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    Time to prenotare il responsabile del reparto di urgenza e special con Kiel Kane. Magari arrivo anche oggi con la role di prova, intanto lo dico qui
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    wyatt holland
    It's in my bloodstream, I feeling in my veins
    It's why we never sleep
    We've been trying to live our dreams
    We don't fold for pressure
    Chiuse gli occhi e tenne la lingua premuta contro il palato, il capo poggiato alla parete della stanza.
    Se li avesse riaperti, avrebbe visto solamente lo scialbo e asettico arredamento ospedaliero, l’asta della flebo ed il deflussore che ancora ondeggiava da quando se l’era strappato dall’incavo del gomito – non li voleva gli antidolorifici, non aveva bisogno di medicinali per sopportare ferite e contusioni –, il letto che aveva lasciato intatto da quando i medimaghi quella stessa mattina erano passati a rifarlo. Il telefono tra le dita, abbandonato alla forza di gravità alla quale egli stesso si stava affidando da – quanto? – giorni; il nome sullo schermo e l’icona del contatto a sorridergli, ingenua ed ignara.
    Ci aveva già provato a fare quella chiamata, due giorni prima; aveva aspettato che squillasse due volte, e poi aveva attaccato. Ed aveva ignorato i messaggi a far vibrare il cellulare sul comodino, dicendosi che potesse aspettare un altro po’; ché più avrebbe ritardato quel momento, meno avrebbe fatto male.
    «oh, holland. che gran bugiardo
    Ci ripensava più spesso del necessario alle parole del Matheson – le ultime che avesse sentito pronunciare dal ragazzo prima che il mondo si accartocciasse su sé stesso, stropicciando quel che non avevano saputo proteggere e strappando i bordi di ciò che avevano provato a costruire. Ci pensava, e rideva: perché Law non aveva capito un cazzo, e forse aveva lo aveva fatto fin troppo. Perché che non gliene fregasse niente, era vero sotto molti punti di vista, ed una totale puttanata sotto molti altri.
    Non gli interessava di ciò che avrebbe fatto con quella pergamena: poteva leggerla e credere ad ogni cosa ci fosse scritta, o studiarla e pensare che fosse uno stupido scherzo volto a burlarsi di lui; poteva bruciarla, non degnarla di uno sguardo e gettarla nella faglia che aveva ucciso i suoi compagni e rovinato la vita dei suoi amici. Gli importava che ci fosse stato così male per anni, che avesse atteso il momento giusto e che questo non fosse giunto nemmeno quando stavano per perdere tutto quanto; che fosse stato così stupido da crederci, da giocarci sopra fino a quando divertente non lo era stato più.
    Non gli interessava che avessero perso; non davvero, perché non aveva mai creduto potessero vincere quella battaglia – non la guerra. Era incazzato, ed era triste, ed aveva pianto nel buio di quella camera solitaria senza fare un suono, e odiava che ne fossero usciti sconfitti e tutte le maledette ripercussioni che c’erano state, ma che non avessero mezza chance era già stato scritto prima ancora della Fiera di Primavera: non significava nulla, avrebbe combattuto comunque perché era l’unica cosa che sapesse fare. Ciò per cui era venuto al mondo, occhi già lividi e sangue a sporcare le nocche. E quello era solo l’inizio, non la fine. Ma gli importava di Moka e Javi, di Sin e Just e Al, dei posti che gli avevano detto fossero rimasti vuoti al Quartier Generale; gli importava di JD e May, di Holden, Hunter, Halley e Bertie; di Willa, Wind, Cora; di Arci, e di Bells.
    Non gli interessava della magia che aveva perso, della bacchetta che aveva tenuto tra le dita più volte quei giorni nel vano tentativo che facesse qualcosa: lo aveva definito, lo aveva reso libero, gli aveva dato uno scopo undici anni prima; lo aveva emancipato e gli aveva fatto capire che il suo destino non fosse mai stato scritto nella periferia di Cardiff nella quale era stato abbandonato. Ma non era uno stupido, non aveva imbracciato la mazza e sceso a combattere come uno sprovveduto, come aveva dato a vedere: era addestrato, era consapevole, sapeva quanto contasse ogni singolo respiro e ogni centimetro di terra o asfalto calpestato in quel mese e mezzo – e sapeva che ogni utopia mettesse sul bilancio finale dei sacrifici; la speranza che non ci fosse bisogno non bastava, non bastava mai, ed essere disposti a perdere tutto doveva essere la base. La era stata per Wyatt Holland, e non si pentiva di niente: doveva soltanto imparare di nuovo da zero, comprendere come gestire quel tutto che, al momento, gli sembrava ben più che insormontabile. Perché sentiva troppo, e sentiva troppo, e sentiva troppo e non riusciva a chiudere le porte e non riusciva a dormire e si accartocciava su quel letto con le mani a spingere sulle tempie a pregare che quel fottuto ospedale la smettesse di provare tutta quella paura, tutto quel dolore, tutta quella gioia, tutta quella fiducia in una divinità che non avrebbe ascoltato nessuno di loro e respirava, perché era tutto ciò che potesse fare – per ora, per un po’.
    Ma cazzo, cazzo se gli importava di non poter più giocare; era l’unica cosa su cui non avesse alcuna certezza, forse poteva ancora farlo, ed era la cosa che aveva fatto impattare più veementi e fameliche le nocche contro la parete bianca su cui aveva sfogato – i demoni ad impossessarsi degli altri, le spine a prosciugarli, la stupida faccia di suo fratello, Abbadon, la sconfitta – tutto quanto.
    Per il gioco in sé? Solo in parte: era la sua vita, era il suo lavoro, era ciò che lo definiva come essere umano fuori dalla Resistenza. Non erano le cose più importanti – perché ciò che più faceva male, era perdere quel che ci aveva trovato: una famiglia.
    Ed alla fine, dunque, lo fece.
    «… coach?»
    Sei vivo. Stai bene. Bang come sta.
    «io ho… perso…»
    Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace.
    «ho perso la magia.»
    Perché non c’erano mezzi termini per dirlo, e poteva solo tagliare corto e – aspettare.
    Non me ne pento, ma mi dispiace
    «… hai perso la bacchetta?»
    E cosa poteva fare, se non ridere – e ridere, e ancora, la mano premuta sugli occhi nuovamente chiusi fino a che non le sentì bagnarsi.

    «dimmi un numero.» sollevò un sopracciglio, i pugni chiusi affondati nelle tasche della tuta; e guardò la Dallaire, per più tempo di quanto fosse moralmente accettabile. Non aveva visto la ragazza, come non aveva visto nessun altro nel San Mungo da quando ci aveva messo piede: non gliene fregava un cazzo delle persone a fissarlo, ad additarlo come un rivoltoso, ma meno tempo passava accanto a loro e più evitava intense ondate di stupide emozioni a sbatterlo contro il muro; ma sapeva fosse lì. L'aveva sentita, lei e tutti quelli di cui aveva potuto comprendere i colori ad accavallarsi e mescolarsi dietro le palpebre serrate.
    Riuscire a comprendere che disegno la tavolozza della cercatrice tentasse di pitturare, però, non era semplice – rabbia, frustrazione, dolore; niente che non provasse lui, ma con tonalità diverse che poco avevano a vedere con la sconfitta di quella battaglia.
    «undici.» rispose alla cieca – nel senso... non a Bells... anche, vabbè –, senza spostare lo sguardo sulla macchinetta. «è il nostro numero, no?» uno più uno; non era mai stato bravo in matematica.
    E la osservò. «sei indecisa, o...» Osservò meglio, perché c'era qualcosa nella postura della ragazza che non gli tornava. «o cosa?»
    Già: o cosa?
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    «non così tanto, immagino.»
    Non rispose, Wyatt. Rimase a fissare il fratello inconsapevole del loro legame, metabolizzando le parole di lui sillaba per sillaba – attimo per attimo. Non avevano assolutamente un briciolo di tempo per fare nulla, loro due. Non lo avevano avuto per bisticciare da bambini, per giocare insieme, per discutere davanti alla stessa cena o sbattersi la porta della camera in faccia l'un l'altro; non lo avevano avuto per conoscersi, per capirsi, per evolversi insieme.
    Rischiavano di non averlo per recuperare un cazzo, e non aveva capito di averlo desiderato fino a quando Abbadon non aveva scelto di stravolgere le carte in tavola, mandando all'aria ogni stupido progetto del custode.
    E quello, senz'ombra di dubbio, non era il momento adatto per riconsiderare anni di indecisioni. Sarebbe stato stupido da parte sua dirgli la verità, chiedergli di non farsi troppo male qualsiasi cosa avesse scelto di fare in quel momento, e proporre una birra al pub quando tutto fosse finito – e di base, il cercatore non era il tipo da fare cose particolarmente furbe.
    «purtroppo, l'ambiente mi è certamente familiare.»
    «già,» sbuffò una risata, le mani a conca sui fianchi e la schiena inarcata. «in effetti sembri proprio uno di quei pezzenti nati con la camicia e con la puzza sotto al naso. ma l'abito non fa il monaco, dico bene?» perché, nonostante tutto, era un figlio di puttana: istigava fino a quando qualcuno non decidesse essere cosa buona e giusta mollargli un pugno sul naso. Che Law fosse sangue del suo sangue, non avrebbe cambiato l'impressione che aveva avuto di lui leggendo quella lettera, o quella che si era fatto nel corso degli anni in quella nuova linea temporale: voleva volergli bene, ma voleva anche rompergli il cazzo fino a quando non avesse sbroccato.
    «se ti può consolare, moriremo tutti entro breve.» ah però, che dono dialettale che aveva il ragazzo. «oh, merda. spero proprio di no, ho conti da saldare e campionati da vincere. certo che sei un bel gufo del cazzo, eh?» perché l'onestà prima di tutto. «non avrai mica intenzione di buttarti nella mischia? non... mi sembri il tipo.» il che, tutto sommato era vero: Lawrence Mani-Di-Fata Matheson, sporcarsi le belle manine curate? Qualcosa che, in fin dei conti, avrebbe voluto vedere.
    «se queste sono le ultime ore che ci rimangono, prima della fine, magari prova a chiarire con loro no? non se lo meritano, ma magari hanno avuto le loro buone ragioni. il rancore avvelena il sangue, e l’anima.»
    «piuttosto mi uccido, guarda.» diretto, schietto, fedele alla balla che aveva appena inventato – più o meno.
    «ma tanto,» posò una mano sulla sua spalla, un sorriso sornione a fior di labbra. «tra poco succedera comunque, no?»
    Gli diede un paio di buffetti sulla guancia, prima di allontanarsi. «scusa ancora per il pugno, se non schiattiamo ti cerco per farmi dare il benservito!» retrocedette, rimanendo a guardare il serpeverde.
    «in bocca al lupo, fratello!»
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    2001
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    «ma porca troia»
    Quanto sarebbe stato infantile, se Wyatt avesse avuto un registratore nella tasca della giacca? Molto, ne era cosciente – ma quella consapevolezza non l’aveva potuto fermare dall’accenderlo non appena puntato il Matheson, né dal sorridere compiaciuto mentre l’altro non poteva vederlo, il dito a premere sullo stop prima di piegarsi e controllare di non avergli rotto il setto nasale.
    O di averlo fatto.
    Non era molto quel che aveva potuto strappargli quel giorno, ma era comunque qualcosa da appuntare nel personale fascicolo sul fratello. A dire la verità, non era molto quel che aveva in generale: l’evento più eclatante che avesse registrato era di quella volta in cui Law aveva palesemente visto che qualcuno stava correndo per prendere il suo stesso ascensore, e questo aveva fatto in modo e maniera di far chiudere le porte anziché aspettarlo.
    Ma giurava che ce l’avrebbe fatta, prima o poi. Era la sua personalissima missione, e l’Holland non era il tipo che mollava tanto facilmente.
    Aveva anche dimenticato quale fosse il suo movente, perché volesse tanto disperatamente mostrare al mondo chi fosse davvero Lawrence Matheson – o chi, almeno, avesse dato per scontato si nascondesse dietro quel faccino tutto sorrisi falsi e dolci fossette sulle guance. Una causa che aveva preso tanto a cuore, da perseguirla senza davvero pensarci più di tanto.
    Almeno così poteva condividere qualcosa con lui.
    «allora fortuna per lui che hai beccato me, eh» che falso: poteva tirargli un altro pugno sul muso, magari spaccandogli qualche dente e completando l’opera?
    Magari così sarebbe stato troppo preso a fari rimettere a posto la faccia e non avrebbe nemmeno pensato troppo alla guerra imminente; ne sarebbe rimasto fuori, almeno lui, e magari un giorno avrebbe trovato il modo di affrontare un discorso sincero anziché pedinarlo.
    Sorrise imbarazzato, la mano a massaggiare distratta la nuca. «sì, insomma... avrei preferito beccare lui.» pareva sincero, fingendo di non volerlo colpire davvero.
    A Wyatt piaceva picchiare, e più spesso farsi picchiare, ma solo nei giusti ambienti – su un ring, sul prato del campo di Quidditch contro la squadra avversaria, sotto casa di una conquista che non era andata a finire come aveva previsto. Non era solito approcciarsi in questo modo con la gente per strada, ma era stato preso dal panico ed aveva dovuto improvvisare.
    Di sicuro, avrebbe preferito che l’altro non lo riconoscesse – metteva a repentaglio la sua missione. Annuì, il petto gonfio per deformazione professionale: era sempre bello essere riconosciuto dai fan, anche quando non erano fan ma piuttosto gente che gliele aveva promesse e che, puntualmente, manteneva la parola data. «aspetta...» corrugò appena le sopracciglia, fingendo di studiarlo e di metterlo a fuoco, un mezzo sorriso a piegare le labbra. «lawrence matheson, dico bene? giocavi con i serpeverde!» come se non avesse file dell’Istituto e suoi personali sul suo conto.
    «chi è che ti ha fatto incazzare così tanto, si può sapere?»
    «quanto tempo hai?» le parole gli uscirono prima ancora che potesse connettere i neuroni fra di loro, accompagnate da una risata grezza e spalle curve.
    La Missione.
    L’Istituto.
    La sua famiglia.
    Il ministero magico.
    La fortuna che lui aveva avuto e che l’Holland gli aveva invidiato da quando aveva scoperto la verità.
    La lettera che si sarebbe scritto vent’anni più in là.
    Vari ed eventuali.

    La lista era veramente troppo lunga, e dubitava fortemente che a Law sarebbe mai potuta interessare.
    «una grandissima testa di cazzo, il solito figlio di papà purista di sta minchia – conosci il genere?» domandò innocente, sapendo (credendo) bene che lui fosse esattamente quel genere. «amici amici, e poi ti rubano la» bici «ragazza. ci credi,» no. «ha passato un’intera notte a dirle che fossi un maniaco, che mettevo il latte prima dei cereali, cose così, e poi se l’è portata a letto.» sbuffò. «dovrei davvero rivedere le mie priorità.» unprompted, ma in effetti erano in molti a dirglielo.
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    wyatt holland
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    Chiuse gli occhi, ed in bilico sullo schienale della panchina Wyatt Holland trasse un lungo e profondo sospiro, prima di passare le mani sulla faccia.
    Si sentiva intorpidito, spossato – e non per il quantitativo eccessivo di pozioni antidolorifiche che il guaritore della squadra gli aveva prescritto per quella lussazione alla spalla che, giuro su mio fratello!, si era procurato durante l’allenamento, e non di certo per una rissa nella quale si era cacciato poche sere prima; il torpore causato dai farmaci, magici o meno che fossero, era storia vecchia, acqua fresca nella gola per chi, come lui, si rompeva così spesso eppure doveva riuscire a salire comunque sulla scopa ogni fine settimana per portare a casa la vittoria. Niente assuefazione, per l'ex grifondoro: odiava prendere qualsiasi tipo di medicinale, evitava le droghe d’ogni genere come la peste e si limitava ad un paio di birre nelle uscite con i compagni; di tutti i vizi e passatempi che i coniugi Holland vantavano sui propri curricula, e con i quali avrebbero potuto infettarlo, il bambino che l’istituto aveva loro affidato ventidue anni prima aveva fatto sue soltanto tutte le cinghiate sull’addome di Omar, le mani strette al collo – e non in una maniera che avrebbe potuto dargli piacere, se il padre fosse stato (di) qualcun altro –, gli occhi neri e il sangue tra i denti.
    Quando sollevò le palpebre, le iridi ambrate ci misero un po’ di tempo a focalizzare il percorso di terriccio davanti alla sua seduta, i tronchi dei sempreverdi ai suoi bordi, il cielo che ad un tratto parve farsi più denso e pesante sopra la cittadina magica. Dopo aver sentito persino le ossa vibrare, come se le onde sonore della voce di Abbadon gli fossero state iniettate direttamente endovena, tutta la quiete del limitare dell'Aetas era surreale, assordante, e non riusciva fottutamente a pensare.
    Non che gli servisse davvero farlo, dato che le connessioni sinaptiche dei suoi piccoli amici rimbambiti erano solite attivarsi unicamente dopo aver già fatto il danno, ma sentiva fosse il momento opportuno per richiamare a sé tutte le capacità di problem solving che non aveva mai internalizzato.
    Ma aveva già deciso.
    «amici come voi! e come tanti altri. sapete cosa fanno gli amici? si coprono le spalle a vicenda. e si ricordano fra loro quanto siano speciali ed unici. quindi: siete speciali ed unici, amici miei.»
    Aveva preso la propria posizione, l’Holland. A tredici anni, si era semplicemente rotto il cazzo – di tante cose, troppe per poterle elencare. Aveva scelto di fare tutte le scelte sbagliate, nel nome di un’integrità morale che bruciava nel petto e muoveva ogni suo singolo passo.
    «avete concesso a delle formiche di occupare tutto il posto che ci spetta? siamo più evoluti. siamo più forti. costretti a nasconderci come – come - come scherzi della natura?»
    Era troppo allettante il violino suonato su quel palco per non poterne essere, almeno in parte, affascinati; quasi naturale sentirsi coinvolti, pronti ad innalzare cuori e forconi contro un popolo che Wyatt aveva conosciuto soltanto nelle accezioni peggiori.
    «non siamo noi quelli contro natura. non siamo noi ad aver distrutto interi ecosistemi per poterci spostare più velocemente: sono la razza più debole. abietta. abbiamo avuto pietà per secoli: non la meritano più. oggi, amici, demoliamo lo statuto di segretezza. e ci riprendiamo il mondo.»
    Cavolo se le sapeva usare le parole, il figlio di puttana. Annotò mentalmente di chiedergli di fare da motivatore personale nei momenti più bui, sarebbe stato davvero bello.
    «chi. è. con. me?»
    «ah,» grugnì, stiracchiando i muscoli prima di alzarsi già proiettato in direzione della meta designata – un compito, il suo, che aveva preso così alla larga nel corso degli anni d’averlo fatto diventare un gioco. «stocazzo.»
    Aveva deciso non appena aveva visto la massa in lontananza attratta da quella calamita sovrannaturale, e forse anche un po’ prima, che non sarebbe mai stato uno di loro. Non era per il senso del dovere nei confronti dell’Istituto che l’idea non gli era passata nemmeno per l’anticamera del cervello, sebbene comunque in cuor suo sapesse quanto fosse rilevante: era compito suo (lo era?) garantire che le pieghe di quella nuova linea temporale non si increspassero troppo, doveva (sicuro?) assicurarsi che tutto filasse il più liscio possibile, stare all’erta su ogni possibile perturbazione.
    Wyatt Holland, semplicemente, non poteva.
    Non fottutamente poteva lasciare che una persona del genere s’ergesse a totemico paladino di un popolo sottomesso: non era l’attrezzo più affilato della cassetta, ma sapeva comprendere quali fossero i limiti da non oltrepassare. E quelli gli sembravano limiti intergalattici invalicabili.
    «ehi,» ma prima di fare qualsiasi cosa che lo avrebbe potuto portare ad una tragica fine, doveva fare una cosa. Importantissima. Improrogabile. Aveva percorso tutto il tragitto dell’Aetas, fino a raggiungere il ragazzo – notato del tutto casualmente, non lo stava affatto pedinando come ogni giovedì del mese figuriamoci era una persona seria. «stronzo!» dopo aver richiamato la sua attenzione, gli tirò un pugno sul naso.
    Per giusta causa, ma quale questa fosse era un segreto tra Wyatt e Dio.
    «oddio, scusa, ti ho scambiato per qualcun altro!»
    Mai vero: voleva proprio colpire Lawrence Matheson.
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