Un futuro invadente, fossi stato un po’ più giovane, l'avrei distrutto con la fantasia.

circa fine 2023 | appartamento di nice | #nilbie

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    Adalbert Behemoth23 | metamorfəmagiavvocatə
    Non era una sconfitta.
    Se l’era ripetuto fino alla nausea, e non perché fosse una cosa, quella, che le veniva particolarmente facile. Non si stava arrendendo. Non stava chinando il capo, sebbene, ormai da qualche mese, tutto il mondo lo stesse facendo. Persino chi pensava di aver vinto, essendosi ritrovato dalla parte giusta della storia, aveva dovuto arrendersi all’evidenza e abbassare la testa. È questo che succede quando un tiranno prende il potere. E quando la libertà muore, non esistono vincitori, ma solo sconfitti.
    Perdenti.
    Non era una sconfitta quella di essere lì, davanti alla porta di quell’appartamento, ma sentiva di essere comunque una perdente. Nel senso etimologico del termine, almeno. In quei mesi, in quegli anni, Bertie aveva perso tutto. Aveva perso la sua famiglia. I suoi amici. Il suo passato. Aveva perso la sua stessa identità, prima sulla carta, poi, da quel maledetto giorno che aveva decretato la fine della guerra, in ogni aspetto della vita. Aveva perso sé stesso.
    E aveva perso anche Nice.
    Una parte di lei avrebbe voluto che anche la perdita della cugina fosse stata dovuta alle conseguenze della guerra, ma sapeva che non era così. Certo, l’essere partito senza dirle nulla, e soprattutto nella più assoluta consapevolezza dell’avversione di lei alla cosa, non aveva sicuramente aiutato. Ma la perdita di Nice risaliva a tanto, troppo tempo prima.
    In fondo sapeva che era cominciata nel momento stesso in cui si erano ritrovati catapultati indietro nel tempo di ventitré anni. Sebbene all’inizio fosse sembrato al contrario, sebbene l’essere loro due contro il mondo fosse diventato non solo un mantra, o un modo per irritare i loro fratelli, ma una vera e propria realtà, qualcosa si era spezzato in quel preciso istante. Loro si erano spezzati, nel momento in cui ad Albert e Nice si erano sostituiti Adalbert e Berenice. Si erano stretti l’uno all’altra, apparentemente ancora più vicini e legati di quanto non fossero mai stati, ma non era bastato.
    Perché Nice aveva imparato ad andare avanti, mentre lui era rimasta indietro.
    Aveva voluto rimanere indietro.
    Per ironia della sorte, l’aveva fatto per non perdere sé stesso, e per paura. Proprio il sé stesso che ora non esisteva più, e proprio quella paura che, dal giorno in cui era partito per combattere senza sapere se sarebbe mai tornato, non lo abbandonava mai.
    Tornare dove, però?
    Anche prima di quel salto nel tempo, Nice aveva sempre rappresentato casa. Insieme al resto della loro famiglia, naturalmente, ma era sempre stata quella stanza tutta per loro, quel piccolo mondo mentale fatto di quella complicità che gli altri potevano solo invidiare, senza però mai riuscire a capirla davvero.
    Ora quella casa non esisteva più.
    E non esisteva più nemmeno lui, sostituito da una lei che non riusciva ancora a percepire del tutto come sé stessa.
    Ogni volta che pensava al matrimonio di William e Akelei, le si rivoltava lo stomaco. Il modo tanto idiota e infantile e ingenuo con cui aveva cercato di attirare l’attenzione di Nice, o meglio, di scatenare una sua reazione, facendo leva su quel misto di orgoglio e testardaggine che aveva ereditato da entrambi i suoi genitori, era a dir poco patetico. Sorvolando sull’argomento, ogni volta che qualcuno vi faceva riferimento, imputava il tutto all’alcol, nascondendosi dietro una delle sue mezze verità. Era vero che quel giorno aveva più spirito che sangue nelle vene, tanto aveva bevuto prima, durante e dopo, sapendo che avrebbe visto non solo Nice e tutti i loro amici sopravvissuti, da una parte e dall’altra della barricata, ma anche, e soprattutto, i suoi genitori, da cui si era tenuta, nonostante tutto, sempre a debita distanza; tuttavia, non era una vera scusa. Era stata patetica, appunto, e la reazione fredda e incurante di Nice, e da Nice, non aveva fatto che confermarlo. Eppure sarebbe stata pronta a ribattere ancora e ancora, se non l’avesse vista volteggiare tra le braccia di Dominic.
    Non c’era bisogno di sentire cosa si stavano dicendo per capirlo.
    Bastava osservare il modo in cui si guardavano.
    Avrebbe dovuto essere felice, e lo era, lo era davvero, ma era solo l’ennesima riprova di quello che, in tutti quegli anni, non era riuscita, e non aveva voluto, accettare.
    Dovevano andare avanti. Il loro mondo era lì e ora, non là e quando l’avevano lasciato.
    Era questa la loro vita, adesso.
    Fissò ancora per qualche istante l’etichetta sul campanello, su cui svettava Berenice Hillcox scritto con l’elegante calligrafia della cugina. Quindi chiuse gli occhi e prese un bel respiro, sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime, e la nausea. Li riaprì e suonò il campanello.
    Trattenne il fiato finché non si ritrovò a guardare Nice da un’angolatura strana, più alta di quella a cui era sempre stata abituata.
    «Sono venuta a trovare Belladonna. Mi mancava.»
    Rimmel
    Francesco De Gregori
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    Edited by sehnsüchtig. - 12/3/2024, 00:31
     
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    Nice era una persona troppo intelligente per non sapere che quel giorno, prima o poi, sarebbe arrivato. Forse non era stata abbastanza matura, in quell’ultimo periodo, per far sì che si verificasse prima, ma su quel punto preferiva non soffermarsi oltre, ripetendosi che non fosse stata la mancanza di maturità a spingerla ad evitare con attenzione il cugino, ma tutta un’altra serie di motivi, e impegni, che una donna impegnata come lei aveva quotidianamente. Quelle non erano neppure vere e proprie bugie, a dirla tutta — ma di certo erano scusanti dietro le quali la ministeriale si era nascosta, scegliendo volontariamente di fare turni più lunghi in ufficio, di addossarsi un carico di lavoro ben più grande di quello che le spettava, con la risposta sempre pronta a chiunque le chiedesse perché: perché voleva che la Lovecraft apprezzasse il suo lavoro e lo riconoscesse per ciò che era, essenziale e imprescindibile. Voleva essere la giovane donna in carriera che aveva sempre saputo di poter diventare, pur nella carriera che non aveva mai sognato ma che, per circostanza e per necessità, si era fatta andare bene. Un fondo di verità, i suoi intenti, ce lo avevano avuto; che poi fossero serviti anche a tenerla il più lontana possibile dal fu Albert, era solo un dettaglio.
    Ma persino lei, determinata e ferma nelle proprie scelte, sapeva che non avrebbe potuto evitare quel confronto per sempre; le sarebbe piaciuto, certo, ma sapeva che non fosse possibile.
    Il punto era che sia lei che Albie avevano fatto delle scelte, e non necessariamente le stesse, o quelle che avrebbero reso fieri l’uno o l’altra, a seconda. Nice, delle sue scelte, non si pentiva: sapeva che il cugino, e i suoi genitori, avrebbero storto il naso nel sapere che aveva deciso di lavorare per il ministero, ma avere le mani in pasta nella censura era un modo come un altro per essere sempre un passo avanti su ogni cosa, e se i suoi parenti non riuscivano a capirlo, non era un problema suo.
    Non è che fosse andata in guerra per difendere il ministero, lei. O per combatterlo apertamente. Lei.
    E sì, certo che ce l’aveva ancora con loro – con tutti loro – per aver fatto esattamente quello che, meno di dieci anni prima e venti dopo, aveva rovinato per sempre le loro vite. Nice era stata l’unica ad aver imparato dalla storia come essere neutrale, come scivolare tra uno e l’altro schieramento ed evitare di lasciare che deragliasse la sua vita, limitandosi a trarre i benefici che il vivere entro un certo limite poteva offrire. Non si aspettava certo che i suoi genitori, all’oscuro di un futuro terribile che li aspettava, decidessero di non ripeterlo — ma Adalbert? Albert? Lui c’era stato, nel duemilaquaranta, quando Cameron era morto e i suoi stessi genitori erano risultati vittime di una guerra che avevano deciso di combattere volontariamente; c’era stato quando, insieme, avevano raccolto i pezzi delle loro vite e avevano provato a rimetterli insieme, consapevoli che non sarebbero più state le stesse; c’era stato, quando avevano giurato di non lasciare che quel tempo li trascinasse via, che li assorbisse al punto da farli sparire — e invece, mentre Nice decideva di andare avanti e accettare che quello fosse il loro nuovo tempo, pur senza dimenticare chi fosse e da dove (da quando) arrivasse, Albie era rimasto indietro. Si era fatto trascinare via. Si era fatto coinvolgere. E sebbene Nice non avesse mai avuto la conferma ai propri sospetti, non le serviva saperlo davvero per sentire di avere ragione: suo malgrado, conosceva ancora il Behemoth da sapere quando non le diceva qualcosa, e una cosa grande come la resistenza era impossibile da nascondere, tra loro. Potevano solo fingere entrambi che non fosse lì, consci che fosse una menzogna futile per entrambi.
    Ne aveva ulteriore conferma ogni volta che con la coda dell’occhio notava l’aspetto non più familiare di suo cugino, quella conseguenza che si era chiamato addosso da solo, decidendo di schierarsi — non si trattava nemmeno di aver scelto lo schieramento giusto o quello sbagliato, persino a Dominic la ministeriale aveva riservato, ancora una volta, il suo gelido silenzio per aver accettato di imbracciare le armi. Come non poteva incolpare suo cugino di aver fatto lo stesso? Con quale motivazione, poi, quella di seguire le orme dei loro genitori? Come se non lo avesse vissuto in prima persona dove il loro cammino li avessi condotti; come poteva essere così egoista? Così stupido? Perché impegnarsi a voler cambiare il mondo, perdere tutto per farlo, quando bastava vivere in quello che avevano e fare buon viso a cattivo gioco? Avrebbero potuto essere felici anche da soli, tra loro, ma Albie aveva fatto un’altra scelta — e nella sua inettitudine, continuava a incolpare Nice di aver fatto la propria, di essere andata avanti e di averlo volontariamente lasciato indietro.
    Quello che non capiva, quel buono a nulla di un Cox-Bulgakov-Wood, era che Nice lo aveva aspettato. A lungo. In cima ad una collina scalata in solitudine, e a fatica, e che le appariva incredibilmente solitaria senza Albie al suo fianco. Lo aveva aspettato, fin quando non aveva capito che Albert avesse scelto un’altra strada, e non l’avrebbe mai incontrata in cima a quella collina.
    Alla fine non le era rimasto altro se non raccogliere le sue cose, e il suo orgoglio, e cominciare a scendere e accogliere un’esistenza diversa, accettando di non avere più la sua unica costante, nonché punto fermo di tutta una vita, al proprio fianco.
    Ma ancora una volta aspettava, Nice; suo malgrado era lì, dall’altra parte della porta, con le braccia strette attorno al proprio busto, in attesa che Albert trovasse il coraggio per bussare, o per suonare il campanello. Lo sentiva aldilà dell’uscio, fermo e, ne era certa pur senza ricorrere alla Legilimanzia, alle prese con una lunga serie di pensieri che avrebbero rischiato di portarlo via da quell'appartamento, così come gli stessi l’avevano portato fin lì. Onestamente, la ragazza non sapeva quale dei due esiti preferisse; non era pronta ad accettare l’ingresso di Bertie in quella nuova vita, ma sapeva anche di aver rimandato quel confronto troppo a lungo.
    Strinse le labbra nel sentire una vocina riferirle quelle che, immaginava, fossero discorsi di incoraggiamento che il Behemoth stava rifilando a se stesso; con un sospiro, sfilò entrambi gli orecchini mettendo a tacere una volta per tutte quelle voci. Tendeva ad indossare l’accessorio quando era in casa per spiare, a suo modo, i vicini e per ridere delle loro banali e penose vite, e solo per caso aveva dunque sentito l’ex mago avvicinarsi al suo appartamento; erano stati proprio gli orecchini a riferirle del suo avvicinamento, e a metterla in allerta. Ma ora che Albie era davvero lì, Nice non li voleva più ascoltare: qualsiasi cosa avesse da dire il biondo, la Hillcox voleva ascoltarlo in maniera onesta, non filtrata attraverso le mezze verità dei gioielli incantati.
    Il suo stridulo del campanello, la fece trasalire.
    Non aveva creduto che il cugino trovasse il coraggio di farlo.
    Prese un respiro, e dopo aver atteso qualche istante, aprì finalmente la porta.
    «Sono venuta a trovare Belladonna. Mi mancava.»
    Non lo salutò, e si sforzò di non far trasparire alcuna emozione sul viso perfettamente impassibile, nemmeno la sorpresa di vedere ancora una volta quel viso a cuore e i capelli lunghi, piuttosto che quello familiare di Albert.
    Era sempre stato molto simile ai genitori, il biondo, ma ora la somiglianza con loro era sconcertante: non era bella come zia Dee, ma aveva qualcosa nella forma del viso e del naso, nello sguardo, che la ricordava particolarmente. I colori, invece, quelli erano ancora tutti di zio Adam. Cox.
    Faceva male guardarlo.
    Guardarla?
    Era impossibile non tornare subito con la mente a quel prom dove l’aveva vista per la prima volta. Contro ogni buonsenso, il suo per primo, si ritrovò ad ammettere: «le somigli moltissimo.» E non c’era bisogno che specificasse a chi.
    Poi si riprese, lasciando scivolare quel commento, e quel breve momento di debolezza, contro la cortina di gelo che nell’ultimo anno aveva rimesso al suo legittimo posto: intorno al proprio cuore. «Non credo a Belladonna sia mancato tu.» Lo informò, braccia conserte al petto e ferma ancora sull’uscio. «Temo tu abbia fatto un viaggio a vuoto.» E, infame come al solito, la gatta scelse proprio quel momento per fare la sua comparsa, miagolando e avvicinandosi al padroncino che riconobbe subito, nonostante tutto.
    Ugh, maledetta.
    Nice rivolse gli occhi al cielo, e si spostò di un passo lasciando al Behemoth la possibilità di entrare nell’appartamento. «Spero sia una visita breve,» si chiuse poi la porta alle spalle, tornando nella sua posizione ormai di default con le braccia incrociate e lo sguardo impassibile, «ho cose da fare.»
    «e quell’abbinamento fa male agli occhi; mai indossare una maglione simile con quei jeans.»
    Una leggera risata sfuggì dalle labbra serrate della ministeriale, che si affrettò ad indicare la spilla appuntata al petto, regalo natalizio di un collega (nda: nella mia testa è da parte di Mood, me lo tengo come headcanon). «è stata lei,» disse, come a volersi scusare per quel commento; o forse no. «ma in effetti ha ragione; vedo che il nuovo potere non ha portato con sé il giusto senso estetico, che peccato.»
    C’erano così tante cose che avrebbe voluto dire, ma le tenne gelosamente custodite infondo al cuore, preferendo optare per commenti vaghi e superflui, forse per tastare il terreno o forse per convincersi che non stessero davvero vivendo quella precisa situazione nel tempo e nello spazio.
    mars
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    +++ avvento: orecchini magici e spilla gingerbread
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    15) Dei semplici orecchini con clip (che possono essere indossati anche da chi non ha buchi ai lobi) con la peculiare capacità di riferire a chi li sfoggia conversazioni che avvengono anche a distanza (entro un raggio comunque limitato). L'unica fregatura? Gli orecchini riportano quanto udito a modo loro, travasando le conversazioni e aggiungendo qua e là piccoli dettagli per rendere il tutto, secondo loro, più interessante. Fidatevi di quanto vi sussurrano... ma non troppo!

    8) Una spilla di Natale a forma di gingerbread man! Non sembra avere nulla di particolare, fin quando non la applicate al maglione, ed iniziate a sentirla… parlare. E boi, non ha nulla di carino da dire su nessuna delle persone che incontrate - e lo fa con la vostra voce, così che gli altri pensino siate stati voi. Satan
     
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    Adalbert Behemoth23 | metamorfəmagiavvocatə
    Bertie era abituato al vuoto. Era sempre stato lì, un compagno così invisibile da essere nulla, da riempire ogni singola cavità. Il vuoto non lasciava spazio per niente, ingoiava tutto senza mai risputarlo indietro. Era stato un’arma, e ancora di più uno scudo. Grazie al vuoto poteva non sentire nulla. Vi si poteva ammantare, stringendoselo intorno alle spalle strette, lasciando che lo colmasse dall’interno, così da spazzare via ogni altra cosa.
    Il vuoto era la mancanza di qualsiasi sentimento. Se n’era sempre fregiato, quasi fosse un merito, un’abilità, sottolineando quanto gli venisse spontaneo non provare nulla. Ed era effettivamente così, sebbene non potesse eguagliare il maestro, suo padre. Ma anche Tyler Wood aveva permesso che parte di quel vuoto venisse riempito, che dal nulla scaturisse qualcosa. Era stato così anche per lui, in fondo. C’era stato un tempo in cui, in quel buco nero, brillava una luce. C’era sempre stata e non solo l’oscurità non era mai riuscita a inghiottirla, ma aveva persino rischiato di fare rischiarare fin verso i confini che non avrebbe nemmeno dovuto avere.
    Poi avevano fatto quel balzo nel tempo, e di quella luce non era rimasta che una scintilla.
    Nice.
    Lo scudo fatto di nulla si era inspessito, crescendo così tanto da diventare una corazza, un’armatura, poi un intero rifugio antiatomico. Un rifugio di cui Bertie aveva perso la chiave, o forse persino totalmente privo di porta. Si era rinchiuso lì dentro, volontariamente, deciso a non sentire nulla. Eppure quel rifugio era stato costruito per due, per Albie e Nice, e il vuoto che si era preso ogni singolo centimetro era freddo e buio e opprimente.
    Bertie era abituato al vuoto, ma il vuoto lo stava uccidendo. Soprattutto ora, ora che il silenzio si era fatto assordante, tanto si sforzava di tenere lontano tutto il resto. La rabbia. Il dolore. La tristezza. Il terrore.
    La mancanza.
    C’era stato un tempo in cui, con il suo mantello di vuoto, Albie aveva coperto Nice, stringendola a sé per aiutarla a non sentire. Certo, lei aveva il giacchio tutt’attorno, ma lui sapeva che era solo una parte. Sotto a quella coltre gelata si nascondeva il calore di una stella, un cuore che sentiva e provava troppo. Ecco perché, di tanto in tanto, aveva bisogno del suo nulla. Per rinforzare quella corazza di ghiaccio.
    Ora Bertie aveva bisogno di quel calore. Voleva bruciarsi. Voleva sentire.
    Voleva dirle che aveva paura, che era terrorizzato, anzi, che voleva tornare a casa, anche se sapeva che una casa, per lui, per loro, non c’era più. Voleva pregarla di tornare a essere quella casa. Voleva piangere. Voleva dirle che era stanco, che era così stanco, di non sentire nulla, di sentire troppo. Voleva spiegarle quanto anche solo respirare fosse diventato faticoso. Voleva chiederle di ridargli la mano, di dirgli di non avere paura.
    Voleva implorarla di perdonarlo.
    Voleva gridarle che gli mancava.
    Ma quando i suoi occhi incontrarono i loro gemelli, ogni volontà si dissolse nel vuoto.
    La fissò, forse per un’ora, forse per un attimo, altezzosa e impassibile, sapendo che sarebbe bastato buttare fuori il fiato appena un po’ più forte per infrangersi in mille pezzi. Pronunciò quella mezza verità, mezza menzogna, sulla gatta che avrebbe dovuto essere il supporto di entrambi, uno dei tanti punti di sutura su quella ferita mai davvero richiusa.
    «Le somigli moltissimo.»
    Il nulla dentro di lui vibrò, da creatura inconsistente quale era incapace di fare anche solo il più lieve dei rumori. Ma Bertie lo sentì tutto, nelle ossa, nel sangue, nella carne. Un dolore così forte da non poter essere gridato al mondo.
    Raddrizzò la schiena e la testa, fissando un punto imprecisato alle spalle di Nice. Non sarebbe crollato. Non poteva farlo. Un respiro troppo forte e sarebbe andato in pezzi.
    «Non riesco nemmeno a guardarmi allo specchio.»
    Perché non si riconosceva, ma riconosceva lei.
    Batté le palpebre e rimise lentamente a fuoco, continuando a evitare accuratamente lo sguardo azzurro, così simile, così uguale al proprio, della cugina. Non era mai stata lì dentro da quando Nice vi si era trasferita, quindi avrebbe dovuto essere tutto nuovo. Eppure poteva scorgere la serpeverde in ogni angolo, a partire dalla cura maniacale con cui la stanza era organizzata.
    «Non credo a Belladonna sia mancato tu.»
    «Chiudi la porta, prima che ti faccia vedere quanto poco le mancherai tu», la rimbeccò, alludendo alla brutta abitudine della gatta di approfittare di qualsiasi porta aperta per avventurarsi fuori. «Ma come darle torto, visto che l’hai praticamente rapita? Si merita di fuggire…»
    Si sforzò di non ascoltare le parole successive, ripetendosi che erano riferite solo a Belladonna e non a lei, ma fu proprio la gatta ad attutire il colpo. Ringraziandola mentalmente, sentì gli occhi pizzicare nel vedere Belladonna avvicinarsi miagolando, la coda a uncino verso l’alto, nel saluto che riservava solo alla Hillcox… e a lui. Si accovacciò, aprendo le braccia finché la gatta non vi arrivò in mezzo, e la sollevò, affondando il viso nella pelliccia nera. L’aveva riconosciuto.
    Era ovvio, lo sapeva, perché gli animali sono molto più intelligenti degli umani, tuttavia rischiò davvero di crollare, motivo per cui continuò a nascondere quei tratti famigliari ed estranei insieme nel pelo morbido e setoso di Belladonna, avanzando nella stanza con la gatta in braccio. Ora che non doveva più sfuggire palesemente allo sguardo di Nice poteva tirare un sospiro di sollievo.
    «Spero sia una visita breve, ho cose da fare.»
    O forse no.
    «Non lo sai l’ospitalità è sacra? Non vorrai violare le norme della xenia…» Non era andata lì per litigare, ma le veniva così semplice, così spontaneo, così naturale cercare il battibecco a tutti i costi con Nice… Quella consapevolezza le strinse il cuore in una morsa, tanto dolorosa quanto piacevole. Le fusa di Belladonna la rimisero con i piedi per terra. Non avrebbe dovuto usare la gatta come scudo, come ancora di salvataggio, ma il calore che le irradiava nel petto era confortante, in quell’oceano di nulla. «E poi guarda com’è contenta Bee…»
    Avendo racimolato abbastanza coraggio, e abbastanza forza, stava per voltarsi verso Nice, quando sentì quel commento. Era da lei, eppure non era da lei. C’era troppa poca arguzia, in quelle parole. Erano fatte per ferire, ma Nice sapeva farlo molto meglio di così.
    Strinse Belladonna a sé e si girò giusto in tempo per scorgere l’ombra di un sorriso sulle labbra della Cox-Hill. Il cuore gli saltò un battito, gli occhi pizzicarono di nuovo. «Lei Guardò la spilla che le indicava, storcendo la bocca in una mezza smorfia. «Quella sì che mi sembra priva di gusto estetico. Soprattutto da parte tua», le fece notare sollevando piano gli occhi, sebbene non fosse del tutto sicura di essere pronta per incontrare di nuovo quelli glaciali di Nice. Non dopo averla sentita parlare del suo nuovo potere. Fece un’altra smorfia, con un brivido, e strinse un po’ troppo Belladonna, che per tutta risposta si ribellò e le saltò giù dalle braccia, per andare ad appollaiarsi sulla spalliera del divano, osservandole. «Scusa», borbottò, indirizzata naturalmente alla gatta.
    Il vuoto era pronto a riprendersi il lieve calore che Bee le aveva lasciato nel petto. Quello stesso calore che attendeva solo una scintilla, da parte di Nice, per ricordare alla fiamma di non essere ancora del tutto spenta, sotto strati e strati di cenere grigia, grigia come lei. «Me li ha prestati Chelsey.» Si indicò, non sapendo cosa farsene di quelle mani vuote, senza una bacchetta da stringere. «Non sono ancora riuscita a…» Guardarsi davvero? Già. «Mi chiedevo se volessi trovarmi qualcosa di più consono da mettermi. Sai, grazie al tuo giusto senso estetico…»
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    Contrariamente a quanto molti potessero sostenere, a Nice Hillcox non piacevano i confronti. O meglio, le piacevano, ma solo quelli dove non era costretta a mettere in gioco nulla di se stessa, quelli dove non rischiava di perdere un pezzo di sé lungo la strada. Vincere non aveva lo stesso sapore se per farlo era costretta a rinunciare a parte della sua essenza. Non ne valeva la pena.
    Preferiva, in quei casi, chiudersi nei propri silenzi e ripararsi dietro le spesse mura che avvolgevano non solo il suo cuore, ma ogni parte di lei; quelli facevano da filtro per questioni per cui valesse la pena esporsi, e quelle che, al contrario, era meglio non affrontare. Albert era una di quelle questioni; così come a lungo lo era stato Dominic, o come continuavano ad esserlo i suoi genitori in quel tempo. Perché non vedeva un solo, singolo, scenario che finisse con il proprio cuore ancora intatto, e non aveva la minima voglia di concedere a nessuno, neppure al cugino, quel potere; non quando, anche per colpa del ragazzo, aveva passato l'ultimo anno a rivalutare ogni singolo aspetto della propria vita, per capire se valesse la pena o meno avere nuovamente delle persone da amare, quando poi l'unico finale era sempre e comunque uno che annegava nel dolore, e lei con esso.
    Non poteva farlo, fine.
    Ma non abbassò lo sguardo quando sentì Albie ammettere di non riuscire a guardarsi allo specchio, perché era troppo orgogliosa per dimostrare le proprie debolezze, anche a qualcuno che le conosceva tutte a memoria, una per una, come il fu Cox-Bulgakov-Wood. E una di quelle debolezze era la consapevolezza di aver vissuto sulla propria pelle quella sensazione, il non riuscire a guardarsi allo specchio a causa di un aspetto che faceva troppo male: subito dopo il viaggio, anche Nice aveva avuto difficoltà a incontrare il suo riflesso, troppo uguale a sua madre per non sentire una fitta al cuore ogni volta che il pensiero finiva inevitabilmente a Zoe, e di conseguenza a Cameron
    Anche se le motivazioni erano diverse, comprendeva più di quanto Albie potesse immaginare; lo aveva sempre fatto. Ma non glielo avrebbe detto.
    C'era un'altra cosa che condivideva con Zoe Cox, ed era l'orgoglio.
    «Ma come darle torto, visto che l’hai praticamente rapita? Si merita di fuggire…»
    Mentre chiudeva la porta alle spalle, rispose all'accusa del cugino con un «cosa ti aspettavi che facessi? Che la lasciassi sola, a badare a se stessa mentre tu andavi a morire chissà dove? Io l'avrò anche rapita, come dici tu, ma almeno ero con lei» Un tono di voce troppo piatto, troppo controllato, per non percepire almeno in parte quanto quelle parole non fossero solo per la gatta; era troppo forzata la postura dritta e impassibile, per non capire che servisse come difesa contro una rabbia troppo forte, delle emozioni così grandi che rischiavano di farla esplodere, e per le quali Nice incolpava, ancora una volta, il lato Cox del suo DNA.
    Odiava che solo in pochi non avrebbero letto tra le righe di quelle accuse, e odiava ancora di più che una di quelle persone fosse proprio il cugino.
    Nel vedere come Bee – famosa per essere sempre poco prona alle coccole che non fossero da parte di Nice o di Bertie – avesse accettatto senza neppure un miagolio infastidito che l'altra la prendesse nel suo abbraccio e nascondesse il viso nel pelo nero e morbido, colpi più vicino di quanto Nice fosse fosse disposta ad ammettere. Non aveva mai avuto dubbi che quella persona lì fosse Albert, ma non aveva nemmeno voluto (stupidamente) elaborare l'informazione, e accettare che fosse vero.
    Non il fatto che Albie fosse ora una donna, o uno special — a chi interessavano quelle cose, di certo non a Nice. Quanto più che fosse davvero lì, a casa sua, con la coda tra le gambe nonostante il mento alto, e la scusa più vecchia del mondo come riparo dietro cui nascondersi.
    Fu istintivo dunque per la Hillcox controllare le difese perennemente innalzate, e accertarsi che non ci fosse nulla fuori posto, neppure una minima intaccatura che avrebbe potuto rivelarsi fatale, facendo entrare più emozioni di quante Nice non volesse processarne. Persino il fatto che Albie cercasse di litigare con lei non la faceva stare meglio, perché era esattamente quello che Albert avrebbe fatto, e Nice non poteva accettarlo.
    Semplicemente, non poteva.
    «E poi guarda com’è contenta Bee…»
    Strinse le labbra tra loro, arricciandole e decidendo che quello fosse il momento perfetto per raggiungere la cucina e dare le spalle alla bionda figura ancora vicina alla porta. Aveva bisogno di aria, di spazio e tempo per riflettere e riprendersi e ricaricare il proprio arsenale.
    Avrebbe potuto dirgli che la spilla era un regalo, non che lui potesse capire, ma non lo fece perché, per qualche stupido e infantile motivo, non voleva cedere alle provocazioni del Behemoth e dargli la possibilità di insinuarsi sotto la pelle.
    L'aveva già fatto fin troppe volte, e dove l'aveva portata quell'atteggiamento? Lasciò che la spilla parlasse per lei, prima di rimuoverla dal petto dove era appuntata e appoggiarla sul tavolo della cucina.
    «Me li ha prestati Chelsey.»
    Un quasi inudibile tsk sfuggì dalle labbra ancora serrate della stilista, che si guardò dietro solo un secondo, prendendo nota degli abiti di Albie e commentando, semplicemente, «non mi stupisce.»
    Chelsey era tante cose, tra cui una forza della natura e una sua cara amica, ma sapeva di moda tanto quanto Nice sapeva di quidditch.
    No, anzi: Nice, per sua sfortuna, sapeva fin troppo di quidditch; quanto Bertie sapeva di quidditch, ecco.
    «Mi chiedevo se volessi trovarmi qualcosa di più consono da mettermi. Sai, grazie al tuo giusto senso estetico…»
    Stava cercando di comprarsela elogiando i suoi gusti e il suo talento? Beh, avrebbe funzionato in altre circostanze; in quella, invece, serviva solo a stringere ancora di più una morsa intorno al cuore gelido della Hillcox — proprio per questo, sempre più a rischio di rottura: un cuore come il suo, duro e dalle parete troppo rigide, non poteva essere strizzato e poi pretendere tornasse alla sua forma originale, o che continuasse a battere come se nulla fosse successo. Una volta incrinato, il muscolo cardiaco non era più in grado di riprendere le sue normali funzioni, di pompare sangue e amore e comprensione come avrebbe dovuto fare. Nell'ultimo anno, aveva subito fin troppe pressioni e Nice non sapeva quanto a lungo, ancora, avrebbe resistito prima di spaccarsi completamente, lasciando al suo posto solo migliaia di schegge di ghiaccio utili a nessuno. Di certo, non a lei.
    «non faccio la carità, e non ti presterò i miei abiti.» Avrebbe preferito che non avessero lo stesso body type, ma in quelle forme Albie era ancora più simile a lei di quanto non lo fosse normalmente, tanto che avrebbero potuto benissimo essere scambiate per sorelle.
    Un tempo, era stato esattamente così; Nice si era sentita più sorella di Albert che non di Flo, o del piccolo Paris. Era sempre stato più di un cugino — un confidente, una costante importante, un'anima gemella.
    Cosa era successo, poi?
    A quando risaliva quella frattura nel loro rapporto? Potevano incolpare il viaggio nel tempo, e il loro muoversi in quel nuovo-vecchio mondo a ritmi differenti, o era iniziato tutto dopo la morte di Cam? Nice non avrebbe saputo dirlo, perché si era nascosta dietro la cieca e infantile convinzione che andasse tutto bene per troppi, troppi anni.
    Osservò la figura del cugino attraverso il riflesso di Bertie sulla vetrina della cucina, quella dove Nice teneva il servizio di piatti buono, e i bicchieri più belli da servire a degli ospiti che non aveva (né avrebbe) mai avuto. Faceva male guardarlo, e poco dopo distolse lo sguardo, preferendo armeggiare con la teiera per avere qualcosa da fare, e l'unica che potesse davvero offrirle un caldo supporto in quel momento era il tè.
    Ancora dandogli le spalle, e osservando senza realmente vederlo il getto d'acqua corrente, gli chiese: «hai davvero fatto tutta questa strada solo per implorarmi di sistemare il tuo guardaroba, dopo che per anni hai denigrato la mia passione e il mio talento? Sei caduto molto in basso.»
    Ciò che non riuscì a chiedere: è una condizione irreversibile? Non tornerai mai più alle tue sembianze originali? Voleva convincersi non le importasse, ma Nice Cox-Hill era sempre stata una bravissima bugiarda.
    mars
    sleeping at last
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)
     
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