Ma che strano sogno di un vulcano e una città, gente che ballava sopra un'isola

dominic x chiunque voglia partecipare all'apocalisse (hans) || libera

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    Un primo tonfo: boom; un secondo: badaboom; un terzo: badabummete (?). Il suo comodo e confortevole letto sembrava essere improvvisamente sprofondato, o doveva essersi ribellato e l’aveva letteralmente scaraventato fuori, facendolo finire… esattamente dove? Era ancora stordito, ma il pavimento della sua camera non era così freddo, e scomodo, e pieno di polvere e il rumore più invadente alle orecchie, di solito, era il miagolio di una Chandler affamata, o la sua chitarra scordata che intonava qualche discutibilissima canzone. Tentò di aprire gli occhi ma il dolore alla testa glielo impediva, quindi decise di restare supino ancora per un po’. Doveva aver fumato troppa hierba buena™ la sera prima e ora era, semplicemente, in uno dei suoi soliti trip presi male . Si sarebbe ripreso, bastava solo riaddormentar… no. Un altro tonfo, questa volta a pochissima distanza da lui, lo fece balzare dal pavimento e solo allora si rese conto che no, non era un pavimento, erano… pietre? Calcinacci, tegole, legno imbrattato e consumato, e oggetti quotidiani poco identificabili, il tutto coperto da diversi strati di polvere, tanta polvere e tanta cenere. La testa gli doleva ancora, ma quel teatro nefasto gli diede la giusta scossa di adrenalina per permettergli di alzarsi su un ginocchio, piantarlo saldamente nella pietra sulla quale si era risvegliato, alzare la testa bionda spettinata e guardarsi finalmente intorno. Nulla. Nada. Nisba. Rien. Ничего. Era circondato da macerie e resti (ma c’eri e resti), ma di cosa non lo sapeva esattamente. Dove si trovava? A casa sua, Liverpool? A Londra? a Hogwarts? Quello che gli si era parato davanti non era identificabile come un posto preciso, non era qualcosa che riusciva a conoscere come casa o come il Castello, era più un non-luogo nella misura in cui era assolutamente impersonale e sarebbe potuto essere il background di qualsiasi evento catastrofico o apocalittico (o qualsiasi puntata di Umbrella Academy). Ecco, era questa la vera domanda che tardava a svilupparsi nella testa dell’infermiere: cosa era successo? Perché non c’era più niente intorno a lui? E soprattutto: era da solo?
    Era generalmente lento, Dominic, nel fare le cose. Si prendeva il suo tempo per alzarsi dal letto, fare colazione, fare skin care (con le lacrime? con le lacrime), per sistemare i vestiti, per qualsiasi cosa. Di solito non era dotato di quella frenesia e quella reattività che aveva mostrato, invece, solo poche volte sul campo da Quidditch; andava con calma, tanto, diceva, “le cose sono lì, mica si muovono” e anche in quella circostanza si prese tutto il suo tempo per ruotare quanto gli fosse possibile la testa e farsi una panoramica del paesaggio tragico che aveva davanti; anche in quella circostanza, le cose non si muovevano. Dopo i tonfi iniziali causati da piccoli cumuli di pietra che si erano spostati ed erano rotolati giù da diversi cumuli di macerie, si era tutto racchiuso in un silenzio e in un’immobilità spaventosamente tranquilla, ma allo stesso tempo annichilente e angosciante. Si alzò a fatica sulle ginocchia per rimettersi in piedi e sentì una pesantissima stanchezza gravargli sulle spalle. Ma chissà perché, poi. Non ricordava avesse fatto granché nei giorni precedenti; ma, a dirla tutta, non ricordava neanche di aver assistito a un terremoto? tsunami? la deriva dei continenti? invasione aliena? Zombie? (Ciuchino?) Qualunque cosa fosse successa che aveva portato a quel disastro lui non la ricordava minimamente quindi una cosa era certa: per la prima volta nella sua vita non poteva fare affidamento sulla sua memoria infallibile. Fece lentamente un giro su se stesso per guardare se anche alle sue spalle ci fosse solo desolazione e la risposta che ricevettero i suoi occhi fu affermativa: il nulla cosmico anche su quel lato. Era come quando si va al mare da bambini e si cerca di stabilire la fine della distesa d’acqua con lo sguardo, stava cercando di fare la stessa cosa, ma non riusciva perché, ad occhio nudo, non c’era fine a tutti quei cumuli di macerie. Non aveva detto niente, non si era permesso di emettere neanche un suono che avrebbe potuto disturbare quell’inquietante silenzio tombale, ma ora tossiva leggermente, probabilmente per la troppa polvere. Rimase con la bocca dischiusa e si guardò ancora intorno, ancora incredulo, poi portò una mano tra i capelli e sentì il capo leggermente umido; solo quando si rese conto che la sua mano fosse macchiata di sangue probabilmente si risvegliò l’istinto medico che era in lui: si assicurò che il sangue fosse secco, si assicurò di avere entrambi gli arti inferiori, fece lo stesso con quelli superiori, diede una palpatina veloce anche al viso per accertarsi che il suo naso non avesse deciso di andare a zonzo da solo (Gogol docet), due occhi e solo alla fine di quel veloce e alternativo check-up poté concentrarsi sulla cosa a cui teneva di più al mondo: passò a tastarsi la mascella lentamente, facendo attenzione a eventuali spazi vuoti nella barba perché se doveva finire il mondo, se doveva combattere contro alieni o zombie o se si trovasse in Paradiso la barba doveva essere a posto #priorità. Trovò la peluria che aveva sul viso leggermente umida all’altezza della guancia destra e si guardò la mano: sangue. «Nonononono» voleva quasi piangere, l’ex corvonero. «No, la barba no!!» una gamba sì, un occhio, un orecchio, qualsiasi cosa, ma la barba… Probabilmente era questo il motivo di quel disastro: aveva scoperto di aver macchiato la sua curatissima barba e si era trasformato un attimino in Vanya Hargreeves e aveva, insomma, fatto finire il mondo. Sarebbe stato capace. «Giuro che appena trovo un po’ d’acqua ti pulisco» le promise (alla barba, sì) e accantonò per un attimo quell’importantissima questione per concentrarsi su quella di portate maggiori.
    Non sapeva assolutamente dove si trovava, non sapeva se fosse accaduto qualcosa solo localmente e non aveva modo di venirne a conoscenza, comunque, visto che sembrava essere l’unico superstite di quel disastro. E finalmente giunse anche quella domanda: se il mondo – o almeno quella porzione di mondo che riusciva a visualizzare in quel momento – era davvero ridotto in quello stato, perché lui era riuscito ad alzarsi, a risvegliarsi, a essere a tutti gli effetti vivo?
    Si decise finalmente e, combattendo contro la pesantezza che aveva preso possesso delle sue gambe, mosse molto lentamente qualche passo per allontanarsi da quella montagnetta di pietre e andare in avanscoperta alla ricerca di… qualcosa? Qualcuno? Una spiegazione, anche. Ad ogni movimento del piede, ad ogni passo, sentiva sempre di più le gambe cedergli, il fiato mancargli, il battito cardiaco accelerare sempre di più e un mare di lacrime risalire verso i suoi occhi e renderli lucidi. Più andava avanti, più si rendeva conto che fosse tutto terribilmente identico, che non ci fosse niente di ancora intatto, nessuno di vivo. Era solo. Quella era probabilmente la realizzazione di uno dei suoi più grandi incubi: rimanere completamente soli e senza punti di riferimento in uno spazio immenso.
    Camminò a lungo, ignorando il logorante peso sul petto e trascinando le gambe stanche e affaticate, fortuna che non faceva caldo, e a quanto poteva vedere non c’erano neanche incendi nei suoi pressi, quindi, da bravo Sherlock, aveva automaticamente escluso la possibilità di un asteroide, o l’esplosione di una centrale nucleare. Si fermò solo quando scorse, tra le macerie bianche per la polvere, una macchia di colore. Si piegò sulle ginocchia e affondò le mani tra le pietre per scavare quanto bastasse e recuperare quello che si rivelò essere nient’altro che un pezzo di stoffa rosso. Poteva essere il vestito di qualcuno, magari c’era qualcuno sotterrato sotto le macerie, magari poteva aiutarlo; provò a spostare ancora qualche sasso e qualche oggetto per poter liberare un po’ il raggio d’azione, poi strattonò con forza il pezzo di stoffa e riuscì a tirarlo completamente fuori, rivelandosi essere in realtà nientepocodimenoche *rullo di tamburi* una bandiera. Una bandiera rossa con cinque stelle posizionate in alto a sinistra. La stese di fronte a sé e si alzò di nuovo in piedi per guardarla, le braccia sui fianchi e la fronte aggrottata. «Cinesi» una parola una garanzia. «Sono stati loro. Sono sempre stati loro» sempre quando? Sempre sempre. L’estizione dei dinosauri? Cinesi. L’incendio di Roma? Ma che Nerone, c i n e s i! La peste nera? Facile, topi cinesi!!1 Hitler? Chiaramente di discenza cinese. E la guerra del golfo? Tutto un piano dei cinesi. Nel 2020 ci hanno provato ancora con più cattiveria e prima avevano diffuso volontariamente il coronavirus però non è bastato perché siamo – più o meno – più in gamba di quanto pensino, allora devono averci riprovato in qualche modo e questa volta devono esserci evidentemente riusciti. Fermo in p iedi davanti a quella bandiera strinse i pugni e serrò la mascella. «Cinesi» ripeté a denti stretti, con più rabbia, e sembrava anche rinvigorito, come se quella presa di consapevolezza gli avesse donato nuova forza per continuare, per restare vivo in un mondo di morte perché ora aveva uno scopo per la suaaa vita: distruggere i cinesi! Doveva esserci un motivo per cui era l’unico superstite, doveva essere un segno del destino. Ne aveva letti di fumetti in cui la storia iniziava così, ne aveva sentite di storie simili tipo quella dei peli del gatto. Era sopravvissuto e questo poteva solo significare che fosse il predestinato, che il Fato, che Merlino, gli avessero dato il compito di sconfiggere il vero nemico e di riportare tutto alla normalità. Quell’idea gli aumentava l’ansia, ma questa volta era un’ansia benefica, di quelle che caricano; gonfiò il petto e lasciò le iridi azzurre affondare ancora un po’ nel rosso della bandiera straniera. «Io vi cercherò, vi troverò e vi ucciderò» più che una minaccia, sembrava un vera e propria promessa e l’aveva detto con tanta fierezza che ci mancava soltanto che alzasse il dito al cielo e lo giurasse a Dio. E stava per farlo? Stava per farlo., claro que si.
    Fino a quel momento era stato fin troppo preso da quello che lo circondava, avvolto dal biancore pallido di quelle rovine e aveva ignorato tutto il resto ma quando alzò gli occhi al cielo quello che vide lo lasciò letteralmente a bocca aperta, attonito, ma meravigliato. Era qualcosa di artisticamente sublime. Qualsiasi cosa fosse accaduta doveva aver sconvolto l’intero cosmo (e quindi forse i cinesi non c’entravano tanto ma lui ne rimarrà comunque convinto ssh); in cielo non c’erano più nuvole, né il sole caldo, o pioggia, o nebbia, o qualsiasi altra cosa di vagamente riconoscibile all’occhio umano. Il celeste tipico – grigio, visto che siamo in Inghilterra – aveva lasciato il posto al nero pece dello spazio profondo e sconosciuto, ma costernato da una miriade di luci differenti che si muoveva. Non ne capiva moltissimo di astronomia, cioè non ne capiva assolutamente nulla, ma immaginava che fossero stelle, o comete, ma anche moltissimi meteoriti, o asteroidi e veri e propri pianeti, e quelle luci più colorate probabilmente dovevano essere… galassie?! Com’era possibile tutto ciò? Cosa era veramente successo? E com’era possibile che respirasse ancora? E soprattutto perché?
    Rimase almeno un paio di minuti a contemplare la sconfinata moltitudine di luci nel cielo, sentendo sii perché stavo a Bellini e li abbiamo incontrati lì e quidni beeretta tattica capì la testa farsi pesante di dubbi e domande che, al momento, parevano impossibili da sciogliere. «UAU!» pronunciò solo dopo poco con la naturalezza e lo stupore tipici di un bambino «Bell’atmosfera»
    «Ti prego non mi uccidere (il mood dai)» fu una voce sottile, ma non troppo lontana, a distrarre Dominic e a fargli staccare gli occhi da quello che si stagliava sopra di lui. Non era stata un’allucinazione, ne era più che certo. Girò più volte su se stesso, ora irrequieto e anche spaventato. Allora, se quella voce che aveva sentito era reale, significava che non era solo, non era l’unico superstite e soprattutto che poteva essere anche in potenziale pericolo perché poteva essere un cinese e lui non aveva assolutamente nulla con cui difendersi, né la sua bacchetta, né una pistola, una spada e neanche un coltello per il burro. Era debole e disarmato.
    «Chi c’è?» ebbe il coraggio di pronunciare di nuovo parola solo dopo un bel po’, ma ormai aveva la voce tremante e davvero poco fiato. Non ricevette risposta. Si girò ancora più volte, mosse qualche lento passo in avanti, poi indietro, a destra, a sinistra, e insomma todo el mundo la pista e vamos a afefzaaar tattarata taratata tattarata mueve la colita colita rica mueve la colita clap clap clap, ma ancora nessuno all’orizzonte. «C’è qualcuno?» tipica domanda che nei film horror, nei boschi, fa il ragazzo nero, cioè quello che muore per primo. «Sono armato e pericoloso, potrei ucciderti all’istante!» bugia, era armato e pericoloso quanto un pulcino appena sveglio su un ring contro un gallo da combattimento, ma contava che l’altro – l’ipotetico altro, qualora esistesse – non potesse saperlo e si spaventasse. Ma di nuovo silenzio tombale, non si mosse una mosca, allora decise di prendere l’iniziativa: si piegò sulle ginocchia, raccolse la bandiera rossa da terra e con quella tra le mani si incamminò.
    «CHI SE NE FREGA DEI TUOI MA, DEI TUOI SE E DEI TUOI BLA BLA» alzò la voce continuando a minacciare il vento.
    «Io voglio stare in good time» fu di nuovo la stessa voce. Non poteva averla immaginata allo stesso modo per più di una volta (a meno che, ovviamente, non fosse diventato schizofrenico), era palese ormai. Non era solo. Non sapeva ancora se volesse trovare o meno il suo interlocutore a distanza, ma seguì istintivamente la voce, sperando non lo conducesse verso una fine tragica.
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    non lo so cosa è uscito, scusate il prompt er belllissimo ma iono

    [PROMPT] ti trovi in un sogno, ma non sai che lo sia; è la fine del mondo così come lo conosciamo, disabitato ed in macerie, ma per la tua strada incontri qualcuno.
     
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    In un microscopico momento di lucidità, Hans realizzò che non era poi così strano per lui ritrovarsi in una situazione del genere. Ancor prima di capire dove fosse, come ci fosse arrivato, perché ci fosse arrivato - quello fu il primo pensiero a colpirlo: essere abituato a svegliarsi in posti strani al punto da non riuscire più a considerarlo... beh, strano.
    Era normale, per lui, vedere cose fuori dal mondo; non raccontava mai (niente, punto.) tutto quello che gli capitava di provare e sperimentare, perché a) non ci teneva particolarmente a condividere le sue esperienze con altri, b) tendeva a dimenticarle prima di poter trovare la voglia necessaria per farlo - ma gli succedeva quasi quotidianamente. Colpa delle medicine, colpa dei suoi vizi, colpa di una mente disordinata e sottosopra... quali fossero quelle veramente imputabili, non era fondamentale: succedeva e pazienza. D'altronde, era raro che Hans trovasse la voglia di stare lì ad analizzare la situazione e capire quale fosse la causa di tanta stranezza; aveva imparato ad accettarla, a convincerci, e per quanto gli interessava, la causa quella volta poteva essere uno scherzo riuscito male, o dell'Utopia versata di nascosto nel suo succo di zucca, o l'ennesimo trip dovuto alle droghe.
    E, per amor di cronaca: gli interessava davvero poco.
    Abbassò il cappuccio sulla testa, quel tanto che bastava per nascondere lo sguardo dal resto del mondo - o viceversa. E poi abbandonò la testa, posando la fronte sulle braccia, che cingevano le ginocchia al petto; non si sforzò di rialzarla nemmeno sentendo una presenza muoversi accanto a lui, non aveva bisogno di farlo. La capra era lì, ovvio che la capra fosse lì. Solo che in quel momento era un cane - perché ovviamente c'era sempre un cane protagonista della fine del mondo, serviva a suscitare l'empatia del pubblico: a nessuno fregava un bel niente dell'umano asociale e solitario, cinico e che, dopotutto, in un mondo desolato e disabitato non stava poi così male - ma ad un fido compagno canino, col muso dolce e le orecchie basse, non resisteva mai nessuno.
    Beh, nessuno tranne Hans che, dal canto suo, avrebbe preferito di gran lunga la presenza di Narah lì con lui: la special di sicuro avrebbe capito cosa stava succedendo e avrebbe trovato una soluzione e un modo per riportarlo a Different Lodge. Non che Hans morisse dalla voglia di tornare - a scuola o in qualsiasi altro posto, eh. Era così, per dire.
    Ma non c'era la ragazza con lui - né tanto meno Taichi o Brienne in vista. Era solo... In uno scenario in un certo senso appropriato. Un (poco) divertente scherzo del destino. L'ennesimo.
    Solo, seduto in mezzo alle macerie, nel silenzio più assordante che Hans riuscisse a ricordare di aver mai udito, la fuliggine che continuava a cadere imperterrita e ricoprire i resti di quella che un tempo era stata... cosa? Una piazza? Una strada? Hans non lo sapeva. Non aveva bene chiaro come fosse finito in quel punto preciso, né da quanto fosse lì: i piedi nudi, graffiati, suggerivano che avesse camminato fino al posto dove poi, probabilmente stanco, s'era lasciato cadere. Non ricordava di aver mai sofferto di sonnambulismo – ma hey, non lo avrebbe sorpreso scoprire il contrario. Ancora una volta: si era svegliato in posti ben peggiori.
    Cosa c'era di peggio di una città fantasma? Beh, per iniziare: casa tua che prende fuoco. Un letto magicamente finito sopra il tetto di una casa; essere legato al ramo di un albero; una fastidiosa piscina piastrellata, vuota; e via discorrendo.
    Pigramente, e non senza un lamento indecoroso, si costrinse ad alzare lo sguardo quando sentì il muso dell'animale bussargli su una gamba; l'occhiata che rivolse a Pentacolo non fu delle più cordiali, ma l'altro doveva esserci abituato perché tornò alla ribalta, speranzoso di poter mantenere quelle attenzioni il più possibile, ora che era riuscito ad attirarle. Hans, che credeva ancora fosse tutto nella sua testa, allargò il braccio come per scacciarlo.
    «Cinesi.»
    Allucinazioni uditive facevano parte del pacchetto 'derealizzazione' - sebbene non ne fosse pienamente cosciente - ma anche di quello 'trip fantasmagorico', per questo quella parola al massimo riuscì nell'intento di fargli allungare appena appena il collo, mosso più dalla curiosità di vedere se Taichi fosse davvero nei paraggi, che altro. Non si alzò, se si trattava sul serio del meteorologo cinese, l'avrebbe trovato esattamente nello stesso posto che aveva occupato chissà quanto tempo prima.
    Svariati minuti – di silenzio e solitudine – dopo, però, il Belby aveva già dimenticato la possibilità che ci fosse qualcun altro lì con lui: si era lentamente sdraiato sui detriti, osservando il cielo scuro e pieno zeppo di costellazioni, tante quante non ne vedeva da anni. Il cielo sopra Hogwarts era raramente sereno al punto da permettere la visione di tutte quelle stelle – e Hans, sebbene avesse una profonda (e segreta) passione per l'astronomia, molto raramente metteva piede in un'aula di sua spontanea volontà. Tutto ciò che ricordava di cieli stellati e nomi di costellazioni, risaliva alla sua infanzia a Malmö e lo ricollegava a sua mamma: forse per questo non rendeva mai palese quell'hobby, neppure a se stesso. Ma un cielo così bello – e una pace così totale, Hans non li ricordava da anni. Indicò distrattamente un punto alla sua destra, informando la capra-cane del nome di quella stella; una lezione di astronomia ad un animale mutaforma non era poi così strana, per lui. E Pentacolo riusciva a capire ogni parola: non era raro, infatti, che gli rispondesse anche.
    Poi la sentì di nuovo, quella voce che minuti (ore?) prima aveva creduto frutto della sua immaginazione. «Ti prego, non mi uccidere il mood dai.» Non aveva più dubbi: era stato Pentacolo a parlare. Perciò gli aveva rifilato un'occhiataccia secca e l'aveva ammonito – era molto rude da parte del cane interrompere la sua spiegazione. E, prorpio perché lo stava guardando, realizzò l'istante dopo che non era stato il mutaforma a parlare: perché la voce era arrivata di nuovo, e Pentacolo era scattato in direzione dell'intruso con la stessa velocità con cui Hans aveva voltato la testa (quindi poca).
    Gli occhi (per niente) vigili andarono ad ispezionare il circondario, ma non riuscì a vedere nulla; solo la voce, sempre più insistente e minacciosa – almeno nelle parole. I toni arrivavano alle orecchie del Belby ovattati, distanti, ed era difficile capire da dove provenisse quell'eco: poteva essere letteralmente lì accanto a lui così come infondo alla strada. Allungò una mano per afferrare la prima... cosa disponibile (possibilmente la capra) per lanciarla il più lontano possibile e creare una distrazione: non per paura dello sconosciuto in avvicinamento, ma per la poca voglia che aveva di affrontare qualcuno in quel momento. Magari distraendolo con dei rumori l'avrebbe spinto ad allontanarsi.
    «Vai a vedere chi è.» Spinse leggermente la capra-cane, invitandola ad andare in avanscoperta, ma Pentacolo si oppose puntando le zampe nel terreno dissestato rivolgendogli l'espressione più imperturbabile che riuscisse a donare ai lineamenti canini . «Dai, io ti aspetto qui.» Anche perché, dove pensava che se ne sarebbe andato, da solo? Così come era arrivato in quel posto (all'improvviso, senza spiegazione e senza volerlo), Hans era certo che prima o poi lo avrebbe anche lasciato (sempre all'improvviso, sempre senza spiegazioni e sempre senza volerlo).
    E, un po' all'espressione poco divertita del cane, un po' alla voce in avvicinamento, rispose: «voglio stare in good time». Maledetta Bri e le sue stupide canzoni sceme.
    13.01.2004 | ivorbone, vega
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    then most of my life isn't real»
    chaotic neautral | too high to care
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    ha senso? no.
    potevo rispondere a una delle mille altre role che no? sì.
    ma è andata così. überraschung, zia.
     
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    Quella mossa eroica di andare in avanscoperta tentando di trovare un senso a tutto quello ed eventualmente riuscire a salvare l’intero mondo?
    Totalmente sbagliata.
    Era abituato, nel mondo reale, a non prendere decisioni affrettate, non lanciarsi in gesti di eroismo che a) potevano rovinargli la barba b) potevano rivelarsi fatali; di solito si perdeva nel groviglio dei suoi pensieri e dopo tanti tentennamenti finiva per non fare nessun passo, preferendo lasciare intatto lo status quo.
    In quel caso però aveva deciso di fare l’eroe. Guarda tu che testa di cazzo, non muove un passo quando è in un ambiente familiare e rassicurante, ma quando si ritrova nel bel mezzo dell’apocalisse, prende e s’incammina chissà dove – a-a-a g-g-enius cit.
    Comunque, si rese conto dopo pochissimi passi che tutto quello era sbagliato (l’andare in avanscoperta e la scelta pessima di comunicare con l’eventuale nemico attraverso una canzone di dubbio gusto), come suggerivano le gambe tremanti e il senso di morte che iniziava a pervaderlo.
    Il Cavendish non era mai stato – como se dice – troppo attaccato alla vita, ma non voleva neanche morire?! Era un sentimento strano quello che provava nei confronti della sua esistenza: sebbene sapesse di non poter dare un importante contributo a… beh, a niente, sentiva comunque di non voler lasciare le cose belle che la vita gli aveva offerto, o quelle che aveva ancora da offrirgli. Oppure, quell’idea iniziò a farsi largo sempre più velocemente e minacciosamente tra i suoi pensieri, era già morto e quello era il Paradiso.
    Si guardò intorno mentre si faceva spazio tra le macerie e scostava con la punta del piede quello che poteva essere stata la vecchia cornice di un quadro, o l’angolo di un comodino, la porta di un armadio, o qualsiasi altro oggetto domestico che si era frantumato.
    Sì beh era un po’ deludente come Paradiso. Sin da piccolo l’aveva sempre immaginato come il posto perfetto, pieno di divertimento, di relax, di cose da poter fare e nessuna cosa da dover fare, dove avrebbe avuto una casa perfetta fatta su misura per lui, con un sacco di poster di Elwyn, i prodotti per la barba migliori del mondo, i vestiti sempre stirati e piegati, cose così. E gliel’avevano detto tutti che era così: mamma, papà, i fratelli, i nonni, persino Dante; persone che ne capivano, mica pizza e fichi.
    Quindi forse quello non era neanche il Paradiso, e forse era l’Inferno.
    Arricciò il naso e storse la bocca al pensiero. Possibile che in vita non fosse stato capace neanche di fare il minimo indispensabile per raggiungere la parte divertente dell’aldilà? Ma vedi tu se doveva sentirsi un fallito anche da morto. Va bene che non avesse fatto granché, ma non credeva neanche di aver fatto cose così brutte da doversi meritare la dannazione eterna.
    Deglutì rumorosamente e si passò una mano sul viso per asciugarsi la fronte dal sudore.
    Ma vabbè dai magari si stava solo facendo prendere dal panico e quello non era l’inferno. Ma se non se era né l’inferno, né il paradiso allora era… buon Merlino, se quello fosse stato davvero il Purgatorio allora avrebbe dovuto dimostrare di meritare davvero il paradiso, avrebbe dovuto fare qualcosa – si fermò nel bel mezzo della strada, cioè del percorso che si era creato, e si piegò in avanti, poggiando le mani sulle ginocchia e respirando profondamente –, ma cosa? e come? e…
    Le preoccupazioni da morto di Dominic furono interrotte solo da un rumore fin troppo vicino che lo fece sobbalzare e gli ricordò che forse non era ancora morto, e che fin quando c’era un po’ di vita al suo interno valeva la pena salvaguardarla (e salvaguardarsi), no?
    Girò su sé stesso più volte, con le braccia tese davanti al busto per difendersi da eventuali attacchi improvvisi, ma per fortuna o per sfortuna nessuno attaccò. Era chiaro che se c’era qualcuno, lo stava guardando da dietro qualche angolino in attesa di trovarlo impreparato; quindi, toccava a lui fare la prima mossa.
    «nnnon ti conviene avvicinarti» sempre per quella cosa che doveva fingersi armato e pericoloso.
    «sono armato e pericoloso»
    ecco.
    Ma a giudicare dal tono di voce, le uniche cose che poteva usare come arma erano incertezza e paura; con quei balbettii insicuri, nessuno avrebbe mai potuto credere che potesse essere una vera minaccia, quindi se proprio ci teneva a sopravvivere doveva uscire dalla comfort zone e fare una cosa che non era troppo nelle sue corde ma che aveva imparato a usare a suo favore ai tempi in cui giocava a Quidditch: attaccare per primo.
    Respirò profondamente e deglutì, anche se la sua bocca aveva raggiunto l’aridità del deserto del Sahara e… «AH! H-» fece un balzo all’indietro e allungò una mano davanti a sé per tenere lontano l’animale «asfjnahksbf» era chiaro cosa volesse dire (sì?), ma lo disse a denti stretti e quindi poteva sembrare che non avesse detto niente di sensato – e invece… era proprio così.
    «shush!» era così che si diceva? «ferm!» forse così «sits!» tanto valeva provare anche quel comando «buoono» suggerì ancora al cane che, bisogna ammetterlo, in realtà non stava facendo proprio nulla e anzi lo guardava con la testa inclinata e l’espressione interrogativa – anche lui pensava fosse un po’ fuori di testa. In realtà Dominic non aveva paura dei cani, gli piacevano e gli piaceva giocarci insieme; certo, era più un tipo da gatto e se avesse dovuto scegliere avrebbe sicuramente scelto di tenersi la sua Chandler, però i cani non gli dispiacevano. Ma in quel contesto? In infernatorio/purganferno? O peggio, durante l’apocalisse? Le basi dai, era sicuramente un cane zombie! Si tenne a debita distanza e si guardò intorno in cerca di:
    - qualcosa con cui pulire la sua barba
    - un’arma
    - il cinese che pensava essere il suo nemico
    - eventuali altri cani
    - qualcosa con cui pulire la sua barba
    - altri superstiti
    - qualcosa con cui pulire la sua barba, soprattutto
    «ehy tu» posò solo fugacemente gli occhi su una figura minuta e incappucciata seduta tra le macerie, per tornare a guardare la belva subito dopo «sei vivo?» non l’aveva riconosciuto quindi non poteva sapere che la domanda non fosse per niente scontata «sei cinese? Se non sei cinese scappa che potrebbe mangiarti il cervello» e seppure le supposizioni sulla natura di quell’animale fossero state giuste, possiamo certamente dire che la povera bestia zombie in quel caso sarebbe morta di fame perché un cervello, Hans e Dominic, non ce l’avevano.
    Però guarda che cuore, si preoccupa per te bro aw
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    vorrei dare la colpa alla sveglia alle 6 di stamattina, ma in realtà mi conosci zia . però scusa lo stesso, tvb
     
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    Ma dai.
    Maccheppalle.
    Nemmeno nell'apocalisse potevano lasciarlo in pace un (1) secondo? Ad Hans non piace questo elemento. Uno crede, spera!, che almeno alla fine del mondo, circondato da macerie e detriti e niente di più, possa finalmente stare solo e invece niente.
    Già la capra-cane in sé era compagnia non gradita (la cui presenza era ancora immotivata agli occhi del Belby) (e probabilmente non si sarebbe mai spiegato il perché) ma avere a che fare persino con delle pErSoNE era un po': too much.
    Dalla sua posizione privilegiata, scomodo su quel cumulo di calcinacci e, probabilmente, vite spezzate, Hans aveva lanciato un'occhiata al cane per assicurarsi che facesse il suo dovere e allontanasse l'estraneo ma Pentacolo, inutile come sempre, era stato capace solo di rimanere a fissarlo, il muso leggermente piegato da un lato e l'espressione che, sebbene da lì Hans non potesse vederla, ci scommetteva tutte le provviste caloriche di Bri, era un enorme punto interrogativo.
    Alla faccia del cane da guardia. Sospirò, resistendo all'impulso di roteare gli occhi verso una nuova dimensione nel sentire l'estraneo ammonire l'animale come un domatore da quattro soldi, e tornò a farsi gli affari suoi: se quei due avevano scelto di socializzare, a modo loro, non era di certo un problema del pirocineta.
    Lui, a ben vedere, ne aveva altri: primo fra tutti, non aveva ancora capito dove fosse -- né come ci fosse arrivato. E quello, a pensarci bene, era davvero un bel problema: in un primo momento l'aveva accantonato da una parte, relegandolo a mere circostanze e nulla più, qualcosa che prima o poi avrebbe trovato un senso, nella sua testa -- per quanto le cose nella sua testa potessero aver senso. Non si era preoccupato troppo di essere finito, senza un valido motivo, sul set di “Io sono Legenda” perché di sogni strani, il Belby, ne faceva a bizzeffe e molti risultavano cento volte più realistici di quello che stava vivendo in quel momento. Alla fine sì, lo aveva giudicato un sogno e si era messo ad attendere, pazientemente, che uno dei bimbi sperduti lo svegliasse, come al solito, costringendolo suo malgrado a vivere un'altra giornata grigia e dai contorni ovattati, che lo avrebbe portato inevitabilmente a sentire la mancanza di quel posto abbandonato e dove ogni pensiero, anche il più silenzioso, faceva un eco incredibile.
    Non si era preoccupato neppure di dare risposte ai come o ai perché, dal momento che per quelli le risposte potevano essere davvero le più svariate, pensando invece a come sbarazzarsi del cane o, in un brevissimo barlume di lucidità, come coprire i piedi prima che i tagli potessero infettarsi; ma in quello stesso istante, osservando delle ferite che non ricordava di essersi procurato, realizzò che non facevano assolutamente male: aveva male ovunque – testa, ossa, schiena, gambe, ovunque – ma i piedi, gli unici a riportare evidenti escoriazioni, no.
    Dunque, in breve, anche quel problema era stato soppiantato da altro.
    Nello specifico: l'apparizione di qualcuno in quello che Hans aveva sperato, appunto, fosse solo un sogno. Chiarifichiamo: l'apparizione di qualcuno di sconosciuto nel suo sogno. Non era raro che figure familiari si affacciassero per ricordargli tutte le cose sbagliate che avesse combinato nella vita (poche, ma significative.) ma.. una persona mai vista prima era raro. Non impossibile, non dopo l'autunno precedente, ma succedeva così sporadicamente da far scattare immediatamente un campanello d'allarme da qualche parte nella testa del Belby -- una parte che ogni tanto dimenticava esistesse.
    Forse, realizzò in maniera distratta, anche Pentacolo era stato preso alla sprovvista e per questo aveva reagito in quella maniera (ovvero: non reagendo), come volevasi dimostrare insomma: la capra, nel suo immaginario, era sempre più o meno inutile, ma se quello non era un davvero sogno allora cos'era quella dannata capra era inutile sul serio. Okay la sorpresa e il momento di confusione nel vedere qualcuno parlarti in una lingua meno comprensibile del farfallino, ma non fare proprio niente sembrava un po' eccessivo anche ad Hans. (Da che pulpito.)
    E infatti.
    «ehy tu» ma chi, lui? «sei vivo?» che domanda difficile.
    Intendeva in quel momento preciso o in generale? Vabbè, la risposta in entrambi i casi sarebbe stata solo una, ma anziché parlare, Hans ruotò appena il viso in direzione di cane e umano, rifilando ad entrambi uno sguardo annoiato -- dietro il quale, però, si celava un impercettibile scintilla di lucidità in grado di rendere l'azzurro dei suoi occhi un po' meno spento.
    Non dico che fosse vigile ma, almeno, iniziava a rendersi conto che qualcosa non andava. Che quel posto era strano e non strano come trovarsi in una casa diroccata nel bel mezzo di una città fantasma con mostri o persone di cui a malapena ricordi il nome. Strano nel senso di: strano.
    Fu un pensiero sufficientemente confuso da riuscire persino a fargli arricciare il naso, assorto nelle sue riflessioni: forse era un sogno o forse no. Il fatto che non riuscisse più a distinguere le due cose, sogno e realtà, la diceva lunga sulla sua vita.
    Tornò a guardare lo sconosciuto solo rendendosi conto del silenzio sceso tra loro -- il tipo di silenzio che in genere segue ad una domanda. Silenzio che, in genere, rimaneva in attesa di una risposta da parte di Hans.
    Silenzio che, in genere, Hans non rompeva.
    Ma non quella volta.
    Fece scoccare la lingua contro il palato, senza però sciogliere l'abbraccio esile dalle ginocchia altrettanto magroline e, guardando fisso di fronte a sé, annunciò ad alta voce: «non mi pare Hogwarts. Forse è Hogsmeade, difficile riconoscere le vie quando...» si guardò intorno: non esistevano più. Per quanto ne poteva sapere, quella era ciò che rimaneva di Londra e lui non l'avrebbe comunque capito.
    Non aveva nemmeno la certezza che l'altro fosse un mago o che sapesse cosa fossero /Hogwarts/ ed /Hogsmeade/ ma, per lo special, quello era davvero un problema effimero rispetto al trovarsi nel bel mezzo dell'apocalisse, quindi anche sticazzi.
    Non c'era una singola parete intatta che potesse suggerirgli dove fossero, e da dove se ne stava seduto, con il mento poggiato sulle ginocchia, non riusciva neppure a leggere un cartello o i resti di qualche insegna. «Ci hanno bombardati?» Portò lo sguardo sul maggiore, un'espressione interrogativa ad ombrarne i lineamenti. «C'è stata un'invasione aliena?»
    Poi un silenzio di qualche secondo, rotto da un «non credo siano stati i cinesi» sperava per Taichi, altrimenti avrebbe avuto un sacco di spiegazioni da dare. Trascorsero altri secondi pregni di silenzio e confusione da ambo le parti, quasi certamente, prima che il cervello di Hans registrasse finalmente la domanda posta poco prima dallo sconosciuto.
    «È viziato. È abituato al cibo di Bri -» cosa?Cosa. «e credo che i cervelli gli rimangano un po' indigesti.» Forse, d'altronde non aveva mai beccato la capra a mangiarne uno. «Forse, d'altronde non l'ho mai beccato a mangiarne uno.» Appunto.
    Ancora uno sguardo rivolto allo sconosciuto, che metteva via via a fuoco (non in senso letterale). Alla fine, aggrottando le sopracciglia, chiese: «perché hai quella faccia?» e non si stava domandando il perché della natura confusa di Dom, sarebbero stati lì tutto il giorno per trovare una risposta, altrimenti; ma sentiva, sotto sotto, che non fosse poi così sconosciuto e anche se l'aspetto non gli suggeriva alcun nome c'era comunque qualcosa però che lo infastidiva, che lo disturbava. Come quando cerchi di ricordare una parola o i titolo di un film e senti di averlo sulla punta della lingua ma non lo ricordi. La domanda era uscita spontanea, come se fosse quello, il suo volto, il problema.
    Ma non indugiò ancora, e dopo averlo osservato con attenzione per un altro minuto, spostò lo sguardo e lo informò che «non ho visto cinesi in giro.» Cioè non aveva visto nessuno in giro, ma okay. «Perché sei così fissato con i cinesi?»
    Ed erano forse sessanta parole in più di quante non ne avesse dette nelle ultime settimane. Wow. È proprio vero che cose come (le malattie infettive magiche) l'apocalisse ti cambiano.
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    Solitamente, le emozioni che Dominic provava erano difficili da identificare, da nominare, o semplicemente da quantificare; partivano quasi sempre da un semplice stato confusionario che poi annetteva a sé timore, ansia, insicurezza, e così via aggregando tutta una serie di altre emozioni, sensazioni e pensieri che man mano si ingigantivano, lo sovrastavano e gli regalavano la piacevolissima percezione di essere rimasto senza ossigeno nei polmoni. Per essere più chiari, quello che gli succedeva solitamente quando si trovava in quelle situazioni era diviso in diverse fasi:
    1) veniva assalito da un’improvvisa impossibilità di muoversi
    2) veniva rincorso da quella valanga di emozioni
    3) restava inerme di fronte a quella valanga di emozioni
    4) finiva travolto da quella valanga di emozioni
    In poche parole, quindi, era tutto una merda.
    Ed era sempre stato così, era sempre stata una merda epica. Non ricordava, il Cavendish, un momento in cui aveva saputo gestire le sue emozioni in maniera sana e adulta come converrebbe a un… a un Cavendish, prima di tutto, ma anche a un ragazzo della sua età, a una persona veramente funzionale, a tutte quelle cose che lui non era mai stato e probabilmente non sarebbe mai stato. E nonostante tutto, ci provava, continuava a provarci, e continuava ad annaspare e ricercare l’aria quando sentiva di non riuscire più a respirare.
    Anche in quel caso, dal momento in cui aveva aperto gli occhi e aveva scoperto di non trovarsi nel suo confortevole letto o, nella peggiore delle ipotesi, appoggiato a un lettino dell’infermeria durante un tranquillo e noioso turno di notte, ci aveva davvero provato, tentando di tenersi in movimento, di cercare indizi su cosa fosse accaduto, di cercare un colpevole o una presenza rassicurante. Tutto questo in modo da non avere né il tempo né la possibilità di lasciarsi sopraffare dalla famosa valanga – e di morire nel mare formato dalle sue stesse lacrime, ma questa era un’ipotesi sempre aperta.
    Eppure, il suo tentativo andò in fumo nel momento in cui l’unica altra presenza umana che fino a quel momento aveva incontrato alzò la testa, distraendolo da tutte le macerie, dall’apocalisse, dal cane-zombie, dal possibile attacco nucleare da parte di qualche cinese, e persino dalla barba sporca e rovinata.
    Dominic aveva scoperto di Heathcliff, di Dakota, di Jason, di James, di Wesley, della sua famiglia, da almeno un annetto ormai, ma dire che l’avesse superato era un gran dire; qualche volta pensava di averlo accettato, il più delle volte fingeva che nulla di tutto quello fosse vero e decideva deliberatamente di dimenticare di possedere quell’informazione nel cervello, ma non aveva ancora capito (tutto, in realtà) come affrontare quella questione.
    E infatti non la affrontava. Stop. Non con Dakota, ovviamente!, al quale non aveva detto nulla per ovvie ragioni, non con Jason che, dai non lo conosceva neanche mica poteva presentarsi così a casa sua “sono tuo figlio”, né con gli attuali Joey e Hans, ai quali invece aveva sempre voluto dire qualcosa, rivolgergli un ciao, imparare a conoscerli, capire chi fossero in quel presente, ma ai quali non aveva praticamente mai rivolto la parola perché carente di coraggio.
    E ora, qualsiasi cosa fosse quella cosa che stava vivendo, qualsiasi fosse la situazione in cui si trovava, la stava condividendo proprio suo fratello Wesley, cioè non-suo-fratello, cioè Hans, insomma avete capito; se quella era l’apocalisse, allora erano arrivati alla fine del mondo insieme, se quello era l’inferno, allora ci erano finiti insieme, e stessa cosa per il paradiso. E se quello era solo un sogno, invece, un prodotto del suo inconscio, allora Hans doveva essere lì per qualche motivo che Dominic non riusciva a capire, ma che per qualche ragione lo incuriosiva e lo confortava, ma allo stesso tempo lo spaventava – e tutto quel cumulo di pensieri ed emozioni differenti lo travolsero, ça va sans dire. Quindi, Dominic rimase immobile e in silenzio, una mano allungata per tenere ancora lontano la minaccia del cane, mentre Hans parlava.
    E parlava.
    E parlava.
    Ma quanto parlava?
    E soprattutto, faceva un sacco di domande. Ma proprio tante.
    Questo doveva averlo ereditato senza dubbio da lui – jokes on you, Domenico, non è neanche tuo fratello biologico.
    Dominic boccheggiò prima di tutto, poi si strinse leggermente nelle spalle, e infine scosse la testa. «io… io non lo so…» mormorò con poca convinzione, ma paradossalmente quella di non sapere nulla era l’unica certezza che aveva. Non sapeva se quella fosse Hogwarts o Hogsmeade, se fossero stati bombardati o invasi dagli alieni, se quel cane mangiasse davvero i cervelli, perché avesse quella faccia, perché fosse così fissato con i cinesi. Non era proprio un buon inizio come fratello maggiore non riuscire a rispondere a nemmeno una domanda, nemmeno la più semplice di tutte.
    Con uno scossone delle spalle e un profondo sospiro, però, cercò di trovare una soluzione a tutti quegli interrogativi che, tra parentesi, stavano vessando anche lui – uno, in particolare. «cos’ha che non va la mia faccia?» chiese con una certa urgenza, tastandosi il viso più volte con le mani «è la barba, vero? è completamente rovinata?» con l’ombra di disperazione nella voce, alla fine, si lasciò andare a un sospiro triste e sconsolato «puoi dirmelo non preoccuparti, sii sincero, posso accettarlo» spoiler: non poteva accettarlo, ma una piccola bugia bianca non faceva male a nessuno. Era per proteggere Hans, per non dargli inutili preoccupazioni. Stava assolvendo ora al suo compito di fratello maggiore, mostrandosi forte e senza paura come i suoi fratelli maggiori – gli altri Cavendish – erano sempre apparsi ai suoi occhi.
    Ma una mano era ancora bloccata sul suo viso e ne tastava i lineamenti un po’ preoccupato, sperando che non fosse qualcosa di troppo grave e che al massimo si trattasse del naso rotto così che quando sarebbe tornato magari avrebbe potuto sfoggiare il fantomatico fascino da cattivo ragazzo per avere più possibilità con Nice le ragazze. Semmai fosse tornato. «non so cos’è successo» si guardò intorno solo velocemente, per poi deglutire in modo vistoso davanti alla sconfinata distruzione di quel luogo «mi sono svegliato più in là e non c’era nessuno, e ho pensato che fossero stati i cinesi perché-» “ho qualche problema” “ho molti problemi” “ho innumerevoli problemi”, aveva una vasta possibilità di scelta «-non lo so, con tutta la storia che mangiano i gatti e i cani, ora anche i pipistrelli, e allora il virus, e poi i comunisti, i democratici, i diritti di Google, e…» abbassò lo sguardo sul cane, ancora fermo davanti a lui, la lingua pendente dalle fauci aperte e gli occhi fissi sulla sua figura «e… e senti ma è tuo? Puoi dirgli di smetterla di fissarmi? Mi mette in soggezione» ma non attese risposta e fece una cosa che poche volte aveva avuto il coraggio di fare nella sua vita: prese l’iniziativa, e quindi, per evitare che il cane continuasse a fissarlo, semplicemente lo sorpassò.
    Camminò in direzione del minore molto lentamente, approfittando per guardarsi ancora un poco intorno e per aguzzare lo sguardo alla ricerca di altri superstiti o possibili minacce, salvo poi decidere di fare compagnia al ragazzino e sedersi sulle macerie, a solo qualche metro di distanza da Hans. «perché tu sei rimasto seduto qui, comunque?» posò lo sguardo sullo special e si fece più preoccupato, ma cercò di mantenere un tono di voce quanto più pacato possibile «stai bene? Sei ferito?» e last but not least: «puoi muoverti?» dimostrando così, come temeva, di non conoscere affatto quello che in un’altra vita era stato suo fratello perché chi avrebbe mai chiesto una cosa del genere ad Hans Belby aka colui-che-anche-se-poteva-muoversi-avrebbe-preferito-non-farlo?!
    23 y.o.
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    ho dato per scontato che fosse davvero il delirio del coma da virus? sì certo, se non era così anche nella tua testa scusa moltissimo .
     
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    «io… io non lo so…» Con una calma quasi esasperante, Hans fece scivolare di nuovo lo sguardo sul nuovo arrivato, studiandone quei tratti dall'aria vagamente familiare per qualche istante, prima di serrare le labbra in una linea sottile, sul viso un'espressione per niente scioccata, o turbata, dall'ignoranza dell'altro in merito alla questione.
    «lascia perdere.» tanto nessuno avrebbe saputo dire con certezza dove fossero o cosa fosse successo: era inutile tentare di dare una spiegazione all'ignoto. Due parole che, in qualche modo, rispondevano anche alla domanda sulla faccia: era difficile spiegare ciò che provava, quella sensazione di familiarità ma allo stesso tempo di osservare i tratti di uno sconosciuto e non riconoscerci nulla. «hai della cenere sulla barba» fu abbastanza cortese da informarlo di quello, per lo meno, prima di distogliere l'attenzione e riportarla sul paesaggio intorno a loro.
    Desolazione e macerie, ecco l'unica cosa che vedeva estendersi verso l'orizzonte, ovunque guardasse.
    Più cercava di pensare a come fosse finito lì, meno spiegazioni lucide sembravano accorrere in suo aiuto.
    Non aveva del tutto scartato l'ipotesi del trip dovuto alla droga, ma condividere addirittura un'esperienza simile gli pareva un po' estremo? Di certo, una novità.
    Magari avevano davvero bevuto dell'Utopia a loro insaputa. Ponderò se domandare o meno la cosa allo sconosciuto, ma poi lasciò perdere.
    Tornò al suo confortevole silenzio.
    Beh, era confortevole per lui, quanto meno.
    «e… e senti ma è tuo? Puoi dirgli di smetterla di fissarmi? Mi mette in soggezione» L'altro non attese una risposta, prima di superare Pentacolo (che... rude, ok, ma lo accettiamo), e comunque la risposta sarebbe stata un secco «no»
    No, non era il suo: Pentacolo non apparteneva a nessuno sebbene l'avessero ufficiosamente adottato i lost kids; e no, non gli avrebbe ordinato di smetterla di fissare lo sconosciuto, perché ben sapeva che non avrebbe mai ubbidito.
    Trattene a malapena un sospiro pesante quando lo vide avvicinarsi e sedersi accanto a lui, stringendo un po' di più le braccia intorno alle ginocchia, nella speranza che i suoi atteggiamenti tutt'altro che espansivi dissuadessero l'uomo dall'attaccare bottone.
    E invece.
    «perché tu sei rimasto seduto qui, comunque?»
    «stai bene?»
    «sei ferito?»
    «puoi muoverti?»
    Dio, ma quante domande faceva?
    Le iridi chiare, quasi trasparenti, si posarono su di lui e lo scrutarono ancora una volta, più a lungo e più in profondità. Per qualche istante, altro silenzio passò tra loro, un silenzio troppo silenzioso; non sembravano esserci rumori che non provenissero dai loro respiri o da quello affannato di Pentacolo.
    Creepy as fuck.
    «Ricordi dov'eri, prima di svegliarti “più in la”?» Se aveva appena deciso di rispondere alle domande con altre domande? Beh, ma ovvio: da quando in qua Hans Belby rispondeva a dei quesiti direttamente rivolti a lui? Pff.
    Poi erano domande stupide, con risposte altrettanto stupide:
    - era rimasto seduto lì perché non aveva nessun altro posto dove andare;
    - stava bene per quanto potesse stare bene uno in pigiama e a piedi scalzi, seduto su un cumulo di detriti;
    - di ferite ne aveva molte, nessuna visibile;
    - , poteva muoversi, ma a che pro? E soprattutto: sai che sbattimento.
    Quel posto, come tanti altri posti che gli capitava di visitare nei suoi sogni, aveva un ché di familiare ma non riusciva a capire perché; era un po' Hogwarts, un po' Londra, un po' la Svezia e un po' un posto che non aveva mai visto, nemmeno nei sogni. Chissà lui cosa vedeva.
    O perché fossero proprio lì.
    Non vedeva l'ora di svegliarsi e lasciarselo alle spalle.
    «Dovresti davvero cercare uno specchio, Dominic.» ma non lo stava più guardando, occhi socchiusi persi oltre la linea dell'orizzonte. L'aveva riconosciuto, alla fine, eppure c'era lo stesso qualcosa di diverso nei suoi tratti, rispetto all'infermiere che era solito vedere aggirarsi per i corridoi della scuola.
    (E che, se fosse stato un po' più vigile, avrebbe notato osservarlo con un certo interesse nell'ultimo anno. Ma quelle attenzioni, ad Hans, erano sfuggite.)
    Si domandò, distrattamente, se anche il maggiore si sarebbe notato diverso, o se era solo la mente del Belby a giocargli brutti scherzi. (Cosa molto più che possibile).
    Con uno sbuffo, poggiò il mento sulle braccia ancora incrociate. «Se pensi ci sia una via d'uscita da cercare -» e fece un gesto contenuto (e pigro) con la mano per indicargli che poteva benissimo andarsela a cercare, lui non l'avrebbe fermato; avrebbe atteso lì la fine del sogno, in sacrosanta pace.
    E silenzio.
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    «lascia perdere.» registrò la risposta come reazione logica e plausibile a quello che stavano vivendo, ma comunque stese le labbra un sorrisino amaro e rammaricato. Sapeva che, razionalmente, non fosse colpa sua, che non poteva fare niente in quella situazione, che pur volendo dare una risposta a tutte le domande che lo special gli aveva posto, non c’erano risposte da poter dare; e sapeva anche che, nonostante la parentela in comune in un’altra linea temporale, i due attualmente non avessero nulla in comune, che non si conoscessero affatto anzi, che Hans probabilmente non sapeva minimamente della sua esistenza, e che lui non avesse alcuna responsabilità verso il minore – eppure, Dominic non poté non sentirsi in colpa per non essere riuscito a rendersi utile. Non voleva strafare, non puntava a trovare improvvisamente una via di fuga da lì e portarli fuori da quella situazione – di qualsiasi natura fosse la situazione in cui erano capitati – e di nuovo alla vita di tutti i giorni al castello, non puntava a un gesto eroico, ma almeno a uno utile sì. Era quello che facevano i fratelli maggiori, no? si rendevano utili, facevano gesti coraggiosi per salvare i più piccoli, li rassicuravano, avevano (quasi) sempre una risposta a tutto – e invece lui era riuscito solo a…
    …schiaffeggiarsi. Non letteralmente, però un po’ anche sì visto che aveva preso a darsi piccoli colpetti con il palmo della mano sulle guance e sul mento con fare frenetico e preoccupato. «cenere? la cenere no eh, non va via, finirà che dovrò tagliare tutto» alla fine va bene preoccuparsi del fratello di un’altra epoca ritrovato nel bel mezzo dell’apocalisse, ma le sue priorità restavano chiare: la barba prima di tutto. Perché poteva anche accettare, più o meno, di ritrovarsi alla fine dei suoi giorni, probabilmente aveva commesso qualche peccato imperdonabile e doveva essere punito, ma addirittura morire brutto gli sembrava un contrappasso un tantino esagerato. Si voltò verso il minore e lo guardò con fare serio ma comunque un po’ incerto «puoi… potresti dirmi se si è tolta?» la voce titubante riusciva a mascherare solo in parte la crisi di nervi che stava per scatenarsi nell’ex corvonero – sebbene avesse appena finito di dire che sì certo, lui poteva accettare qualsiasi aggiornamento veritiero sulle condizioni della sua barba «per…favore?!» e stese le labbra in un sorriso tirato e per niente convincente.
    È vero che Dominic ci teneva molto alla cura della sua barba, e di questo non ne aveva mai fatto mistero (per qualche motivo ignoto ai più, anzi, non se ne vergognava neanche un po’), e sicuramente una grande percentuale del suo cervello ora era impegnata a processare quella nuova e terribile informazione; ma se fosse stata solo quella la sua preoccupazione probabilmente si sarebbe messo a urlare contro il cielo, a correre avanti e indietro alla ricerca delle pareti della barriera sotto cui era stato chiuso per condurre un esperimento, poi si sarebbe raggomitolato a terra a piangere – insomma, tutta una serie di reazioni che aveva realisticamente vagliato di eseguire, invece aveva sorpassato il cane e si era seduto accanto allo special. C’era dell’altro.
    Lasciò le dita della mano continuare a tastare la mascella in cerca di preoccupanti croste sui peli biondi, ma con fare più distratto stavolta perché distolse lo sguardo dal Belby e lo spostò sulla desolazione che li circondava «io…» alzò le spalle lentamente, per poi lasciarle ricadere alla posizione iniziale con un pesante sospiro stanco e scoraggiato; si era preso un attimo di tempo per pensare, per cercare di ricordare qualcosa, per provare a mettere insieme i pezzi, ma per quanto la cosa lo facesse sentire stupido e inutile doveva ammettere che ancora una volta non aveva una risposta alla domanda di Hans «non lo so» mormorò, scuotendo la testa «credo che fossi a scuola, forse stavo lavorando in infermeria, non ricordo se fosse notte o giorno o… quale… giorno e-» si bloccò, allargò le braccia e sospirò nuovamente concludendo così come aveva iniziato: «-mi sono svegliato più in là».
    Era pronto a rivolgergli la stessa domanda, a indagare di più sulla questione e possibilmente trovare una spiegazione logica sul perché fossero finiti entrambi lì – forse, però, non voleva davvero saperlo, e forse aveva paura della risposta che avrebbe potuto ricevere da Hans, perché il motivo per cui lo special non sembrava così tanto scosso in quella situazione – o in qualsiasi altra situazione – era noto anche all’infermiere. Cioè, non davvero noto, era un sospetto che aveva maturato dopo mesi e mesi passati a sorvegliare (spiare) il piropirlacineta (era o non era un uomo di scienza e medicina dopotutto, no?); e forse quella era la cosa che lo preoccupava più di tutto il resto. Posò lo sguardo azzurro sul minore e poi aprì la bocca per dire qualcosa, ma alla fine ci ripensò e lasciò la parola all’altro. «Dovresti davvero cercare uno specchio, Dominic.» sì ok tralasciando la tragica mancanza dello specchio e il fatto che Hans insistesse per sottolineare che qualcosa non andava nel viso di Dominic, l’ex corvonero si prese un momento per restare in silenzio e piegare le labbra in un sorriso appena accennato: l’aveva chiamato per nome, allora significava che lo conosceva, che almeno sapeva della sua esistenza – certo sarebbe stato strano il contrario visto che lavorava nella scuola frequentata da Hans, ma comunque erano cose che facevano sempre piacere, e soprattutto non era mai stato così convinto che i suoi fratelli del futuro passato avessero davvero coscienza dell’esistenza di tante altre persone, visto di chi si trattava (ciao joey ciao hans, in fondo vi vuole bene siete solo un po’ strani).
    Alla fine sbuffò leggermente e fece un vago gesto con la mano «sì sì ho capito, il mio viso, beh comunque non lo vedo uno specchio in giro» in realtà se si fosse messo a cercare con ogni probabilità avrebbe trovato facilmente un frammento di vetro, ma comunque rimase seduto accanto al minore «e comunque non è carino, sai, farmi notare così tante volte che sono brutto» aggiunse con tono crucciato, ma anche con una punta di fierezza perché oh, alla fine era anche riuscito nella ramanzina da fratello maggiore, poteva sbarrarlo dalla sua to-do list!!!
    «non sono sicuro che ci sia davvero un’uscita, forse potremmo cercare da quella parte» tra le tante cose a cui non sapeva dare una risposta c’era sicuramente anche quel piccolo particolare; si guardò intorno nuovamente, ma il paesaggio ovviamente non era cambiato dall’ultima volta che l’aveva studiato con lo sguardo – cinque minuti prima –, quindi non accennò minimamente a muoversi di lì ma tornò a concentrarsi sul Belby e accigliò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia «ma tu non hai intenzione di alzarti da qui, vero?» in fondo conosceva già la risposta, e infatti aggiunse «beh, tanto non credo che avremmo trovato qualcosa di veramente utile; possiamo restare anche qui». Aveva forse usato inavvertitamente il plurale, includendo lo special nelle ricerche che avrebbero potuto portare avanti e subito dopo includendo se stesso nelle non-attività a cui lo special aveva intenzione di dedicarsi, ma inavvertite o meno che fossero state le sue parole, era chiaro che comunque non avrebbe lasciato Hans da solo lì.
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    Non serviva essere un fratello migliore per prestare la dovuta attenzione ad un Dominic visibilmente provato, o per smetterla di sottolineare qualcosa che lo stava, in maniera palese, destabilizzando più del fatto stesso di trovarsi ai cancelli dell'apocalisse con la compagnia più inutile che potesse capitargli.
    No, per cose del genere bastava essere un essere umano migliore — o anche solo una persona decente.
    Cosa che Hans Belby non era.
    Non aveva mai chiesto una singola volta a Taichi come stesse; non aveva mai consolato Narah dopo un turno di lavoro particolarmente pesante; non aveva mai offerto le sue scuse a Bri per averle rubato la merenda; non aveva mai abbracciato Livy, né aveva ricambiato gli innumerevoli gesti d'affetto della Tassorosso. Non era calibrato per interessarsi o per dimostrarsi sensibile; aveva ceduto una sola volta, in forma anonima, e non aveva portato a nulla.
    Semplicemente, il concetto di coinvolgimento era estraneo al Belby. Si ritrovava a viaggiare su una lunghezza d'onda troppo diversa da quella del resto del mondo, e non aveva abbastanza interesse per correggere la rotta; cambiare, adeguarsi, sembrava uno sforzo troppo grande.
    (Inutile.)
    (Gli tornava sempre in mente la stessa frase di J.D. Salinger: “Don’t ever tell anybody anything. If you do, you start missing everybody.” Era stanco di sentire la mancanza di qualcuno.)
    A Dominic rivolse uno sguardo impassibile, freddo e che non diceva assolutamente nulla se non quanto indifferente fosse ai suoi predicamenti. In verità, stava riflettendo; qualcosa che faceva spesso ma che raramente gli veniva riconosciuta.
    Era peculiare, per così dire, che nemmeno Dominic riuscisse a ricordare il come o il quando fosse finito lì; razionalmente, Hans sapeva che se fosse fosse stata una vera apocalisse a portarli lì, se il mondo fosse davvero giunto alla fine, se lo sarebbero ricordati. Escludeva a priori un oblivion di massa, o un trauma così forte da aver bloccato i ricordi di entrambi — per Hans non sarebbe stata di certo una novità, ma Cavendish gli pareva più il tipo che rimuginasse sui problemi all'infinito, ingigantendoli e storpiandoli, piuttosto che chiuderli fuori fino a dimenticarli.
    Due tipi di persone.
    E comunque, qualche cosa Hans la ricordava; peccato non fossero quelle importanti per dare un senso a ciò che stavano vivendo.
    Assottigliò impercettibilmente le palpebre, prendendo in considerazione quanto detto da Dominic: anche lui ricordava, vagamente, la scuola e l'infermeria. E se la prima era normale, vivendoci nove mesi l'anno e tutta quella roba lì, la seconda lo era molto meno: Hans non si era mai recato volontariamente in quell'area del castello, neppure per andare a trovare Narah. Quindi era strano che, soffermandosi a pensare nel tentativo di far affiorare alcuni ricordi, uno dei primi venuto a galla fosse proprio quello; l'odore di pozioni antisettiche a pizzicare il naso anche lì, dove invece l'unico non-odore era quello della desolazione che avevano tutt'intorno.
    Forse era quella la spiegazione: allucinazioni di massa. Dopotutto, non sarebbe stato molto strano in quel di Hogwarts. Né sarebbe stata la prima volta.
    Fantastico.
    Osservò Dominic, decretando che non aveva l'aria di uno che sceglieva volontariamente di calarsi qualche droga, quindi escluse a priori lo svarione dettato dalla fattanza. Magari era qualcosa nell'aria, ma allora: dov'erano tutti gli altri? Hans non lo sapeva, e non si sarebbe sforzato di cercarli. Era già tanto che Dom avesse trovato lui.
    A proposito dell'infermiere: lo special non condivise con lui tutte quelle supposizioni, che ci arrivasse da solo, tanto comunque non avrebbero portato a nulla. Rimase invece in silenzio, poco turbato dalla ramanzina del maggiore: okay boomer. Cosa si era aspettato che dicesse? O peggio, si era forse aspettato che Hans reagisse? Urca.
    Anzi, ueppa — per rimanere in famiglia.
    «non sono sicuro che ci sia davvero un’uscita, forse potremmo cercare da quella parte» “quella parte” che tutto sembrava fuorché la via che portava all'uscita. Come se quella fosse una simulazione, poi; come se bastasse aprire una porta per andarsene di lì.
    Hans sentiva nelle ossa che non sarebbe stato così semplice; forse per cercare l'uscita non dovevano necessariamente muoversi. Lui di certo non l'avrebbe fatto.
    «ma tu non hai intenzione di alzarti da qui, vero?» dieci punti all'infermiere. «beh, tanto non credo che avremmo trovato qualcosa di veramente utile; possiamo restare anche qui» Beh, almeno su quello erano d'accordo — sul restare lì, e sul fatto che non avrebbero trovato nulla di interessante spostandosi.
    E poi, Hans non aveva nemmeno le scarpe.
    Rifilò comunque un'occhiata di traverso al maggiore, perché se c'era una cosa che lo infastidiva più delle domande pressanti rivolte dai suoi pochi amici, erano le domabde pressanti fatte dalle persone che a malapena riconosceva in viso.
    O che queste persone decidessero di coinvolgerlo senza richiesta nei loro piani. O nelle loro vite.
    «Va bene.» Magari se avesse barattato la sua cooperazione in cambio dell'indifferenza del maggior avrebbero vinto entrambi qualcosa.
    Ma Dominic Cavendish aveva gli occhi troppo onesti e sinceri per fregarlo, e Hans non era così stupido da non accorgersi che c'era qualcosa che il maggiore morisse dalla voglia di chiedergli. O confessargli. Qualsiasi fosse la verità, il Belby non vibrava alla stessa maniera; aveva la sensazione che avrebbe vissuto benissimo anche senza quelle eventuali informazioni.
    Non si mosse, le ginocchia sempre strette al petto e il mento abbandonato su di esse, segno inequivocabile che, infondo, Dom aveva ragione e lui non si sarebbe mosso da lì. «Stai agitando il cane con la tua ansia.» Tono monocorde, aria annoiata, un dato di fatto: Pentacolo li guardava entrambi con espressione crucciata e le orecchie basse. «Smettila.»
    Oppure parla, Dominic.
    A te la scelta.
    13.01.2004 | ivorbone, vega
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    chaotic neautral | too high to care
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