quello era un insegnamento che Jayson avrebbe tanto voluto fare suo, non solo imparare ogni singola parola a memoria, ma anche trasformarla in un mantra, qualcosa a cui aggrapparsi quotidianamente. Il problema era che da quando aveva aperto gli occhi nei laboratori per cominciare una nuova vita partendo dal nulla più assoluto, ogni giorno si era sentito avviluppato in una nube di negatività impossibile da dissipare. Non che ci avesse davvero provato, bisogna essere sinceri: guardare le cose in maniera positiva richiedeva uno sforzo tremendo, più doloroso delle lame affilate sulla pelle e decisamente più estenuante del tentare di ricordarsi chi fosse, nel prima.
    Vedere tutto nero, attorno a sè, ovunque andare o qualunque cosa facesse, non richiedeva alcuna fatica: gli riusciva naturale come respirare.
    Non si poteva affermare ugualmente quando si trattava di controllare il suo potere. Forse, almeno per quella giornata, qualcosa di buono l'aveva individuata: aveva appena fatto un fondamentale passo avanti. Dopo due ore di tentativi falliti, seduto da solo sul pavimento freddo della torre, con la schiena appoggiata contro la parete di mattoni in pietra, era finalmente riuscito a far levitare la tazza di ceramica che si era portato dietro dalla sua stanza. Detto così non sembra un gran traguardo, ma fidatevi: il fatto che stesse perfettamente immobile nel vuoto, una decina di centimetri più in alto rispetto ai palmi aperti delle sue mani, invece che andarsi a schiantare impazzita contro il primo ostacolo, era qualcosa in cui Jay non aveva nemmeno pensato di poter riuscire.
    Cominciavano a pulsargli le tempie, ma la soddisfazione per una volta batteva il dolore: il professor tu-sai-chi (non so ancora come si chiama, ah!) gli aveva assicurato che anche i mal di testa, per il momento una naturale conseguenza dell'intensa concentrazione, sarebbero spariti grazie all'esercizio quotidiano del suo potere. La telecinesi, così come la telepatia e altri di quelli che l'uomo amava chiamare 'doni', affondava le sue radici nel cervello e il cervello in sé non era altro che un muscolo.
    Come tale lo si poteva allenare, se solo si riusciva a stringere i denti e a superare la fase iniziale in salita. Stava ancora fissando la tazza fluttuante a mezz'aria, un semplicissimo contenitore di ceramica blu spento priva di manico, le labbra premute una contro l'altra in una posa di estrema concentrazione, quando un rumore proveniente dalla scala a chiocciola - un bisbiglio per essere precisi - spezzò la magia. Gli bastò spostare di mezzo millimetro le iridi color cioccolato dalla tazza in direzione di quella voce appena udibile, per interrompere la connessione speciale tra lui e l'oggetto: non ebbe nemmeno la prontezza di trattenerla nel palmo della mano quando la forza di gravità la riportò rapidamente sul pavimento.
    - Maledizione - gli sfuggì un sibilo tra i denti, seguito da un mugolio di puro sconforto nel vedere i cocci sparsi nel raggio di mezzo metro dal punto in cui si era seduto.
    Stranamente, non provò alcun risentimento - cosa che al contrario gli capitava spesso - nei confronti di chiunque avesse appena fatto il suo ingresso in cima alla torre, dopotutto quella non era la stanza privata nella quale dormiva. Non c'era scritto Jayson sulla porta, né poteva pretendere di essere l'unico ad utilizzare quel luogo come un rifugio, un angolo per pensare in santa pace. Questo, almeno, era il motivo per cui lui stesso si riceva alla torre dell'orologio spesso e volentieri: quasi nessuno si avventurava fino al piano più alto, e tra quei pochi sicuramente non si riconosceva gente vogliosa di seminare zizzania.
    E poi diciamocelo, non aveva alcuna voglia di mettersi a litigare con l'ultimo arrivato solo per evitare così di alzare il sedere e trovarsi un altro posto dove allenarsi e pensare in santa pace. Se proprio doveva finire nella sala delle torture a far divertire qualche studentello viziato inconsapevole di cosa fosse il vero dolore, tanto valeva farlo ottenendo in cambio una cospicua soddisfazione: spaccando il naso a qualche gradasso, per esempio. Occasione che a Jay non era ancora capitata, ma stava quasi cominciando a sperare arrivasse al più presto. Sentiva dentro di sé una tale rabbia, un furore così tangibile nei confronti di sé stesso per non riuscire a ricordare chi fosse, che era certo di essere molto vicino al punto di rottura. La linea rossa da non oltrepassare, la famosa ultima goccia in grado di far traboccare l'intero vaso. C'era un motivo, in fondo, se si teneva quanto più possibile alla larga dai suoi coetanei, limitandosi a frequentare l'odioso gatto Giuliano - anche se "frequentare" è un termine quanto mai gentile e accomodante, per descrivere il loro rapporto tumultuoso -.
    Si alzò in piedi, spostando con la punta della scarpa uno dei cocci rimastogli più vicino, voltandosi in direzione della scala: la trovò già occupata da una figura femminile, la stessa che aveva bisbigliato poco prima. Ora occupava l'ultimo gradino e, nonostante la scarsa luce che arrivava dall'unica apertura nella parete, non serviva avere l'occhio di un falco per notare il sangue sul suo viso.
    Poco, in realtà, solo una goccia apparentemente sfuggita dal labbro inferiore, le rigava il mento diventando via via più lieve ed impercettibile. Il suo viso pallido, quegli occhi da cerbiatto così scuri e profondi, i capelli color cioccolato sciolti sulle spalle, gli ricordavano qualcosa: si trattava di un ricordo vero, non della sua fervida immaginazione, il che gli fece pensare che doveva averla vista dopo essersi risvegliato nei laboratori.
    Si erano già incontrati proprio in quel posto? La ragazza era una delle tante facce sconosciute raggrinzite dal dolore per le torture e gli esperimenti? Oppure più semplicemente gli era capitata davanti nei corridoi del castello e per qualche strano motivo gli si era impressa nella memoria? Quest'ultima possibilità non sembrò convincerlo particolarmente, proprio perché aveva fatto di tutto e di più, per evitare di incontrare anima viva. In ogni caso, chiederle conferma di quella particolare sensazione non rientrava nel metodo Jayson: anche se avesse avuto ragione, cosa sarebbe cambiato? Ma, soprattutto, se si sbagliava e la ragazza l'avesse guardato come si guardano i pazzi?
    Forse qualcosa avrebbe potuto dirgliela in ogni caso. Interagire. - Hai del... - sollevò il dito indice battendoselo sul mento, per indicare alla ragazza il punto in cui la goccia di sangue aveva striato la pelle troppo chiara, decisamente pallida. Bella prova, campione. Non un ciao, chi sei, come ti chiami, stai bene. Non sapeva nemmeno da dove si cominciasse, per parlare faccia a faccia con una persona: alle lezioni ascoltava solamente, rispondeva a monosillabi, quasi mai dava un'opinione utilizzando frasi intere. Quelle le riservava solo al gatto tigrato, e per lo più si trattava di insulti.

    Doveva andarsene da quella torre, e alla svelta.


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