spiritual hangover that I can't shake

post miniq 05 | ft. check

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  1. traiten.
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    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    «e di cosa, hans? di essere ancora qui?»
    Già, di cosa gli dispiaceva, di preciso? Non di certo di essere sopravvissuto – il fatto che “fosse ancora lì” era superfluo, soprattutto quando non era certo di essere (o essere mai stato) presente in quel piano materiale al cento percento –, perché era sempre stato egoista e troppo chiuso, e concentrato, nella sua bolla per pensare agli altri; o alle conseguenze che le sue azioni potevano avere su gli altri.
    L'aveva capito, invece, a sue spese, qualche giorno prima.
    Di occasioni ne aveva avute fin troppe, a pensarci bene, ma in nessun caso era stato troppo lucido per rendersi conto di quanto le sue azioni avessero arrecato preoccupazioni a quei pochi individui che lo conoscevano e lo consideravano amico (ancora uno shock, per l'empatico, rendersi conto della cosa). Solo da quando aveva smesso, per forza di cose, di lasciare alla droga il pieno controllo sulla sua mente e sulla sua vita, si era reso conto del male provocato — non tanto a se stesso, quanto più a tutti gli altri. Degli spaventi, della rabbia, che certe sue azioni, che fossero state volontarie o meno, avevano suscitato in loro.
    Quando era sparito la prima volta per quattro mesi, non aveva scelto di farlo; era successo, e non si era assolutamente reso conto della gravità della cosa, neppure dopo. Neppure quando era tornato e aveva trovato la sua stanza sgombera dai suoi effetti personali e sguardi confusi al suo rientro, gente convinta che sia lui che Mac fossero ormai concime per qualche campo coltivato chissà dove.
    Ma aveva, inconsciamente o meno, deciso di buttare la sua vita una pasticca dietro l'altra, e non aveva nessuno da incolpare per l'overdose, se non lui stesso. Non ricordava quasi nulla di quei momenti, o del dopo; di certo non ricordava l'intervento reattivo di Twat, né il modo inconsueto con cui il cuore dell'emocineta aveva preso a battere sotto il peso di una preoccupazione che non voleva far diventare certezza, o gli sguardi stanchi e i respiri pesanti di un Dominic che non gli doveva nulla, eppure aveva passato ogni pausa e ogni secondo libero dei suoi turni, accartocciato su una poltrona scomoda al suo capezzale, durante i giorni di ricovero al San Mungo. E non ricordava nulla delle reazioni di Taichi, perché Hans aveva deciso che fosse meglio evitare ogni genere di contatto con l'altro special, fino a che non avesse riguadagnato una minima parvenza di controllo sulla propria vita, perché sì.
    Sapeva di aver fatto male ad ognuno di loro, e non solo, in un modo o nell'altro, ma non era mai stato in grado di processare quell'informazione, né aveva voluto farlo, perché troppo lontano da lui il concetto di affetto o di vicinanza; non apparteneva di certo ad uno come il Belby, che per un motivo o per un altro, aveva sempre tenuto lontano tutti prima che potessero abbandonarlo — come sapeva, senza sé e senza ma, che avrebbero fatto.
    Non aveva scelto,invece, di sparire di nuovo per dieci giorni. Era successo, e non sapeva come, non sapeva perché, ma ciò che sapeva era che l'intervento dei volontari che aveva sfondato il portone del Lotus per recuperarli, era un po' colpa sua. E di tutti gli altri, certo, ma ad Hans non fregava mai abbastanza degli sconosciuti — a malapena si interessava a quelli che, effettivamente, conosceva. Era stupido, ed era irrazionale, ma non poteva non sentirsi in colpa per il fatto che qualcuno fosse andato a cercarlo e fosse sparito nell'intento. Era un'ironia crudele, quella lì. Una alla quale il Belby non riusciva a smettere di pensare.
    Era terribile avere qualcuno che fosse abbastanza vicino al cuore da farlo stare così; non era una creatura programmata per provare cose (disse, l'empatico) e di certo non era fatto per i sensi di colpa e il rammarico e la consapevolezza di aver spinto, anche solo involontariamente, qualcuno a mettersi in pericolo per salvare la sua pelle.
    Che poi le persone in questione fossero un Mac (che sarebbe arrivato in capo al mondo per chiunque, a prescindere o meno dalla presenza di Hans all'interno del Lotus) o un Twat (legato, per motivi che ancora Hans faticava ad elaborare, ad altri ostaggi rinchiusi nel resort insieme a lui così come lui era legato suo malgrado a Joey e Dominic) non cambiava assolutamente nulla. Hans sapeva che sarebbero partiti per quella missione a prescindere da tutto, così come erano partiti per la Siberia senza pensarci due volte; ma non rendeva più leggero il peso sul cuore nel sapere di aver contribuito, ancora una volta, a preoccupazioni che si sarebbero potute evitare se solo non avesse gravitato nella loro stessa orbita. Ci pensava spesso, a quell'esito, e si rendeva conto di essere quel genere di persona si cui si fa meglio senza — era, dopotutto, quello che aveva sempre cercato di far capire a chiunque.
    Da una parte, era quasi grato al Vibe per il suo condividere, almeno in parte, lo stesso genere di egoismo che caratterizzava anche Hans — era una persona in meno da far preoccupare, e una in meno per cui preoccuparsi.
    Sentiva dal modo in cui il maggiore aveva impostato la domanda che ci fosse altro che volesse aggiungere, ma non lo fece, ed Hans tenne gli occhi bassi, e colpevoli, su Orion, lasciando, seppur controvoglia, la possibilità a Check di studiarlo in silenzio e trarre, dal suo, tutte le risposte che preferiva; non era certo di saper mettere a parole quei pensieri, o le motivazioni per cui fosse dispiaciuto, né l'avrebbe mai fatto. C'erano cose che preferiva non dire, Hans; era abituato ad essere un'isola chiusa su se stessa, e più spesso che non si ritrovava a pensare che fosse la soluzione migliore, per tutti.
    «non sapevo nemmeno che fosse sparita»
    Quello non lo sorprendeva affatto, era pur sempre di Check che ai parlava, chiuso nella sua roccaforte e incurante del resto del mondo; ma, anche se pochissimo, Hans conosceva Mood e gli pareva strano che non avesse saputo delle sparizioni, o informato suo fratello. Famiglie disfunzionali: Hans ne sapeva qualcosa, e comunque non abbastanza per impicciarsi di quello che accadeva in casa Vibe-Bigh.
    «stavo-»
    Così come era arrivato, il momento
    (– di cosa?)
    passò.
    Hans non seppe mai cosa Check stava — facendo? Pensando? Chissà, impossibile dirlo con il custode. E anche se Hans avrebbe potuto aspettare, cm pazienza, e poi domandare, si conosceva abbastanza bene da sapere che non l'avrebbe mai fatto.
    Fosse stato chiunque altro, avrebbe potuto persino leggere quella risposta nella (non così vasta) gamma di emozioni del Vibe, e trarre da solo le sue deduzioni, oppure esortarlo a riprendere il discorso e finire la frase.
    Ma era lui, e non avrebbe fatto nessuna delle sue cose; le risposte gli piacevano solo quando non avevano il potenziale di toccare un po' troppo vicino casa, e non aveva bisogno della conferma verbale di Check per sapere che non si fosse accorto nemmeno della sua sparizione.
    La punta di fastidio, che Hans riconobbe subito come unicamente sua, non aveva modo di esistere — nulla di nuovo, no?
    Eppure.
    Piegò lateralmente le labbra, stringendo la morsa dei denti sull'interno della guancia già sanguinante, e l'istante dopo fu quasi grato all'interruzione improvvisa; qualsiasi cosa, pur di distrarsi da quei pensieri intrusivi e scomodi.
    Certo, avrebbe preferito un altro genere di distrazione, una diversa da un fottuto cadavere a esalare l'ultimo respiro proprio di fronte a loro, ma non poteva essere esigente nelle circostanze in cui si trovavano.
    Avrebbe anche voluto accorgersene prima, ed essere pronto, o quantomeno non seguire inconsciamente la figura del Vibe con lo sguardo, prima di posarlo suo malgrado sul viso pallido e incrociare quello spalancato, terrorizzato e distante, del ragazzo apparso dal nulla. Avrebbe voluto un sacco di cose, il Belby, ma non significava necessariamente che potesse ottenerle, o indirizzare il corso degli eventi secondo la piega che più lo aggradava.
    Registrò solo marginalmente il braccio di Check ad allungarsi nella sua direzione, invitandolo a non intervenire (come se avrebbe mai potuto farlo), perché le sue attenzioni erano ancora tutte per il corpo ormai esanime rivolto a terra, quella bocca leggermente dischiusa e l'impossibile sensazione di leggerezza che gli era sembrato di percepire subito prima che lo sguardo dello sconosciuto perdesse anche l'ultima scintilla di coscienza e vita. Sollievo, ancora più che paura; il conforto di chi, forse, sapeva di essere finalmente libero — non importava il prezzo da pagare.
    Avrebbe dovuto essere terrorizzato, o magari non aveva avuto il tempo di realizzare cosa stesse succedendo; gli sembrava impossibile, comunque, specialmente con ancora appiccicata addosso la sensazione liberatoria che non poteva essere sua, e poteva quindi appartenere solo a quello che ormai era un corpo privo di vita come tanti altri, trascinato via dai cacciatori.
    Da dove erano arrivati?
    Con gesti meccanici, impegnato in una guerra contro se stesso per distogliere lo sguardo dal punto ormai lasciato vuoto e dove fino a pochi istanti prima c'era stato il ragazzo con i cappelli rossi e le lentiggini, Hans raccolse un Orion spaventato e lo strinse al petto, cercando di dare conforto al cane tanto quanto a se stesso.
    «un normale pomeriggio al parco»
    Solo a quel punto riportò le iridi chiare sul maggiore, ricordandosi dove fossero, quando, perché. C'era stata una punta di angoscia negli ultimi istanti del ragazzo morto; l'ansia e il timore di
    (– essere trovato di nuovo)
    qualcosa che Hans non sapeva, né voleva provare a spiegarsi in quel momento. Permaneva sulla pelle di Hans come se fosse sua. Magari, semplicemente, aveva amplificato solo qualcosa che era sempre stata lì pur senza che lo special se ne rendesse conto.
    Realizzò di aver osservato il Vibe in silenzio per troppi istanti quando sentì Orion tentare di divincolarsi dalla sua presa, e allora batté più volte le palpebre, risvegliandosi da quell'incubo ad occhi aperti.
    «è stata una pessima idea» venire (al mondo.) al parco, e se ne pentiva sempre di più quando era ormai troppo tardi.
    Non si era nemmeno accorto di essere scattato in piedi, chissà quando tra l'arrivo del cadavere ambulante e la smaterializzazione dei cacciatori, ma registrò perfettamente quando le gambe iniziarono a muoversi da sole, dirette verso casa — l'unico posto che conosceva in cui poteva illudersi di essere al sicuro, pur sapendo che non fosse assolutamente così, perché spesso era proprio da lì che fosse sparito, ma dove altro poteva andare?
    hogwarts
    ivorbone
    special bornempathneutralmessed up

    what a shame we all remain,
    such fragile broken things,
    i question every human
    who won't look in my eyes;
    scars left on my heart
    formed patterns in my mind.
     
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