bring home the glory

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    sehyung
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    A volte se lo chiedeva davvero, se ci fosse qualcosa lassù. Oltre le stelle, quei puntini luminosi che sembravano fissarlo dall’alto in un silenzio quasi stoico, che pareva dare più enfasi ai rumori che spesso si ritrova ad ignorare. E’ come se la natura, di per sé, fosse atta ad auto-celebrarsi anche nelle più piccole cose, il che era un qualcosa di meraviglioso, nonostante tutto: ed ecco che perfino lo strato lucido che rendeva più limpidi gli occhi di Swing che diventava la duplice assonanza di un suono che non avrebbe mai voluto far passare in sordina. Le dita si mossero, prima che lui stesso potesse notarlo, fino ad asciugare quegli specchi d’acqua che Namseok avrebbe considerato una vergogna, qualcosa di riprovevole. Forse il problema era sempre stato quello. Il fatto che fosse stato costretto perennemente a nascondersi, a celare parti di sé che avrebbero potuto fornire la possibilità, ad altri, di mettere insieme i pezzi di se stesso. E’ così ingiusto. Perché è così ingiusto? Perché la vita gli è sempre sembrata più una condanna che un’opportunità? Ma non fraintendetelo, no, perché Swing ci aveva davvero provato ad affrontare quegli anni con un sorriso sulle labbra, a vedere quanto bello si celasse dietro ogni cosa, e che anche nell’uomo più malvagio poteva celarsi un lampo di bontà; come in quelle stelle, che avrebbe guardato per l’ultima volta. Così sole, così belle e così lontane.
    Ed era ironico come quel concetto fosse applicabile al Park stesso; una stella, ecco cos’era stato per la sua intera vita. Un ammasso di particelle mosse per inerzia da chissà quale forza naturale, irraggiungibile ma allo stesso tempo visibile agli occhi di tutti seppur potesse far male, con un'unica destinazione: l'autodistruzione. Quello che nasce, prima o poi dovrà anche morire. E diamine, Swing non si era mai interrogato, non abbastanza, su quanto il vecchio detto andava predicando. Perché avrebbe dovuto? Lo sapeva, l’aveva sempre saputo, che prima o poi anche il suo orologio avrebbe smesso di ticchettare scandendo i secondi, i minuti, le ore. Lo sapeva che il suo tempo sarebbe finito; chi su quel mondo non ne era a conoscenza? E tutti avevano l’assurda convinzione che entro quel momento, quel preciso istante nel quale il proprio cuore avrebbe smesso di battere, si sarebbe stati pronti. Ma Swing era davvero pronto a lasciare quella vita? Come la più luminosa delle stelle avrebbe dato vita ad uno spettacolo paragonabile alle supernove? Energia pura, un’esplosione unica nel suo genere, uno scenario che all’apparenza poteva togliere il respiro per la sua naturale magnificenza ma che non faceva altro che celare la morte di una stella. Era quello che voleva essere Swing? Voleva essere ricordato per quello? Andarsene teatralmente, dare un ultimo spettacolo alla ricerca di un applauso che non ci sarebbe stato; l’auditorium sarebbe stato vuoto, la polvere si sarebbe alzata dal pavimento e Park Swing si sarebbe volatizzata con la stessa con gli ultimi battiti del suo cuore, rimbombando in quello che era stato e che mai sarà più.
    E’ facile definire chi sia stato Park Swing; una pedina, prima di tutto. La pedina di un gioco le cui regole erano fatte per essere infrante e lui, anima così pura, a rispettarle comunque. Il fantasma della persona che era prima, sicuramente, la versione acerba di quello che era in Corea. Un manichino modellato da suo padre, una memoria cancellata per permettere al passato di essere celato dietro il drappo rosse del teatro dove Swing e Sehyung sarebbero scomparsi, per sempre. Eppure ci aveva provato a non vivere passivamente la sua vita, in ogni aspetto; aveva iniziato, non appena arrivato ad Hogwarts, ad aiutare gli studenti in infermeria, a migliorarsi chiedendo aiuto a CJ, a proteggere i suoi amici a Salem e nei più recenti avvenimenti. E alla fine poteva ritenersi soddisfatto, Swing, perché ce l’aveva fatta, non completamente, ma la sua morte significava una vita salvata, no?
    Più difficile è descrivere chi fosse Sehyung perché perfino lui stesso a stento ricordava il suo nome, scritto nell’acqua. In quell’acqua che di tanto in tanto sembrava volesse raggiungerlo, ma che subito dopo finiva sempre per ritrarsi, come si rendesse conto di non potergli concedere quel contatto. Forse perché temeva di trascinarlo a picco con sé; forse perché essa stessa, a sua volta, aveva paura di finire in un limbo dal quale difficilmente sarebbe potuta uscire, quel vortice in cui non era neanche concesso guardarsi indietro. Orfeo ed Euridice. Sempre la stessa storia, sempre quel finale drammatico che sembrava lasciare in bocca un sapore molto più acre di quanto chiunque fosse disposto ad ammettere. Ci si voltava e tutto svaniva all'improvviso, e da lì a non sentire neanche la consistenza del pavimento sotto i propri piedi equivaleva all'intercalare esistente tra un battito cardiaco ed un altro; un moto d'incertezza e furore che, paradossalmente, diveniva l'unico punto fermo all'interno di quello spazio buio ed angusto. Silenzio. Niente urla, niente rumori. La sola consapevolezza di trovarsi in uno spazio ricavato a sua volta da altro spazio, parassita per eccellenza d'una vita che sembrava nutrirsi di quei riverberi di malinconia che aleggiavano nell'animo. Era quello, Sehyung?
    Troppe domande.
    Troppo poco tempo.
    Sempre una questione di tempo.

    머물고 싶어
    더 꿈꾸고 싶어
    그래도 말야
    떠날 때가 됐는걸



    I ricordi, la memoria. Era la lastra di ghiaccio che separava dall’aria quando si cade nell’acqua e si resta intrappolati in un inferno di gelo che non ha clemenza e spezza i respiri rendendoli stalattiti, che si conficcano nella carne e la bucano, la forano poco alla volta e sempre di più fra i colpi che s’infrangono senza speranza contro quello che non può essere rimosso. Era successo quello a Park Sehyung, il vero Park Sehyung, bloccato chissà dove in Swing come un respiro sospeso, negato, trattenuto, seviziato ed ora rigettato come un conato in un silenzio che si masticava nel bisogno di liberarsi ma si costringeva in uno spazio che implodeva annichilendo ogni lamento in una fossa troppo profonda perché un solo gemito riesca ad innalzarsi in superficie, che non apportava a nulla se non a quella consapevolezza dell’essere in ritardo, di non poter fare nient’altro se non rimuginare in quei ricordi che inconsapevolmente aveva protetto, fino a quel momento.
    Ricordava come a dieci anni la sua vita iniziò a trasmutare in qualcosa che non si sarebbe mai aspettato, ma non era quello il suo destino? Era destinato alla morte, Sehyung, e se ne era reso conto troppo tardi; Avrebbe dovuto capirlo quando i suoi occhi ingenui avevano visto la bacchetta del padre alzarsi e privare un uomo di quella lucentezza nelle iridi. Avrebbe dovuto capirlo quando tornato dal parco con sua sorella, lo stesso Namseok con un bicchiere riempito di soju in una mano e la sigaretta nell’altra, avrebbe annunciato l’improvvisa morte di sua moglie, della loro madre. Ed infine, per tutti le divinità della Corea, come non fece a capirlo quando delle persone morirono letteralmente davanti ai suoi occhi in quegli attimi di ribellioni che lo avevano portato a perdere se stesso? E si sentiva ancora in colpa, ora più che mai, Sehyung, per non ricordare nemmeno tutti i nomi dei ribelli che lui stesso aveva arruolato a quella causa. Patetico, patetico, patetico. Processava la libertà ma alla fine non era diverso da chi combatteva. Patetico, patetico, patetico. Con che coraggio avrebbe ripensato a quei sei ragazzi che aveva abbandonato lì, a casa Park? Patetico, patetico, patetico.
    Kook Jaeyong, il più piccolo dell’originale HYYH era, la loro colla. Così fragile ma allo stesso tempo così forte a nascondere quella sua stessa consapevolezza dietro la maschera da duro. La vera colla di quello che erano stati, il punto di riferimento e la luce sui cui fare conto quanto era tutto un po’ più buio. Gli doveva molto, Sehyung, per essere sempre così solare, per aver creduto in lui nonostante nemmeno lui stesso lo facesse realmente, per averlo sostenuto fino all’ultimo dei suoi respiri.
    Choi Minkyung, la scintilla che aveva appiccato il fuoco della ribellione, assopito dal regime corrente. A lui doveva molto, seppur non lo avesse mai mostrato apertamente; sempre stato un po’ troppo duro con se stesso, Sehyung, troppo concentrato a raggiungere i suoi obiettivi senza capire quanto fosse importante amarsi, concedersi un sorriso. E Minkyung gli aveva insegnato a farlo, gli aveva aperto gli occhi, facendogli capire quanto potesse contare su di loro, e di come le cose andassero affrontante con un sorriso, nonostante tutto.
    Tae Hyunjin, lo scudo del loro gruppo. Era cresciuto troppo in fretta, lui, come se il mondo non avesse avuto pietà di un’anima così pura, eppure, nonostante le ginocchia sbucciate e i graffi sul volto, non aveva mai perso la voglia di cambiare le cose, di donare un futuro migliore alle generazioni che sarebbero venute dopo. E li avrebbe difesi ad ogni costo, Tae, dando via anche quel poco che gli era rimasto, ma lo avrebbe fatto, perché aveva l’innata capacità di vedere il buono nelle cose oscure, una vista ampia, un braccio destro su cui Sehyung avrebbe potuto fare appoggio in ogni caso.
    Kim Hoseok, il curatore. Ci sarebbe stato molto da dire su di lui, ed anche lui lo sapeva, ma le parole non sarebbero state in grado di descrivere chi fosse realmente per Sehyung, per tutto il gruppo. Se all’apparenza poteva dimostrarsi distaccato nel senso più platonico del termine, in realtà celava una delle anime più sensibili; incompreso, sicuramente, eppure non si sarebbe mai tirato indietro se una persona da lui amata fosse in pericolo. E da lui aveva imparato, così come con Min, quanto l’amore potesse essere importante nelle loro vite, e di come quei sentimento potesse dargli la forza di alzarsi dal letto al mattino.
    Kim Joonho, il cervello. Senza di lui non sarebbero potuti andare avanti di qualche metro senza inciampare in qualche situazione pericolosa, o peggio; era oggettivo, JD, una personalità di cui tutti avevano bisogno per non lasciarsi abbandonare agli istinti e perdersi in quella che era sempre stata la loro indole a non ascoltare la ragione. Ma non era solo un cervello, per Sehyung, diamine se non lo era: un fratello, ecco cos’era, quella persona da cui sarebbe sgattaiolato nel bel mezzo della notte per poggiare la testa sulla sua spalla e semplicemente sospirare, lasciando che quella maschera da leader venisse tolta per lasciar fluire tutte le preoccupazioni. E non gli era mai stato abbastanza grato, il Park, per essere stato lì in ogni momento della sua vita, a coprirgli le spalle nonostante lo stesso Sehyung fosse concentrato su quello che erano i suoi obiettivi.
    Park Mudeom, il suo destino. Avrebbe potuto dire che fosse una tempesta che non si fermava ma continuava a scorrere perpetua contro il moto stesso del mondo, irrefrenabile nel suo girare e girare e girovagare in un buco infinito e vuoto, ma sarebbe stato tutto inutile perché, per Sehyung, Mudeom non poteva essere paragonato a nulla se non a se stesso. Erano sempre stati capaci di tutto, fra di loro, perché conoscevano anche il più infimo anfratto in cui potevano premere per ergere o distruggere ogni cosa, e non si sarebbero fatti troppe remore nel compiere quelle azioni, finché sapevano che avrebbero potuto trovare ancora di salvezza pico più in là, nelle braccia dell’altro sebbene nessuno dei due avesse voluto ammetterlo ad alta voce. Mudeom, Ritter, Ken, non era semplicemente la persona a cui avrebbe affidato ciecamente la sua vita, non era colui che si era ritrovato ad amare quasi per caso – silenziosamente, così come lo stesso Mudeom si era addentrato inconsapevolmente nel cuore di Sehyung – ma era quella persona il cui destino era indubbiamente intrecciato; era l’unmei no akai ito, il filo rosso del destino.
    Chissà se sarebbe mancato a qualcuno, Swing o Sehyung, se qualcuno in Corea si sarebbe domandato se fosse effettivamente in Inghilterra a studiare, o semplicemente qualcuno che aveva conosciuto durante quell’esperienza si sarebbe svegliato al mattino ed avrebbe pensato a quell’asiatico dai capelli color arcobaleno;
    Arci, Aiden, Joey
    Shia, Ellis,
    CJ, Run,
    Gemes, Darden,

    o chiunque lo avesse semplicemente notato,
    sempre così silenzioso, Park Sehyung.

    Yeah it’s my truth
    It’s my truth
    온통 상처투성이겠지
    But it’s my fate
    It’s my fate
    그래도 발버둥치고 싶어



    E fu un momento, un secondo che si intrecciò, si alzò contro tutti gli anni, ogni movimento diviso, separato, trascorso nella vicinanza e nella distanza che aveva aperto sentieri, che ora crollavano, sotto quell’unico gesto che gli trafigge nell’impossibilità e nella cosa atroce di quelle parole bloccate negli occhi e nella gola. E quando tutto tornò a scorrere come avrebbe dovuto, Sehyung riuscì solamente a sentire il cuore premere in gola come un tamburo che annullò ogni altro rumore, urla e pianti, mentre i respiri si bloccarono e riprendevano nell’affannarsi di lamenti che non si trattenevano più, ma gluivano annebbiando la vista dell’asiatico che ebbe solamente il tempo per voltarsi verso la figura di Mudeom, ora così familiare e vivida, nello sconvolgimento che ancora tremava nel petto. Ed ancora doveva comprendere se quello, quello sentirsi stranamente vivo mentre il cuore scandiva i suoi ultimi battiti a sua insaputa, fosse quello che tutti gli altri stessero provando, un’euforia malinconica che lo avrebbe portato a sussurrare quelle parole:
    «미안해, 형.»
    Mi dispiace, hyung.

    Maybe I, I can never fly
    저기 저 꽃잎들처럼
    날갤 단 것처럼은 안 돼
    Maybe I, I can’t touch the sky
    그래도 손 뻗고 싶어
    달려보고 싶어 조금 더






    난 대답했어 아니 나는 너무 무서워 그래도 여섯 송이 꽃을 손에 꼭 쥐고 나 난 걷고 있을 뿐이라고
    Awake - Kim Seokjin
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
     
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    Andrew Stilinski non si era mai fatto avanti per una causa. Non aveva mai alzato il tono di voce per imporre le proprie ideologie, non si era mai applicato a mettere in pratica quello per cui credeva: non aveva mai lottato per qualcosa, perché non aveva mai trovato qualcosa per il quale valesse la pena farlo. Il mondo si faceva e disfaceva sotto gli occhi caramello del fu Tassorosso senza che il ragazzo muovesse un dito, passivo nel seguire la corrente - senza lamentarsi nell'atterrare malamente su suoli impervi e disabitati, un sospiro a far tremare le labbra e poco eloquenti strette nelle spalle a liquidare la faccenda. Non si era mai distinto, preferendo la quiete degli ignavi alla luce brillante dei martiri; e preferiva subire, ed incassare sempre, al drizzare la schiena e far valere le proprie ragioni: non era fatto per le battaglie, non era addestrato per la pace. Era un civile in tempo di guerra, mediocre nell'accettare quello che la vita aveva da offrire senza fare nulla per cambiarlo. Ricordava un se stesso bambino con il naso affondato nei fumetti od in qualche videogioco, tagliando il mondo all'esterno per chiudersi in un universo che riusciva a comprendere: aveva sempre faticato ad inserirsi nei contesti, inopportuno e goffo con gli altri e con se stesso. A scuola era l'unico bimbo la cui materia preferita non fosse ginnastica, che all'intervallo non cercava di sgusciare nei corridoi per giocare all'esterno insieme ai suoi compagni: diverso lo era stato sempre, prima ancora che quell'etichetta potesse effettivamente avere un peso nella sua vita. Colpevole si era sentito dal primo vagito, le spalle a pesare di responsabilità con le quali non riusciva a tenere il passo: avrebbe voluto essere come gli altri, Stiles. Ma non sapeva come fare, e l'ignoranza l'aveva reso una conchiglia chiusa nel suo mare, notti passate a guardare il soffitto mentre nella stanza accanto suo padre piangeva. Voleva fare qualcosa - ma cosa - voleva dire qualcosa - ma cosa - eppure, alla fine, non concludeva mai nulla. Sotto il letto della sua cameretta doveva ancora esserci il baule di lettere, scritte e mai consegnate, dove un bambino Stilinski scriveva tutto quel che non aveva coraggio di dire ad alta voce - tutto quel che avrebbe potuto cambiare le cose, e che era sempre stato troppo codardo per ammettere. Principalmente si trattava di mi dispiace, perché era convinto che quelle due parole avessero un qualche potere magico: mi dispiace conteneva un mondo intero di non detto, di sguardi sfuggenti e sorrisi appena accennati, di mani allungate nel buio per strappare dall'oscurità. Ci credeva davvero, Stiles, che essere sinceri sarebbe bastato, che sentire quelle due parole in ogni battito ed ogni respiro, un giorno sarebbe stato abbastanza perché qualcuno, chiunque, potesse perdonarlo. Di cosa, poi, non aveva così importanza; aveva solo bisogno di qualcuno che lo accettasse, qualcuno che gli dicesse non è colpa tua, Stiles, e con una pacca sulle spalle gli permettesse di perdonarsi a sua volta. Ma per cosa, Stiles? Non avrebbe saputo spiegarlo; non avrebbe saputo trovare parole che non lo facessero apparire ancora più stupido, mortalmente patetico - ma lui sapeva, cos'era a tenerlo sveglio. Inadeguatezza. Che roba stupida, che problema sottovalutato in una società che tendeva a concentrarsi sui problemi ovvi e ben visibili; nessuno l'avrebbe preso sul serio, se avesse ammesso quale fosse il suo problema. Nessuno capiva quante sotto categorie contenesse quel semplice, blando, termine: incapacità di adattarsi, di creare legami equi che non fossero al limite dell'abuso, il costante chiudere gli occhi e convincersi, maledettamente convincersi, che valesse la pena uscire un altro giorno - svegliarsi un altro giorno. - perché era quello che era previsto tutti facessero.
    Ma gli inadeguati come Stiles, non erano tutti. E per anni, per tutta la vita, aveva cercato di incastrarsi in posti e cariche che non gli appartenevano, in gusti e passatempi che non facevano per lui. Aveva creduto che imitando gli altri, un giorno, sarebbe diventato come loro, e tutto sarebbe diventato più semplice. Approdando nel mondo magico, aveva accettato quell'assurdo regime perché tutti sembravano farlo - ed allora, doveva essere normale per forza. - ingoiando sangue e saliva e fingendo, ancora ed ancora, che non gli creasse alcun disturbo: non chiedeva perché? ai professori che lo portavano nella sala delle torture; non domandava ai compagni di ammettere le loro colpe, quando gli adulti biasimavano lui e doveva pagare per i peccati d'altri.
    Andrew Stilinski non si era mai fatto avanti per una causa, perché nelle cause non credeva. Non aveva mai lottato per qualcosa, perché non aveva mai trovato qualcosa che ne valesse la pena; se stesso, non era mai stato abbastanza per convincerlo a schiarirsi la voce, e stringere i pugni: resistenza priva d'esistenza, perché vite come quelle non meritavano di essere prese in considerazione. Non aveva un chiaro concetto di morte o storia, l'undicenne Stilinski, ma in modo del tutto inconscio aveva accettato di non farne parte: che una vita come la sua, non avrebbe mai fatto la storia; che nessuno l'avrebbe ricordato, e sarebbe sempre rimasto quel eravamo in ventuno...ne abbiamo contato venti...chi manca? a torturare la mente di chi di lui non aveva alcuna memoria. Rideva e sorrideva della propria area grigia, talvolta includendo gli altri ma rimanendo sempre l'unico ad esserne divertito. Non gli importava, capite? Aveva smesso di interessarsi agli altri, a se stesso, fingendo che quella d'essere una macchia nel sistema fosse una scelta e non un errore. Si illudeva che andasse bene così, perché la speranza di poter avere qualcosa di meglio, gli aveva spezzato il cuore troppe volte.
    E non se n'era neanche reso conto, Andrew Stilinski, di quando la sua vita avesse iniziato ad essere diversa. Era successo troppo per sbaglio, troppo per una serie di sfortunate circostanze perché Stiles potesse cogliere il cambiamento: era stato graduale, ed allo stesso tempo improvviso. Non si era accorto di quando la sua bolla avesse iniziato ad ingrandirsi; non si era reso conto di quando inadeguato fosse diventato inadeguati, perdendo la sfumatura amara in cambio d'un sorriso ironico e leggero.
    Andrew Stilinski non si era mai fatto avanti per una causa, perché nelle cause non credeva. Non aveva mai lottato per qualcosa, perché non aveva mai trovato qualcosa che ne valesse la pena.
    Ma non aveva bisogno di cause, o di qualcosa in cui credere, per avere fede in qualcuno; ed era stato per loro, che aveva imparato a combattere. Per loro, che aveva iniziato ad esistere.

    «secondo te finisce nel lago nero?» sopracciglia corrugate, l'indice a seguire il sangue che scivolava dalla propria schiena al foro di scarico al centro della Sala delle Torture. Faceva così male, così male, che il ragazzino avrebbe solamente voluto piangere e nascondere la testa fra le ginocchia: quando aveva scoperto di essere un mago, non aveva immaginato sarebbe stato così. Era stato felice di salire sull'Espresso, entusiasta all'idea di frequentare una scuola per maghi. Ci aveva sperato così tanto, Stiles, che quella fosse la risposta alle sue preghiere - la sua occasione, il capro espiatorio per giustificare le proprie stranezze. Come aveva scoperto a sue spese, nah, era strano anche per i maghi: eh, vabbè. Era il terzo giorno di fila che finiva in Sala delle Torture, ed era il terzo giorno di fila che si ritrovava a condividere quell'intervallo prolungato, come gli piaceva chiamarlo, con il ragazzino incatenato dalla parte opposta della stanza. Non gli aveva mai domandato i motivi dietro la punizione, e viceversa: lui non chiede, io non dico. «magari lo tengono per -» «fare riti satanici?» «- ricordo.»
    Ricordo. Ma chi era il pirla che pensava potessero tenere il loro sangue per ricordo. Aveva riso, Stiles. Dio, per la prima volta da settimane aveva riso davvero, ignorando il dolore in un eccesso di risa isterico ed inopportuno - ma oh, così perfetto. «andrew stilinski, tassorosso. ti stringerei la mano, ma -» agitò il piccolo pugno ammanettato al muro stringendosi nelle spalle. «isaac lovecraft, corvonero. apri la mano» Non si era domandato il perché della richiesta, nell'aprire il palmo verso Isaac; non aveva pensato che volesse prenderlo in giro, o che avrebbe riso di lui persuadendolo a fare qualcosa di stupido o imbarazzante: si era fidato, Stiles.
    E si sarebbe fidato sempre, di Isaac Lovecraft.
    Quando anche l'altro mostrò il palmo, fu naturale per Stiles muovere appena le catene e schioccare le labbra imitando un secco cinque; quel che non si era aspettato, era che Isaac facesse lo stesso. Aveva riso di nuovo, le ferite a fare un po' meno male mentre il sorriso si scontrava con il ghigno sghembo del corvonero.
    «diventeremo grandi amici» aveva scherzato, ma fino ad un certo punto.
    «i migliori» aveva ironizzato Isaac, ma fino ad un certo punto.

    E quello sì, ch'era stato il loro scherzo meglio riuscito. Isaac Lovecraft era stata la prima persona ad entrare nella vita di Stiles per rimanerci, malgrado tutto e malgrado tutti - e malgrado loro, quelli sempre diversi. Inadeguati, e che assurdamente si erano trovati ad essere adeguati l'uno per l'altro. Non era solo il suo migliore amico, era la parte peggiore di lui. Per la migliore ci sarebbe stato tempo dopo, ma Isaac era, e sempre sarebbe stato, quello che peggiorava le già assurdità del Tassorosso, e che sempre le avrebbe fatte apparire perfette e giuste. Cos'altro c'era da chiedere a qualcuno, se non quello? Ed era stato abbastanza, e sarebbe sempre stato abbastanza, e Stiles avrebbe solo voluto essere all'altezza di tutto quello che Isaac, in quegli anni, gli aveva dato: un amico, certo, ma soprattutto una famiglia. Non avrebbe mai rimpianto di essere il ragazzino strano, il capretto da sacrificare quando tutto andava a puttane - perché non avrebbe mai conosciuto Isaac, e lo sapeva, che la sua vita senza di lui sarebbe stata incompleta. Fino al Lovecraft, Stiles non aveva mai fatto la differenza nella vita di nessuno.
    E sapeva, perché lo sapeva, di non essere un granché, ma Dio quant'era stato felice di essere stato, per una volta, il non un granché di qualcuno.
    Dopo Isaac, era stato tutto più facile.
    Era stato semplice, seduto al fianco di Niamh Lynch durante la lezione di pozioni, alzare gli occhi scuri verso quelli bruni della Grifondoro, ed ammettere di non avere idea di cosa dovessero fare; era stato naturale sorridere, quand'ella aveva confermato che a malapena sapesse di che lezione si trattasse. Ed era stato scontato, dopo un intenso scambio di sguardi, che entrambi portassero una mano al cuore e si lasciassero cadere a terra fingendo di avere un infarto: non importava che non avesse funzionato, e che i due fossero stati trascinati ambedue in Sala delle Torture - perché Cristo, se n'era valsa la pena.
    E poi era arrivato Dakota, con il sorriso gentile e gli occhi sempre un po' tristi e distratti; lo stesso «wayne come baTMAN? cosa significa che non conosci batman.» a cui aveva mostrato i propri fumetti, illustrandogli fiero il mondo nel quale per anni s'era perso, e di cui non aveva più bisogno: l'aveva salvato quando non aveva nessuno, ma Stiles qualcuno, oramai, lo aveva. E Dakota non aveva riso, dei fumetti babbani; l'aveva ascoltato davvero, e gli aveva fatto domande, e più tardi quella stessa notte un dodicenne Stilinski si sarebbe concesso di piangere, perché Dakota Wayne era stato il primo a farlo sentire qualcuno. Non necessariamente importante, non per forza utile - ma qualcuno che lasciasse qualcosa: perché l'aveva ascoltato, ed aveva fatto domande, e nessuno ascoltava Stiles e nessuno gli faceva domande e la vita era diventata d'improvviso più che tollerabile.
    Anche nel suo peggio, era diventata bella.
    E la pazienza di Stiles era stata ricompensata, perché i tre ragazzi erano stati i primi, ma non gli ultimi, ad insegnargli una lezione ovvia, ma sempre importante da ricordare: che nessuno fosse solo. Che lui, non lo fosse.
    Al «ti credi simpatico?» di Jayson Matthews, incrociato per errore e con orrore nei sotterranei di Hogwarts, aveva risposto «discretamente», e con il senno di poi avrebbero entrambi convenuto su quanto fosse vero: anche se morirgli lì, senza neanche un ciao freme, non era divertente manco per il cazzo. Aveva aspettato il ritorno di suo fratello per un anno e mezzo, Stiles; fratello, perché che avesse una famiglia non lo toccava, e che fossero uguali non aveva importanza: a legarli non erano stati gli occhi caramello, ma il bisogno di entrambi di appartenere a qualcosa. L'aveva trovato buffo, Stiles, con quel suo cipiglio sempre seccato e lo sguardo sollevato al soffitto. Per una volta, per una volta, era stato qualcuno di riferimento, una responsabilità che mai prima d'allora aveva investito il Tassorosso. Ed aveva fatto del proprio meglio nel conquistare la fiducia del telecineta, del proprio peggio per farlo affezionare a sé - perché aveva voluto davvero tanto, davvero tanto, che fosse suo fratello. Che lo accettasse. E ce l'aveva fatta, ce l'aveva fatta, ma poi il mondo aveva continuato a strapparglielo via.
    Vedete, Stiles non scendeva in campo per una causa; non metteva mano alle armi per qualcosa - ma per Jay, l'aveva fatto. E l'avrebbe fatto sempre, perché era suo fratello e la sua famiglia e Dio Jay mi dispiace, mi eri mancato così tanto. Se quella mattina avessero chiesto a Stiles se fosse pronto a morire, la risposta sarebbe stata no; perfino quando aveva più sangue sulla pelle che non nelle vene, s'era aggrappato alla vita - non voleva morire, Stiles.
    Avrebbe davvero preferito non farlo, come avrebbe ricordato a Nicole dopo l'apparizione di Vasilov. Ma che ci volevate fare? Era un Tassorosso: alla fine della giornata gli andava bene morire, se significava dare una seconda possibilità a Jay, e Murphy, e Run e Al, e Kieran e Maeve.
    C'erano modi peggiori per morire.
    Ma gli dispiaceva comunque, non essere riuscito a salutare Jay. Non essere riuscito a dirgli che ci ho provato, Jay, ti giuro che ci ho provato - che gli fosse mancato, che fosse felice non avesse trovato subito gli Hamilton. Che fra tutte le facce che avrebbero potuto dargli, era sollevato dal fatto che gli avessero dato quella faccia da schiaffi : perché erano i fremelli, loro. Con quello stronzetto di Xav, a viversi la bella vita in qualche località Messicana - non avrebbe mai visto crescere le sue nipotine, Stiles. Non avrebbe mai potuto fare il viaggio che aveva promesso ad entrambi, una vita prima, a Las Vegas.
    Sono grato di aver avuto la possibilità di conoscerti, Matthews. Dai un bacio a Xav per me.
    Vedete? Le persone entravano nella sua vita per caso e per errore; Stiles tendeva a rimanerci per abitudine, entrando cauto fra tende scostate involontariamente, incapace poi d'uscirne. Discreto nello schiarirsi la gola, nel sorriso a curvare le labbra e scaldare gli occhi miele. E che caso, e che assurdo destino, e che Dio, grazie rispondere al topic di ilovepizza96 su dove trovare la mn surf in Pokémon rosso fuoco. Ma ci potete credere? Pizza e Pokémon nello stesso topic: e Stiles l'aveva amata subito, la ragazza delle mille faccine ed una scorta di meme non indifferente. Era stato facile scriverle, era stato semplice condividere le sue giornate con una ragazza senza volto e senza nome - e le si era affezionato così, quando Murphy non era stata altro che l'avatar di una rana ed un messaggio non letto. Lei sì, ch'era la parte migliore di Stiles - che perfino nel peggiorarlo, lo rendeva un po' migliore. Parlare attraverso un computer era stato più semplice, e Stiles si era sentito libero, quando il sole calava, di ticchettare sulla tastiera le sue paure: di pescare solo magikarp; di non salvare il videogioco prima di chiuderlo; di non guardare l'ora quando sento un rumore sospetto.
    Di deludere i miei amici.

    Roba forte, quella li, del quale al mattino non si faceva più parola. Talvolta faceva bene dirlo a qualcuno a cui sapevi di non poter fare troppo male, con uno schermo e chilometri e vite di mezzo a dividere. E Murphy gli aveva portato Obi, l'ennesima cazzata che si era rivelata una delle migliori della sua vita; e quando l'aveva conosciuta, e quando aveva potuto abbracciarla, Murphy l'aveva incluso nella propria vita senza un attimo d'esitazione: grazie a lei aveva conosciuto Sin, sulla cui spalla aveva pianto quando se n'erano andati tutti, e Stiles aveva davvero creduto di essere giunto al fondo.
    Sin, uno dei motivi che l'avevano spinto ad essere migliore, perché non voleva deluderlo: aveva bisogno delle pacche sulle spalle, degli sguardi carichi di comprensione che ogni genitore avrebbe dovuto riservare al proprio figlio. Suo padre, non l'aveva mai fatto. Era il suo punto di riferimento, il Nord di una bussola a puttane da un pezzo.
    E non aveva potuto riabbracciare neanche Murphy, Stiles. Non aveva potuto rimanerle vicino mentre perdeva Shot, ricambiando in briciolo, un maledetto briciolo, di tutto quel che lei aveva rappresentato per lui: un porto sicuro. Che razza di amico era, a morire quando aveva bisogno di lui. E non aveva salvato Obi, Stiles; non era riuscito a salvare Barrow Skylinski, il ragazzino dagli occhi color vetro ed il sorriso derisorio sulle labbra, che giorno dopo giorno e dopo giorno era riuscito a sciogliersi negli abbracci di Stiles e Murphy, accettandoli per quel che erano: un'assurda, assolutamente senza senso, famiglia di idioti. Amici sarebbe stato troppo riduttivo; amici non avrebbe compreso le sfumature di quella situazione priva di logica, ma da sempre in grado di dipingere sulla bocca una risata spontanea e genuina.
    Chi l'avrebbe mai detto, che quello strano e quello sempre solo, avrebbe finito per trovare così tanti posti nel mondo. Che un gruppo di ragazzini con il sorriso morbido e le tasche piene di speranze, potesse scegliere la possibilità su quattordicimila di avere uno Stiles nella loro vita - uno Stiles su cui fare affidamento. In cui credere, lui che aveva passato un'esistenza ad essere sconosciuto anche a se stesso - che a Stiles, Stiles, non avrebbe dato neanche la responsabilità di una pianta. Ma lo vedeva, lo vedeva, nei loro occhi, che di lui si fidassero; ed erano stati i loro ghigni gentili a renderlo più sicuro, più coraggioso: Dio se si odiava, per avergli fatto quello.
    Per avergli dato l'esempio peggiore, morendo in quella stanza. Avrebbe voluto dirgli che non andava sempre così; che provarci, valeva sempre la pena - e che se la sua morte avesse permesso loro di avere un futuro migliore, l'avrebbe fatto altre cento volte. Avrebbe voluto rassicurarli; avrebbe voluto potergli stringere anche solo una volta, ringraziarli per avergli dato la possibilità di conoscere quelli che sapeva, perché lo sapeva< sarebbero diventati uomini e donne meravigliosi. Mi dispiace sia andata così, ragazzi. Non volevo deludervi. E davvero non lo voleva, Stiles - perché sulla loro fiducia, contava come ossigeno. Li aveva traditi così, come aveva potuto tradirli così - e voleva loro dire che il senso di colpa, sarebbe passato; che il dolore, si sarebbe affievolito. Che avevano fatto del loro meglio, e sarebbe bastato sempre - e Dio, se continuava ad essere fiero di loro. Sapeva di aver lasciato un insegnamento del cazzo, ai losers. Sapeva che Chouko si sarebbe meritata qualcuno di un po' meno Stiles in cui riporre la propria fede, perché gli Stilinski del mondo potevano solamente deludere - ma non poteva rammaricarsi, che gli avessero fatto posto nel proprio cuore. Cristo, neanche poteva loro dire quanto avessero contato, nella sua vita.
    Quanto ne fosse valsa la pena.
    Sempre a senso unico; egoista, Stiles, nel prendere e non dare mai. Quante scuse, quanti mi dispiace avrebbe dovuto riservare alla bella, oh, troppo bella, Nicole Rivera - da riempirci libri e libri. Perché Nicole l'aveva accettato nella propria vita; perché Nicole gli aveva fatto spazio nelle proprie giornate, nella propria famiglia, perché Nicole era sua sorella e lui non aveva fatto altro che lasciarla sola. Bell'affare di merda che hai fatto, eh Nic? Ma non avrebbe potuto dirle neanche quello, né rivolgerle il sorriso stupido e grato, sempre grato, che una domanda del genere meritava: perché per Nicole era davvero stato un pessimo affare del cazzo, ma come poteva, lui, non esserne felice? Anche se avevano avuto poco, troppo poco, tempo, erano stati una famiglia, loro due; erano stati i Riverinski, quelli che il disagio l'avevano nel sangue, e che di quei sorrisi così diversi avevano fatto un marchio di fabbrica. E dopo tutto quel che lei aveva fatto per lui - che faceva, Stiles? Se ne andava. Sperava sapesse che non l'avrebbe lasciata, se avesse avuto un'altra scelta. Che non gliel'aveva detto abbastanza, quanto fosse stata un sospiro di sollievo averla nella propria vita - quanto le volesse bene. Che si meritava una vita felice, un lieto fine da favola che l'avrebbe nauseata per quanto dolce e stucchevole. Che doveva ridere di più, nella sua vita. Che, Dio, scusami Nicole, non l'ho fatto apposta. Mi dispiace. Sono sicuro che Sin e Murphy si prenderanno cura di te, e giuro, Nic, sarà come se fossi io.
    Ma non lo sarebbe stato. Non lo sarebbe stato. E se avesse avuto tempo, nell'attimo fra l'esistere ed il non esistere, avrebbe chiesto a Dio il perché, gli avrebbe domandato di ripensarci: perché voleva essere lui, quello ad abbracciare una stanca Nicole dopo le fatiche della battaglia; perché voleva essere lui quello a mettere un cerotto sulle ferite di Nicky e Beh e Meh ed Halley e Chouko; perché voleva essere lui quello a cantare, ancora, la sigla dei Pokémon con il bibliotecario; perché voleva essere lui quello a dire a Jay che Xav non fosse davvero morto, e dire al secondo che ce l'ho fatta, a riprenderci Jay; perché voleva essere lui quello a mostrare pikachu a Murphy, costringendola a suon di pizza e pokeball ad un sorriso; voleva essere lui quello ad aggiornare Dakota su quanto si era perso, a fare il cazziatone a Niamh perché aveva sniffato cocaina in momenti del tutto inopportuni; voleva essere lui quello che, tornando a casa, alzava il palmo per un cinque a distanza con Isaac: sono stato grandissimo, Isaac.
    Ma era quello, il prezzo da pagare: non sarebbe stato lui.
    Non più.
    E solo Dio poteva sapere quanto avrebbe voluto essere lui, quello a baciare Jeremy Milkobitch - alla fine di quella giornata, di quella settimana, di quel mese, di tutto il tempo che gli sarebbe stato concesso. Perché era davvero assurdo, ancor più di tutti gli altri, un Jeremy Milkobitch nella vita di Stiles; roba alla quale credeva avrebbe fatto fatica ad abituarsi, ma del quale a quanto pare non aveva di che preoccuparsi: non ci si sarebbe mai abituato, Andrew Stilinski. Quella possibilità, gliel'avevano portata via. La verità era che non erano mai stati davvero amici, loro due, troppo diversi perché potessero essere qualcosa l'uno nella vita dell'altro; compagnie diverse, passatempi diversi, scontato che l'essere compagni di casata fosse di suo già abbastanza. Non aveva voluto essere altro, Stiles; aveva faticato ad accettarlo quando si era candidato come aiuto psicomago, ingannato dall'aria disinteressata e l'odore d'erba ad impregnare sempre i vestiti, dal è per perdere ore a scuola sorriso fra i denti alla legittima domanda sul perché sei qua. A guardarli, davvero non c'entravano un cazzo; e Stiles ci aveva creduto, che fossero due universi diversi accomunati solo dall'essere stati smistati nei Tassorosso.
    Ma che errore da principiante. Che stronzata: diversi lo erano davvero, ma non così tanto. Entrambi tendevano a farsi i fatti propri, entrando in scena solo quand'erano chiamati in causa amici o famiglia; entrambi dipendevano da qualcosa e da qualcuno, e da insicurezze che il Milkobitch mascherava meglio, ma presenti negli occhi di tutti e due. Ed entrambi continuavano a perdersi un fratello o una sorella, come Stiles aveva fatto ironicamente notare diverse volte: finirà che rimarremo solo noi, Milkobitch.
    Non era stato facile, non era stato intuitivo, non era stato a prima vista, ma Andrew Stilinski era certo fosse stato comunque amore. Non con la A maiuscola, non di quello che si leggeva in libri e fanfiction, ma non avevano forse tutto il tempo del mondo, per quello? Aveva creduto di sì, Stiles. Fino all'ultimo, aveva sperato di sì, perché quella possibilità voleva darsela - aveva creduto di meritarsela. Ma sapete che c'era? Che a Stiles andava bene anche così, che era felice di quel che aveva avuto: perché avrebbe potuto essere di più, ma era comunque più di quanto mai avesse immaginato di avere.
    Sempre un errore, sempre un caso, sempre le cose migliori: avrebbe voluto ringraziarlo, e dirgli che non era colpa sua, di smetterla di fare l'egocentrico, Milkobitch; che gli dispiaceva avesse sputtanato tutto quel tempo, tutto quel tempo, con uno Stiles, ma onestamente - vaffanculo, se fosse ricapitata l'occasione gli avrebbe chiesto di colpirlo un'altra volta, e sarebbe stato al gioco ancora ed ancora, ed avrebbe smesso di credere lo fosse sempre, perché il contrario sarebbe stato davvero una stronzata da manuale. Mi dispiace, Jer. Andrà meglio, la prossima volta - te lo prometto, perchè non poteva pensare che per colpa sua finisse per chiudersi in se stesso faticando a fidarsi d'altri; che colpa ne aveva, Jeremy Milkobitch, se Andrew Stilinski aveva trovato il momento peggiore per mostrare la sua natura: fallire.
    Ma ci ho provato davvero, Jeremy. Dai, hai visto - sono stato bravo, no? E lo so che non è stato abbastanza, ma...ci ho provato.
    Per favore. Per favore.
    Avrebbe potuto avere di più dalla vita, Andrew Stilinski.
    Ma anche molto meno.

    ma anche voi avevate i pokemon???? STILES POI TI FACCIO VEDERE I MIEI!
    Sono sicuro fossero bellissimi, Jess.

    Non devi morire, hai capito?
    Avrei davvero preferito non farlo, Nic.

    Se ti senti morire, avvisami così ti saluto.
    Ciao, Erin.

    Oggi non morirà nessuno di voi. Non ve lo permetto. I buoni vincono sempre.
    Ed abbiamo vinto, Nicky. Abbiamo vinto.

    Che fai, mica muori? Siamo appena tornati!
    E non avrebbe potuto dire loro quanto gli fossero mancati.

    Devo.. vado a picchiare qualcuno di questi stronzi, ti prego non morire, ok, mamma?
    Mi dispiace, Obi.

    Ma abbiamo quasi finito, mh.
    Quasi finito.

    Gli avevano dato uno scopo. Gli avevano dato una causa, un motivo per lottare.
    Una famiglia.
    Sarebbe sempre valsa la pena, per loro.
    Mi dispiace
    Staranno bene.
    Lo so.
    Puoi riposare ora, Stiles.
    Okay.
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco


    Edited by idk‚ man - 25/6/2019, 02:50
     
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    Sapete – in un modo o nell’altro, Chariton Deadman era sempre stato conscio di quale sarebbe stato il suo destino. Ce lo aveva scritto sulla pelle, nero inchiostro a vergare la schiena di un disegno già definito; scorreva assieme al sangue nelle vene, quella fine che alla prematura età di ventitré anni aveva già rimandato troppo a lungo.
    In ogni occhiata storta.
    In ogni sorriso strappato e rubato.
    In ogni sospiro di melodrammatica rassegnazione.
    In ogni ansito sulla pelle.
    In ogni gesto più consueto, ed in tutti quelli che avevano stupito lui per primo: Shot, quella pressante consapevolezza, la percepiva ovunque – e gli aveva stretto la gola nelle notti più buie, lo aveva assalito nei giorni più quieti. Soprattutto in quelli, quando sembrava quasi che la sua fosse una vita normale. Quando sembrava, quando quasi sperava che potesse averla, una vita come quella di tutti gli altri; ci teneva a ricordarglielo costantemente, che non gli fosse concesso un simile lusso.
    Non era per quello che era venuto al mondo, Apollyon: glielo ricordava quotidianamente lo stesso nome – suo, ma fino ad un certo punto – che aveva tatuato tra le scapole, quale fosse il proprio scopo. Quale, il suo fine più ultimo. Distruzione, recitavano le lettere greche. Abisso – più letterale che metaforico, laddove il suo compito era sempre stato quello di trascinare a fondo anime innocenti, in luoghi che persino il loro dio pareva aver dimenticato; più metaforico che letterale, dal momento in cui avrebbero perso loro stesse a favore di un fine più nobile e mondiale, ma al quale di certo non avevano chiesto di fare parte. Per Chariton era sempre stato allegorico, l’Abaddon: sapeva perfettamente che prima o poi sarebbe stato lui stesso a scivolarci, senza nemmeno potervi opporre resistenza. Non poteva scamparvi, capite?
    L’aveva consumato e logorato, masticato e annichilito ad ogni lavoro portato a termine, ad ogni pacca sulla spalla e sorriso compiaciuto quando portava a casa l’ennesima vittima sacrificale, e prima ancora che potesse comprendere ci fosse davvero qualcosa da distruggere. Plasmato da menti e mani più forti, più sapienti di quanto non potessero essere quelle di un bambino di appena tre anni, l’Adescatore non aveva nemmeno dovuto chiedersi se avesse qualcosa oltre quel corpo: era sempre stato addestrato, cresciuto, usato come una macchina – un sistema operativo perfettamente congegnato, impeccabile in ogni sua parte.
    Non c’era scritto da nessuna parte, tra i termini e le condizioni d’utilizzo, che gli fosse concesso pensare oltre quel che gli avevano insegnato; nel manuale d’istruzioni, non esisteva un paragrafo che stravolgesse in alcun modo le basilari nozioni degli altri capitoli. Semplice e sistematico, il ventitreenne – nessuno strappo alla regola ammesso, nessun e se? a rendere più complicata quell’esistenza. Perché , di quello s’era sempre trattata: non era mai stata vita, la sua, quanta mera sopravvivenza nel sottostare alle regole; era indubbiamente quella di qualcun altro, inculcata a forza in un organismo che doveva semplicemente eseguire. Puro prodotto preconfezionato, Chariton Deadman, e come ognuno di questi, anche lui aveva sempre avuto una data di scadenza – entro la quale, lo sapeva e lo sapevano, bisognava consumarlo: era uno di quelli che marciva giorni prima di raggiungere il giorno, e pertanto andava finito più in fretta. Non era stato fortunato come Heidrun, lui; nessuno gli aveva mai detto entro quella data, tu devi morire: eppure lo aveva sempre dato per certo, per scontato, che non avesse tanto tempo.
    Sapete?
    Non gliene era mai importato, di morire nel sangue e sullo sfondo di una vita che non portava il nome di Shot sulla copertina – senza onore né gloria, senza colpe o meriti. Effimero sarebbe stato dire troppo, per ciò che aveva solamente assunto il valore di temporaneo, passeggero – troppo aulico, per i suoi gusti; troppo significante, per lui, di un qualcosa che aveva brillato di una breve ma raggiante intensità, prima di diventare caduca scintilla ed in seguito vuoto più tetro. Non aveva mai voluto splendere, Chariton, e non s’era affievolito in quell’ultimo battito, infimo ed eterno sul palato: era stato il do maggiore di una tastiera bianco e nera, premuto con insistenza fino a quando il dito a tenerlo non aveva deciso che era passato abbastanza tempo – niente armonizzazione, niente riverbero quando la nota era stata lasciata. Un rumore bianco, di quelli che dopo un po’ di tempo non si fa più caso di avere nelle orecchie.
    Transitorio, lo era stato in ogni momento della sua esistenza. Ed in quella di chiunque avesse incrociato il suo cammino – per errore, per sfortuna, per costrizione.
    In quella di Sylvester, che il fratello minore non aveva avuto nemmeno modo di conoscere: si erano forse appena sfiorati, nell’eco di ricordi che non erano destinati a restare impressi nella memoria.
    In quella di Archibald, nell’illusione che gli aveva e si era dato di poter essere una sorta di figura fraterna – quella che non aveva mai avuto e non era mai stato, anche soltanto per sapere se ne fosse in grado.
    In quella di Ken, nel quale aveva trovato la compagnia di qualcuno di simile a lui – nei modi, nei gesti, nell’incomprensione e nella necessità di avere chi, quel silenzio, lo capisse a prescindere.
    In quella di William, un uragano diverso da quelli che già aveva conosciuto nei vent’anni precedenti: un amico, uno dei migliori, nel momento in cui meno credeva di averne bisogno.
    In quella di Jaden, che nella quiete e la rassegnazione nei confronti del genere umano lo aveva sempre compreso perfettamente – gli occhi rivolti al cielo e le braccia coperte da pelle nera strette al petto, nella finzione che tutto ciò che accadeva loro intorno non li toccasse affatto.
    In quella di Sin – che un padre Shot non lo aveva mai avuto, e né lo necessitava; ma l’Hansen era ciò che più si era avvicinato ad una figura di riferimento.
    In quella di Lydia, leggero come un acaro di polvere a posarsi sui soprammobili della rossa, prima d’essere costretto a volare via alla prima folata di vento.
    In quella di Heidrun, forse la prima persona a fargli comprendere quanto la sua esistenza fosse soltanto di passaggio – ma gli era andato bene, vederla fuggire e doverla rincorrere: pareva quasi allungare l’aspettativa, capite?
    In quella di Kieran, in quella di sua figlia – e solo perché, per la prima volta da che ne avesse memoria, aveva avuto paura: che non fosse vero, che fosse uno scherzo. Che non fosse pronto, che non fosse adatto per una cosa del genere; non aveva le carte in regola, per essere un buon padre. Non le aveva nemmeno per essere un essere umano decente, a dire il vero.
    In quella di Murphy, era stato un’ombra a seguirne il passo da quando questo era ancora incerto e timido, fino al suo ultimo – e le aveva stretto la mano più forte di quanto avesse voluto, le aveva detto che stavano finalmente tornando a casa. Per vent’anni era stato al suo fianco, per pochi di meno aveva chiesto all’oscurità della propria camera di dargli la possibilità di non essere soltanto un segmento nel percorso di qualcun altro. Perché lei per prima – senza che nemmeno dovesse dirgli nulla, o fare alcunché: bastava la sua presenza, capite? -, con quel suo sorriso morbido ed i grandi occhi di cioccolato ad osservarlo dall’altra parte del corridoio, gli aveva fatto credere che potesse esserci qualcosa in più, per lui, in quel mondo. Che la sua vita non fosse circoscritta a quel posto, a quel destino; che potesse valicare il confine e bramare altro, che in fondo ambizioso lo era sempre stato – sempre per le cose giuste, mai nei momenti o nei modi più adatti.

    Che non gliene importasse del poco tempo che era stato predisposto per lui, se l’era detto quando a cinque anni Jocelyn gli aveva messo una calibro .22 tra le mani e gli aveva sparato ai piedi, e gli aveva detto che il prossimo colpo sarebbe stato più in alto. E poi più in alto, e poi più in alto ancora – che uccidi o verrai ucciso, da quel momento in poi sarebbe dovuto essere un mantra per lui: quello da ripetere prima di coricarsi, quello da ricordare appena aperti gli occhi. E si era detto che non gli interessava, perché a cinque anni aveva già capito che di quel passo non avrebbe vissuto a lungo; a cinque anni, già non voleva più farlo.
    Se l’era detto quando a nove anni, la stessa persona che fino ad allora aveva chiamato madre gli aveva nuovamente messo l’arma tra le dita – più sicure e salde attorno al calcio, lo sguardo più assente e lontano –, e gli aveva indicato l’uomo sul bordo del terrazzo. Se l’era detto, quando all’orecchio gli aveva sussurrato uccidilo, e lui senza esitare lo aveva ucciso: su due piedi, senza nemmeno dover chiedere il perché di quel suo primo omicidio. Non voleva saperlo, mentre cadeva diversi metri più in basso.
    Se l’era detto quando a dodici anni aveva rapito la sua prima cavia – e poi la seconda, e poi la terza, e poi così tante da perderne il conto. Quando aveva condannato all’ergastolo persone innocenti, ed aveva fatto a loro lo stesso che era stato fatto a lui: non avevano deciso loro, il proprio destino.
    Se l’era detto quando a sedici anni ne aveva abbastanza, quando voleva soltanto essere un adolescente come tutti gli altri – ed aveva provato a fuggire, comprendendo che non gli avrebbero mai permesso di andarsene. Ed allora si era abituato, ed allora si era annichilito.
    Se l’era detto, quando aveva finalmente compreso che forse avrebbe preferito che la data di scadenza, troppo prematura, gli fosse più chiara. Solo perché così, avrebbe avuto la certezza che sarebbe fuggito da quell’esistenza senza diventare come loro.
    Quindi si era convinto che non gli interessasse di morire presto, perché come loro, già lo era: cos’hai, tanto, da offrire al mondo?

    Niente.

    La risposta, era niente.

    Forse non gliene era mai importato, perché lo aveva sempre fatto troppo.
    Perché suo fratello, Zerechiel avrebbe voluto conoscerlo. Avrebbe voluto sapere della sua esistenza e cercarlo, notare quanto dissimili fossero l’uno dall’altro e chiedersi se, in un’altra vita, sarebbe stato più simile a Sylvester. O anche solo sbeffeggiarlo ed insultarlo, perché non aveva senso che due come loro condividessero lo stesso sangue. Avrebbe voluto averne l’opportunità.
    Perché ad Arci avrebbe voluto dire che era stato fiero d’aver condiviso del tempo con lui, e che non vedeva l’ora di trascorrerne altro in sua compagnia – essere per lui qualcosa di cui aveva bisogno, quella figura di cui sentiva la necessità.
    Perché da Ritter avrebbe voluto sapere cos’avesse da dire, ascoltarlo più di quanto non gli concedesse la scarsa pazienza ed il fastidio naturale per il genere umano; ed avrebbe voluto essere utile, per la prima volta in vita sua, ed aiutarlo di più a superare l’incomprensione che lo slegava dagli inglesi.
    Perché a William avrebbe voluto dire ancora una volta quanto fosse una testa di cazzo – adorabile, certo, ma questo non cambiava il succo. Farlo così, solo per il gusto di avere un amico al quale non saper esprimere, almeno non in una maniera umanamente accettabile, quanto fosse grato di averlo trovato tra le mura di Beauxbatons.
    Perché Jaden e Sin, con il loro arrivo, avevano reso la vita dei laboratori un po’ meno monotona – avevano cambiato qualcosa, dal momento in cui s’erano messi i camici da Dottore ed avevano scambiato una parola con lui. Ed avrebbe voluto poterli abbracciare, e confessarglielo quanto avessero significato.
    Perché a Lydia forse non lo aveva nemmeno mai lasciato intendere, quanto quell’annuncio sul giornale gli avesse salvato la vita; quanto inaspettata fosse stata quella strana convivenza, e quanti sorrisi gli avesse strappato senza nemmeno rendersene conto.
    Perché senza Heidrun, probabilmente Shot non sarebbe mai diventato Shot. Senza di lei, senza la sua migliore amica, non avrebbe nemmeno mai compreso di provare dei sentimenti: lo aveva aiutato a mettere insieme i pezzi, ed a raccoglierli ogni volta che il mosaico cadeva a pezzi. Ché anche il cambiamento potesse passare inosservato, la Crane lo aveva aiutato come davvero poche persone avevano provato a fare in tutti quegli anni.
    Perché Kieran, la dolce Kieran, un padre come lui non se lo meritava – non era adatto, non era pronto, non era tagliato ad essere una simile presenza nelle vite altrui. E lo aveva terrorizzato, e lo aveva spinto a cambiare ancora – ed era lui a non meritare una figlia del genere. Ma voleva provarci, ad essere il miglior padre del mondo.
    Perché Murphy Blue Skywalker, aveva dato ad un cinquenne Chariton Deadman l’inconsapevole certezza di non voler essere Apollyon. Perché con il sorriso morbido e le iridi fondenti – e con le mani delicate, e le parole dolci, ed il fiato sulla pelle e le labbra, Dio!, quelle labbra – gli aveva sempre dato tutte le ragioni del mondo per voler essere diverso. Per volersi svincolare, per dare fuoco ad ogni manuale d’uso di quel ch’era sempre stata una semplice macchina. Ogni giorno, di ogni mese, di ogni anno, gli aveva fatto credere che forse, forse!, anche a lui poteva essere concesso qualcosa per cui vivere – e non soltanto esistere, non soltanto sopravvivere. Ogni giorno, di ogni mese, di ogni anno, il suo solo stare nello stesso edificio del moro gli aveva fatto credere di avere una possibilità. Che quel lusso, forse, poteva concederselo. Che alla fin fine, Shot avrebbe soltanto voluto avere una vita normale – ed avere lei al suo fianco, ad indicargli come fare.
    Ed avrebbe voluto avere più tempo, per dirle che l’amava.
    Che lo aveva sempre fatto, da prima ancora di sapere che cosa fosse l’amore.

    In fin dei conti, morire nel sangue e tra le armi, senza onore né gloria, non gli interessava – andava bene, capite? Preferiva toccasse a lui, che non a Murphy o Kieran, Run o Lydia, Will, Ken, Sin o Jade, Arci o Sylvester.
    Il problema era che avrebbe voluto un po’ più di tempo, prima di abbandonarli. Quel tanto necessario a dar loro la possibilità di credere che ne fosse valsa la pena, di passare del tempo con lui; di sapere, che non era vero non avesse nulla da offrire. Quel tanto da sapere non fosse stato solamente qualcosa di passeggero nelle loro vite; da sperare lo divenisse, perché il fardello di un ricordo era più pesante di un macigno legato al collo.
    Perché alla fine aveva avuto poco tempo, per dimostrare che avesse dato tutto quello che era in grado di dare. Aveva avuto poco tempo, per imparare a dire grazie, e mi dispiace, e ti voglio bene. E ti amo.
    Ma ci aveva sempre provato, a modo suo.

    Avrebbe voluto solo un po’ più di tempo.
    Per dar loro di più, molto di più - che da offrire voleva averne, per loro.

    Avrebbe voluto solo un po’ più di tempo.
    Perché non aveva avuto modo di dirlo,
    ma ogni secondo, ne era valsa la pena.
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    Non era stata una vita encomiabile, quella di Floyd Juan Villalobos. Non si era mai dimostrato meritevole dell’ipocrisia a dipingere le labbra della gente di Bogotá, né dei più morbidi e sinceri sorrisi che aveva appena iniziato ad intravedere a Bodie, California – troppo caldi, per riuscire a credere nella loro onestà; troppo belli, per essere veri. Se non sopravvivere fino ai ventiquattro anni, non aveva mai fatto nulla che valesse la pena di ricordare, figurarsi di raccontare: non si era mai voluto far notare, e se veniva distinto dalla massa, non era mai per sua intenzione – o, men che meno, per qualcosa che potesse considerare positivo. L’apparenza ed il buon costume del proprio nome lo richiedevano costantemente al centro della scena, ma aveva sempre mal tollerato la luce di quei riflettori: avrebbe preferito l’eterno anonimato a quella sporca eredità, ma era chiedere davvero troppo ad un Dio che non ascoltava realmente le sue preghiere. Cercava i margini del palcoscenico, d’essere solo un’ombra nelle vite altrui – e forse, un po’, c’era anche riuscito. A scuola, essere l’ultimo scelto per i lavori di gruppo non lo aveva mai turbato; dover rimanere nei banchi di fondo perché diverso, il sangue più sporco della giovane anima a confinarlo in un’elite di infami e bastardi, l’aveva sempre fatto sentire a proprio agio: non gli dispiaceva, quell’angolo d’accidia ed inerzia. Sentirsi dire da Anita, sua madre, di farsi vedere il meno possibile in giro per casa, di rimanere in camera sua a meno che non fosse espressamente richiesta la sua presenza – breve e fugace; un battito di ciglia durante il quale Lope avrebbe potuto vantare un primogenito maschio a chiunque visitasse la loro dimora -, lo faceva sentire più in pace con se stesso.
    Credeva, gli occhi troppo celesti a chinarsi sulle mani per evitare lo sguardo degli altri, di appartenere più a quel limbo d’indolenza ed ignavia che non al resto del mondo. Si era dovuto ripetere fino allo sfinimento, convincersi perché era l’unica cosa che lo aiutasse, di appartenere soltanto a sé, e a nessun altro: sentiva non esserci, in quella città e su quella Terra, nessun altro posto per quelli come lui.
    Era sempre stato quello fuori luogo, Floyd – quello sbagliato, inadatto, scomodo, respinto.
    E magari, avrebbe potuto fare di più per scivolare fuori da quelle definizioni; ci aveva provato, a non essere ciò che gli altri volevano che fosse – ma non abbastanza. Mai abbastanza, perché non era mai stato forte quel tanto che gli sarebbe servito ad elevarsi al di sopra di un tale preconcetto. Ci si era adagiato anche quando era diventato difficile mantenersi in disparte, e l’eccesso opposto lo aveva obbligato a scendere per le strade e mettersi in mostra per il buon nome dei Villalobos; si era costruito un’immagine, il frontone radioso di un tempio che al suo interno vedeva solo rovina e desolazione: non c’era bisogno d’entrarci, se tanto era appagante mirare il suo esterno.
    Non aveva mai voluto essere nessuno, ed alla fine c’era riuscito a diventare la traslucida immagine di sé.
    Ma non aveva mai fatto nulla di buono, Floyd Villalobos. Si era talmente nascosto dietro la propria falsità, da essersi perso l’occasione di divenire una persona migliore; se n’era accorto troppo tardi, d’esserne capace.
    Ci aveva provato, ci aveva provato e riprovato, a redimersi. A cancellare le sudice macchie di una gioventù vissuta all’ombra della convenienza; a lasciare che la sporcizia di una sopravvivenza necessaria venisse lavata via, facendo cadere dalle proprie spalle il peso di una corazza che s’era spaccata e scheggiata, ma che fino all’ultimo battito di cuore aveva avuto l’ardore di non rompersi irrimediabilmente.
    E lo sentiva, lo sapeva, di non esserci riuscito affatto. Di aver potuto fare molto di più, e di aver deciso di frenarsi troppo. La consolazione d’appartenere solamente a sé era divenuto egoismo, e di un tale fardello non riteneva d’essere riuscito a liberarsi.
    Non era stata una vita encomiabile, quella di Floyd Juan Villalobos. Ed anche negli ultimi istanti, in quella conclusiva convinzione d’esserci riuscito a fare qualcosa di giusto – finalmente, dopo tanti tentativi -, sentiva di non meritare alcun elogio. Di non meritare nemmeno una parte di quella bontà che gli ultimi anni gli avevano offerto. Perché se la sarebbe portata con sé, e si sarebbe nascosto di nuovo: buon Dio!, non voleva quello – non in quel momento, non per sempre.
    Sapeva i rischi, sapeva come poteva andare a finire. Non era la sua guerra, ma non gli importava: era delle persone che avevano reso la sua vita migliore, e per quanto facesse male l’idea di separarsi da molti di loro non aveva voluto tirarsi indietro. Anche soltanto per dire loro addio, e sorridere della consapevolezza di averli aiutati a tornare a casa. Non era un soldato, non era pronto a quello, ma aveva comunque voluto provarci – essere utile, capite?
    Ma non voleva morire, Floyd Villalobos.
    Non voleva distruggere tutto quello che aveva costruito fino a quel momento; non voleva andarsene, e senza dubbio non con il rimpianto di aver sbagliato tutto.

    Voleva soltanto tornare a casa.
    Anche lui, voleva avere la possibilità di tornare a casa.
    Non aveva avuto alcun diritto di dirlo a Barnaby Jagger mentre questo lo teneva tra le braccia, troppo debole e stanco per far passare le parole per quello che avrebbero dovuto essere: un lamento, un pianto, una memoria.

    Il ricordo di tutte quelle volte che lo aveva detto a suo padre, quando da questi era stato trascinato nei campi di sua proprietà, ed il gracchiare di uno stormo di corvi copriva il suono della cinta che veniva sfilata dai pantaloni – e sovrastava le lacrime, e le grida per ogni volte che il cuoio percuoteva la carne di un bambino perché non era degno, ed era uno sporco bastardo, e giurava su Dio che lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani. Il ricordo di tutte quelle volte che lo aveva pensato, poco più che adolescente, quando in cambio di favori sua madre lo vendeva al migliore offerente – e la fibbia che veniva sganciata era la sua, mentre l’unico pensiero di poter almeno tornare da sua sorella, una volta finito, gli dava la forza di resistere.
    Il ricordo di tutte quelle volte che aveva sperato che dentro le mura della villa, l’incubo gli avrebbe dato una tregua – ma non era stato così: era solo stato peggio.
    E di quella volta sdraiato su di un lettino metallico, martoriato e senza più voce, in cui senza essere davvero ascoltato da anima viva lo aveva ripetuto fino allo stremo delle proprie forze.
    Lo aveva promesso a Delilah, che l’avrebbe fatto – che sarebbe partito per qualche giorno, giusto il tempo di assolvere i compiti di Lope, ed avrebbe trovato un posto migliore in cui farla vivere. Che qualunque posto sarebbe stato migliore se fosse stato lontano da quelle bestie dei genitori, ma per la sorella aveva voluto qualcosa di più. Ma non lo aveva fatto, Floyd – non era mai tornato.
    Lo aveva detto ad Yvonne, al figlio che portava in grembo e che, santo cielo, non vedeva l’ora di poter crescere. Ma non lo aveva fatto, Floyd – ed erano morti, e non c’era stato.

    Almeno a Barbie avrebbe potuto risparmiarlo, l’eco di quell’umida preghiera.
    Perché lo sapeva già, non ci sarebbe mai tornato a casa.
    Perché alla fine non gli importava, quando a quel concetto non era mai stato legato davvero – non nel modo più canonico, non alla maniera più letterale.
    Come poteva interessargli se casa sua era lì, in quel preciso istante, a balbettargli di svegliarsi, cazzo? Non avrebbe mai avuto il coraggio di provarci, quantomeno, ad uscire dalla bolla nella quale s’era rinchiuso tanti anni prima, se, in un giorno come tanti altri, non fosse entrato lui in panetteria. E quella lingua, e quelle persone, e quel posto continuavano a farlo sentire fuori luogo – ancora inadatto, ancora respinto e scomodo -, ma in lui aveva trovato un alleato. E gli dispiaceva, gli dispiaceva così tanto!, di non aver mai fatto abbastanza – perché avrebbe voluto.
    Come poteva voler tornare a casa, se questa era in un’altra dimensione a cercare di raggiungerli?
    Non sarebbe stata casa, se sotto quel tetto non avesse potuto vedere tutti gli altri Viaggiatori, o gli abitanti di Bodie, California.
    Non lo sarebbe stata, se fosse stata lontana da quel piccolo, adorabile sociopatico di un Pepito.
    Che alla fine, all’idea di casa aveva sempre associato Delilah Villalobos: ed era lì, lei; da qualche parte, ma c’era. Non le aveva detto addio quando l’aveva abbandonata la prima volta in Colombia, e voleva a tutti i costi recuperare tutto il tempo perso – che poteva picchiarlo quanto voleva, e lui sarebbe rimasto lì ad attendere che avesse finito.
    E che casa sarebbe stata, se non avesse avuto l’occasione di ricordare a Mads che senza di lei, proprio non avrebbe saputo come fare? Di dirle che non pensava avrebbe mai più avuto la forza di innamorarsi di qualcuno, dopo aver perso la Baudelaire e suo figlio. Di dirle che c’era riuscita con così poco, da non dargli il tempo di accorgersene e di approfittare d’ogni momento in cui le si era trovato vicino.

    Non avrebbe dovuto dirglielo che voleva tornare a casa.
    Avrebbe dovuto dirgli grazie; avrebbe dovuto dirgli che aveva paura, ma che andava bene così - che almeno aveva fatto qualcosa di buono. Che gli dispiaceva di doverlo lasciare proprio ora.
    Che era stato il migliore amico che avesse mai avuto, e che era fiero di ogni secondo passato con lui.
    Avrebbe dovuto dirgli addio, ma non ne aveva il coraggio.
    Perché non voleva morire, Floyd – ed in quel luogo in cui non era mai davvero esistito, non voleva andarci mai più.
    Non adesso che era uscito dall’anonimato, e che era finalmente riuscito a fare qualcosa di giusto nella propria vita.
    Non adesso che aveva trovato qualcuno da amare davvero – una famiglia, una casa.
    Non adesso che ne valeva la pena, di appartenere a qualcuno.

    Non era stata una vita encomiabile, quella di Floyd Juan Villalobos.
    Ma ci aveva provato fino all’ultimo, a renderla memorabile – anche se non ne era degno, anche se non si meritava tutto ciò che aveva ricevuto. Anche se, da vigliacco egoista qual era stato per un’intera esistenza, se ne stava andando.

    Non aveva potuto dare a Joey quella vita migliore che avrebbe voluto promettergli.
    Non aveva ancora fatto pace con Delilah, non le aveva detto quanto le fosse mancata per tutti quegli anni.
    Non aveva detto a Mac e ad Harper quanto fosse stato fiero di loro, e che non ci avevano solo provato.
    Non aveva più occasione di finire le frasi di Barbie con un sorriso, di dirgli che andava tutto bene; di assicurargli che nel bene e nel male avrebbe sempre avuto lui al proprio fianco, e che sapeva di non essere il massimo come amico, ma aveva fatto del suo meglio – ed avrebbe voluto fare di più, ma non ne aveva avuto il tempo.
    Non aveva mai baciato Mary Madelaine, non l’aveva mai stretta abbastanza forte; non le poteva più dire che quando le aveva sussurrato che senza il suo eroe probabilmente non avrebbe fatto nulla, non intendeva sul serio – che non pretendeva di avere tutta quell’importanza nella sua vita, e sapeva che senza di lui sarebbe stata bene comunque: se lo meritava.

    Per tutta la vita, era stato un indegno, un bastardo, un codardo; era diventato un egoista, una comparsa sullo sfondo di una fotografia che non aggiungeva nulla all’istantanea, e che immobile non cercava nemmeno di cambiare le cose.
    Per tutta la vita aveva avuto paura – e nel terrore e nell’inerzia, aveva solo voluto appartenere a qualcuno che non fosse se stesso, essere parte di un qualcosa di più grande.
    Per tutta la vita, Floyd Villalobos aveva cercato di sopravvivere e basta.

    Aveva trovato il coraggio,
    ed aveva trovato qualcuno, aveva trovato qualcosa,
    ed aveva iniziato a vivere davvero,
    e non voleva morire, Floyd Villalobos,
    non ora che aveva così tanto.

    Ma se proprio doveva, se proprio non aveva scelta, immaginava che così andasse bene.
    Che alla fine c’era riuscito, a fare la cosa giusta.
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
     
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    Non era mai stata in grado di resistere alle lacrime; doveva trattarsi di una specie di errore d'assemblaggio, una rotella meno stretta delle altre nel pannello empatia: Erin Therese Chipmunks, il pianto degli altri, lo soffriva quanto il proprio, indipendentemente dalla causa scatenante dei singhiozzi a scuotere le spalle. Si attivava il meccanismo implicito nel sistema di ogni essere umano, ma dai più ignorato, di fare qualcosa; Erin non era mai stata in grado di bypassare il bug, né mai aveva voluto farlo: non sarebbe riuscita a vivere con sé stessa, se non avesse cercato di sostituire i singulti con un sorriso. Non era nella sua indole; l'idea di fingere di non vedere o aspettare che il momento passasse, non aveva mai sfiorato l'anticamera del cervello della Tassorosso. Non sarebbe stata Erin, se non ci avesse almeno provato.
    Allungò le braccia verso la bambina, un groppo alla gola nello stringerla contro il proprio petto. Per la Chips, il motivo per il quale piangeva, non aveva importanza: il fatto stesso che lo facesse, che fosse a causa di una caduta rovinosa o della nostalgia di casa, era di suo una motivazione sufficiente per soffiarle un bacio fra i capelli bruni, tenendola con la delicatezza reverenziale e timorosa di un ragazzino che avesse il terrore di perdere il palloncino annodato al polso. Fragile; oh, così fragile. Sincronizzò il respiro con quello della bambina, il battito del cuore di lei come un eco del proprio.
    Perché lo era, un eco.
    Perché quel pianto, era anche il suo.
    Chiuse gli occhi, Erin.
    «voglio raccontarti una storia»

    C'era una volta una bambina dagli occhi smeraldo che sognava troppo in grande - e che sognava troppo spesso. Ogni giorno era un'avventura; ogni giorno era una favola diversa con la stessa protagonista, la quale da una luna all'altra passava dall'essere la principessa imprigionata nel castello, all'essere il drago fuori dalle mura. I bambini vivevano una realtà diversa, da quella degli adulti; i loro colori, perfino quando sbiaditi e sbagliati, erano più vividi, più brillanti, così densi da poterli assaggiare. Quelli della bambina, erano sempre stati i più luminosi; il realismo era roba ancora lontana, nel sorriso fantasioso di chi da grande voleva diventare una sirena, o una fata, o - perché no - Babbo Natale o la nuova Regina d'Inghilterra. I suoi genitori le avevano sempre detto che potesse essere tutto quello che voleva, e lei ci aveva creduto.

    E lei ci credeva ancora.

    A sei anni, aveva già progettato la propria vita: deciso con quante ali avrebbe spiccato il volo verso le stelle; decretato che a tredici anni, non prima né dopo, avrebbe trovato l'isola che non c'è (aveva anche una mappa); scelto una carriera nella polizia, perché il cappellino era bellissimo ed una signorina gentile le aveva lasciato il proprio ed oramai era suo e lo sarebbe stato per sempre, ma non si era esclusa la possibilità di diventare presidente degli Stati Uniti d'America, o un'astronauta (cambiava spesso idea sulla propria carriera). Aveva un quaderno dove aveva minuziosamente descritto il proprio matrimonio (su una nuvola, chiaramente, altrimenti che razza di matrimonio sarebbe stato), ed il discorso che avrebbe tenuto alla sua laurea. Neanche sapeva cosa fosse, una laurea, ma sembrava una cosa importante. Voleva diventare come Mulan e come Belle, come Mushu e come Timon del Re Leone - voleva sempre diventare un po' di tutto quel che amava: un modo come un altro per tenerlo sempre con sé.
    Per non dimenticare.
    Sogni. Sogni, con così tanti da perderci sonno e fiato. Ma quando, davanti alla torta di compleanno, i genitori le ricordavano di esprimere un desiderio, soffiando sulle candeline ne aveva sempre avuto solo uno.

    «e qual era?»
    «se te lo dico, non si avvera»

    Ama tanto. Ama troppo, ama sempre, e dillo. Anche quando pensi sia stupido, dillo – scrivilo, cantalo, ballalo. Sii te stessa finchè puoi, bambina: un giorno potresti svegliarti, e non sapere più chi sei.
    Glielo ripeteva sempre sua mamma, grandi occhi color ambra gonfi di affetto e malinconia. La bambina annuiva, perché sentiva che si trattasse di qualcosa che avrebbe dovuto ricordare, di uno di quei grandi segreti degli adulti che un giorno, un giorno, avrebbe scoperto anche lei. Perché sei triste, avrebbe voluto chiederle; perché il tuo mondo non è come il mio - perché dovrei dimenticare d'amare. Ma non gliel'aveva mai domandato, perché certi interrogativi nascevano per non avere punti. Perché certe storie, iniziavano con c'era una volta e si concludevano prima del lieto fine.
    E non poteva saperlo, la bambina dagli occhi smeraldo, che la sua storia fosse una di quelle. Ma l'avrebbe imparato, che non tutte le principesse avessero un principe ed un castello ad attenderle; che lei, non l'avrebbe avuto.
    Aveva iniziato a capirlo quando, tornando a casa, aveva trovato la porta aperta e nessuno a risponderle; quando -

    I signori Rothbauer erano morti>
    «cos'è successo?»
    «la bambina ha scoperto uno dei grandi segreti degli adulti»

    La solitudine. Perché malgrado non avesse mai lasciato casa, e non avesse mai giocato con i figli dei vicini, non si era mai sentita sola: di amici ne creava ogni giorno, e sapeva che un giorno li avrebbe avuti sul serio, persone reali che potessero abbracciarla e sorriderle e dirle quanto fosse brava, e quanto fossero fieri di lei, e quanto fossero felici di averla conosciuta. I sogni dei bambini non erano altro che quello che gli adulti chiamavano speranza, e quella bimba in particolare ne aveva tasche piene e sorrisi interi. Sognava feste enormi, pacche sulle spalle, sguardi gentili e lenta musica d'atmosfera; nei suoi sogni, erano tutti come lei: vedevano il mondo con i suoi colori, sorridevano sempre, trovavano divertenti i cani buffi ed i gatti sovrappeso. A volte li spiava, gli altri bambini; a volte, nelle quattro mura della propria casa, fingeva di essere con loro, correndo quando correvano e nascondendosi quando si nascondevano. Capitava che la mamma la trovasse ancora arrotolata sotto il tavolo della cucina, le guance umide di pianto ed il mento sulle ginocchia; capitava che «non mi hanno ancora trovato», ma non si era mai sentita sola.
    E non aveva mai saputo dare un nome al vuoto fra le costole, fino a che -

    «cosa?»
    «un bambino, l'ha infine trovata»

    Si nascondeva ancora - da se stessa, dal mondo - quando era capitato nella sua vita. Occhi d'un grigio brillante, lucidi delle stesse lacrime che avevano solcato le guance della bambina. E l'aveva saputo subito, che loro due giocassero la stessa partita. Che da quel momento, avrebbero potuto nascondersi e cercarsi insieme; un tassello che non sapeva, non ricordava, d'aver perso, l'incastro perfetto in una sinfonia fino a quel momento dissonante.

    Era difficile da spiegare a parole, quanto di Scott Noah Chipmunks ci fosse nel sorriso di Erin. Quanto delle sue risate fossero per lui, con lui - di lui, con quelle palpebre assottigliate ed il naso comicamente arricciato quando dimenticava gli occhiali a casa.

    Vedevano la vita allo stesso modo, loro due; gli stessi, sbiaditi, colori a tingere il panorama di sfumature pastello. E l'avevano capito subito, che fosse successo qualcosa di grande, su quell'anonima panchina di Londra. Che le due storie, da quel punto in poi, sarebbero diventate una sola: la loro.
    Insieme?
    Come sempre.

    «era il suo principe azzurro?»
    «era molto di più»
    Era il suo principe azzurro ed il suo castello, il drago e la corona: era il suo migliore amico. Era suo fratello.
    Scott era il suo lieto fine.

    E smise di sentirsi sola, la bambina; fece promettere al suo amico di guardare, ogni giorno alle due del pomeriggio, il proprio palmo, e così avrebbe fatto anche lei: potremo immaginare di essere insieme, di avere una mano da stringere, e non dovremo mai più essere soli.
    Quando aveva paura, ricordava ancora quella promessa, gli occhi a saettare sul pugno chiuso - e come una vera magia, una vera magia, poteva quasi sentire le dita dell'amico nelle proprie, il sospiro dell'universo nel riconoscere l'unione di due pezzi d'anima separati troppo a lungo. Funzionavano meglio, insieme.
    Giurò a se stessa che l'avrebbe protetto sempre - di nuovo - che non l'avrebbe mai lasciato - di nuovo - e che avrebbe fatto del proprio meglio perché lui non volesse lasciarla: che un po' lo temeva, la bambina, che se ne sarebbe andato. Era quello che succedeva quando qualcosa era troppo bello per essere vero; era quello che succedeva quando vivevi di sogni, e crescendo ti rendevi conto non bastassero a riempire lo stomaco.

    «e poi se n'è andato?»
    «non lo avrebbe mai fatto»
    Ed all'epoca dei fatti, credeva non l'avrebbe fatto neanche lei; ancora non sapeva di non avere scelta. Ancora non sapeva che la loro storia, sarebbe diventata solo una - quella di Scott.
    Che avrebbe dovuto fare amicizia per tutti e due, e sorridere per tutti e due, ed andare avanti anche per lei; non sapeva, quella Erin, che Scott avrebbe dovuto scrivere un lieto fine ad entrambi, e che lei non ci sarebbe stata per vederlo.

    Crebbe, la bambina, sotto la costante attenzione di un drago -

    Sputava fumo e non fuoco, ma Keanu Larrington era indubbiamente un drago: proteggeva un castello, una principessa, ed era enorme e scorbutico e gentile e buono ed era il suo drago bellissimo.

    - e ricordandosi, ogni giorno che non poteva passare al fianco del suo amico, di guardarsi il palmo immaginando fosse lì con lei. Era una vita particolare, quella della ormai ragazzina; la strega cattiva l'attendeva fuori dal castello, limitando notevolmente il tempo che le era permesso all'aria aperta. Ancora sognava, però - quello, mai avrebbero potuto toglierglielo. Sognava di essere grande, di essere libera, di avere centinaia di piante e migliaia di amici: un giorno, si diceva, avrò tutto questo.
    Nel tempo, si era un poco ridimensionata. La bambina che sognava in grande, era diventata una ragazza dai sogni terreni e ancora ineffabili, con lo sguardo melanconico di sua madre ed il sorriso - oh, niente, quello era sempre lo stesso.

    Voleva solo una vita normale, Erin Therese Chipmunks. Voleva uscire i sabati pomeriggio con Scott, fermarsi a parlare con gli sconosciuti al parco, sorridere al ragazzo carino in gelateria, andare ad affittare un film - andare al cinema, andare al supermercato, lamentarsi dei voti a scuola, della marea di compiti. Voleva frequentare Hogwarts; voleva conoscere suoi coetanei, sapere se il loro mondo fosse come il suo. Voleva un gruppo di studio, ed un quaderno organizzato con le etichette colorate per ogni materia. Voleva passare settimane a chiedersi cosa avrebbe indossato per la festa di una tal Emma. Voleva innamorarsi, e voleva sapere cosa si provasse ad avere il cuore spezzato. Voleva ascoltare musica e piangere per un motivo, voleva disegnare sui banchi, voleva sgattaiolare dal proprio dormitorio per andare a guardare le stelle.
    Aveva smesso di sognare draghi e principesse, Erin Chipmunks - sognava un futuro come tanti, una vita che fosse vita.

    Ed il destino, in quelle vie traverse che sempre gli erano piaciute un po' troppo, aveva fatto scivolare all'interno del suo castello un altro prigioniero; quello che sarebbe diventato il suo compagno di avventure e disavventure, di pop corn lanciati contro uno schermo e risate soffocate nei cuscini; di tante prime volte che mai s'era osata di sognare, la bambina dagli occhi smeraldo, troppo vere e reali perché potesse comprenderle o immaginarle: gli scherzi stupidi di primo mattino, i litigi per l'ordine fra latte e cereali, le battaglie per decidere cosa guardare la sera. Aveva occhi gentili e sguardo triste, il ragazzo; aveva la risata più bella che avesse mai sentito, ed era stato guardandolo quando non le prestava attenzione che aveva capito -

    «di amarlo?»
    «sí, ma non nel senso che intendi tu» anzi: a guardare Nathan Wellington, Erin non aveva avuto dubbi che le farfalle allo stomaco fossero d'altra natura. Non era stato un clic come con Scott; non era stato il frammento perso e ritrovato di una o mille vite.
    Non era di Tupp, Nathan: era solo suo - solo di Erin, e la tredicenne l'aveva compreso subito, che sarebbero diventati qualcosa di grande.
    L'inizio di un'amicizia.
    E di una rivolta.
    E di una Erin che iniziava a comprendere cosa rappresentasse la Resistenza nelle vite di chi non c'era cresciuto: una seconda possibilità.

    - fossero fatti della stessa, riciclata ma sempre troppo buona, pasta, e che pane come il loro fosse destinato a cuocere, e se necessario bruciare, insieme.
    Le descriveva i colori che non poteva vedere; le raccontava storie che aveva creduto solo leggende. Le insegnava che per essere qualcuno, non doveva essere qualcuno per tutti - bastava lo fosse per qualcuno di speciale.
    Gli anni passarono in sospiri, che divennero risate e braccia strette sulle spalle. L'eroina conobbe quella che sarebbe diventata la sua guida, occhi cioccolato e le mani più gentili dell'universo a sfiorarle la schiena - voce dolce a sussurrarle che tutto sarebbe andato bene - e quella che da subito, dal primo istante, divenne la spalla di cui non sapeva d'aver bisogno. Il respiro che non aveva idea di aver cercato fra i respiri di tutto il mondo.

    Perché in un'altra vita, Tupp l'aveva promesso. Aveva promesso a Murphy Skywalker che si sarebbe sempre presa cura di lei, che lei fosse una delle cose più belle della sua vita.
    E Leia Skywalker, lo sarebbe stata sempre. Da amica ad amante, da amante a primo ed unico amore di una vita persa ma mai del tutto dimenticata: che Kieran non era sua amante, né era il primo ed unico amore di Erin Chipmunks, ma sarebbe sempre stata necessaria, per lei.
    Con lei. Sempre una delle cose più belle, nei sorrisi sopra le tazze di tè, nel concludere l'una le frasi dell'altra, negli occhi neri e pieni di costellazioni di Kier che la Chips non aveva creduto possibili. Un dono di Leia e di Kieran, e di Murphy Skywalker, d'inventare nuove stelle e fingere non fosse nulla di che.

    E credeva d'essere al completo, la ragazza. Credeva di non potersi riempire la bocca d'altri sorrisi, il cuore di un'altra persona, le mani di altre dita da stringere quando aveva paura del buio.
    Perché di paura, ne aveva sempre.

    «sempre?»
    «quasi, sempre»
    «perchè quasi?»

    Perché loro la rendevano coraggiosa. Le davano un motivo per esserlo, per diventarlo - la spingevano a provarci un po' di più.
    E la ragazza dalla risata calda ed il profumo sulla pelle di pancake, fu la fantomatica goccia a far traboccare il vaso. Fu il punto di una serie di frasi prive di punteggiatura; fu la panna sui brownies al cioccolato: perché non aveva memoria, la ragazza, e l'eroina della storia s'era inserita fra le sue crepe trovandole perfette e bellissime, adattandosi agli spazi ristretti fino a che non si fossero allargate per permetterle di danzare.

    «era rotta? l'ha aggiustata?»
    «non ne aveva bisogno» si era aggiustata da sé, Jessalyn Goodwin, più coraggiosa e forte di quanto Erin avrebbe mai potuto essere. Fra tutti, era quella che più le aveva insegnato il significato di ricominciare - di rialzarsi sempre.
    Di non arrendersi mai. Con il suo ottimismo, e le sue battute stupide, e quella risata che s'appiccicava sulla pelle - e quel far sentire Erin speciale, perché Jess poteva anche essere convinta di essere stata lei quella in cerca d'accettazione, appena affacciata al Quartier Generale della Resistenza, ma, oh, se solo avesse saputo. Si era fatta bella per quell'incontro, Erin; aveva cambiato abiti dieci, cento, mille volte, con un esasperato Nate a dirle che andava benissimo già la prima volta, ed aveva chiesto a Murphy se i capelli fossero a posto almeno un migliaio di volte. Voleva fare buona impressione. <i
    Voleva la scegliesse.
    Perché si era viziata, la Chipmunks, con quei sogni che continuavano a diventare realtà; perché poteva vedere la bambina dagli occhi smeraldo giudicarla da un angolo della stanza, e voleva dirle hai visto? Ce l'abbiamo fatta, Erin.

    Non aveva alcuna idea di cos'altro aspettarsi dalla vita, la ragazza; i programmi che s'era fatti da bambina sembravano riduttivi, per quel mondo che, al suo meglio ed al suo peggio, non smetteva di stupirla: credeva di aspettarsi qualunque cosa.
    Quello che non aveva immaginato, era -

    «...un pesce magico?»
    «si, un pesce magico»
    «e cosa aveva di magico?»
    «trovava tesori» capelli d'argento, occhi zaffiro, e cuore dell'oro più puro: Erin, Tupp, l'aveva saputo da quando ne aveva intravisto il profilo, che Amalie Shapherd fosse l'imprevisto migliore della sua vita. Perché se Scott, suo fratello, completava la sua metà per sangue e per vite intere passate a cercarsi e rincorrersi, Mabel ed Amalie erano l'altra metà a completare la scheggiata, e non sempre funzionale, parte Erin: che dalla parte che s'incastrava con Scott era perfetta, ma l'altra portava frammenti mancanti qua e là, sistemati una meraviglia dai metalli preziosi della Corvonero. Cresciute insieme, distrutte insieme - e centinaia di migliaia di scelte, sbagliate o giuste che fossero, insieme.
    Mabel, Amalie; il nome era solo un'etichetta, per quella ch'era stata, era, e sempre sarebbe rimasta, la sua migliore amica.

    - un pesce magico.
    E meno male che c'era, il pesciolino magico, perché l'eroina fu costretta ad affrontare alcune delle prove più difficili della sua vita: crescere, perdere.
    Ma era pronta a tutto, perché le avevano insegnato a riprovare, a ricominciare, e che la sua storia dovesse scriverla lei; non si sarebbe mai arresa fino a che non fosse riuscita a vincere.
    A qualunque costo.
    Perché tutto, ma non loro.

    Ci credeva davvero, Erin, che avrebbero vinto.
    Perché voleva mostrare ad Amalie i suoi quaderni, che hai visto, am, sono andata ad Hogwarts!.
    Perché aspettava la correzione bozze delle sue storie da Kieran, che sono riuscita a finirla sul serio, ma stavo aspettando te per pubblicarla: insieme, no?.
    Perché doveva far assaggiare a Murphy la nuova ricetta dei brownies, che devono piacere a te, altrimenti non mi interessa.
    Perché voleva abbracciarle fino a che avesse avuto forza e fiato, che mi siete mancate così tanto.
    Perché doveva fare ancora così tante, così tante!, cose, Erin Therese Chipmunks, che dovevano vincere per forza.
    Doveva diplomarsi con Scott, stancarsi la bocca a furia di sorridere all'obiettivo, e infilarsi nelle foto di tutti i suoi compagni - perché anche se di sfondo, voleva esserci, nella loro vita. Voleva essere ricordata, Erin, fosse anche solo come macchia sfocata in un angolo di pellicola. E voleva che ci fossero Amalie e Murphy, e Dakota e Maeve, e Keanu e Phobos e Mitchell, a sorriderle battendole le mani perché ce l'hai fatta, Erin - e sarebbero stati, oh, così fieri di lei, che solo ad immaginarlo poteva sentirsi sollevata: aveva solo voluto renderli fieri di lei, Erin.
    I ribelli.
    I suoi amici.
    La sua famiglia.
    Essere qualcuno per qualcuno.
    E doveva ancora salvare il mondo, la ragazza della Resistenza; doveva ancora ribaltare il regime, respirare libertà e vita dopo anni di morte e paura.
    Doveva fare un pigiama party, presentarsi a casa di qualcuno con lo zainetto sotto braccio, ed i piedi a dondolare nervosi sullo zerbino. Doveva andare ad un prom, perché aspettava quel momento da tutta la vita, ed i disegni dell'abito dovevano ancora essere fra le pagine del quaderno dove una Erin bambina aveva annotato il suo futuro. Doveva innamorarsi; dopo gli anni passati a sognarlo, a immaginarlo, a scriverlo, non potevano toglierle la possibilità di farle conoscere quel genere d'amore. E voleva tutto, Erin: le farfalle allo stomaco, l'angoscia da primo appuntamento, il mascara sciolto della prima rottura, la scatola di gelato che avrebbe diviso con Jess mentr'ella gli ripeteva quanto fosse stato lui a perderci, e Scott e Amalie facevano spedizione punitiva sotto casa sua. A fare cosa, poi, non avrebbe saputo dirlo; li immaginava a vandalizzare la cassetta della posta, ed allontanarsene soddisfatti - e bastava a farla sorridere, a renderla grata di averli nella loro vita.
    Ma quello, sempre.
    Senza di loro, non sarebbe stata la stessa. Senza il biglietto che Nicky Winston le aveva passato il suo primo giorno di lezione, non sarebbe stata la stessa; senza avere sempre un posto dove sedersi quando Scott non c'era, senza una Chouko a darle calcetti sotto il banco e domandarle se volesse un pezzo della sua merendina, non sarebbe stata la stessa. Senza un Mehan Tryhard a farla arrossire, e stringerle la gola in un nodo languido, e dirle che fosse bella, non sarebbe stata la stessa.
    Senza un Behan a salutarla, goffo e imbarazzato, sempre, ricordandole che non fosse invisibile - non più - non sarebbe stata la stessa.
    Senza i suoi amici, non sarebbe stata Erin Therese Chipmunks, la ragazza che aveva fatto una scelta.
    Che aveva scelto di sperare.
    Non potevano toglierle la possibilità di dirglielo. Non potevano non farle riabbracciare Murphy e Kieran, non potevano impedirle di farsi aggiornare da Amalie su quanto si fosse persa. Non potevano privarla dell'idea, perché le bastava l'idea, di prendere Scott per mano, e presentarsi alla porta di Jayson Matthews e Lydia Hadaway per dirgli fossero i loro figli: che il mondo aveva remato sempre contro di loro, ma erano comunque una famiglia. Che avrebbe amato, poterlo essere sul serio - poterli ricordare, poterli ancora conoscere. E non potevano non permetterle di stringere le sorelle che non sapeva di avere in quel mondo, sospirando nel profumo dei loro capelli che sapeva, sapeva, perfino dopo una vita intera, avrebbero saputo di casa.
    Non potevano, vero?

    «e vissero tutti felici e contenti» sorrise alla bambina, le lacrime di lei oramai un ricordo negli occhi color muschio.
    «e non ha mai pianto, lei?»
    I Rothbauer.
    La solitudine.
    I rapimenti.
    Il primo morto.
    Mi dispiace, non lo faccio più.
    Keanu.
    Delilah e Neil.
    Nathan e April.
    I morti di Dicembre.
    Mi mancate così tanto.
    Hogwarts.
    Così. Tanto.
    «qualche volta, ma sono di più i momenti in cui ha riso»
    Nathan a riempirsi la bocca di marshmallow nella chubby bunny challenge. Jess a scrollare le padelle per far saltare i pancake, finendo poi per incollarle al soffitto. Le canzoni di Taylor Swift cantate a squarciagola con Gwen. Murphy a ballare il tempo delle mele con una ciambella.
    I litigi di Amalie con Eskild.
    Scott a scivolare sui pattini, perché hanno le ruote ma non sono come lo skate, okay?
    Le notti passate ad aspettare l'alba.
    I tramonti passati ad aspettare il buio.
    Le due del pomeriggio.
    «ne vale la pena»
    Tupperware allungò il mignolo verso di lei, solenne nei suoi cinque anni e mezzo a demandare che Erin facesse lo stesso.
    «me lo prometti?» ed era come vedere la stessa con il futuro già scritto sul suo quaderno.
    Non lo sai? Ce l'abbiamo già fatta, Erin.

    Si chiamava Erin Therese Chipmunks, ed aveva sempre voluto una vita normale.
    Ogni anno, al suo compleanno, esprimeva sempre lo stesso desiderio.
    Essere felice.
    E lo era stata davvero, perché aveva avuto molto di più di una vita normale: era stata una vita fenomenale. Non avrebbe potuto chiedere di più, Erin.
    Aveva già avuto tutto.
    «te lo prometto.»
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
     
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    «Due verità e una bugia. Vediamo se ci conosciamo davvero»
    Eloide alzò pigramente lo sguardo dalla propria rivista, ma Phoebe, brilla, era già scattata sull'attenti, rizzandosi sulla poltroncina dove fino a poco prima era stata allungata come un gatto. «Avete detto che vi annoiate. Giochiamo»
    «Che gioco sarebbe?» Heather si voltò con un sorriso languido verso la Dumont femmina; se all'inizio l'aveva accettata nelle Mean con l'idea di far soffrire Charles, ora si era semplicemente affezionata alla francese. «Vi dico tre fatti di me, e voi dovete scoprire qual è la bugia»
    «Sappiamo già che cosa non fai tutte quelle ore di tirocinio a fare fotocopie- EHI!» il cuscino che arrivò in faccia a Eloide fu del tutto meritato (Alister non c'entrava niente col fatto che passasse tanto tempo al quarto livello, voleva semplicemente assicurarsi le conoscenze giuste per il post diploma-... fra le quali casualmente c'era il Black) ma fece finta comunque di non averlo lanciato lei.
    «Chi sbaglia, beve. Se indovinate, bevo io» Theia si sistemò meglio sul divanetto, Eloide roteò gli occhi tornando a osservare la rivista, Amelie sorrise timidamente. «Pronte?»


    «uno» Heather Morrison sarebbe morta troppo presto.
    Non perchè avesse diciassette anni - non esiste un'età giusta per morire, si smette di esistere e basta -, ma perchè al mondo quella ragazza apparsa dal nulla con ricordi falsi, una vita falsa, non aveva dato niente. Bunny, almeno, l'aveva fatto, prima di scomparire: se non lasci un'eredità cercando di smantellare una famiglia mafiosa dall'interno, come? Bunny aveva fatto tante cose sbagliate - aveva ucciso, aveva fatto del male, aveva voltato le spalle alla famiglia che l'aveva cresciuta - ma era innegabile il fatto che avesse lasciato un'orma, un'impronta indelebile nei cuori e nelle vite di qualcuno, anche se non sempre e solo positivamente, anzi.
    Bunny aveva vissuto.
    Heather, d'altra parte, aveva buttato il tempo che le era stato concesso per pietà («È ancora la nostra bambina, Dariy. Non puoi ucciderla»)- che ambiziosa lo era sempre stata, in una o nell'altra vita, ma da adolescente americana e con quella nuova identità aveva decisamente sbagliato a prendere la mira, pensando per troppo tempo l'avrebbe resa felice qualche idiota che gridava il suo nome venendo, o essere guardata mentre passava per i corridoi. Pensando che fosse sufficiente che metà della popolazione volesse entrare in lei, e l'altra essere lei.
    Aveva appena iniziato a capire cosa poteva fare per il mondo davvero, appena deciso di seguire quella ragazzina dagli verdi e i suoi amici in quel club "segreto" che chiamavano esercito, appena iniziato a lavorare al ministero per capire come va il mondo e scoprire cosa non funzionava,
    come migliorarsi,
    come essere potente,
    appena iniziato a combattere.
    Aveva bisogno di più tempo.
    Invece, sarebbe morta troppo presto.

    «Due» Heather Morrison credeva di non essersi mai affezionata abbastanza a qualcuno da poter dire di aver amato.
    Complice il poco tempo a disposizione, forse, Ma la bionda pensava che le persone nella sua vita fossero pedine. Non le importava abbastanza di nessuno, non voleva le importasse. Era più facile così, da sola, senza dolori inutili e senza distrazioni.
    Un giorno forse avrebbe trovato qualcuno (amici? amanti?) di abbastanza che si sarebbe meritato il suo tempo e il suo affetto, ma non quel giorno- ormai, nessun giorno, visto che sarebbe morta sola com'era vissuta.

    «E tre-» Heather Morrison non sarebbe stata compianta da nessuno, come nessuno aveva davvero pianto Bunny due anni prima.
    Il prezzo da pagare per essere una stronza senza cuore. Un prezzo onesto, a dir la verità, un prezzo che aveva messo in listino la ragazza stessa con i propri atteggiamenti sempre un po' più freddi del necessario, un po' più falsi del dovuto, un po' più ipocriti di quanto volesse. Che pensava di avere più tempo, la bionda. Che pensava che avrebbe avuto l'occasione di migliore, e l'occasione di farsi conoscere davvero un giorno.
    Che non pensava sarebbe morta - così presto, Dio, così giovane - Heather Morrison, quindi perchè preoccuparsi di fare in modo che qualcuno sarebbe stata al suo capezzale a piangerla?
    Invece, per colpa di uno stupido, casuale, troppo appuntito pezzo di roccia del cazzo, sarebbe-
    morta.
    Circondata da gente, ma ignorata - perchè chi le piangeva, le Heather del mondo, quando a morire erano gli Stiles, le Erin, le Jessalyn, i Dick? Chi le piangeva le Heather del mondo, quando lei per prima non avrebbe concesso al proprio cadavere più di un secondo, sacrificandosi piuttosto per chi aveva così tanto dare - chi così tanto già l'aveva dato?
    Non voleva morire, Heath e non voleva morire sapendo che a nessuno sarebbe fregato un cazzo, ma ormai era andata così, e ormai aveva sbagliato, e ormai aveva finito il proprio tempo.
    La prossima vita, forse.

    «C-charles-» e sapeva di sangue, quel nome - il proprio. E sapeva di sconfitta, e sapeva di-
    "non voglio morire."
    «I-iggly-»

    Uno: Heather Morrison sarebbe morta troppo presto.
    (Così tanto che avrebbe ancora potuto fare, così tanto.)

    Due: Heather Morrison credeva di non essersi mai affezionata abbastanza a qualcuno da poter dire di aver amato.
    («Dumont,-» «SEI FINALMENTE INCINTA?» «- guarda, mi è passata la voglia di dirtelo»)
    («Se la tocchi ancora senza il suo permesso, ti taglio la gola. Sono le mie migliori amiche, e nessuno manca loro di rispetto»)
    («Non mi ero mai accorta fosse così grosso» «Il mio cazzo?» «Il tuo ego, Black»)


    Tre: Heather Morrison non sarebbe stata compianta da nessuno, come nessuno aveva pianto Bunny due anni prima.
    "«Heather è morta» dirlo rendeva tutto più reale «Heather è morta» dirlo ancora era come piantarsi quello stesso spuntone nel petto e sentire le terminazioni nevose andare a fuoco.
    Heather era morta e lui non avrebbe potuto dimenticarlo."

    "Istintiva e rapida, la mano di Scott Chipmunks a scivolare sulla bocca, tappandola prima ancora che dalle labbra sottili potesse uscire quello che, se solo ne avesse avuto la voce, sarebbe stato uno strillo – il nome di Heather Morrison stretto dai denti sulla lingua, in un eco che la bionda serpeverde non avrebbe potuto udire. [...] Perché a Scott, Heather piaceva – più di quanto mai avrebbe pensato che una ragazza popolare potesse fare"

    "Infrangere il coprifuoco significava farlo con Heather, i pomeriggi all'Amortentia avevano senso solo con Heather, la disperata mancanza di qualcuno da chiamare amico era solo la disperata mancanza di Heather.
    E adesso era andata, per sempre."



    «Qual è la bugia?» Heather incrociò le braccia, soddisfatta dalla sfida che aveva lanciato. Phoebe fu la prima a far scattare la mano in alto. «La seconda!» «Risposta definitiva?» sorrise. «Beh che era facile...» Fece spallucce. «Vorrà dire che dovrò bere io-» «Ma per favore» Eloide, che neanche sembrava avesse ascoltato fino a quel momento, alzò lo sguardo per puntarlo su Heather. «Era la terza, la bugia, e lo sai»

    E invece, Heather Morrison sarebbe morta senza saperlo, che la terza era una bugia, e la seconda una verità.
    Credeva di non aver amato, ma l'aveva fatto. Anche se non nel modo focoso e suicida di una commedia romantica, di aver voluto bene agli idioti capitati nella sua esistenza, di aver amato Charles un po' più di un amico, di essere affezionata alle Mean decisamente troppo, quando a loro di lei a mala pena importava - ma non l'avrebbe mai ammesso ad altri, perchè amare voleva dire soffrire - quando Charles se n'era andato, quando Nat era partita, quando Phoebe aveva preferito chiudersi in se stessa piuttosto che parlarle, quando Alister non si era presentato quella mattina a combattere - e non voleva che qualcuno sapesse che fosse in grido di farlo.
    Sarebbe morta, invece, senza sapere di aver segnato vite altrui, seppur non in modo grandioso come avrebbe sognato,
    di aver fatto la differenza da qualche parte
    senza sapere che qualcuno l'avrebbe compianta,
    qualcuno sarebbe stato triste per la sua morte,
    qualcuno l'avrebbe ricordata.
    Senza sapere, dopotutto, che aveva davvero vissuto prima di morire.


    cercò con lo sguardo le sfere pokè, rotolate via. «I-igglyp-p-p-» non voleva che si facesse male anche lui. Dov'era finito? Qualcuno stava salvando i suoi pokemon? Perchè aveva così male?
    non voleva morire non voleva morire non voleva morire
    «dov-»
    non voleva morire non v
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco


    Edited by mephobia/ - 30/6/2019, 18:11
     
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170 replies since 1/6/2019, 23:30   3702 views
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