spiritual hangover that I can't shake

post miniq 05 | ft. check

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  1. traiten.
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    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    La sigaretta che stringeva fra le dita non stava sortendo affatto l'effetto placebo che Hans aveva, stupidamente, sperato.
    Il fumo, dall'odore troppo acre per poter essere scambiato con quello dell'erba, persino volendoci credere molto forte, gli pizzicava il naso e bruciava poi i polmoni quando Hans aspirava generosi tiri dalla paglia portata alle labbra, ma non spazzava via i pensieri e i ricordi la confusi del Lotus.
    E Hans ne aveva, francamente, le palle piene.
    Sospirò, e reclinò la testa all'indietro valutando se fosse stata una buona idea o meno quella di uscire.
    Probabilmente no, ma l'alternativa sarebbe stata quella di tirare fuori il regalo che aveva ricevuto al compleanno e perdersi con la testa fra le nuvole, nemmeno troppo metaforicamente, considerando che potesse decidere di rifugiarsi (di isolarsi) sul fottuto pianeta Nettuno, anche se non per davvero. Era comunque un ottimo meccanismo di (non) coping, uno che, lo sapeva, avrebbe finito con l'abusare.
    La riusciva quasi a sentire la voce atona di Twat nelle orecchie, ad ammonirlo esattamente come Hans sapeva avrebbe fatto (se fosse stato lì): «non si usa così, Hans.» e ancora, senza distogliere lo sguardo gelido dal coinquilino, «te lo tolgo».
    Ma una dipendenza era una dipendenza, a prescindere dalla sua forma, e Hans Belby trovava sempre il modo di trasformare una scusa in qualcosa in grado di distruggerlo se usato senza moderazione — Twat avrebbe dovuto saperlo meglio di così, piuttosto che regalargli un mezzo per scappare dai problemi.
    (E no, non parlava del pugnale che aveva trovato nella scatola regalo insieme al pianeta magico in miniatura. Checché ne dicesse la gente, non aveva istinti suicida lo special.)
    Socchiuse un attimo gli occhi, evitando di pensare a come lo stuzzicasse l'idea di riprendere Orion e tornare a casa, lottando contro se stesso per rimanere seduto immobile su quella panchina, le gambe incrociate e il guinzaglio incastrato al polso per evitare che il cane si allontanasse troppo.
    Forse un po' troppo concentrato su quell'intento, al punto da lasciar scivolare, senza rendersene conto, deboli ma consistenti filamenti di potere verso l'esterno, come capelli troppo corti o troppo ribelli che sfuggivano capricciosi alla presa asfissiante di un elastico molto stretto.
    Aveva imparato, in quei mesi, a controllare il nuovo potere; poco ma sicuro si era impegnato per farlo. Una volta tolto il disprezzo e il ribrezzo che da sempre lo aveva portato ad odiare la pirocinesi, per quello che aveva sempre rappresentato nella sua testa, e una volta accettato il fatto che non ci fosse una soluzione diversa al suo problema, che non potesse estirparlo alla radice come se fosse un'erbaccia cattiva e malata, non gli era rimasto altro se non imparare a conviverci.
    Aveva dovuto farlo, se non altro perché essere bombardato di emozioni per lo più asfissianti, ovunque andasse e qualunque cosa facesse, si era rivelato essere davvero qualcosa di molto poco piacevole.
    Non si sarebbe spinto così tanto oltre da reputarsi un maestro nell'arte dell'autocontrollo, ma poteva per lo meno andare in giro senza rischiare di venire sopraffatto da emozioni non sue, e sgretolarsi sotto il loro peso. Le sue spalle erano troppo magroline per poter sopportare quel genere di fatica; e lui troppo stanco di ogni cosa per non tentare almeno di darsi una possibilità di farcela.
    Riusciva a controllarsi quanto bastava da non rischiare di influenzare involontariamente chi gli stava intorno (non che provasse così tante emozioni da considerarsi un grande rischio per la società, andava detto) o, al contrario, di finire con il confondere emozioni altrui per sue.
    Qualcosa ancora tendeva a scivolare tra le pieghe di un controllo non ancora perfezionato a dovere (e temeva l'avrebbero fatto sempre), ma erano perlopiù rumori di sottofondo, dei ronzii che, col giusto impegno, poteva fingere di non percepire.
    Erano stati il modo in cui aveva iniziato a riconoscere la firma di chi lo circondava, e di percepirne la presenza ancora prima di vederli; un modo di classificazione al pari della cadenza di passi, o del respiro più o meno pesante.
    In quel caso specifico, avrebbe descritto quella di Check come un brusio basso e profondo, insistente; un ringhio silenzioso, o più semplicemente una rabbia radicata nelle ossa e impossibile da scrollare via.
    Un mix che, si rese conto il Belby in quel momento, quando non c'era finiva inconsciamente a cercare; e quando appariva, senza avviso e senza un pattern regolare che rendesse possibile prevederlo, aveva il retrogusto di qualcosa di familiare.
    Gonfiò i polmoni di aria e di fumo, e trattenne entrambi per qualche istante, gli occhi ancora – testardamente – chiusi.
    Non aveva bisogno di vederlo oer sapere che fosse lì, e se solo fosse stato un po' meno preso da tutto il resto, avrebbe potuto rendersi conto che ci fosse sempre stato, anche quando la figura del custode era ben lontana dal palesarsi.
    Poteva scusare quella piccola fuga di potere, quella quasi impercettibile perdita di controllo, con la stanchezza che sentiva pesare nelle ossa?
    Aprì gli occhi l'istante prima che Check parlasse, ma tenne le iridi ghiaccio su Orion — esattamente come il Vibe.
    «posso?»
    Si strinse nelle spalle, Hans; non era a lui che doveva chiederlo — Orion era una creatura (fin troppo) intelligente, e poteva decidere da solo se volesse essere accarezzato o meno.
    Non gli chiese da dove fosse arrivato, perché fosse lì, né tentò di spostare lo sguardo sulla figura ora accucciata del maggiore; c'erano delle scuse che aleggiavano su loro, pesanti come ogni altro loro scambio — perché fosse mai che quei due scambiassero qualche parola leggera e senza infiniti possibili risvolti da (non) analizzare in seguito.
    Scuse alle quali, mesi prima, Hans aveva risposto con un silenzio pregno di significato, e le spalle strette che sembravano esser diventati l'unica risposta che fosse in grado di fornire al Vibe. Come se avesse paura di aprire la bocca per dire qualsiasi cosa; come se temesse di dire quella sbagliata, o peggio, di non avere nulla da dire.
    «lo capisco, se preferisci che me ne vado»
    Lo sentì per un istante su di sé, lo sguardo penetrante del lupo, e gli concesse la grazia di non ricambiarlo; qualcosa gli diceva che fosse meglio così per entrambi, e non serviva sintonizzarsi sulle emozioni del maggiore per farlo.
    Quello di Hans, al contrario, scivolò sui fogli che stringeva ancora in una mano, mentre l'altra portava la sigaretta alle labbra per uno degli ultimi tiri che ne segnavano la fugace esistenza.
    Non gli aveva detto anche lui quasi la stessa cosa, quella notte di luna piena?
    E, per tutti i santi, avrebbe dovuto farlo; andare via, e non guardarsi indietro. Lasciare Check ai suoi demoni (non solo metaforici) e dare a se stesso più spazio per respirare. Un margine di errore.
    Ma non l'aveva fatto, no?
    Tirò le labbra in una linea sottile, e scosse appena la testa.
    No, non andare.
    Troppo (stanco, distrutto, rotto) codardo, per dirlo ad alta voce. Non si stava meglio nei silenzi? Perché da un anno scarso a quella parte, Hans parlava anche troppo — e solo quando non aveva assolutamente nulla da dire.
    «è scomparsa anche mia sorella»
    Solo allora, seppure dopo interminabili istanti, alzò gli occhi su Check, e per la prima volta dall'inizio di quell'incontro si permise di lasciarlo indugiare un attimo.
    Non gli sembrava diverso dall'ultima volta che si erano visti, ma era anche vero che Hans avesse preso già da tempo l'abitudine di non fidarsi di ciò che vedeva, non quando da praticamente tutta la vita lottava contro (non così) sporadici episodi in cui la realtà smetteva di avere un senso e si accartocciava su se stessa, lasciandolo confuso e vulnerabile.
    Tentennò lo stesso, nel prendere nota del profilo marcato, la mandibola serrata, il taglio degli occhi particolare e inconfondibile, e quella che sembrava essere una domanda che non riusciva a prendere forma a premere sulle labbra strette.
    Finì la sigaretta, e con un movimento lento la spense contro la panchina. «c'era molta gente,» ricordò più a se stesso, che all'altro; c'era stata pure troppa gente. E lui non era stato in condizioni di riconoscere nessuno di loro, trascinato in basso da un vizio a cui era stato ripresentato contro la sua volontà; aveva avuto pochi fari a far luce nel mare in tempesta che erano stati i suoi pensieri in quegli ultimi frangenti, e nessuno di loro era stato la sorella di Check.
    Non gli chiese se gli mancasse, perché se c'era una cosa che Hans aveva imparato del custode era che non avesse un rapporto così profondo con i suoi fratelli maggiori, e perché era Hans: non avrebbe presunto che, solo perché fratelli, in quelle circostanze Check si sentisse più vicino a lei. E non tentò nemmeno di frugare tra le emozioni del maggiore per cercare quella risposta, perché non era affar suo.
    Ma si sentì comunque in dovere di abbassare nuovamente gli occhi, sulle mani ora congiunte in grembo, e scusarsi per tutto quello che non aveva fatto. Non avrebbe mai potuto—
    Aiutare. Rimanere lì. Combattere.
    «mi dispiace»
    Aveva seguito l'istinto, e le minacce, e aveva cercato la via d'uscita convinto che gli altri avrebbero seguito poco dopo; il finale di quella storia nessuno avrebbe potuto mai prevederlo.
    Si rese conto di aver morso l'interno della guancia solo quando assaporò il gusto metallico del sangue — ed allora strinse più forte.
    Non era mai stato nulla se non un egoista, Hans Belby. Bravissimo a deludere le aspettative, e le persone, e a non preoccuparsene.
    «l'hai cercata?» in quei dieci giorni i cui, a quanto pareva, erano rimasti sequestrati da qualcuno ancora senza nome, e senza faccia.
    Mi hai cercato?
    Aveva già la risposta a quella domanda, Hans, e non si sorprendeva a sapere che fosse no; non era la prima volta che Hans Belby spariva nel nulla e senza lasciare alcun biglietto o traccia per essere trovato — ma, dio!, sperava vivamente fosse l'ultima. E dieci giorni, per Hans e Check, non erano nulla se non una parentesi di qualche istante tra un incontro e l'altro. Sapeva già, l'empatico, che Check non avesse avuto nemmeno il tempo per realizzare che fosse sparito.
    E poi, la domanda che non si azzardava a fare a nessuno, ad alta voce; né a stesso, in silenzio.
    Li ritroveremo?
    I risvolti alle possibili risposte non gli piacevano, e per una volta nella sua stupida vita, Hans Belby sceglieva volutamente di rimanere nell'ignoranza.
    Faceva meno male.
    hogwarts
    ivorbone
    special bornempathneutralmessed up

    what a shame we all remain,
    such fragile broken things,
    i question every human
    who won't look in my eyes;
    scars left on my heart
    formed patterns in my mind.
     
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5 replies since 1/3/2024, 10:13   246 views
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