A quiet place

Libera

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    Silenzio.
    Non c’erano distrazioni, rumori di sottofondo o altro. Solo un silenzio a cui non era più abituato da tempo, su cui si era beatamente adattato a seguito dell’esplosione che lo aveva privato per giorni dell’udito.
    Quel giorno, però, non c’era nessuna lesione alle sue orecchie, nessun trauma. Solo quiete.
    E lui era lì, le palpebre a coprire il freddo dei suoi occhi, il corpo abbandonato mollemente sul divano, le lunghe gambe leggermente scomposte, la camicia appena sbottonata.
    Poteva essere un dipinto, una scultura, un’opera d’arte magistralmente interpretata. Eppure, non era altro che un funzionario stanco che, dopo settimane, riusciva finalmente a respirare. A riprendere fiato.
    Non aveva idea da quanto fosse lì, beato, protetto da una delicata bolla di ozio che lo schermava dalla vita frenetica che continuava attorno a lui. La percepiva, era consapevole di poter essere travolto da un momento all’altro da tutto ciò che fosse oltre quelle mura sottili.
    Continuava a non muoversi, ad abbandonarsi ancora di più su quei cuscini che aveva fatto cambiare, così come ogni mobile e suppellettile in quella stanza, al punto da rendere il suo ufficio a sua immagine e somiglianza, dalla scrivania nera come la pece al divano fatto della stessa sostanza delle tenebre. Era tutto funzionale, nulla fuori posto, facilmente accessibile per ottimizzare spazio e tempi.
    La mente viaggiava, correva per vie e sentieri che non aveva davvero voglia di esplorare, ma neanche frenare. E allora scivolava verso le terre non battute della guerra, verso quello che avrebbe voluto fare e quello che aveva effettivamente fatto. A come sarebbe stato e a quello che era.
    Si chiese quanto sarebbe durata la sua posizione, quella di Abbadon, la paura. Si chiese quanto sarebbe rimasto ancora lì, quanta sabbia ancora c’era nella sua clessidra.
    Sentiva il tempo scorrere, provava una leggera elettricità sotto pelle che non riusciva a definire correttamente.
    Si sentiva in balia di forze che non era in grado di controllare e questo lo anestetizzava. Lo rendeva immune a tutto, anche a se stesso. Immobile in un mondo che cambiava e che gli impediva di farlo.
    Respirò piano, a fondo, la mano che calava sugli occhi, mascherandoli ancora di più alla luce, mentre un suono sgretolava il suo silenzio con un colpo secco.
    Poi un altro.
    E un altro ancora.
    Sentì una voce provenire dall’altra parte della porta.
    Si finse morto (non che dovesse impegnarsi particolarmente in quello stato) e non accordò nessun permesso.
    Non confidava molto nelle sue capacità, l’emicrania pronta a scoppiare come una bomba ad orologeria, ma crederci non gli costava nulla.
     
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