ma poche volte, sai, ti rendi conto, mentre vivi un momento, che poi sarà speciale

ft. Vin

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    Claudia alzò gli occhi verso il cielo, trattenendo le lacrime che minacciavano di rovinare il trucco e rigare le guance; nella testa, le stesse parole a susseguirsi le une alle altre, ancora e ancora, in un vortice di sensi di colpa, paura e angoscia.
    Era la prima volta che componeva quel numero in anni; aveva chiuso con i Brown molto prima di arrivare in Inghilterra, e mai avrebbe pensato che un giorno si sarebbe ritrovata quasi a piangere per colpa di una voce registrata che la informava che il numero fosse ormai scollegato. Mai. Cloud non parlava con i suoi genitori da anni, al punto da averne quasi dimenticato la voce; e non li vedeva da altrettanto tempo, tanto che i loro visi erano solo un pallido ricordo nella memoria della giornalista. Ma con la guerra appena finita, persino Cloud aveva sentito il bisogno di comporre quel maledetto numero e fare un tentativo; voleva assicurarsi che fossero vivi, le sarebbe bastato che qualcuno dall'altra parte del telefono, e del mondo, rispondesse — non doveva necessariamente farlo anche lei.
    Forse, col senno di poi, avrebbe fatto meglio a non digitare mai quelle poche cifre: della speranza si diceva che fosse l'ultima a morire, ma che portasse con sé solo eterna miseria. Ed ora che Claudia aveva riaperto quella ferita, fermare l'emorragia di sentimenti sembrava praticamente impossibile.
    Mai, mai!, avrebbe pensato che si sarebbe trovata, un giorno, a piangere per una famiglia dalla quale si era emancipata non appena maggiorenne... Eppure era lì, seduta su una panchina del parco, a tamburellare sulle ginocchia con l'inutile telefono, nella speranza che un numero ormai fuori uso la ricontattasse il prima possibile. C'erano altri modi per raggiungere Cyrus e Nelly Brown, e la strega lo sapeva bene, ma non era certa di volerlo fare sul serio: almeno, così, poteva fingere che andasse tutto bene e che fosse solo colpa delle stupide compagnie telefoniche. Poteva fingere, e convincersi che stessero bene, vivendo la loro miglior vita in quel di Perth, Australia. Non le mancavano, non le erano mai mancati, ma il pensiero che potessero essere due delle numerosissime vittime del conflitto non faceva che pizzicare continuamente nervi troppo scoperti, spingendo tasti che Clod non sapeva neppure di avere, figurarsi fare così tanto rumore.
    Il pensiero di perdere una famiglia già persa era al contempo ironico e terrificante: non sapeva da dove nascesse quel bisogno di accertarsi che stessero bene, quella paura ad attanagliare lo stomaco al pensiero di aver perso qualcuno di caro (di nuovo?), una madre e un padre che non erano mai stati veramente tali — non c'era mai stato affetto nella loro casa, mai l'amore necessario per renderli una vera famiglia, e per questo motivo Clod non si spiegava quel bisogno improvviso che aveva di raggiungerli, di accertarsi che stessero bene. Aveva resistito per giorni, cedendo poi al culmine di una giornata particolarmente difficile e carica di tensione e preoccupazioni.
    Se ne pentiva amaramente.
    Con un sospiro pesante, mise via il telefono e asciugò gli occhi, piantando i palmi delle mani sul viso e premendo fino a vedere macchioline colorate esplodere dietro le palpebre abbassate; non aveva senso, non aveva fottutamente senso. Era stata sua la scelta di lasciarli indietro, Cyrus e Nelly Brown non erano nulla di più se non due persone che si erano accoppiate, una notte, per concepirla. Fine. Basta. Non erano mai stati dei genitori; non nel senso più intimo e profondo di quella parola.
    Quindi da dove nasceva quella inspiegabile sensazione di aver già perso tutto che l'aveva spinta a cercare nell'impossibile una verità che la contraddicesse? Quel terrore di perdere qualcosa che non aveva — che aveva già perso?
    (In quella vita; in un altra. Le linee temporali si accavallavano le une sulle altre, si accartocciavano e creavano fenomeni privi di senso logico, paradossi temporali e nuove identità. Ma cosa poteva saperne mai, Claudia?)
    Abbassò le mani, e le guardò per qualche istante senza vederle. C'era qualcosa di sbagliato — e non solo perché il mondo era andato a puttane, oramai. A dir la verità, Clod era felice per gli special: non le avevano mai dato particolarmente fastidio, né l'avevano impensierita, ma al contrario, si era sempre sentita un po' affascinata e attratta da quella magia così diversa dalla loro, al punto da sentire il proprio sangue pizzicare sottopelle e rispondere ad un richiamo che lei, dal canto suo, aveva sempre attribuito all'innata curiosità che la governava sin da quando aveva aperto gli occhi al mondo per la prima volta; cosa ne poteva sapere, invece, che fosse l'eco di una vita precedente, a chiamarla a sé? Quindi sì, era contenta per loro e bla bla bla; ed era anche contenta non ci fossero più barriere di genere o gene, tra loro e i babbani. Ma un po' meno lo era per tutte quelle vite spazzate via da un conflitto che, secondo la sua modesta e spesso poco popolare opinione, poteva essere evitato.
    C'era qualcosa di sbagliato.
    Perché l'ansia che spesso le toglieva il sonno la notte, non era la sua; perché quegli incubi in cui sorrisi così simili al suo venivano spezzati, e occhi in cui si rispecchiava senza riconoscerli perdevano colore, non erano i suoi; perché quel lutto che portava già nel cuore, non era il suo.
    E allo stesso tempo sapeva che lo fosse — e non riusciva a spiegarsi il perché di quelle emozioni contrastanti e sconosciute, troppo reali per essere frutto del subconscio o proiezioni di quanto accadeva nel mondo, e allo stesso tempo troppo reali per poter essere davvero lì, davvero sue.
    Tirò indietro la testa, lasciando vagare lo sguardo sul cielo stranamente sgombro dalle nuvole, e studiando le stelle che riusciva ad intravedere (e a riconoscere) tra le fronde degli alberi: sarebbe stato bello avere tutte le risposte, le domande le piacevano solo fintantoché potesse trovare le risposte — e in quel caso, non le aveva. E non sapeva da dove (o come) iniziare per trovarle.
    Se solo le avessero lanciato un segnale, qualcosa! Qualsiasi cosa!
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    «sarà la fame» senza neanche voltarsi per guardarla, Grey le lanciò uno dei mandarini che stava usando per la preparazione di uno dei piatti del giorno. Più forte di quanto fosse lecito, ma Melvin aprì distrattamente il palmo di fronte a sé afferrandolo prima che potesse colpirla. Il pensiero ottimista sembrava non lasciare mai il ragazzo, che ancora sperava davvero di poter mettere a tacere la Diesel dandole qualcosa da infilare in bocca. Un’idea non così malvagia, a dire il vero, peccato che l’unica cosa che avrebbe funzionato, il suo socio e collaboratore non era propenso a dargliela - neanche in amicizia. Terribile. Pensava che Jamie e Will fossero la sua unica eccezione in merito a rapporti che non includessero il sesso come moneta di scambio d’affetto, ed invece esistevano persone che apprezzavano la sua presenza anche senza che Vin lo chiedesse per favore, ed in ginocchio. Si sentiva costantemente in debito, come se mancasse qualcosa. Non sapeva cos’altro dare, se non poteva offrire il suo corpo; non capiva come dimostrare che valesse qualcosa, quello che condividevano.
    Melvin Diesel non aveva molti amici.
    Dava un’idea del tutto contraria, con quel suo sorriso leggero e lo sguardo adorante. Parlava con tutti, rideva con tutti, affidava se stessa a chiunque, ma era effimero e passeggero. Un pensiero che sfuggiva dalla mente l’alba successiva, lasciando dietro di sé solo l’impronta di quel che aveva rappresentato - una confidente, una compagna di bevute, un’amante – ma senza un nome, o la precisa sfumatura del suo profumo. Una come tante. Dopo aver passato gran parte della sua vita in fuga, quello era l’unico modo in cui sapesse vivere e sopravvivere: dimenticata, lasciata indietro. Senza un nome o un motivo per rintracciarla il giorno dopo.
    Un sogno. Per tante persone sapeva di essere quello, e non nel modo ideale a cui si aspirava a qualcosa di bello: un sogno letterale, di cui ricordavi i dettagli appena aperti gli occhi solo per perderli al battito di ciglia successivo. Lasciava un sapore preciso, dietro di sé.
    Ma annacquato. Sacrificabile. La loro vita andava avanti senza una sola increspatura.
    Un fantasma.
    Che aveva allacciato immancabilmente un altro spettro, qualcuno che viveva su quella terra solo per metà. Grey, e qualunque altra identità si portasse appresso come un’ombra: nessuno dei due esisteva abbastanza da sé per poter trascinare nella realtà l’altra persona, e così galleggiavano nel limbo dei dimenticati con una mano intrecciata per non perdersi nella corrente, e l’altra stretta ad un’arma. «il mio oroscopo dice che oggi è un giorno di riscoperte e rinascite» continuò imperterrita, sbucciando l’agrume e lasciando - fastidiosamente, come dedusse dallo scatto del sopracciglio dell’altro – la buccia sul bancone dove aveva preso posto. Gambe incrociate, gomito sul ginocchio; la sua parte nel PP era relativa alla clientela, ai tavoli ed al bancone; in cucina esisteva solo per ricordare a Grey quanti coltelli avesse a sua disposizione, e come usarli (non lo faceva mai, ma Vin aveva l’impressione ci pensasse spesso).
    «qui dentro non c’è nulla da riscoprire» le fece notare, addolcendo il tono quanto bastava per farle intendere che l’implicito della frase fosse di andarsene, e lasciarlo finalmente solo. Rispettava quasi sempre i suoi spazi, Vin – tanto che quando era sparito, aveva pensato fosse per scelta, e non l’aveva biasimato per averla lasciata indietro. Lo facevano tutti. - quindi colse l’invito con un balzo a terra. Masticò lentamente lo spicchio di mandarino, sistemando distratta la spallina della canottiera al suo posto. Colse la breve occhiata di Grey sulla pelle scoperta, a soffermarsi su un segno reso giallo dal tempo. Sapeva di averlo notato perché lui le aveva permesso di notarlo; sapeva anche che non avrebbe chiesto ulteriormente, perché era una conversazione che avevano già affrontato.
    Una volta, perché Grey non perdeva tempo sulle stesse questioni più del dovuto. Aveva posato gli occhi scuri sui lividi, reclinato il capo, e domandato «ti piace?» privo di giudizio, ma non meno pesante; Vin gli aveva sorriso, perché gli voleva bene anche lei, ed aveva soffiato piano «qualche volta», ed il resto non aveva avuto bisogno di dirlo nessuno dei due.
    Talvolta, la vita, andava semplicemente così. C’era chi era nato per usare, chi per essere usato, e chi nascendo tondo era diventato quadrato per necessità. Conforto, perfino. Significavano qualcosa, i marchi che le persone lasciavano su Melvin Diesel; quanto meno, che per un po’ ci fosse stata, reale e concreta abbastanza da portarne le conseguenze sulla pelle. Non ne faceva un dramma: se non le fosse andato bene così, non l’avrebbe fatto.
    «hai ragione.» che non significava necessariamente che gli avrebbe dato ragione, seguendo il suo consiglio. Raramente, lo faceva.
    Quel giorno sì, però.
    Perchè aveva una strana sensazione.
    Lei nell’intuito credeva, e l’istinto lo seguiva sempre. Nulla, a suo dire, era lasciato al caso: un ordine esisteva, perfino quando sembrava immerso nel caos. Un percorso arzigogolato, non sempre (mai) comprensibile, ma un percorso comunque, che Vin seguì passeggiando per le strade di Hogsmeade, salutando chi la salutava e sorridendo a chi non lo faceva. Un misto di persone che sembravano tutte far parte di un copione già scritto, volti che conosceva o aveva intravisto: a scuola, al Lilum, a New Hovel, al B&B. Volti familiari anche quando non lo erano, perché quando non eri nessuno, tutto il mondo era conosciuto.
    Melvin Diesel non era nessuno.
    Non era esistita neanche nel suo tempo, figurarsi un secolo prima della sua nascita.
    Quel nuovo mondo si avvicinava a quel che si era lasciata alle spalle, ma non completamente. Trovava delle somiglianze, un inizio, ma aveva guardato Jamie e William, ed aveva saputo che pensassero la stessa cosa: era sbagliato; corrotto. Non perché fosse cattivo, anche se qualcuno così l’avrebbe definito, e non perché fosse fondato sul sangue, quale impero non lo era?, ma perché ...distorto. Non avrebbe saputo spiegarlo diversamente. Sembrava tutto filtrato da una lente che ne modificasse gli angoli e le prospettive.
    Ed alla fine, Melvin Diesel aveva fatto quello che le riusciva meglio: aveva seguito una scia. Di tristezza, in quel periodo, ce n’era tanta; di abbandono, lutto. Degrado morale e dell’anima, un concetto molto specifico che avrebbero compreso solo i poteri mentali come lei. Una vena a smettere di pulsare.
    Grigio. Grigio ovunque. Non blu, non nero, ma il nulla.
    Non quella scia. Quella conteneva tutti i colori, tanto che l’empatica non potè fare a meno di rincorrerla verso una panchina del parco. Familiare. Un secondo battito sotto il proprio, come qualcosa di perso che non fosse mai andato via.
    Picchiettò sulla spalla della bionda, quando la trovò, offrendole il pugno chiuso: se ci avesse battuto le nocche, avrebbe aperto il palmo e le avrebbe offerto il cioccolatino al suo interno.
    Destino.
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    Per natura, Claudia non era né ottimista né pessimista; non era nessuna delle due cose, ed entrambe allo stesso tempo. Non vedeva il proverbiale bicchiere come mezzo pieno, o mezzo vuoto; non lo vedeva neppure completamente pieno, di acqua e di aria. Lo vedeva in tutti e tre i modi, e allo stesso tempo lo vedeva per ciò che era: solo un bicchiere. Allo stesso modo, era difficile dare una descrizione precisa di come l'australiana vedesse il mondo, poiché raramente condivideva la stessa visione di tutti gli altri, o una che fosse facile da comprendere, accettare, o non trovare assurdamente esilarante.
    Forse perché in un altro tempo, e in un'altra vita, con quegli stessi fili che tessevano le trame della realtà, lei ci aveva giocato fino a rimodellarne ogni aspetto, ogni contorno, ogni impressione; una percezione della realtà candida e pulita, libera da qualsiasi tipo di manomissione o storpiatura, Clod – o chi per lei – non l'aveva mai avuta; aveva sempre camminato in punta di piedi sul confine sottile tra ciò che era, e ciò che lei voleva che fosse. Un'illusione, uno scenario immaginario e frutto di una fantasia un po' troppo vivace.
    Quel potere lo aveva perso – quel potere non sapeva di averlo mai avuto – ma la capacità di percepire la realtà in maniera diversa, anche solo come sensazione a solleticare la pelle e renderla pazza (“ma bella come il sole”, cit.), quella era rimasta.
    E quindi anche così, anche come Claudia, in dei contorni definiti e stigmatizzati, ci stava stretta. Forse perché non apparteneva, ancora una volta, a quel disegno: messa lì come una nota a piè di pagina, o come un personaggio inserito nella narrativa troppo tardi, e quasi distrattamente, che non aveva alcun ruolo se non quello che la trama richiedeva in quel preciso momento, e che sentiva comunque di essere il main character – non lo desideravano forse tutti? – in un romanzo fermo da un po' troppo tempo nella parte centrale; un inizio, Clod, l'aveva vissuto già da tempo, e anche l'innesco delle vicende era già stato introdotto, con la partenza dall'Australia, e ora era incastrata a metà, proprio come il romanzo che lei stessa cercava di scrivere da più o meno tutta la vita, e non sembrava poter andare né avanti, né indietro.
    Anche se, ad essere onesti, non sarebbe mai tornata sui suoi passi. Mai. Poteva non sentirsi completa, avere la sensazione che in quel momento fosse bloccata in un limbo i cui contorni scivolavano via tra le sue dita come aria, o granelli di sabbia, ma non significava che potesse accettarlo.
    Non aveva una visione ordinaria delle cose, e questo le permetteva di avere un'opinione imparziale su pressoché tutto; non voleva dire che la rendesse meno legata ad ogni questione, e ad ogni risvolto possibile, però.
    E anche se era fiera del suo essere, da sempre, una voce fuori dal coro, non poteva negare che quella guerra avesse accartocciato un po' persino la stessa Clod, stringendola in un pugno deciso e gettandola via come si fa con una pergamena sprecata, coperta di parole sbagliate e poco in armonia tra loro. Si sentiva sola più che mai, lei che sembrava stare bene ovunque, con chiunque, e sentiva sul petto il peso di un lutto che era abbastanza certa non le appartenesse: perché non aveva nessuno di caro che mancasse all'appello, a parte quei genitori che non sentiva da anni, e allora perché il cuore le faceva male come se avesse perso tutto? Perché la notte riscopriva le guance umide, al pensiero di visi sconosciuti che non avrebbero più sorriso, occhi spalancati sul vuoto che non avrebbero più visto l'alba? Perché si sentiva come se l'avessero squarciato il petto, preso il muscolo pulsante, e stretto una morsa fino a farle mancare il fiato?
    Perché?
    Non poteva essere semplice suggestione, un'empatia nei confronti del mondo che Cloud non aveva mai saputo di possedere; a lei piaceva credere di amarlo e al contempo non capirlo, quel mondo. E sapeva di non essere compresa — e allora perché soffriva insieme a loro? Perché non riusciva a mantenere la mente lucida, e una visione imparziale come la sua professione avrebbe voluto?
    Non aveva risposte; e per una giornalista come lei, era la peggiore delle punizioni.
    Lasciò che un sospiro sfuggisse alle sue labbra, alzando appena il mente per osservare la persona che le aveva picchiettato contro la spalla: nonostante tutto, era ancora lì, ed era ancora Claudia. Certo, era anche confusa dallo sguardo chiaro posato con semplicità nel suo, e dal sorriso sereno della bionda arrivata all'improvviso, ma quel genere di domande, la Moor, aveva smesso di farsele da un pezzo.
    Senza proferire parola, riconoscendo e rispettando la sacralità di un momento tanto singolare, sfiorò piano il pugno dell'altra con i polpastrelli, sollevandoli appena solo per darle modo di ruotare il polso e aprire il palmo.
    «è… per me?» Il cioccolato risolveva sempre tutto, quello era uno dei cardini dell'intera esistenza di Claudia, ma vederselo offrire proprio nel momento in cui ne aveva avuto più bisogno raggiungeva dei livelli di misticità karmica elevati. Sorrise alla bionda, apprezzandone finalmente il viso giovane e così curiosamente simile al suo, stessi occhi grandi e vicini, stessa fronte spaziosa, stesse labbra carnose. I Brown non avevano avuto altre figlie, oltre alla fu Gwendolynn, ma Clod era certa che se avesse avuto una sorella, questa avrebbe condiviso lo stesso sorriso che ora vedeva sulle labbra della ragazza.
    Le indicò il posto accanto a lei, e pescò dalla borsa un pacchetto di gomme e uno di caramelle (she's a “both. definitely both” kinda girl) e li offrì in cambio, come conio di scambio per il cioccolatino.
    Solitamente era più chiacchierona di così — anzi, solitamente era difficile farla stare zitta. Ma in quel periodo le parole avevano iniziato a venire meno persino a lei, perciò rimase in silenzio, osservando la ragazza (prendere posto? chissà) e poi si presentò, una mano allungata per cortesia e perché il contatto fisico rimaneva uno dei suoi più grandi bisogni, quello da cui traeva il maggior vigore. «sono Claudia, piacere.»
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    Quello che era destinato a trovarsi, trovava sempre un modo per farlo.
    Non era statistica. Non erano la logica e la matematica a poterne misurare la probabilità, e non era neanche una questione di fortuna e del trovarsi nel posto giusto, al momento giusto. Era così e basta, indipendentemente da fattori esterni. Era così perché doveva succedere.
    Ed il sorriso di Melvin Diesel si sciolse appena agli angoli, quando l’altra si volse. Le guance sempre rosee persero colore, il sangue troppo impegnato ad essere pompato con forza dal cuore per avere il tempo di fermarsi. Due immagini a sovrapporsi, nella miriade di sfumature che l’avevano condotta fino a lì – due tempi diversi, di due empatiche diverse.
    (Didi. Ozzy. Doc.
    Centinaia di amici immaginari cartacei resi reali sotto i polpastrelli dal potere di sua sorella.
    Vivi ogni avventura come se ci fossi anche io)
    Qualcosa d’impossibile, che perse nel battito in più con cui si ricompose modellando il sorriso gentile sulle labbra, la mano girata ed aperta perché la familiare sconosciuta potesse prendere il dolcetto nel palmo, e gli occhi umidi di lacrime che versò con una risata cristallina, ed asciugò divertita sulla spalla. Non trovava nulla di vergognoso nel piangere; raramente dipendeva da lei, d’altronde. I sentimenti degli altri non influenzavano i suoi pensieri, ma si riflettevano comunque sulla curva della bocca o la sfumatura dello sguardo erba. Quel pianto non aveva alcun peso nel grande schema di Melvin Diesel.
    Come tante cose, come lei stessa, non aveva alcuna importanza.
    Esistevano sette sosia al mondo, narrava la leggenda. L’essere nel secolo sbagliato, non poteva che aumentare quella probabilità: poteva essere una parente alla lontana; qualcuno a cui, nel suo lignaggio, avessero rubato le forme, per replicarle poi in Zaire Ingvar Pericles Martins.
    Gli stessi occhi.
    La stessa bocca.
    Le stesse guance tonde.

    Nel reggere il suo sguardo, sentì lo stesso, identico, moto di affetto e venerazione che non ricordava di provare da più di metà della sua vita; il suo corpo ricordava meglio di lei cosa si provasse a guardare Zip, e la mano con cui offrì il cioccolatino tremò appena quando annuì per offrirlo. Non esisteva scenario alcuno in cui potesse rifiutare l’invito di uno sconosciuto, e l‘abitudine bastò a scuoterla dal torpore malinconico che l’aveva incollata sul posto – immobile, come un orologio rotto allo scoccare dell’ora. - facendola scivolare dalla parte opposta della panchina, dove prese posto incapace di scollare gli occhi dal volto della ragazza. Era incredibile. Assurdo ed impossibile, e per quel motivo intrigante. Vin era meravigliata, perfino con tutte le attenuanti del caso a suggerire che non potesse essere Zip - saperlo, non la rendeva meno reale; meno la cosa più vicina che avesse mai avuto a riavere la sua famiglia.
    Non aveva neanche delle foto.
    Era più grande, quella versione lì. Matura. Diversa, ma seppur sbiadita, una copia così verosimile che per un istante - o forse due, cinque; magari tutta la durata di quell’incontro - volle convincersi fosse lei, la stessa sorella che l’aveva accompagnata al porticato e spinta fra le braccia di zia Sam sancendo silente un addio. Battè le palpebre e l’immagine non cambiò, neanche quando quella non diede segno di riconoscerla.
    Le sorrideva, con quella mano allungata verso di lei. Quel nome che provò con forza a spezzarle il cuore, e che ci sarebbe riuscito se solo non ci fossero state abbastanza crepe da farlo scivolare da una parte all’altra senza infierire ulteriormente. Claudia.
    «non hai la faccia da claudia» osservò, esitando con la mano a mezz’aria. La strinse, ed aveva di nuovo sei anni. La strinse e la tenne nella propria, come fosse normale per una sconosciuta appena incontrata in un parco. Senza pretese, con la delicatezza di chi le avrebbe permesso di sfilarla in qualunque momento, se l’avesse voluto.
    Non offrì una giustificazione a quella strana entrata in scena, anche se avrebbe potuto. Forse è perché ci somigliamo, avrebbe potuto dirle; forse è perché mi ricordi qualcuno. Ma non voleva distruggere quello strano equilibrio del “impossibile, ma -” che sembrava aleggiare fra loro, rendendo ogni fiato più denso di quello precedente.
    Poteva fingere.
    Ed allora umettò le labbra, espirando un sorriso allegro.
    «deirdre osborne charisma» uscì sottile. E la naturalezza con cui lo disse, come se avesse aspettato solo quel momento per presentarsi. Al mondo intero, non solo a lei.
    Non l’aveva mai detto a nessuno. Jamie l’aveva trovata, e lei non aveva avuto bisogno di pronunciare quel nome ad alta voce – l’aveva saputo e basta, il cronocineta. «ma puoi chiamarmi doc» Non si spezzò, la voce di Vin.
    Neanche un po’.
    Poteva essere l’ennesima copertura creata negli anni. Non c’era nulla che dovesse obbligatoriamente rendere Doc reale, non più di quanto lo fossero Scottex o Robyn Fenty. O Melvin Diesel.
    «sembravi triste» La osservò di sottecchi, portando un ginocchio al petto nel voltarsi completamente verso di lei. «la sei?»
    Non esserlo, per favore.
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    Un vero contatto con la realtà, la Moor, non ce lo aveva mai avuto; l’aveva sempre vista attraverso il suo personalissimo filtro, uno fatto di contraddizioni, astrattismo e fantasia, un filtro che la realtà l’aveva sempre distorta e maneggiata un po’ a suo piacere e divertimento.
    Come poteva mai essere giornalista, una come lei?
    Semplice: ciò di cui scriveva Claudia era reale e concreto, un gioco aggressivo e fatto di fatti pratici, di risultati, di schemi e di statistiche. Non c’era nulla che Clod potesse inventare, o manipolare, parlando di Quidditch. E, nella sua perenne contraddittorietà, era proprio quello che apprezzava di più del gioco: il suo essere inconfutabile. Di pareri riguardo la bravura di quello o quell’altro giocatore potevano essercene mille, e tutti diversi gli uni dagli altri, ma il risultato del gioco e l’esito della partita non cambiava.
    Il resto, invece, era incostante e mutevole, e Claudia lo apprezzava lo stesso, proprio per quella sua imprevedibilità. Ma ciò non toglieva che la sua percezione della realtà – del mondo, degli eventi, delle persone – rimaneva inafferrabile, peculiare, inspiegabile agli occhi di molti.
    In pochi la capivano, e Clod non lo reputava necessariamente un difetto: anche lei capiva poche persone. Alcuni dicevano non si impegnasse abbastanza, che non ci provasse nemmeno — lei sosteneva che le piaceva di più essere sorpresa, anziché capire fino al punto da arrivare persino a prevedere. Parole, gesti, azioni: che gusto c’era a sapere già cosa avrebbero fatto gli altri? Claudia si fermava a cogliere lo stretto indispensabile, le apparenze, perché erano in qualche modo una verità che la giornalista potesse apprezzare e concedere: erano la verità che essi s’erano scelti.
    Un ragionamento complesso da capire per chi non stava direttamente nella testa dell’australiana.
    Un ragionamento che, quindi, non le permise subito di dare una spiegazione alle lacrime improvvise a rigare le guance della sconosciuta; si limitò a battere le ciglia una, due, tre volte, lentamente e senza disturbare le emozioni altrui con qualcosa di così banale come un respiro di troppo.
    Non era abituata, Claudia Moor, a camminare su pezzi di coccio senza fare rumore; lei amava tagliarsi, sentire la pelle pizzicare sotto la pianta nuda e bearsi di quelle piccole difficoltà condivise; ma in quelle lacrime c’era qualcosa di troppo personale che persino lei, nella sua bolla che distorceva ogni cosa come gli specchi magici di un parco divertimenti, riuscì a percepire.
    Non aveva idea del motivo di quelle lacrime – o che fossero opera sua – ma offrì comunque un sorriso alla ragazza, e tutte le razioni dolci che riuscì a trovare nella propria borsetta.
    Quando la vide prendere posto accanto a sé, inspiegabilmente, sentì anche qualcosa prendere posto all’interno della propria gabbia toracica: una sensazione di familiarità, qualcosa di giusto, e di agognato fin troppo a lungo. Una sensazione che la colpì senza preavviso, lasciandola per un attimo confusa — e senza fiato.
    Negli occhi della bionda al suo fianco non leggeva assolutamente nulla di più di quanto non volesse leggere, nulla più di pochi istanti prima, eppure c’era qualcosa che il pizzicore sulla pelle cercava di comunicarle.
    Claudia non aveva mai avuto problemi a farsi degli amici; mantenerli, al contrario, era stato sempre arduo e messo a dura prova dal carattere incostante della ragazza. Claudia non aveva un traduttore emozioni-parole a portata di mano; sarebbe dovuta andare a braccio, e fidarsi delle sensazioni.
    Di persone che potesse sentire vicine, cuore a cuore, ne aveva avute pochissime — così poche che, andando a stringere, sarebbero state larghe nel palmo serrato di una mano.
    Claudia non era abituata a stringere.
    Lasciava sempre le dita aperte, e le persone libere di andarsene e tornare e riandarsene di nuovo; la ragazza accanto a lei, aveva il sapore di qualcuno che era andato via, e che ora stava tornando.
    E Claudia non aveva la benché minima idea del perché.
    «non hai la faccia da claudia»
    Le piacque, quella risposta. Sapeva di qualcosa che lei avrebbe detto, e sapeva anche di verità.
    «ah no?» arricciò le labbra, senza distogliere lo sguardo da quello altrettanto verde della ragazza al suo fianco, «però mi piace, l’ho scelto io.» Strinse le spalle, come se quella fosse una motivazione sufficiente a spiegare come, perché e quando. «che faccia ho?» C’era una curiosità genuina, nella sua domanda, una che non aveva nulla a che fare con il giornalismo o la deformazione professionale: voleva sapere il parere di quella ragazza, le interessava davvero.
    Avrebbe potuto liberarsi dalla presa dell’altra in qualsiasi momento, ma decise di tenerla lì, stretta in quella delicata della bionda, ancora per un po’.

    (“vivi ogni avventura,
    come se ci fossi anche io —
    perché sarà così; dove conta, ci sarò.
    ”)

    «deirdre osborne charisma. ma puoi chiamarmi doc»
    «doc.» scivolò sulla lingua con familiarità, rotolando via tra denti e un sospiro che non aveva saputo di aver trattenuto fino a quel momento. «ci conosciamo un’altra domanda spontanea, che pose prima ancora di rendersene conto. E quando lo fece, accompagnò con un cenno vago della mano, «hai un’aria familiare.» Risuoni nella gabbia toracica e nello stomaco come casa. «forse ci siamo viste da qualche parte…» Forse in un’altra vita. «hai dei nomi molto particolari, doc.» e le sorrise, «ti si addicono.» Didi? Ti chiama mai nessuno, così?
    «sembravi triste. la sei?»
    A quel punto, e solo a quel punto, Claudia allontanò la mano, solo per giocare con un filo della maglia. Era triste? Bella domanda: no, non aveva motivo per esserlo. I suoi cari erano tutti vivi, e se i Brown non rispondevano al telefono, si ripeteva, non era un suo problema.
    Eppure lo era, perché sentiva di aver perso qualcosa che non ricordava neppure.
    «non lo siamo tutti? e siamo anche felici. ci sono momenti, e ci sono momenti come risposta non era granché, ma sperava che Doc la percepisse, più che capire. «credo di essere triste per esposizione, sai, con tutto quello che succede.» Allargò il braccio per indicare il parco intorno a loro, senza dargli davvero importanza. «ma sono già più serena, adesso.»
    Sai di casa.
    «alle volte basta un sorriso ricevuto al momento giusto.» e, nel dirlo, ne rivolse uno a Doc, alzando appena l’angolo destro in una smorfia più divertita che solidale, «o un cioccolatino.» Che, per inciso, si affrettò a scartare e mordere, attenta a lasciarne un po’ più della metà, che poi offrì con un gesto istintivo alla ragazza. «dividiamo?» Come tante altre volte? Quel che è mio, è anche tuo. «e tu, sei triste?» indicò la scia umida che avevano lasciato le lacrime su quel viso dai tratti così simili ai suoi che faceva quasi male guardarlo. «non c’è nulla di male ad esserlo, ogni tanto. rende i momenti felici ancora più speciali.»
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    Melvin non credeva che le persone fossero cattive. Credeva fossero negligenti, e disattente. Troppo all’interno della propria orbita per accorgersi delle collisioni e gli incidenti nei sistemi solari vicini; troppo in ritardo, senza sapere cosa li stesse aspettando, per fermarsi e guardare. Chinarsi, e raccogliere il pezzo di stella cadente prima che qualcuno potesse chiamarla cometa. In ogni sua forma, l’empatica era stata l’effetto collaterale. Quella colpita, e smarrita, e rotta senza che nessuno rallentasse per chiederle scusa, o aiutarla a raccattare briciole e dargli una forma. Non l’aveva mai presa sul personale, Vin; quelle briciole le soffiava come zucchero su un pandoro, senza sentirne la mancanza. Si trovava sempre in mezzo, sulla traiettoria di qualcun altro, e lo faceva volontariamente, sapendo che avrebbe fatto male. Volendo, che facesse male.
    Come accettare di rimanere seduta al fianco di una ragazza identica a sua sorella.
    Sorriderle, come se ogni muscolo non le gridasse di andarsene, o piangere, o entrambe le cose insieme. Come se fosse realmente in grado di separare la realtà dalla finzione, e potesse guardarla senza credere fosse Zip. Il raziocinio le suggeriva non potesse esserlo; al cuore della Diesel, non importava. Non aveva foto della sua famiglia. Non aveva nulla che glieli ricordasse, fatta eccezione per il proprio riflesso. I denti leggermente separati di Gif, le rughe da sorriso vicino agli occhi uguali a quelle di papà, gli occhi della stessa identica sfumatura trasparente di sua sorella e sua mamma. La risata dei gemelli a rimbalzarle sulla lingua. L’arrendevolezza di Avi nei palmi offerti all’altro. Li aveva assorbiti tutti, prendendone i pezzi migliori e conservandoli come un tesoro ed un segreto. Mantenendoli come una promessa. Guardava Claudia con la stessa disperazione di un naufrago di fronte al miraggio di una nave venuta a salvarlo: sapendo non potesse essere vero, ma lasciandosi sedurre dalla speranza che lo fosse. Fallace. Non avrebbe mai chiesto alla sconosciuta di essere qualcuno che non fosse, ma per fingere non aveva bisogno del suo permesso. Per guardarla di sottecchi, rubandole ogni frammento d'espressione per il proprio mosaico. Non era neanche così necessario ammetterlo a se stessa, se le permetteva di deglutire, continuare a sorridere, e stringere delicata la mano nella propria senza portarla alla bocca e confessare in un sospiro la sua miseria.
    «che faccia ho?»
    Qualcosa passò, negli occhi verdi della Diesel. Qualcosa di delicato e vulnerabile come zucchero filato, rapido nel sciogliersi sulla lingua quanto quella scintilla a sopirsi in una risata leggera. Corrugò le sopracciglia spostando lo sguardo sui fili verdi del prato, chiudendo le dita sulla vernice scrostata della panchina.
    La sua, avrebbe voluto rispondere. Forse senza neanche dirle a chi si riferisse. La nostra, perché oltre un vetro appannato erano identiche: viso tondo e morbido incorniciato da capelli biondi, occhi verdi e sottili, denti mostrati in sorrisi brillanti. Lo stesso naso piccolo. Il mento sfuggente. «da melvin» Sorrise al punto in cui l'erba lasciava posto alle pietre del passaggio pedonale, sollevandolo poi sulla ragazza con la curva enigmatica delle labbra di chi sapesse un segreto e non volesse rivelarlo.
    «doc.» e se fece male, quella misera sillaba. Fisicamente. Un sussulto che sapeva di brivido e singhiozzo insieme, gli occhi a serrarsi secchi su un mondo che neanche esisteva. Un battito di ciglia. Una prospettiva sbagliata, un volto molto più giovane, e quelle tre lettere intrise di ogni significato possibile: esasperazione, stanchezza, entusiasmo. Impregnate sempre dell'affetto grondante con cui i Martins si erano amati fino a che gli era stato permesso di farlo: disperato e tragico come un'opera Shakespeariana. Tenne gli occhi chiusi ed annuì appena, sorridendo del leggero tremore ai palmi.
    Aveva avuto paura del proprio nome per più tempo di quanto non le fosse stato concesso definirlo suo. Non aveva potuto essere una Martins per quasi quindici anni; non credeva di sapere più come fare, anche potendo provarci. Poteva?
    «ci conosciamo?» Rise. Testa reclinata all'indietro, capelli a sfiorarle le spalle e gola offerta alle nuvole. «non penso, no.» Anche se fosse stata Zip, quella Doc non sarebbe stata conosciuta. La meraviglia della bambina ch'era stata era rimasta, ma tutto il resto era scivolato via negli anni, perdendosi insieme a sangue e lividi e tatuaggi. Lasciato in amori non corrisposti in cui metteva tutto, perché non sapeva dove altro infilarlo. «hai un’aria familiare.» Di favole e disegni e avventure. Amici immaginari a strizzarle l'occhio per la buonanotte. Scosse ancora il capo, schiarendosi la voce. «forse ci siamo viste da qualche parte…» «forse» comfermò piano, arcuando allegra entrambe le sopracciglia. Era stata troppo ottimista, si disse sentendo le guance nuovamente umide; un cuore da spezzare, lo aveva ancora. «tu assomigli a qualcuno che conoscevo. una vita fa» confessò quindi, arricciando il naso, liquidando la questione con un vago movimento delle loro mani giunte. Non c'era molto di cui parlare in merito. Cosa avrebbe potuto dirle? Che fosse identica alla sorella morta cent'anni dopo? Difficilmente le stranezze di Melvin avevano un limite, ma - seppur per poco, ed a malapena - sapeva contenersi quando le questioni non riguardavano solo lei stessa. Non voleva ci andassero di mezzo Jamie o Will, o Dakota per averla ospitata ed averle fatto da garante. Ammiccò gentile al complimento sul proprio nome, scrollandosi nelle spalle. Non le disse che fosse un regalo, e che avesse lo stesso peso di un giuramento infranto; tenne per sé che nessuno, in quella linea temporale, lo conoscesse. Che le si addicessero, perché entrambi non esistevano.
    Le permise di sottrarre la mano, non volendo tenerla in ostaggio. Ne sentí la mancanza subito; non le piaceva sentire la mancanza di qualcosa. Per compensare, strinse i palmi fra loro e li incastrò nelle cosce. «non lo siamo tutti? e siamo anche felici. ci sono momenti, e ci sono momenti.» Iniziò ad annuire, ma si fermò a metà gesto. Non poteva dire di saperlo, in realtà. Pur conoscendo la gamma di emozioni del genere umano, non tutte attecchivano alla sua persona nello stesso modo. Triste? Non era certa che sapesse cosa significasse, o se lo fosse mai stata. Implicava un livello di consapevolezza della quale si era sempre privata. «credo di essere triste per esposizione, sai, con tutto quello che succede.» La guardò di sottecchi, spostando poi l'attenzione al cielo cupo di Londra. «doveva succedere» un tono asciutto, ma non distaccato. Profetico senza essere una farsa. Nel suo tempo quella guerra non c'era mai stata, ma il suo risultato, seppur in modo diverso, si, e non era certa di escludere che il fine potesse non giustificare i mezzi. Dopo l'essere sognatrice, romantica, ed una causa persa, Melvin era pragmatica: più di un motivo l'aveva portata ad appiopparsi all'Hamilton, e sopravvivere.
    Scosse il capo all'offerta del cioccolatino, perché le sembrava di approfittarsene. Quell'interazione, aveva un peso diverso per entrambe, e Vin non voleva tirare troppo la corda.
    Non le disse che
    alle volte basta un sorriso ricevuto al momento giusto.
    lo dicesse anche mamma.
    Lo tenne per sé, posando un sorriso distratto sulle proprie ginocchia.
    «e tu, sei triste?»
    Alzò gli occhi di fronte a sé, senza propriamente guardarla. Quando lo fece, fu per scuotere lenta il capo, le ciocche bionde a scivolarle attorno al volto.
    «triste? non credo, no» Parve pensarci, la lingua puntellata sulla guancia e gli occhi ridotti ad una fessura. Giocherellò qualche istante con un sassolino rimbalzandolo da una scarpa all'altra, prima di continuare. «melanconica, ogni tanto.» Rise, senza divertimento ma non meno genuina nel farlo. Bella e leggera sempre, Vin. «mi manca tutto quello che non posso avere» lampeggiò un sorriso, senza scendere nei dettagli - poco rilevanti; trovava rendessero le storie meno divertenti.
    La mia famiglia.
    Il mio tempo.
    Un briciolo di amor proprio.
    «invidiosa, qualche volta» la indicò con un cenno del capo, dondolando le gambe sulla panchina. «a volte, sentendo le emozioni degli altri, vorrei rubarle. non per sempre, solo per un po'» spiegò, curvando le labbra verso il basso. «sono un'empatica» suggerì, sporgendosi appena verso di lei.
    «ma triste? non direi» Non diresti? «nah.» Uh-huh.
    Fece una pausa. Inspirò profondamente, chiudendo gli occhi e rilasciando il fiato con lentezza. «avete anche gli stessi colori» Nah, mh?


    Somehow I knew
    That life will write itself out for you
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    That a crazy moment changed part of you
    And the fable made
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    Nel suo essere sempre quella particolare e diversa, incostante e imprevedibile, banale e allo stesso tempo incomprensibile per i più, Clod si era rassegnata a passare una vita nei panni di quella che non sarebbe mai stata capita fino in fondo da nessuno; non le dispiaceva, c’era comunque qualcosa di bello e di particolare nell’essere la nota stonata di una sinfonia tutto fuorché perfetta, nell’essere l’incognita all’interno di un’equazione in cui nessuno sapeva bene dove collocarla.
    Non rientrare in nessuno schema, non appartenere – a persone, luoghi, carriere, nulla – non le era mai pesato; le dava, al contrario, la libertà di poter essere esattamente tutto quello che voleva, e niente allo stesso tempo. La sua contraddittorietà era sempre stata, e sempre sarebbe rimasta, la sua arma migliore e il suo pregio più grande, a detta sua: in pochi potevano dire di avere il suo stesso spirito di adattamento, perché in pochi le leggi – sociali, della natura, della mera esistenza umana – non si applicavano quasi alla lettera.
    Si era sempre circondata, Clod, di poche persone — ma quelle giuste per il suo animo: persone che, come lei, seppur in maniera diversa, non appartenevano a nulla eppure riuscivano a stare in ogni dove. L’aver trovato Fake, Ryu e Tai come coinquilini era stata la dimostrazione, ancora una volta, che non c’era posto al mondo dove una fuoriposto come lei non potesse comunque incastrarsi, prendendo esattamente la forma e riempiendo gli spazi che le venivano concessi.
    La bionda seduta al suo fianco, emanava le stesse sensazioni.
    Sapeva assolutamente di qualcuno che, nel mondo, sapeva starci pur non trovando mai il posto perfetto per se stessa: ciò non significava che non sapesse crearselo, o accettare quello che gli altri le offrivano in cambio. Non aveva idea del come lo sapesse, la Moor, erano semplicemente le impressioni che averla vicino stava lasciando sulla sua pelle; quelle, certo, e il fatto di essersi sempre sentita abbastanza brava nel saper leggere le persone.
    Doc le piaceva; c’era qualcosa, in lei, che rimetteva a posto il caos che Clod aveva dentro; qualcosa, nello sguardo verde e vulnerabile dell’altra, che le suggeriva di stringerla fra le sue braccia e prendersene cura, come la sorellina che non aveva mai avuto. Fu difficile, per un momento, ricordarsi che Doc fosse di fatto una sconosciuta e non qualcuno che aveva avuto al suo fianco per tutta la vita, e fermare così il braccio che, di sua spontanea volontà, sembrava volersi allargare per cercare le spalle della bionda e stringerle in una presa morbida ma feroce, protettiva e solida.
    Qualcosa, nella risata leggera, a sollevare l’umore di Clod e allo stesso tempo stringere il muscolo cardiaco in una presa così serrata da fare quasi male.
    Al sorriso di Doc rispose con una piega molto simile (troppo simile) delle labbra, e un piccolo cenno di assenso con il capo. «melvin è un bel nome», dichiarò, pur continuando a preferire Claudia; era, dopotutto, l’identità che si era scelta quando quella di Gwendolyn Martha Brown aveva smesso di calzarle — ammesso, poi, che l’avesse fatto. Quando ripensava alla vita a Perth, tutto le sembrava così distante e inafferrabile da avere quasi il sapore di un sogno, i contorni sfuocati e i ricordi volutamente rimossi dalla giornalista. Le sembrava quasi di aver iniziato a vivere solo dopo aver fatto di G. Claudia Moor una persona vera.
    Quando Doc le confermò i suoi sospetti, affermando di non conoscerla, Clod reclinò la testa all’indietro, puntando le iridi bosco verso il cielo, e fece schioccare la lingua contro il palato.
    «“questo posto… è come il ricordo di un sogno”» la citazione sfuggì dalle sue labbra senza controllo, ma fu lieta di averle lasciato via libera: Anastasia era sempre stato il suo cartone preferito, da quel che ricordava, e aveva sempre sentito una certa affinità con Anya; il suo viaggio attorno al mondo per ritrovare una famiglia che temeva di aver perso per sempre, aveva sempre risuonato un po’ troppo forte sotto la pelle di Claudia.
    Abbassò lo sguardo su Doc, e spiegò.
    «è una citazione, dal mio cartone preferito.» non si era mai troppo grandi, o realizzati, per smettere di avere un cartone preferito; o così credeva fermamente la Moor. «ma in questo caso, il posto è più “una persona”» ci sarebbero stati così tanti modi per spiegarsi, ma la verità era che non sapeva da che punto partire, né tantomeno dove volesse arrivare con quel discorso. Perciò, semplicemente, si strinse nelle spalle e gettò di nuovo la testa all’indietro, serena e certa che, in qualche modo, fosse scritto nel destino che quel giorno avesse deciso di sedersi proprio su quella panchina.
    «tu assomigli a qualcuno che conoscevo. una vita fa»
    Quella confessione, poi, non fece che sottolineare quella sensazione di fatalità che Clod sentiva nel petto. E la fece sorridere, la curva delle labbra a farsi più ampia, più contenta. «vedi? siamo già in sintonia, sulla stessa lunghezza d’onda.» non le capitava molto spesso. «ma ti avverto, potrebbe non essere un complimento per te,» e rise, di se stessa, perché era la sua fan e la sua hater numero uno, Clod; e rise anche perché, infondo, era bello condividere qualcosa con qualcuno.
    Sentiva ci fosse di più in quella storia, glielo suggeriva la giornalista che era in lei, ma non premette sulla questione. Piuttosto, invece, ricambiò lo sguardo di sottecchi di Doc pur senza abbassare la testa.
    «doveva succedere»
    Per un attimo Clod pensò si riferisse al loro incontro, ma poi si rese conto che parlasse invece di tutto quello che succede — o, per meglio dire, di tutto quello che fosse già successo.
    E si incupì, la Moor, pensando che ci sarebbero stati altri mille modi per raggiungere quel risultato, e almeno novecentonovantotto di essi non prevedevano lo sterminio dei babbani o una guerra mondiale. Ma non lo disse, rimanendo in silenzio ed arricciando le labbra carnose in una smorfia di disappunto nei confronti di quel mondo in cui, volente o nolente, si erano ritrovate costretta a vivere.
    «triste? non credo, no. melanconica, ogni tanto.»
    Annuì, sentendo di potercisi rispecchiare a pieno: non era mai triste, Claudia, se non quando, suo malgrado, si ritrovava ad esserlo. Non le piaceva, ma lo accettava perché era sempre stata un po’ empatica nei confronti delle persone, e le loro emozioni erano un po’ anche le sue emozioni.
    «mi manca tutto quello che non posso avere» «già» appena un sussurro, per non disturbare il filo delle confessioni di Doc.
    «invidiosa, qualche volta» accennò un sorriso, come a volerle suggerire che non lo siamo un po’ tutti?, e decisamente più di solo “qualche volta”. Faceva parte dell’essere umani e, per tanto, imperfetti.
    «a volte, sentendo le emozioni degli altri, vorrei rubarle. non per sempre, solo per un po'. sono un'empatica»
    A quel punto, la testa di Clod tornò a drizzarsi e l’espressione sul viso a mutare nuovamente, veloce come veloci e repentini erano i cambi di umore dell’australiana. «sul serio?» la sorpresa nello sguardo spalancato di Clod non era dovuto all’essere una special di Doc, ma al suo essere, nello specifico, un’empatica. «è davvero…» lasciò la frase a metà, persa come spesso le succedeva nel flusso mai lineare dei propri pensieri.
    una coincidenza troppo strana, una possibilità su un milione, qualcosa che si andava ad aggiungere a quella sensazione di familiarità e destino che Claudia sentiva già fin dentro le ossa.
    «e com’è?» le chiese, incrociando le gambe sulla panchina e poggiando i gomiti sulle ginocchia, «essere un’empatica. esserlo davvero che ne poteva sapere Doc del filo ingarbugliato che stavano seguendo i pensieri di Clod, «ti capita mai invece di non volerle... di temere di star scambiando le loro con le tue?» Per Clod, che aveva sempre vissuto di testa sua e a modo suo, l’idea di poter scambiare le proprie esperienze con quelle di qualcun altro sembrava terribile e terrificante; eppure, certe volte, non poteva evitare di domandarsi se non lo avesse fatto lo stesso, se non avesse confuso il suo desiderio di libertà e la sua implacabile intraprendenza con l’istinto di fare cose che non appartenevano a lei, ma a tutto il resto del mondo.
    Che la sua identità, dopotutto, fosse stata costruita sulle spalle e sulle esperienze di altri; che avesse fatto tutto quello che aveva fatto solo perché non aveva niente di suo da voler provare.
    «avete anche gli stessi colori»
    Quel repentino cambio di rotta, la colse di sorpresa. Inclinò legegrmente la testa verso Doc, e la studiò un attimo prima di informarla che «anche io te abbiamo gli stessi colori. ci somigliamo anche, non pensi?» sorrise, e poi agitò la mano a mezz’aria. «stesse persone in font diversi, o così dicono quelli della nostra generazione, no?» che ne sapeva lei, che gli unici trends che seguiva erano quelli riguardanti il quidditch.
    «ma dimmi di più di questa persona, se vuoi. sembra una persona interessante» e gongolò, orgogliosa e conscia di esserlo, prendendosi ogni tanto i complimenti della sua parte fa che le ricordava di aver resistito – e di essere sopravvissuta – fino a quel giorno senza l’aiuto di nessuno. Se li meritava.
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    «“questo posto… è come il ricordo di un sogno”» Reclinò il capo, osservandola con grandi e curiosi occhi verde giada. «è una citazione, dal mio cartone preferito. ma in questo caso, il posto è più “una persona”» Mantenne il contatto visivo per un altro paio di secondi, prima di distogliere lo sguardo e posarlo sulla manica della propria maglia. Sopracciglia lievemente corrugate a segnare un pensiero ben preciso, anche se poco concreto, tenuto a malapena stretto fra i molari. Annuì piano, perché capiva, e per un cosmico scherzo del destino persistette a tacere, lei che parlava anche nel sonno. Temeva che una parola sbagliata potesse rompere l’incantesimo, spezzando la bolla di surrealità di quell’incontro. Un battito di ciglia, e Clod sarebbe sparita, lasciandola sola sulla panchina del parco. Un’immagine così reale, che dovette battere rapidamente le palpebre per assicurarsi che non fosse vera, e la ragazza fosse ancora seduta al proprio fianco.
    Aveva la sensazione di parlare con un fantasma. Un cimitero emotivo di mietitori smarriti che non avessero ben chiaro quale fosse il loro compito.
    «vedi? siamo già in sintonia, sulla stessa lunghezza d’onda. ma ti avverto, potrebbe non essere un complimento per te,» Accennò un sorriso, sollevando un piede sulla panchina per poter poggiare il mento sul ginocchio. Trovava superfluo dirle quanto le venisse naturale essere sulla stessa lunghezza degli altri, seguire i flussi e le correnti senza disturbarle troppo. Uno specchio anche quando non si sforzava d’esserlo.
    E non seppe che farsene, della sorpresa della ragazza nel scoprirla empatica. Non sembrava impaurita, solo… curiosa, ma era comunque una di quelle emozioni a cui la Diesel si approcciava sempre con cautela: la curiosità non era sempre sintomo di buone intenzioni, o i Laboratori non sarebbero mai esistiti. «è davvero...» «davvero?» incalzò, perché non aveva idea di dove quella frase potesse andare a parare. Una domanda veloce ed istintiva, prima che perdesse il coraggio di volerlo sapere, con già la sensazione sulla lingua del conseguente cuore spezzato. «e com’è? essere un’empatica. esserlo davvero,» Battè le ciglia, riflettendo sul quesito come raramente concedeva a se stessa od ai suoi interlocutori. Umettò le labbra, sollevando gli occhi al cielo per cercare la risposta nella forma delle nuvole. Com’era? «non so come sia non esserlo» spiegò, dopo un paio di secondi, senza abbassare lo sguardo su Clod. Melvin era nata empatica, e non ricordava un momento in cui non fosse stata in grado di percepire, se non vere e proprie emozioni, perlomeno sensazioni. Faceva parte di lei, come l’avere due braccia e due gambe; difficile rispondere a cosa si provasse ad averle, quando aveva passato tutta la sua vita potendoci fare affidamento. Al contrario, non poteva fare a meno di chiedersi come fosse non averla, e vivere in un mondo multicolore ma soggettivo, senza fili da seguire e colori da interpretare. «ti capita mai invece di non volerle... di temere di star scambiando le loro con le tue?» Un interrogativo difficile, per una ragazza piuttosto semplice. Melvin Diesel, Doc che si volesse, aveva vissuto il meglio ed il peggio di tutti i mondi: c’era stata nei momenti di intensa gioia, ed in quelli in cui il dolore aveva minacciato di soffocarla. Aveva percepito il terrore più viscerale, e la gioia più intensa. Le persone potevano vivere tutta una vita senza provare quegli stati d’animo, e la bionda era invece stata abbastanza fortunata da poter sperimentare tutto come fosse proprio. Scambiarle con le sue? Le rivolse uno sguardo perplesso, perché la questione non l’aveva mai minimamente sfiorata. Non si era mai posta il problema, perché non le importava. Non aveva abbastanza di sé a cui essere gelosamente affezionata al punto di volersi assicurare fosse unicamente suo. Le emozioni degli altri, piuttosto, colmavano tutti i vuoti e le lacune; talvolta, ma capitava di rado, la aiutavano a dare un senso a quel che provava lei stessa. «non è così… netta, la differenza. Non c’è il tuo ed il mio» provò a spiegare, suonando, come raramente le capitava, seria e riflessiva. «c’è e basta, sai? E ciascuno ne fa quel che vuole» non era esattamente così, ma non sapeva in quale altro modo spiegarlo – soprattutto non a qualcuno che sembrava così interessato alla risposta. Non temeva di deluderla, non aveva aspettative in merito, ma voleva comunque… darle una risposta soddisfacente. Tenere ancorata la sua curiosità così da non annoiarla, portandola ad andare via. Voleva rimanesse con lei. «posso forzare un emozione su di te? Certo. Puoi provarla, ma non vuol dire necessariamente sentirla» era tutto collegato alla testa, alla fine. Melvin poteva terrorizzare Clod, e Clod avrebbe provato paura, ma avrebbe saputo che non fosse… sua, perché nulla del suo storico e di quello che provava l’avrebbe giustificato. Erano fallaci, le emozioni. «posso provare quello che provi tu, ma non è lo… stesso» a meno che non fossi delulu quanto Vin, la quale si prendeva su di sé trionfi e perdite di tutti pur di sentire qualcosa.
    «anche io te abbiamo gli stessi colori. ci somigliamo anche, non pensi?» Le sorrise, perché dubitava esistesse un qualsiasi piano spazio temporale dove potesse non farlo. Una curva morbida e nostalgica delle labbra che sapeva di tutto eccetto che di una sconosciuta incontrata al parco. «ma dimmi di più di questa persona, se vuoi. sembra una persona interessante»
    Esitò.
    Doc non esisteva da anni. Melvin non parlava della sua famiglia da quando l’aveva persa. Non dimenticata, come avrebbe potuto, ma lasciata comunque alle spalle, perché portarsela appresso sarebbe stato un fardello troppo grande. Non sapeva se, anche volendo - ma lo voleva? - sarebbe stata in grado di trovare le parole giuste. Mordicchiò il labbro inferiore, strofinando distratta il mento sui jeans. Poggiò la guancia sul ginocchio, tenendo lo sguardo sul pavimento del parco per più tempo del necessario, prima di spostarlo risoluta su Zi – Claudia. Su Claudia.
    «mi adorava» che era la parte più importante, esordita lampeggiando un sorriso da canaglia. «ed io lei. Era la mia persona preferita» ammise, piano, sentendo la propria voce distante. Ricordi che aveva abbandonato sotto al tappeto troppo a lungo, eppure ancora ustionanti al tatto. «aveva un modo di vedere il mondo… diverso da chiunque altro. Non perché fosse ottimista e ne vedesse il bello, ma perché ogni cosa rappresentava un’opportunità, sai? Una sfida, un’avventura. Una storia» si strinse la gamba al petto, lo sguardo a scivolare sulle scarpe. «mi raccontava sempre storie»
    ed erano bugie.
    «i buoni vincevano sempre»
    allora perché loro avevano perso.
    «vivace. Intraprendente. testarda» di Zip, Melvin aveva ereditato ben più che il colore degli occhi e la forma del naso. «giurava che il mondo fosse un gioco, e lei lo avrebbe vinto» ammiccò, stringendosi pigra nelle spalle.
    Le ho sempre creduto.
    Somehow I knew
    That life will write itself out for you
    Somehow I knew
    That a crazy moment changed part of you
    And the fable made
    In your head is a lie
    Unlike Pluto
    Against the Timeline
    Pixelated Oblivion
     
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    Claudia sostenne lo sguardo di Doc fintanto che l'altra ragazza lo tenne su di lei, e poi continuò a guardarla anche una volta che l'empatica ebbe distolto le iridi verdi, rivolgendo la propria attenzione altrove. Clod non avrebbe mai potuto, incollata a quel profilo sconosciuto e al contempo familiare, da una magia diversa da qualsiasi forma avesse mai conosciuto in vita sua.
    Sentiva il bisogno di riempire quei silenzi che si andavano a creare tra loro più di tutti gli altri, con la terrificante e inspiegabile paura che, se non avesse detto nulla, l'altra sarebbe sparita come la protagonista illusoria e intangibile di un sogno tanto ben definito da sembrare reale, pur non essendolo.
    Lo sentiva come un bisogno fisico, a premere sul cuore e contro la cassa toracica, come se tenere Doc lì usando le sue parole fosse di vitale importanza, un compito da dover completare a qualsiasi costo, da assolvere per una questione più grande, che prescindeva spazio e tempo, e che Claudia non riusciva ad afferrare nel proprio pugno.
    L'importanza e la gravità di quel momento, però, sembravano giocare a suo sfavore, rendendo le sue parole meno precise di quanto avrebbero saputo essere in altre circostanze, e rendendo le domande meno pertinenti.
    Ma non per questo meno importanti.
    «davvero?»
    Davvero cosa, in effetti? Non avrebbe saputo dirlo. Si strinse perciò nelle spalle, rivolgendole un'occhiata taciturna e un silenzio, il primo fino a quel momento, che più che dare risposte sembrava contenere altre cento, mille, domande.
    Era davvero interessante, forse.
    O davvero curioso.
    O magari, ancora, davvero allarmante il fatto che Doc fosse una special col dono dell'empatia, quando Clod ci si era sentita per tutta la vita pur non essendolo affatto.
    Sorrise appena, al pensiero che il destino sembrasse aver calcolato ogni mossa e ogni pedina di quell'incontro, sistemandole con ordine all'interno della grande scacchiera che era la vita.
    Alla fine fece la domanda più banale possibile, e proprio per quello, anche la più difficile a cui trovare una risposta.
    «non so come sia non esserlo»
    Onesto, molto onesto. Questo significava che ci fosse nata, Doc, con quel dono? Non aveva mai vissuto una vita che non fosse quella di un'empatica? O il suo dono (la sua condanna?) era arrivato così presto nella vita, da non avere memorie di un “prima”? Tutte domande che l'animo investigativo di Claudia non poteva trattenersi dal formulare, ma che lei tenne comunque per sé, reputando poco empatico da parte sua bombardare la bionda di quesiti, solo per soddisfare una curiosità senza fondo, e senza tappo.
    Si accontentò invece di assimilare ogni risposta che le veniva data, ascoltandole con serietà e attenzione, facendole sue e imprimendole a fuoco nella memoria, e nella conoscenza.
    «non è così… netta, la differenza. Non c’è il tuo ed il mio. c’è e basta, sai? E ciascuno ne fa quel che vuole»
    Annuì, sentendo di capire a fondo pur non condividendo davvero la stessa magia che scorreva nel sangue di Doc.
    Un tempo, forse.
    Ma non più.
    «posso forzare un emozione su di te? Certo. Puoi provarla, ma non vuol dire necessariamente sentirla. posso provare quello che provi tu, ma non è lo… stesso»
    Allargò il sorriso sulle labbra che rivolse alla special, tentando di coinvolgerla in quella che era la versione personale di Clod di un abbraccio senza davvero allargare le braccia. Un abbraccio emotivo, perfetto per un'empatica, no?
    «a me capita solo di sentirmi molto, molto in sintonia con qualcuno» scherzò, lasciando poi che il silenzio subito a seguire sottolineasse quanto quelle parole sposassero bene quell'incontro imprevisto. «ti capita mai di volerle… tenere fuori?» le emozioni, ma anche le persone; a Claudia sì, eppure era un caso così particolare di contraddizioni e opposti uguali e contrari a convivere in uno stesso organismo, che comunque non lo faceva mai.
    Non avrebbe mai potuto.
    Quando Doc esitò, poi, Claudia temette di aver azzardato un po' troppo, e aver chiesto più di quanto fosse lecito, o quanto fosse giusto per lei sapere. Nella titubanza dell'altra, Clod ci lesse ciò che voleva leggerci, e si stupì di essere contraddetta quando poi, alla fine, Doc parlò.
    A quel punto, Claudia non aveva problemi a sostenere lo sguardo chiaro della sua nuova amica, e a cercare inconsciamente tutto quello che non veniva detto a parole, per disegnare un quadro ancora più grande di quello che Doc illustrava per lei.
    «mi adorava»
    Non riuscì a non ricambiare il sorriso — non volle non ricambiare il sorriso; la conosceva da una manciata di minuti, Doc, eppure sentiva che non potesse essere diversamente. Che non la si potesse adorare completamente, e follemente.
    «ed io lei. Era la mia persona preferita»
    Si rese conto che la nota di tristezza a macchiare il modo in cui la giornalista percepiva quel racconto, fosse dovuta al fatto che Doc ne stesse parlando al passato, e non poté non domandarsi cosa fosse successo, se la persona che tanto adorava, e tanto la adorava, fosse morta. Nella guerra, magari? Chi poteva dirlo.
    Poi si ricordò che Doc le aveva detto “una vita fa”, e pensò che il destino era tanto benevolo quanto bastardo, nello strappare via persone care prima del tempo. Il sorriso morbido si fece appena più timido, e Clod sperò che l'altra non percepisse la sua tristezza — non ne aveva alcun diritto, quella perdita non era la sua. Eppure faceva maledettamente male.
    «aveva un modo di vedere il mondo… diverso da chiunque altro. Non perché fosse ottimista e ne vedesse il bello, ma perché ogni cosa rappresentava un’opportunità, sai? Una sfida, un’avventura. Una storia»
    Claudia sperava che, se un giorno qualcuno avesse parlato di lei ad altri, avrebbe usato esattamente quelle parole per descriverla: le piaceva avere una visione del mondo diversa da chiunque altro, e sapeva fosse così, e le piaceva anche credersi ottimista quando in realtà c'era una nota pessimista nel modo in cui ragionava, che la portava inevitabilmente ad essere realista, per quanto la sua attività preferita fosse quella di perdersi nelle proprie fantasie e creare mondi e situazioni impossibili dove vincere altrettanto impossibili discussioni.
    Adorava persino credere di saper cogliere ogni sfida che il destino le proponeva, o di saperne creare quando la monotonia della vita minacciava di farla annoiare.
    «mi raccontava sempre storie»
    «sono bravissima a raccontare storie» e a sognare ad occhi aperti; e solo lo fosse stata anche a mettere nero su bianco tutte quelle idee, e dare una forma concreta ai suoi racconti, non solo avrebbe pubblicato quel romanzo che teneva fermo da anni, ma avrebbe persino avuto l'ardore di pubblicare il seguito. E i seguiti del seguito.
    «i buoni vincevano sempre»
    «la mia parte preferita» perché se non potevano vincere nel mondo reale, allora Clod li avrebbe fatti trionfare laddove aveva pieno controllo, e la possibilità di fare ciò che voleva.
    «vivace. Intraprendente. testarda»
    Distolse lo sguardo solo per un attimo, per osservare le nuvole nel cielo sopra le loro teste, e si permise di sognare anche solo per un attimo, un mondo in cui la persona descritta da Deirde Osborn Charisma, fosse lei. Sarebbe stato un momento emozionante, il ritrovarsi dopo chissà quanto tempo e chissà quante avventure — ma non poteva essere. Claudia non aveva mai conosciuto una Doc, in vita sua, o se ne sarebbe ricordata; non avrebbe mai permesso a nulla e nessuno di rimuovere certi ricordi dalla sua esistenza, non quando avevano la stessa intensità del sole, e la stessa dolcezza di un pomeriggio di calda primavera.
    «giurava che il mondo fosse un gioco, e lei lo avrebbe vinto»
    Qualcosa le diceva, dal tono usato dalla bionda, che temeva non fosse così; che l'altra avesse perso, pur sostenendo fermamente il contrario.
    Forse non era un gioco, si ritrovò a pensare, prima di scuotere la testa e ricordarsi che non fosse un bene immedesimarsi (ancora una volta) nelle parole di qualcun altro — non era lei, la persona di cui Doc sentiva la mancanza.
    Ma se lo fossi, Claudia?
    Non avrebbe potuto.
    «ti manca molto»
    E non era una domanda, la sua.
    «è molto tempo che non la vedi?» se pensava ai suoi genitori, lasciati volontariamente indietro senza guardarsi mai oltre le spalle, Clod non sentiva nulla; di certo non la mancanza, né la nostalgia. Ma in qualche modo, e per una ragione che non sapeva spiegare, le parole di Doc avevano aperto una ferita che la Moor non sapeva nemmeno di aver avuto, fino a quel momento.
    E ora, la sensazione di aver perso qualcosa e non poterlo più avere indietro, le attanagliava lo stomaco e stringeva una morsa sul petto che minacciava di soffocarla.
    Abbiamo ancora l'un l'altra, Didi. Non ti lascerò mai.
    A mantenere le promesse, Claudia, era sempre stata la migliore. Finché non lo era stata più.
    I've got all my life to live
    && I've got all my love to give
    && I'll survive.
    I will survive.
    gloria gaynor
    i will survive
    love tracks
     
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