Votes given by maluma‚ baby

  1. .
    you are shaking fists & trembling teeth. i know: you did not mean to be cruel.
    that does not mean you were kind
    «bel posto»
    Battè le palpebre, distogliendo lo sguardo dallo Spritz arancione stretto fra le proprie mani al resto del locale. Spartano, umile. Insieme ai drink, offriva solo patatine in busta e stantie. C’erano… troppi delfini perché chiunque, perfino uno stravagante Madein Cheena, potesse sentirsi a suo agio. Lo trovava, in mancanza di terminologie migliori, mediocre. Troppo una via di mezzo perché Fake potesse apprezzarlo, considerando funzionasse solo ad eccessi. «l’hai scelto tu» ricordò, piegando le labbra in un sorriso, continuando a passare distratto il dito sulla condensa e tracciare poi linee destinate a sbiadire sul tavolo.
    Non era un filosofo. Non era un pensatore, Madein Cheena, ma fu comunque in grado di cogliere l’ironia del gesto. Abbastanza da fermarsi, stringere la mano a pugno. Nasconderla sotto il tavolo, poggiata su un ginocchio in costante movimento. La gamba era allungata e premuta contro quella di Ryu, per cercare anche il minimo contatto – un’ancora come un’altra per la sua, aperte virgolette, sanità mentale! - e trarne un conforto che mai avrebbe potuto essere debole.
    Sacrificio, gli avevano detto. L’aveva cercato, perché era uno di quei termini difficili che suonavano sempre alieni sulla sua lingua. Togliersi qualcosa in nome di qualcuno. Perdere la magia era stato un prezzo stupido da pagare per riavere il Kageyama in quel bel posto dimenticato da Dio e dal fisco. Alla scoperta di non poter più usare la bacchetta, si era stretto nelle spalle ed era andato avanti con la sua vita. Era tutto il resto, a turbare la normale quiete instabile del cinese. In primis, il fatto che non sapesse mentire, men che meno a Ryuzaki, e non avesse mai avuto ragione di farlo, prima di quel giorno.
    Quando uscirete da qui, domani mattina, continuerete a ricordare tutto. non potrete dimenticare, perché tutto questo siete voi: le memorie andranno a sfocarsi, certo, ma saranno sempre lì.
    Avrebbe dovuto convivere, per sempre, con il ricordo dei mesi senza Ryu. Della Bolla, non gli importava. La fottuta fine del mondo, lo tangeva solo in parte, perché tutti gli imperi erano destinati a crollare. Non che trovasse la minaccia, così l’aveva interpretata Fake, reale: la Bolla poteva reclamarlo quanto voleva, e da lui non avrebbe comunque avuto un cazzo di niente. La sua magia, non l’aveva data a loro: erano stati solo uno strumento necessario, ed uno da cui si sarebbe lasciato usare altre centinaia di volte. Tornare a casa, con un Ty rattoppato solo a metà sotto braccio, e trovarci Kiel a medicare una Claudia stranamente silente ed un Ryu appoggiato al bancone della cucina, era stato troppo tutto insieme. Aveva ricordi sbiaditi di quei primi istanti, solo le braccia avvolte attorno alle spalle del Kageyama – la risata nervosa di lui a vibrare sul suo stesso costato, tirando le corde come quelle di un violino. - ma aveva sentito tutto sbagliato, perché loro non… capivano. Vedeva nei loro occhi qualcosa, ma lontano. Introvabile. Come allungare una mano sott’acqua e cercare sul fondo alla cieca.
    Aveva guardato Taichi, allora. Quello sbilenco lampione di cugino che si ritrovava, costretto ad una vita peggiore della sua, perché quei ricordi non erano nulla per Fake. Uccidere? Persone all’interno che avrebbe dimenticato? Niente. Sapeva per Ty fosse diverso, e allora aveva sorriso tutti i denti, trascinandolo al proprio fianco. «RYU, CI TATUI UN TACCHINO? So già dove lo voglio!» E quello era stato quanto avesse da dire sull’incidente in aeroporto, sulla pelle martoriata e livida, e sullo sguardo dolente e preoccupato posato un po’ su tutti.
    «cos’è successo, fake?»
    Sussultò, persistendo nel tenere lo sguardo basso.
    Tuo cugino slash fratello è sparito.
    Sei andato al Lotus per recuperarlo.
    Sei sparito per mesi.
    Siamo venuti a cercarti.
    Hanno creato una Città per combattere contro Abbadon.
    Ho perso la magia.
    Hai perso Chouko e Reggie e Twat
    .
    «mentre eri in» deglutì, la lingua ad umettare le labbra. «bangladesh?» coprì la menzogna con il liquido altamente e pericolosamente alcolico di Carmen, forzandosi solo a bocca piena a sollevare occhi blu sul giapponese. Non aveva mai mentito a Ryu, non così, ma avrebbe cominciato a farlo se avesse significato risparmiargli tutto quanto. Non sapeva cosa non ricordasse, ma credeva fosse meglio così. Inutile sapere di avere dimenticato qualcosa, se non poteva riaverlo indietro.
    Se lo ripeteva ogni giorno, il fu Toast Hansen.
    «un cazzo di attentato, davvero.» Non si era mai preoccupato del fatto che la storia fosse scritta dai vincitori, fino a quel giorno. Un generale ed ignorante ottimismo a credere che la storia fosse creata dai fatti, non dai fatti secondo qualcuno. Manipolabili. Se solo gli fosse importato di più, qualche crisi d’identità avrebbe anche potuto venirgli – fortunatamente, era solo Fake. Si strinse nelle spalle, finendo il liquido nel bicchiere di plastica. Aspirò asciutto l’aria fra i denti, picchiando i palmi sul tavolo. «ne vuoi un altro? Io ne voglio un altro» prese altro tempo, scattando verso il bancone prima che Ryu potesse aggiungere altro. Ordinò altre due bici - grandi, e cariche: sentiva di averne bisogno – approfittando di ogni momento al banco per rimettere in ordine i propri pensieri.
    Scelte.
    Non era bravo, a farne. La gamba ancora bruciava per i segni d’inchiostro freschi del tacchino gemello a quello del Lìmore, e di suo avrebbe dovuto dire tutto. Espirò un sorriso sul secondo (terzo…?) bicchiere della giornata, sporgendosi per dare una spallata a Ryu. «possiamo non parlarne?» una richiesta sottile, tremula. Delicata come un fiocco di neve poggiato sulla manica della giacca. Rimase in silenzio altri secondi, minuti ed ore, masticando aria e spritz, prima di farsi coraggio. «mi sei mancato» banale. Frivolo, per la memoria opaca del Kageyama. E così reale, da bruciare per la gola come whiskey incendiario. «mentre eri in. bangladesh» ci bevve un altro sorso su, deglutendo denso. Attese ancora un istante, sguardo al soffitto, prima di enunciare un altro «lo sai, vero?» che gli fosse mancato, e tutto quello che c’era in mezzo. Madein Cheena sentimentale lo era stato sempre, con quell’ingenuità bianca un po’ tipica dei bambini. Nello specifico, i bambini a cui non era stato creduto mai, e nessuno li aveva mai ascoltati. Aveva bisogno sapesse, anche se non ricordava. Non aveva bisogno di memoria, per essere certo di quello. «non ha senso, senza di te» vivere, principalmente. Tutto quanto e intorno.
    madeen
    china

    half of me is an hopeless romantic
    and the other half of me is, well, an asshole
    prescelto
    & tacchino
    the fuck i know
    22 y.o. — nothing but an angel'Cause you're the reason I believe in fate,
    you're my paradise
    And I'll do anything to be your love
    or be your sacrifice
    infinity
    jaymes young
    Mother of Night, darken my step
  2. .
    [ awkward peace sign ]
    Si sentiva a disagio. E direte, voi: beh, Stan, e dov’è la novità. Con ragione, perfino.
    Ma più del solito, che era un livello a cui non arrivava dall’ultimo funerale a cui era stato costretto a partecipare. Obbligato a vedere le persone piangere, attendere il terribile momento di mettersi in fila e stringere la mano porgendo le proprie condoglianze a qualcuno che l’avrebbe odiato ma gli avrebbe comunque sorriso. Un tipo di sofferenza mentale ed emotiva molto specifica, ma pertinente nel contesto della Bolla.
    Allora.
    Non conosceva né William Lancaster, né Jeanine Lafayette. Non aveva idea di chi fossero le persone appartenenti al Nuovo Ordine, né quelle uscite dalla Città insieme ad altri individui. Perchè avevano perso i sensi? Perchè non avevano tempo di salutarsi? Come essere al cinema con qualcuno già in lacrime, sentiva di essersi perso qualcosa - una spiegazione, un momento di importanza vitale che avrebbe cambiato la storia – ma sapeva ci fosse aria di tragedia, e tanto bastò a lasciarlo in disparte. Il colpo più grosso per il Luna, fu osservare la Mistica Barriera apparire di fronte ai suoi occhi, e rendersi conto che Barrow Skylinski fosse dall’altra parte.
    Era rimasto ad osservare il biondo con liquidi occhi chiari a supplicarlo in silenzio di non lasciarlo da solo, non conosceva nessuno, non aveva nulla in comune con nessuno di loro, BARRY TORNA QUI, mentre intorno a loro il mondo dimenticava e riempiva i buchi con acqua e fiabe. Magari vi stupirà, o forse non lo farà affatto, che quando i compagni rientrarono accompagnando gli Altri Ancora all’ospedale, ad averlo raccolto e portato dentro era stato il ragazzino moro dei mostri. Certo non vi lascerà senza parole il «non può entrare perché è morto» di Mood che aveva lasciato il Luna, per ore, in una spirale di stress ed orrore. Un comportamento abbastanza prevedibile per entrambi: mezze verità, demenza giovanile. Una storia vecchia come l’universo. Stan partiva dal presupposto che tutti al mondo sapessero più di lui, motivo per cui tendeva a fidarsi ciecamente di quanto gli veniva detto (che era diverso, dal fidarsi delle persone: quello, non lo faceva mai), e il pensiero che Barry fosse morto creò almeno un centinaio di domande (era morto dall’inizio? Era morto alla fine? Era stata un’allucinazione di gruppo? ERA UN VAMPIRO?) che mise a tacere solo molte ore dopo la buon’anima di Gaylord, trovandolo a fissare il nulla in quella che era diventata la loro stanza. Nel mentre, Stan aveva anche pianto, accrescendo la sua breve, effimera, e non esistente amicizia con lo Skylinski fino ad un imbarazzante livello di affiatamento. Da quando aveva scoperto fosse morto, erano diventati migliori amici per il Luna; Gay aveva distrutto i suoi castelli rendendoli più gestibili e sensati.
    Poi era diventato triste anche il Beckham. E tutti gli altri.
    Si era intristito per osmosi, quando aveva scoperto della cancellazione di memoria collettiva, ma non per gli stessi motivi del resto dei cittadini: dietro di sé, che valesse la pena un doppio e triplo pensiero, aveva lasciato solo Joey – e da inguaribile ottimista che era, credeva sinceramente che con un po’ di connessione wifi avrebbe potuto riavere la sua amicizia – e quello sì che era un pensiero deprimente.
    Ma era sollevato. Istericamente, sollevato. Soffocare le risate nel pugno chiuso, sollevato: nessuno al mondo avrebbe più ricordato fosse esistito? Avrebbero dimenticato le sue figuracce? Avrebbe potuto dormire sonni tranquilli senza rispolverare il ricordo dei suoi momenti cringe in adolescenza e non? Non doveva più tormentarsi all’idea che tutti lo odiassero? Era… wow. Una nuova vita. Un nuovo Stanley Luna. Senza contare che la Città fosse ancora moderatamente abitata, e che avesse un’organizzazione impeccabile e schematica: ciascun cittadino aveva il proprio posto, i propri doveri e compiti.
    Cioè… Gli avrebbero detto cosa fare, mentre la gente intelligente cercava un modo per distruggere la creatura che aveva rubato il suo mondo. Un sogno? Una favola? Non comprendeva come tutti l’avessero presa così male, e quello era il pensiero più avvilente di tutti.
    Che vita invisibile aveva vissuto, Stanley Luna. Non si era mai dato l’opportunità di essere qualcuno, né qualcosa per qualcuno: si era limitato a sopravvivere, confidando che un giorno sarebbe andata meglio, senza muovere un solo dito per renderlo reale. Il tempo gli era scivolato fra le dita e nel palmo non gli era rimasto un cazzo. Non sarebbe mancato a nessuno. Pensieri che avrebbero dovuto portarlo ad una onesta rivalutazione di se stesso, e che giorni dopo avrebbero dovuto convincerlo a cambiare.
    Quando Lisi lo trovò seduto in mensa, da solo perché non si era osato tenere lo sguardo abbastanza alto da cercare Harry e Gay - per cosa, poi: trovare il loro tavolo già occupato, stringersi nelle spalle e dire che non fosse un problema? - , era sempre il solito, patetico, Stanley Luna.
    Ed infatti al quaderno lasciato cadere di fronte a lui trasalì, rischiando di trafiggersi il palato con la forchetta di plastica. «spero non capiti più l'occasione, ma in caso dovesse succedere, almeno sarai pronto» Alzò lo sguardo sulla Selwyn, trascinandolo lentamente sul quaderno ad anelli di fronte a sé. «posso…?» Era per lui? Doveva sfogliarlo? Aveva bisogno di indicazioni più chiare, perché il mondo era spaventoso e lui non era dotato della cassetta degli attrezzi adatta per inserirsi nella società. Non aveva mai ricevuto molti regali, e quand’era successo, era stato terribile per tutti i coinvolti. Esitando, sollevò la copertina, bocca dischiusa in sorpresa ed ammirazione. C’erano bestie di ogni forma e dimensione, cose che mai aveva visto né credeva potessero esistere – altre più familiari, parte anche del folklore babbano – ed erano tutte disegnate a mano, con descrizione a punti di cosa fossero in grado di fare. Inspirò dal naso, un po’ tremulo. Distolse lo sguardo perché sarebbe stato umiliante commuoversi per il gesto di quella che, a conti fatti, era una sconosciuta, attendendo che i tavoli riacquistassero forma e dimensione, prima di sollevare gli occhi su Lisi. «li hai fatti tu?» una domanda stupida, ma sempre necessaria. Erano disegni bellissimi, e Stan non potè fare a meno di continuare a passare da una pagina all’altra, sfiorando con il polpastrello zanne ed occhioni. «se hai altre domande, sono qui Stan.» Oh, baby. Baby. Rimase in silenzio un paio di secondi, ponderando. Gli piaceva imparare; odiava chiedere, se non riceveva alcun input. Quello? Quello era un invito, e sapeva che se non l’avesse colto subito, ancora caldo, avrebbe finito per ignorarlo galleggiando nel mare di merda delle cose che non sapeva.
    «sei sicura? Non hai niente da fare?» Guardò il posto libero di fronte a sé, senza invitarla a sedersi perché cos’era la vita. Umettò nervosamente le labbra, distogliendo l’attenzione da Lisi per riportarla al quaderno.
    Era il momento di iniziare dalle basi. «cos’è successo alle persone che erano qui, e sono andate via…? Tipo, lui» Indicò con il capo il profilo smunto e lontano di Hans.
    stanley
    luna

    girlboss? no.
    boyloser. guyfailure. dudenobody
    master of
    delusional
    babbanissimo
    25 y.o. — muggle — c'è posta per teNo one ever understood, and they probably never will
    So, I'm going now Away, away
    So, I'm going now
    Watch me disappear just like a ghost
    ghost
    ryan caraveo
    moonmaiden, guide us
  3. .
    These dirt roads are empty, the ones we paved ourselves
    I suoi ricordi erano sfocati e sovrapposti, un miscuglio di tessere i cui bordi non sembravano coincidere l’uno con l’altro. Al contrario, le sensazioni che l’avevano assalita appena ripreso conoscenza erano impresse nella sua carne. Smarrimento, dolore, il terrore di non sapere cosa stesse succedendo. Aveva provato ad alzarsi, palmi premuti sul linoleum ad esercitare forza su muscoli tremanti, ma un giramento di testa l’aveva fatta desistere, un dolore atroce alla spalla. Poggiò la fronte sul pavimento, forzandosi a respirare dalla bocca e a combattere contro un senso di panico crescente, mentre urla, urla, urla rimbombavano nella scatola cranica. La bile minacciava di risalire su per l’esofago, ma non fu quello il primo pensiero della Abbot. No, era– cristo dio, aveva la spalla fottuta. Aveva la spalla fottuta, e non aveva idea di cosa fosse successo. Era– era in uno spazio aperto? No, no non poteva essere era all'aeroporto. Sì, perché doveva andare– da qualche parte. Si girò sul fianco a spostare il peso sulla spalla buona, e lasciò vagare lo sguardo sui suoi dintorni, combattendo contro la stanza che pareva girare e mutare su se stessa in figure distorte. Yale? Dave? Cloud? Law? Ma che cazzo. Ma che cazzo, davvero. Stavano andando ad un ritiro per alcolisti? Un bachelorette party lesbico? Al momento le sfuggiva la risposta, ma dovevano avere avuto una botta di culo enorme a capitare nel bel mezzo di un attentato. Se la ricordava, la donna con il borsone e– una bomba. Un ordigno che era scoppiato nonostante tutti i controlli di sicurezza. Dio santo, Shiloh non avrebbe mai più scherzato sul 9/11. Non se lo meritava quello scherzone karmico, non lei. Poteva succedere a una qualsiasi delle Kardashian, avrebbero persino trovato il modo di includerlo in un episodio del reality. La Abbot, invece, voleva solo tornare a casa. O all’ospedale, se proprio doveva. Con una serie di imprecazioni a fuoriuscire dalle labbra fece forza sugli addominali per mettersi a sedere, maledicendo il giorno in cui era nata e la madre di quella cazzo di donna. «sveglia, principessa» tirò un debole calcio alla prima gamba che trovò, pregando che si svegliassero. Non poteva nemmeno pensare all’alternativa.

    Tutto sommato, credeva di meritare un piccolo pick me up. Avrebbe potuto nascondersi nelle coperte e lasciarsi inghiottire dal materasso, fingere di non esistere per qualche giorno e processare un evento che dai più sarebbe stato definito traumatico. Non per Shiloh Jolie-Pitt, che era sopravvissuta al divorzio dei genitori e al continuo scrutinio di Hollywood. Pensate che qualcosa di triviale come un attentato possa scuoterla? Forse i primi quindici minuti, e tutti i successivi passati in una sala d’attesa a pregare per degli antidolorifici direttamente in vena. Ma erano passati ormai giorni, e il ricordo del terminal di Heathrow era un fantasma che disturbava unicamente i suoi sogni. E poteva convivere con il proprio subconscio, la Abbot, non era come se fosse successo qualcosa. Era viva, i suoi amici erano vivi, la vita andava maledettamente avanti e lei non si sarebbe fatta trovare a rincorrerla. Quindi vaffanculo, si meritava il suo ordine di starbucks che le avrebbe fatto salire il livello di zuccheri a numeri stellari. Attese il suo turno in fila cosciente del fatto che sarebbe bastato ben poco ad evitarla, ma sua mamma le aveva insegnato ✨ l’umiltà ✨ quindi— no, non era vero era stata distratta da cause maggiori. L’universo, le luci, gli uomini. Tutto terribile. Ed Elisa si è accorta siano le quattro ha ha come passa il tempo quando perdi le partite. «ciao! allora vediamo un po’, vorrei un venti caramel crunch frappuccino, con extra caramel drizzle, extra whip ed extra ghiaccio. poi con sette pumps di dark caramel sauce, extra caramel crunch, e un pump di honey blend. cinque pump di frappuccino roasted coffee, e fai che mettere anche le chips e la panna» quando finì di elencare il suo ordine, la barista davanti a lei non batté ciglio, forse perché Shiloh era considerata una regular in quello Starbucks. E soprattutto, apprezzava il lavoro altrui e sapeva che il suo ordine era un mal di testa da preparare, quindi avrebbe dato una mancia adeguata. Avvicinò il telefono al POS per pagare il suo ordine, e poi impostò l’amount di mancia da pagare. Visto? Una donna di parola! Durante tutto quello scambio, Shiloh aveva avvertito uno sguardo a bruciare la nuca, insistente e fastidioso. Attese qualche attimo e prese persino un respiro profondo, ma non ce la fece proprio a farsi i cazzi suoi. Si voltò di scatto verso quello che pensava essere l’offender, con tanto di dito minaccioso puntato verso l’uomo «che c’è, non hai mai visto un frappuccino?» uomini, mai a farsi gli affari propri.
    shiloh
    abbot

    Lights, camera, bitch, smile
    Even when you wanna die
    author
    what the fuck is a kilometer
    witch
    neutral
    1994 — famous — south africanShe's having the time of her life
    There in her glittering prime
    The lights refract sequin stars
    off her silhouette every night
    I Can Do It With A Broken Heart
    taylor swift
    Mother of Night, darken my step
  4. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    witch angel???
    19 y.o.
    red fury
    Thursday De Thirteenth
    Tre giorni.
    Tre giorni e sarebbe finito tutto. O forse cominciato, come un sibillino Lancaster aveva lasciato intendere, sempre quell’insopportabile sorriso sulle labbra, come se tutto quello che era successo fosse inevitabile, o peggio, il migliore dei mondi possibili. Thor odiava quello che c’era fuori dalla Bolla, ma odiava anche ciò che c’era dentro. Ma non chi, dentro o fuori che fosse, o che sarebbe stato, per quanto le sarebbe piaciuto. Sarebbe stato mille volte meglio odiare, riversare la sua naturale e innata rabbia su tutto e tutti, sentir ribollire il sangue nelle vene e il cuore battere forte, fuori di sé dalla furia.
    Ma Thor non si sentiva arrabbiata. Non lo era nemmeno, persino. Lei, che di quel sentimento aveva fatto tutta sé stessa, che viveva d’ira, da che ne avesse memoria, ora era stranamente tiepida. Innaturalmente tiepida. Nonostante la febbre che l’aveva consumata, e che la consumava ancora, da quando si era svegliata in quella che somigliava più a una brandina che a un letto, ogni singolo centimetro del corpo dolorante, la stanza che girava e i volti, intorno a lei, che si mescolavano.
    Avrebbe voluto odiare tutti e essere in preda all’eccesso di rabbia più distruttivo di tutta la sua vita.
    Non era vuoto, quello dentro di lei.
    Thor si sentiva impotente.
    Per una che non voleva crescere e prendersi delle responsabilità, che si era sempre tenuta lontana dal mondo reale, si era spinta decisamente troppo in là. Ma non ci aveva pensato, non davvero. Dopotutto, non era così che prendeva le decisioni lei, nella vita? Era l’impulso a muoverla, la rabbia a spingerla in una direzione o nell’altra. Era l’amore, quell’amore aggressivo, sanguigno, ferale che provava per i suoi amici, per la sua famiglia. Era persino il senso di giustizia, l’incessante ricerca della verità, come le era stato instillato, che le piacesse o no, da chi le era davvero stato intorno sin dai suoi primissimi istanti. Non May e August De Thirteenth. MamaLama. Wendy. Persino (!) Sandy.
    Fray.
    Tre giorni e non avrebbe più rivisto Friday.
    Tre giorni e il ricordo di lei avrebbe cominciato a svanire, fino a sparire del tutto. Non le sembrava possibile, anzi, non poteva proprio esserlo. Come si poteva dimenticare totalmente di qualcuno? Come poteva l’esistenza stessa di una persona essere cancellata così, da un giorno all’altro?
    No, Thor non si sarebbe dimenticata di Kaz, di Clay. Non si sarebbe dimenticata di sua sorella. Non solo era assurdo, ma lei non avrebbe lasciato che accadesse. Ritrovata la sua rabbia, avrebbe lottato con le unghie e soprattutto con i denti perché quantomeno il ricordo di quelle persone che amava non svanisse.
    Non potevano strapparle anche questo.
    Non li avrebbe rivisti mai più, chiusi com’erano in quello che avrebbe pure potuto sembrare un paradiso, ma che rimaneva pur sempre una prigione; ricordarsi di loro era il minimo.
    Ed era tutto quello che le rimaneva, visto che adesso… adesso cos’era, Thursday? Cos’era senza la sua rabbia? Senza il quidditch? Senza la magia?
    Era successo così, in un battito di ciglia. Un istante prima era tutto lì. La magia, i suoi amici, la sua famiglia. Il quidditch. Un istante dopo ogni cosa era sparita. Perché lo sapeva, Thor, che difficilmente avrebbe inforcato di nuovo una scopa e spiccato il volo. Certo, c’erano altri modi, e Kaz, il suo Kaz, il Kaz che non avrebbe mai più rivisto, il Kaz il cui ricordo sarebbe lentamente scivolato via dalla sua mente, dal suo cuore (no, non poteva essere!), per volare. Ma Thursday non era disposta ad accettarlo, perché non erano fatti per lei.
    O tutto o niente.
    Avrebbe dovuto essere furiosa, non addolorata.
    Invece, zoppicando fuori dalla stanza del PUS (quel nome assurdo poteva esserselo inventato solo Kaz, lo sentiva nel profondo del cuore), nonostante le fosse stato intimato di stare lì a riposare perché ancora estremamente convalescente (9 ps) e febbricitante, si era trascinata all’aria aperta, sempre che di aria aperta si potesse parlare, sotto a una Bolla. Aveva arrancato fino allo spiazzo erboso più vicino, lasciandosi cadere sotto un albero, la schiena appoggiata contro il tronco. Quello che sentiva non era male fisico. Non solo, almeno. Era qualcosa di più profondo, qualcosa che le scavava la carne e, a differenza della rabbia, la raffreddava, quasi congelandola dall’interno.
    Non aveva mai imparato ad accettare la sconfitta. Tutte le volte che le furie erano uscite dal campo da quidditch da perdenti, Thor aveva faticato a sopportarlo e, anzi, quasi sempre non l’aveva proprio fatto. Aveva sempre reagito alla sconfitta… con la rabbia.
    Ora, invece, c’era solo quel senso di perdita.
    Sentiva di aver perso qualcosa, o meglio, tutto, ancora prima di perderlo davvero.
    Non guardò in quella direzione, sebbene con la coda dell’occhio la vide avvicinarsi. Non era solo per il suo sguardo allenato da infinite ore a caccia della pluffa, attenta a schivare i bolidi e gli avversari. In fondo era impossibile non notare quella macchia rosso fuoco in avvicinamento, quella macchia che avrebbe continuato a vedere nello specchio, ma in cui non avrebbe più cercato tracce di quella somigliava che desiderava con tutta sé stessa, pur non ammettendolo con anima viva.
    Non guardò Friday farsi sempre più vicina, estraendo invece dalla tasca posteriore della tuta la bacchetta, per poi rigirarsela tra le dita. La magia era sempre stata l’ultima spiaggia per lei, eppure non riusciva a concepirsi senza. Cos’era Thor, se non una strega, una giocatrice di quidditch, una sorella?
    «Tre giorni e risorgerò, come Gesù», borbottò in direzione di Friday, ormai abbastanza vicina da schermarla dalla luce del sole, gli occhi ancora fissi sulla bacchetta. «Spero che la cosa ti renda felice
    Vorrei sapere a che cosa è servito
    vivere, amare, soffrire,
    spendere tutti i tuoi giorni passati
    se presto hai dovuto partire


    Non ho elaborato /niente/, ma non sono capace hhh.
  5. .
    danger: mouth operates faster than brain
    «vattene. a fanculo»

    Non era mai stato bravo ad abbassare la testa e ammettere di aver fatto la scelta sbagliata, o una cazzata, Theo Kayne. Non era mai stato in grado di riconoscerle come tali, se proprio vogliamo essere sinceri. E poi, in aggiunta, c’era il fatto che fosse un testardo del cazzo, una testa dura, un coglione, troppo orgoglioso per chiedere scusa e troppo stupido per accorgersi di quanto troppo in la fosse solito spingersi solo per inseguire un capriccio.

    «sei un coglione, theo. ricordati che sei stato te a rovinarci con le tue mani»

    L’avevano quasi cacciato da quella cazzo di struttura di merda dove aveva preso residenza giorni prima e dalla quale si rifiutava di allontanarsi anche per cose basilari come mangiare, pisciare, lavarsi; aveva il terribile sospetto (quasi una certezza, arrivato a quel punto, con davvero poche ore di sonno alle spalle e più lividi addosso di quanti ne avesse mai avuti in vita sua) che se avesse alzato il culo da quella sedia di plastica, ogni cosa sarebbe finita. Svanita nel nulla. Scivolata tra le sue dita quando era troppo distratto per mantenere una presa solida.

    «pensavo che le botte facessero male, ma vedere te che ci volti le spalle è ancora peggio di una bastonata allo stomaco»

    Allo stomaco, al viso, alle ginocchia, ovunque. Di bastonate, in quegli ultimi giorni, ne aveva prese e date moltissime; non era così che avrebbe voluto che andassero le cose, ma non poteva farci nulla ormai. Lui aveva fatto una scelta, e anche Mis e Del e Paris. Se non altro, aveva il supporto di Avery, e di Kaz, e di Clay; era più di quanto alcuni (ciao fratello infame) avessero creduto potesse meritare.
    Non era comunque abbastanza, e per quanto fosse grato ai compagni del sostegno che avevano cercato di fornire in quei tre lunghi giorni, c’era solo una voce che desiderava sentire in quel momento; la stessa voce che al contempo aveva così fottutamente paura di sentire, perché sapeva non avrebbe avuto nulla di carino da dire. Tanto per cambiare.
    Come se non avessero smesso per un solo secondo di osservare il petto della ragazza alzarsi e abbassarsi in maniera più o meno regolare per le ultime settantadue ore, gli occhi di Theo cercarono ancora una volta la figura di Mini, troppo piccola in quel cazzo di letto, troppo pallida, troppo sbagliata.
    Aveva massacrato le unghie, le pellicine, cuticole, tutto, nell’ansia soffocante di non poterla più abbracciare, sì, pur consapevole di rischiare di perdere un braccio (o tutti e due. O direttamente la vita) non appena la russa avesse riaperto gli occhi e lo avesse visto lì.
    “C’era il nome di Theo sulle lame dei chackram di Sinead Mikahilova” eccetera eccetera; beh, per fortuna qualcuno aveva saggiamente pensato di toglierle di mano le armi affilate prima che potesse sventrarlo.
    Non c’era davvero più nulla che potesse distruggere sulle dita già martoriate, eppure continuava a tirare e mordere e spillare sangue, solo perché non aveva nulla di meglio da fare; la tensione impossibile da scaricare, anche con la gamba che da tre giorni si muoveva di sua iniziativa, e ogni nervo scoperto e pronto a farlo scattare se solo fosse stato sfiorato nella maniera sbagliata.
    Svegliati, Russa, cazzo. Svegliati. Svegliati, e urlami contro. Fa qualcosa. Cazzo, Russa, fa qualche cazzo di cosa. Cazzo, cazzo, cazzo, Mini ti prego.
    Aveva avuto paura, Theo, quando aveva visto Mini uscire dalla bolla — si era fottutamente cagato sotto, ok? Era stato terrorizzato dalla possibile reazione della russa, da quello che avrebbe potuto fargli, e da ciò che avrebbe potuto dirgli. Era sopravvissuto a malapena alle parole di Mis, e a quelle di Delilah, e a quelle di Paris; non era certo di poter sopportare anche la merda verbale che Mini aveva in (russo! ah!) serbo per lui.
    E invece quello che aveva visto lo aveva devastato ancora di più: la russa, la sua russa, pallida, stanca, ricoperta di sangue, a malapena in grado di reggersi sulle proprie gambe.
    Un battito di ciglia, e Mini era in terra.
    Non si muovono, non reagiscono ai tentativi di svegliarli, non respirano nemmeno. «non sono morti.»
    Beh, vaffanculo fato, lo sembravano eccome!
    Il mondo di Theo si era ridotto a quel microscopico istante tra che Mini lo aveva guardato con (lo poteva giurare sui propri fratelli, il Kayne) letterali fiamme negli occhi, e quello in cui quegli stessi occhi avevano perso ogni barlume di lucidità possibile.
    Quando la Bolla aveva iniziato ad espandersi, Theo era già al fianco di Mini; l’unica cosa in grado di farlo staccare dal Tipton ancora sanguinante, e ancora stretto tra le sue braccia, era la visione di una Sinead distesa a terra, il petto troppo piatto e un’espressione troppo neutra sul viso giovane. L’aveva raggiunta prima ancora di realizzare che si fosse mosso, e aveva ringhiato contro a chiunque avesse cercato di toccarla al posto suo. Quando Jeanine Lafayette aveva suggerito di portarli con loro, Theo aveva messo da parte ogni stanchezza e ogni dolore, e si era caricato la propria migliore amica in spalla, rivolgendo occhiate letali a chiunque avesse provato ad avvicinarsi — e dopo due mesi vissuti in quel carcere all’aperto, sapevano tutti benissimo che razza di animale ferale potesse rivelarsi il Kayne, quando quel poco di buon senso scivolava via in favore di reazioni più istintive.
    Nessuno aveva osato sfidarlo.
    E quei pochi che avevano cercato di dissuaderlo dal rimanere al capezzale della strega (ex strega? unclear), avevano lasciato perdere dopo i primi (dieci, o giù di lì) tentativi: non c’era verso di farlo uscire da quella stanza, non senza rischiare di ricevere un pugno in faccia. Un po’ era sorpreso che nessuno avesse cercato di portarlo fuori di lì con le brutte maniere, o utilizzando la magia, e poco ma sicuro era felice che non l’avessero fatto. Li avrebbe odiati dal primo all’ultimo.
    Aveva bisogno di essere lì, aveva bisogno di controllare la situazione, di essere sicuro che Mini continuasse a respirare, ora che aveva ripreso a farlo; e se la conseguenza doveva essere che la prima cosa che la serpeverde vedesse al suo risveglio fosse il viso ancora tumefatto di Theo Kayne, che così fosse — avevano visto di peggio, quegli occhi chiari e pieni di finto astio nei suoi confronti.
    Lanciò una bestemmia mista a imprecazione di dolore quando strappò via l’ennesima pellicina, il bruciore della ferita a fare da eco a quello degli occhi stanchi, e senza pensarci due volte mise in bocca il dito per succhiare via il sangue ancora fresco.
    «cazzo–» borbottò, con ancora il sapore metallico del sangue sulla lingua, e gli occhi a ispezionare la ferita: niente di che, sarebbe sopravvissuto. Li rialzò sulla figura di Mini e «CAZZO!» Il salto sulla sedia di plastica fu reale, spontaneo, così come la mano sul cuore per cercare di trattenere il muscolo cardiaco all’interno della gabbia toracica, dalla quale stava minacciando di scappare. «mi hai spaventato a morte.» In un sacco di modi, stupida Russa.
    Non l’aveva mica sentita muoversi, eppure era lì, che lo fissava con lo sguardo più omicida che il Kayne avesse mai visto, immobile nel suo letto, ancora collegata alle macchine che ne monitoravano parametri che il grifondoro non aveva minimamente compreso. «sei…» viva? sveglia? tutta intera? «incazzata???» EUFEMISMO DEL SECOLO!
    theo
    kayne

    I wish I was good at something
    other than war
    recklessness
    “lack of regard for danger, or consequences”
    wizard
    soldier of the new order
    the soldier — 2007, beater, gryffindor...?'cause it's avoidable, I'll destroy chances to be
    better than I was before you and me.
    Now we're at the part
    where you'll hate what you see
    SELF-SABOTAGE
    waterparks
    moonmaiden, guide us
  6. .
    whatever, fuck it
    quanti giorni erano che il buttercup blooms era chiuso?
    aveva piantato un cartello fuori l’entrata, facendo crescere dei rampicanti per tenerlo su in modo che non potesse volare via, scrivendoci che avrebbe riaperto a breve, ma quanto sarebbe durato quel periodo di pausa?
    la verità era che si sentiva esausta e sfinita, dopo quell’incidente a cui aveva assistito e in cui era rimasta ferita.
    Si era risvegliata al san mungo, dopo essere svenuta nei pressi della gringott, mentre dei malviventi che cercavano di rapinare quest’ultima e seminavano il caos, e dove era riuscita ad adocchiare ginevra, lucrezia e tendere una mano verso entrambe, prima di… non ricordare praticamente nulla probabilmente grazie a una botta alla nuca, colpita da qualche incantesimo senza avere il tempo di poter reagire, e senza nemmeno accorgersene; aveva scoperto che anche altre persone erano state coinvolte, e che erano tutti nelle sue stesse condizioni, le era stato detto di riposare perché si era agitata, cercando invano di mettersi in contatto col suo ragazzo, in viaggio in america con la scuola, venendo a conoscenza del terribile incidente accaduto a disneyland orlando, dove si trovava lui, infine aveva annuito e si era calmata solo dopo aver ascoltato al telefono la voce di Benedictus che le diceva che era tutto apposto, che era ammaccato ma stava bene.
    e poi la convalescenza era finita, anche se le era rimasto qualche livido in giro per il corpo che non sapeva come avesse fatto a formarsi, era tornata a casa sua, ed aveva deciso di andare a trovare le due italiane, come faceva spesso d’altronde, visto che, nonostante fossero le cugine del suo ex , erano in cima alla lista delle proprie amiche, dopotutto non era riuscita ad incrociarle in nessun modo nei corridoi dell’ospedale, aveva bisogno di sapere se stessero bene.
    di solito non le dispiaceva passare nei turni in cui poteva trovarle e trascorrere la mattinata al bar di famiglia, a volte trovando anche giacomino, con il quale condivideva una paperella come animale domestico; quella mattina infatti decise di fare un salto al bar per assicurarsi che anche loro stessero bene, dopo aver coperto il livido sullo zigomo con il correttore ed aver indossato dei jeans comodi e una felpa, lasciò different lodge incamminandosi verso la sua meta, ed una volta lì fuori mise la mano destra sulla porta d’entrata, spingendola con un sorriso sulle labbra, pronta a trovarsi la bella napoletana dinnanzi e a chiacchierare un po’ con lei.
    ma purtroppo il fato aveva un programma diverso, per lei.
    si gelò sul posto.
    «che vvoi?»
    stette lì a boccheggiare qualche secondo.
    poi si decise a parlare.
    «buongiorno» perché era una signora, a differenza sua «pensavo fosse il turno di ginevra, non c’è?» arricciò leggermente le labbra e incrociò gli avambracci sotto al seno, era la prima volta che rivolgeva la parola a romolo linguini dopo la loro rottura.
    eppure perché le sembrava così familiare ritrovarselo davanti?

    Erisha
    Byrne


    Fast asleep in your city that's better than mine
    the beauty
    no beauty without intelligence
    what is this feeling?— geokinesis, 2003, floristBut now that we're done and it's over
    I bet it's hard to believe
    But it turned out I'm harder to forget than I was to leave
    And, yeah,
    I bet you think about me
    I bet you think about me
    Taylor Swift
    Mother of Night, darken my step
  7. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    ombrocinesi
    the chosen one
    defective
    Kul Oh


    non era mai stato una cima Kul Oh.
    non eccelleva nelle materie scolastiche, non eccelleva nell’ambito sentimentale, non eccelleva nell’ambito comportamentale.
    aveva sempre creduto a ciò che gli dicevano gli altri, lo aveva fatto suo, ciò che sua mamma, quando era ancora in vita, gli raccomandava, quello che suo padre si assicurava che lui sapesse.
    ed era stato bravo, fino a quel momento, a far sì che tutto filasse come previsto, era stato bravo a seguire gli ordini celati sotto le mentite spoglie di consigli, fino a quel momento per l’appunto.
    non aveva mai preso in considerazione il fatto di rinunciare alla propria vita, la sua libertà, la vita che tanto era grato di poter vivere, non era pronto a lasciare tutto.
    si sentiva un bambino viziato, non voleva lasciare che suo fratello affondasse nell’oblio, che nessuno si ricordasse di lui, il fantastico special che era riuscito a diventare il capitano di tassorosso, il finto bad boy che aveva cominciato a fare stragi di cuori.
    erano solo ragazzini, ed erano stati chiamati a prendere una scelta più grande di loro.
    erano solo ragazzini, ed ora lui era difettoso, più di quanto già fosse, più di quanto fosse riuscito ad immaginare.
    tirò ancora più su il lenzuolo, per coprire la testa, avrebbe pianto se non fosse stato che… non ci riusciva, si sentiva svuotato, dai suoi poteri, da tutto.
    «ma sei deficiente», contrasse la mascella e strinse tra le mani il tessuto del lenzuolo, senza muoversi «”cosa direbbero mamma e papà”, bohoo. ma se mamma è morta, e sai che papà mi supporterebbe!», si scoprì di botto Kul, con uno sguardo accigliato guardò suo fratello, quello che era suo fratello
    «forse hai ragione» la voce che aveva pronunciato quelle parole non sembrava nemmeno la sua, di solito allegra e leggera, roca e… sprezzante «forse ti supporterebbero, ti lascerebbero stare qui, guardandoti abbandonare la tua vita» abbandonare me.
    si passò entrambe le mani fra i capelli incrostati di sangue, il suo e quello del mai nato, tirandoli all’indietro, cercando di calmare i nervi «come sei egocentrico. megalomane. Kul! kul. qui si parla del mondo intero»
    il… mondo intero? ok, va bene, era un egocentrico, era un megalomane ma… aveva il diritto di volere suo fratello al suo fianco, l’unica persona con cui avesse condiviso ogni cosa, per sempre? «io… non so se si tratti del mondo intero. » lo guardò, per la prima volta da quando avevano iniziato quel discorso, negli occhi «io volevo solo vivere il resto dei miei giorni al tuo fianco in una realtà non fasulla, perché eri mio fratello, sarò egoista o megalomane, chiamami come diavolo ti pare» la testa venne poggiata alla testiera del letto «…hai tutta la vita» «anche tu Kaz, anche tu avevi tutta la vita» avevi me.
    «avremmo potuto… provare a fare qualcosa al di fuori di questa cosa… questa cosa che ha preso il mio sangue, mi ha reso difettoso, mi ha tolto mio fratello» abbassò lo sguardo osservando la mano poggiata sul lenzuolo candido, rosso su bianco
    «questo è il momento in cui mi chiedi scusa.»
    ma Kul invece, tacque.


    Photo album on the counter
    Your cheeks were turning red

    You used to be a little kid with glasses in a twin-sized bed
    And your mother's telling stories 'bout you on the tee-ball team You told me 'bout your past thinking your future was me
  8. .
    If you can't handle me at my worst, same! But at least you get to leave.
    Che non ci fosse più tempo, Hans lo aveva capito da un po’.
    Che non ne avessero mai avuto affatto, lo aveva sempre saputo; che fosse solo il suo (pragmatismo) pessimismo, quello a spingerlo a cedere a quella verità, o una vera cosapevolezza a bruciare nel petto e a premere contro la gabbia toracica, non faceva differenza; l’aveva saputo, e non l'aveva condiviso con nessuno, perché non era un problema suo se gli altri non fossero giunti alla sua stessa (o a nessuna) conclusione.
    (Se poteva evitare a Taichi quell’informazione, anche solo per un’altra manciata di minuti, lo avrebbe fatto; che lo odiasse pure per non aver condiviso con lui quanto teorizzato, era davvero l’ultimo dei problemi di Hans, e il meteorologo poteva mettersi in fila e attendere il suo turno per gli insulti.)
    Quando anche l’ultimo blob era caduto, Hans lo aveva saputo.
    Quando la barriera era sparita, come se non fosse mai stata lì, e aveva lasciato intravedere gli altri (sacrificisacrificisacrifici) compagni, Hans lo aveva saputo.
    Quando la piattaforma aveva iniziato a muoversi, e quando avevano raggiunto gli ostaggi, Hans lo aveva saputo.
    Quando Mac era corso incontro a lui e a Taichi, quando l’aveva abbracciato inchiodandolo sul posto con le braccia lungo il corpo e la schiena rigida, incapace di ricambiare quel gesto, e quando le iridi ghiaccio avevano fallito a trovare la figura di Twat, Hans lo aveva saputo.
    Lo aveva sempre fatto, era la condanna di avere una mente fin troppo acuta nascosta dietro uno sguardo (non solo) in apparenza impassibile.
    Non c’era più tempo.
    Ma quel poco che gli era stato concesso, se lo erano presi. Tutto, fino all’ultimo secondo. Avevano trovato le persone che due mesi prima gli erano state strappate via — amici, fratelli, qualcosa di più e, perché no, anche qualcosa di meno; erano lì, stanchi, emaciati ma sollevati. Erano vivi. Erano reali. Non erano più solo una voce nascosta dietro le pareti, o un ricordo ancora vivido nella mente che li aveva spinti fino a lì.
    Avevano trovato la via per uscire da quel labirinto di corridoi e stanze, e avevano trovato la strada per ricongiungersi con gli altri; che qualcuno avesse voluto che la trovassero, quella strada, era solo un problema marginale per l’empatico. Se nessuno voleva sottolineare quell’ovvietà, non sarebbe stato di certo lui a farlo — non quando il suo unico pensiero era portare Mac via di lì, e dove cazzo sei Twat, e trascinare Taichi il più lontano possibile da quella che, fino a pochi minuti prima, il Belby aveva seriamente temuto finisse con il diventare la loro tomba. Il pensiero che qualcuno li stesse guidando, mano invisibile a trascinarli fuori da lì, era davvero, ma davvero!, l’ultimo dei problemi.
    Avrebbe dovuto pensarci due volte.
    E saperlo, che una fregatura c’era.
    C’era sempre.
    Ma non gli interessava, non gli interessava, non gli fottutamente interessava; perché erano fuori, erano salvi (lo erano davvero?), e — Twat. In piedi, una divisa addosso che Hans aveva visto indossare solo a quelli che, per due giorni interi, aveva classificato come nemici; gli dava le spalle, e forse era meglio così, perché se lo avesse visto in quel preciso momento, l’ennesimo coltellino dell’emocineta sarebbe finito direttamente tra gli occhi del Belby, lo sapeva.
    (Sapeva davvero un fottio di cose, Hans Belby; e nessuno sospettava mai nulla.)
    Da una parte, però, sperava che l’amico si voltasse, che lo colpisse, che gli facesse capire di essere vero e non un’allucinazione; Hans aveva ancora difficoltà a credere che stretto a lui, battito del cuore frenetico e tutto quanto, ci fosse davvero Mckenzie, non poteva semplicemente farsi bastare la presenza di Twat a pochi metri e darla per buono. Aveva—
    Battè le palpebre stanche, rese appiccicose dal sangue e dal sudore e dai residui di golem ancora appiccicati alla pelle. Battè le palpebre e cercò Mac, occhi leggermente distanti e voce bassa. «l’ho solo presa in prestito» disse distrattamente all’Hale, restituendogli la mazza com’era giusto che facesse. Era sempre stata un prestito da restituire; e in quel momento lo colse la cosapevolezza che— ci siamo; questo è il momento dei saluti. Pur senza aver dato peso alle parole di Lancaster, senza sapere assolutamente nulla di una fazione o dell’altra, Hans aveva deciso. E così anche Mac. Non riusciva a lasciarlo andare via; arrivare fin lì solo per perderlo di nuovo.
    Perché andare via?
    Perché rimanere?
    Perché—
    Alla fine, fu solo un attimo: gli occhi a lasciare solo un attimo il viso di Mac, per cercare istintivamente la figura del norvegese ancora al centro del campo di battaglia, e a trovare quelli freddi e impassibili di Twat, anziché la nuca bionda come aveva (sperato) immaginato. Non aveva nemmeno le forze per dirgli… cosa, che gli dispiacesse? Che non se ne pentiva? Che l’avrebbe rifatto altre dieci volte pur avendo letteralmente zero competenze? No, fanculo Twat, non si sarebbe scusato.
    Poi la sensazione di perdere nuovamente tutto, la stessa che aveva provato nella stanza insieme al golem, quando il Mai Nato aveva spento qualcosa (tutto) in lui; il silenzio, l’assenza di dolore, il vuoto. E l’istante dopo un dolore così improvviso e lancinante che quando finì, quando tutto si fece nuovamente buio (per l’ultima volta?) Hans ringrazio, e si lasciò andare.


    Col senno di poi, sarebbe stato meglio rimanere sulla radura ed essere lasciato indietro da tutto — dai pro, dai contro, dalla bolla, dal tempo.
    E invece il conto delle volte che si era ritrovato tu-per-tu con la morte e ne era uscito per poterlo raccontare, era salito a sei e Hans era ancora lì, che respirava. Non si sarebbe azzardato a dire che fosse vivo e vegeto, infondo non lo era mai stato, ma non era… mh, beh non era rimasto morto, ecco. Era abbastanza certo di aver smesso di respirare (di nuovo!) per chissà quanto tempo, o così gli avevano detto al suo risveglio; lo avevano salvato, perché lui, e gli altri quindici sfigati che come l’empatico avevano combattuto il golem, avevano salvato la Bolla. Sì beh, anche sti cazzi, non lo aveva fatto per loro, lo aveva fatto per Mac e Twat.
    Dov’erano?
    Dove— «venite, devo farvi conoscere una persona.»
    Un. Fottuto. Scherzo.
    Non poteva essere altrimenti, no?
    Hey Mac, look; guarda chi è tornato.
    Non lo aveva mai visto in faccia quell’Asdrubale lì, il Belby, ma non gli serviva riconoscere il viso di quell’entità per sapere che fosse la stessa che un anno e mezzo prima aveva rispedito indietro lui e l’Hale, dopo averli chiamati a Tottington (DI NUOVO!!) senza il loro consenso.
    Odiava che la sua presenza lì lo facesse sentire… così tranquillo. Sereno. Con un senso di appartenenza che non poteva e non voleva spiegare, alieno nel cuore e allo stesso tempo giusto. Di quella storia raccontata da Michael, l’empatico ascoltò solo qualche parte: l’aveva già sentita, e pur non avendola ricordata quasi affatto fino a quel momento, d’improvviso gli tornò in mente tutta insieme, dal primo sparo di quell’imbecille di Harrison alla faglia che li aveva risucchiati e all’incantesimo meschino di Mac per trascinarlo da Barbie. Tutto.
    «le mie capacità sono limitate su questo piano,»
    Immaginava, dunque, che fosse ancora incatenato all’altro reame, quello dove continuava a trascinare persone a caso solo per avere un po’ di compagnia; ugh, odiava che anziché detestarlo per quello, riuscisse quasi a comprenderlo. A mettersi nei suoi panni, e a trovare in sé la forza di perdonarlo. Capirlo.
    Non riuscì ad odiarlo nemmeno quando spiegò loro (Tai, Corvina, Amaranth, Kul, un perfetto sconosciuto e lui) degli effetti collaterali di quello che, ah! lo aveva sempre saputo, a conti fatti era stato il loro sacrificio. Una magia impura la loro, inutile e necessaria solo per bilanciare qualcosa come tutto in natura doveva essere; una magia di cui la Bolla non sapeva che farsene, e che gli era stata rispedita indietro in maniera diversa da come l’aveva rubata in origine.
    Difettosa.
    Stupidamente, perché certe volte Hans aveva bisogno di esserlo per poter sopravvivere, l’empatico credette intendesse in una maniera molto semplice e banale: ogni tanto funzionerà, ogni tanto no. Tottington docet! Non poteva pensare alle ramificazioni di quella parola, difettosa, non in quel momento. E possibilmente mai.
    Guardò istintivamente in direzione di Taichi, pallido come un cencio e in condizioni pietose, e pensò che nemmeno lui doveva avere una bellissima cera: non con le spalle sempre più curve, il fisico magro, il viso smunto, e l’ustione che ancora fresca a deturpare il volto (avrebbero fatto qualcosa più avanti, gli avevano detto, perché prima avevano avuto altre priorità — quelle di evitare che il loro gioco del cazzo lo facesse morire, immaginava. Va beh, poteva sopportare uno sfregio sul viso, non si guardava comunque abbastanza allo specchio da sentirsi diverso. Ma tanto c’era già la luce diversa nello sguardo, a fregarlo).
    Guardò Taichi, e pensò che quella volta l’avevano combinata davvero grossa, e che persino Nah avrebbe avuto difficoltà a perdonarli.
    «a tal proposito… ci sono delle ultime cose di cui rendervi partecipi. chi è all’interno della bolla, così come la bolla stessa, è stato cancellato dalla memoria collettiva: non esiste più. chiamatelo oblivion se preferite, ma è una versione… diversa.»
    O… o magari no.
    Non sapeva se fosse una benedizione o meno, quella lì; sapeva solo che da una parte era sollevato di sapere che fuori da lì, nessuno lo ricordasse. Dominic e Joey e Narah e Bri e Mac e Joni e quelle altre poche anime che avevano avuto la sfortuna di incrociare il suo cammino si meritavano un po’ di pace; li aveva fatti preoccupare già abbastanza. Poteva cacciare Twat a calci e rimuovere quel fardello anche dalle sue spalle? Chiedeva; era un’opzione che valeva la pena prendere in considerazione. Gli rimaneva solo Taichi, e che non sarebbe rimasto lo sapeva; magra consolazione il fatto che anche lui l’avrebbe dimenticato, quando doveva comunque portarsi addosso il peso di tutto il resto.
    «non sarà facile rimanere lì fuori, voglio essere del tutto onesto con voi.» Fottuta onestà; Hans Belby non era mai stato capace di vivere senza e al contempo accettare la propria.
    Quando, allontanandosi dall’aula dopo il discorso di Michael, Hans fermò il Lìmore per un ultimo (forse l’ultimo per sempre) saluto, gli disse solo «non farlo. non tornare qui.» se davvero aveva la possibilità di dimenticare, di ridurre tutta quell’esperienza a delle stupide voci nella sua testa e qualche incubo, che lo facesse; non sarebbe stato il primo al mondo, né la prima volta. «cerca–» cosa? non era mai stato bravo con le parole, o con i saluti, o con le persone in generale. Persino (soprattutto) con quelli che reputava amici. Il migliore, se proprio. «va’ avanti, Tai. lasciatelo alle spalle.» ingenuamente, stupidamente, Hans Belby ci credeva davvero a quelle parole. «salutami–» mh, nessuno immaginava, perché nessuno si sarebbe ricordato di lui. Nessuno, tranne gli animali; in quell ci credeva. «pentacolo, e orion» ancora non ci credeva che gli avessero impedito di uscire per prendere il dannato cane. Era offesissimo.
    (Twat l’aveva presa molto peggio di lui.)
    Aveva messo le mani in tasca, poi, affondate lì perché non sapeva cos'altro farci e di certo non le avrebbe strette intorno alla figura allampanata del cinese, e aveva guardato Fake stringere le spalle del cugino e tirarlo via, ma non aveva aperto bocca, Hans, quando anche l’ultimo dei lost kids se n’era andato.


    Non se ne era reso conto subito, convinto che l’intermittenza e il continuo alternarsi di momenti troppo vuoti a momenti troppo… troppo, fosse solo la conseguenza di quell’improvviso e radicale cambiamento, la consapevolezza di dover iniziare una nuova vita, e il continuo brusio in sottofondo che da giorni (da quando aveva riaperto gli occhi) non lo lasciava in pace. Eppure avrebbe dovuto saperlo, perché Michael era stato chiaro ed onesto con loro: i poteri avrebbero dato dei problemi. Ma con tutto quello che stava succedendo, ogni tanto Hans dimenticava di ricordare quel particolare. Poteva convincersi ancora un po’ di essere solo stanco, prima di accettare il fatto che fosse rotto.
    Si rifugiava nei momenti di calma piatta, di totale assenza, perché facevano da cuscinetto quando quelli più intrusivi e sfiancanti tornavano a bussare; in quei momenti era impossibile, per lui, stare in mezzo alla gente. Che fosse la mensa, i giardini, o addirittura le stanze del Lotus, richiedeva davvero uno sforzo immane per l’empatico rimanere concentrato e non lasciarsi sopraffare da quella tempesta emotiva che si abbatteva contro di lui; dopo aver perso il controllo più volte di quante fosse disposto ad accettare (due. Ed erano due di troppo), aveva deciso che per affrontare quei momenti c’era un’unica soluzione: l’auto-isolamento. E per sua fortuna era un pro, ormai, in quello. Anni e anni e anni di allenamento alle spalle lo avevano reso un campione nello sfuggire e non farsi più trovare.
    Aveva solo dimenticato di tenere in considerazione una variabile, nell'equazione.
    «tranquillo, è tranquillo»
    Non aveva nemmeno bisogno di chiedersi come facesse, il Vibe, a trovarlo sempre; c’era l’opzione più ingenua (quella che sottolineava un certo interesse da parte del maggiore a sincerarsi sempre delle condizioni di Hans), quella realistica (il fatto che fosse effettivamente un predatore e conoscesse la sua scia perfettamente) e quella preoccupante (che fosse, alla fine dei fatti, davvero uno stalker).
    E poi c’era quella che le mischiava un po’ tutte e tre.
    «ma agli squali ci hai pensato?»
    No, aveva pensato solo a quale fosse il luogo più tranquillo e remoto possibile, dove attendere con trepidante attesa che il momento passasse per riuscire finalmente a concentrarsi di nuovo sui propri pensieri. C’era riuscito? Boh, sembrava e sperava di sì; l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la presenza di Check in uno dei suoi momenti peggiori. Non si fidava più di se stesso.
    Mai fatto, in effetti, ma perlomeno era sempre stato bravo a fingere il contrario, vuoi grazie al muro di impassibilità della droga, vuoi per il fatto che a chiudere a chiave tutto quanto fosse sempre stato una delle sue abilità più grandi.
    Ora come ora, non ne era più certo.
    «sono quasi sicuro li abbiano tolti. servivano solo come ostacolo. ora non ce n’è più bisogno.» la Bolla era al sicuro, loro erano al sicuro. Lui…? Un po’ meno, forse. Ma chi ci pensava più.
    Strinse le ginocchia al petto, e le braccia contro le ginocchia, poggiando la guancia in modo da osservare Check lateralmente, e mostrando solo la metà di viso non sfigurata.
    «perchè sei rimasto, hans»
    Se lo chiedeva dal primo giorno, da quando aveva capito che per rimanere lì avrebbe dovuto salutare quelle poche persone che gli erano rimaste, e che erano fuori — e si chiedeva anche se avesse fatto la scelta giusta. Poi si ricordava di aver ceduto una parte di se stesso (o forse tutto) per quella cazzo di Bolla, e che Twat fosse lì dentro, e si domandava come avrebbe mai potuto pensare di uscire e vivere con il costante presentimento di aver dimenticato qualcosa, un pezzo di sé, qualcosa di terribilmente importante. Preferiva stare lì, e ricordare, piuttosto che uscire e credersi di nuovo pazzo. Aveva vissuto con i ricordi di Tottington a tormentarlo per anni, con il peso sul cuore di chi sapeva di aver vissuto qualcosa che non poteva fottutamente essere vera, e non voleva che la Bolla lo portasse nuovamente ad essere uno zombie di ricordi confusi, legato ad una corda invisibile che tirava verso l’ignoto.
    Non sapeva cosa dirgli, e non era mai stato un fan delle menzogne; preferiva piuttosto il silenzio. Non gli avrebbe chiesto perché fosse rimasto anche lui: Mood era lì, ed era tutto ciò che Hans doveva sapere per comprendere la scelta di Check.
    Che poi, in effetti, anche l'empatico ce l’aveva una motivazione, in realtà; una risposta che cercava da sempre, e che nessuno gli aveva mai dato. O, perlomeno, non gli avevano mai dato la risposta che cercasse. Sperava che, se davvero il potere che scorreva nelle sue vene nasceva dalla stessa matrice di quello di Seth, fermando lui avrebbero anche trovato il modo di far sparire per sempre dal suo sistema anche quella condanna; credeva nella scienza.
    Puff, cancellato. Spazzato via. Non la voleva più, la magia. Mai voluta.
    A Check non lo disse, però.
    Disse solo, un bisbiglio appena accennato che rivolse alla superficie del lago, quando distolse lo sguardo, «non aveva senso non farlo» almeno quella non era una menzogna; rimanere, o andarsene, avevano quasi lo stesso peso sulla bilancia, in quel frangente.
    E con tutto quello a cui avrebbe avuto da pensare da lì a lungo termine, dubitava avrebbe trovato anche il tempo per sentire la mancanza del fuori, o rimpiangere quella scelta. Di tutte le cose fatte nelle ultime settimane di cui avrebbe potuto pentirsi, scegliere di rimanere era davvero l'ultima della lista.
    Rivolse un altro sguardo veloce al maggiore, ancora in piedi e a debita distanza, e se da una parte era grato per quella parvenza di privacy concessa, dall'altra non riusciva a non pensare a quel momento condiviso con Check sulla barca dei pirati della bolla, e la confusione tornava prepotente a fare capolino in quel groviglio di emozioni (sue, non sue, chi le distingueva più) e rendeva molto più difficile rimanere razionale e distaccato.
    Solo rendendosi conto di aver indugiato con lo sguardo per un attimo di troppo sulla figura del Vibe, decise di tornare ad osservare lo specchio d'acqua di fronte a loro e pensare ad altro: aveva appena (appena!) ripreso controllo di sé, non poteva permettere alla presenza di Check di scombussolare tutto quanto.
    Avrebbe volentieri scelto il silenzio, se solo non avesse saputo per esperienza personale che fosse molto peggio; parlando di qualcosa, invece, poteva distrarsi e fingere di essere normale.
    (Ah!)
    Non senza una punta di sarcasmo, chiese «hai già scelto quale sarà il tuo ruolo nella società?» che era un po' l'equivalente nella Bolla del parlare di meteo, o delle ultime notizie in fatto di economia, sport, politica; l'organizzazione della comunità che stavano mettendo su era la priorità di tutti, ed era chiaro che ciascuno di loro avrebbe dovuto prendere il proprio posto e fare qualcosa per contribuire e per aiutare.
    Hans non aveva idea di quale fosse il suo, preferiva non scoprirlo e rimanere sulle sponde di quel lago il più a lungo possibile.
    hans
    belby

    he was pointing at the moon,
    but I was looking at his hand
    immolation
    “to sacrifice; to destroy by fire.”
    special born
    empathy
    the martyr — 2004, defective, chosenhead fuck, won't go;
    so tired of being tired, you know?
    I wish I could make it easy, oh
    (I'm still a broken machine, babe)
    keeping you around
    nothing but thieves
    moonmaiden, guide us
  9. .
    I don’t give a f**k
    uno scricchiolio, un suono ovattato che accompagnava le notti al dormitorio serpeverde, mura sommerse dalle oscure acque del lago simbolo della scuola.
    un malessere che le impregnava le membra da giorni, un malessere che non c’entrava nulla con le ferite che squarciavano la pelle candida della Parker.
    avrebbe lasciato correre, se quel malessere le si fosse presentato mentre era avvolta tra le morbide lenzuola del suo letto scolastico. ma non si trovava a scuola.
    si trovava in un letto asettico d’ospedale, dopo essere stata colpita da dei detriti, molti detriti di un edificio che era lì vicino, tornava tutto in effetti, ma perché si sentiva come se le mancasse un pezzo?
    era già la terza volta in quella notte che sognava cose che al suo risveglio, cruento e immotivato, non riusciva a ricordare, ed era strano, lei non aveva mai sofferto di insonnia, nemmeno quando le suore per punirla la facevano dormire in uno scantinato putrido nel quale la sua unica compagnia erano i topi; si sentiva strana, quasi triste, forse… di quei sogni riusciva a ricordare unicamente il viso di Paris, distrutto, e lei che gli carezzava il capo consolandolo, ed ogni volta si svegliava con una sensazione terribile allo stomaco.
    sospirò, spostando le gambe dal materasso al pavimento, quest’ultimo poteva sentirlo, freddo e tagliente sotto le piante dei piedi, con fatica si tirò su, una mano sullo stomaco, dove poche ore prima aveva scoperto di avere tanti… fori. avrebbe proprio voluto sapere che tipo di detriti le avevano lasciato quelle strane ferite.
    aprì la porta e iniziò a trascinarsi lungo il corridoio buio e quasi inquietante, erano pur sempre le tre di notte ed era quasi certa che non avrebbe trovato nessuno lì fuori a farle compagnia, beh in effetti quasi certa «…Paris» lo chiamò con tono piatto, fermandosi sul posto, pigiama a quadroni, capelli neri sciolti sulle spalle fino ad arrivarle ai fianchi, una faccia stanca e piedi scalzi «non riesci a dormire?» lui, che era stato coinvolto nel suo stesso incidente, lui che occupava i suoi sogni, unica cosa che rammentava di quei probabili incubi «come ti senti? sei ancora ammaccato?»
    si poggiò al muro, stanca di tenersi in piedi, quel maledetto dolore al torace a ricordarle che era lì per un motivo
    «sappi che…» «sappi che qualsiasi cosa sono lì» «qualsiasi cosa sono lì » disse, indicando con un cenno della testa la camera in cui l’avevano sistemata, com’era crudele il destino, le prime parole che rivolgeva a Paris erano come le ultime che gli aveva rivolto sul campo di battaglia.
    ma questo lei, non poteva saperlo

    Delilah
    Parker


    It takes my breath away
    Soft hearts, electric souls
    hothead
    “what are you looking at?”
    amnesia — 17 y.o, slyterin, confusedTake my picture now, shake it 'til you see it
    And when your fantasies become your legacy
    Promise me a place
    in your house of memories
    house of memories
    panic! at the disco
    moonmaiden, guide us
  10. .
    Burn the pain, burn the lies, Burn the fear inside myself. And burn it all again, It's the right time to Escape this cage
    check vibe non doveva elaborare un cazzo, perché non c'era un cazzo da elaborare.
    si poteva dire che un momento così, un occasione come quella!, l'avesse aspettato per tutta la vita — due, a essere sinceri. c'era stato un tempo, uno più semplice, in cui il giovanissimo ché avrebbe trovato affascinante tutto quello: una piccola comunità che cercava di ripartire da zero, ogni singolo individuo pronto a fare la sua parte, un piccolo sacrificio per evitare un male insopportabile. i confini, nella mente corrotta del cheemy, si erano confusi in fretta.
    le linee, inizialmente ben visibili e definite, avevano sbavato il loro inchiostro trasformandosi in un disegno caotico e distruttivo, una macchia dopo l'altra a fondersi con la carta. convinto, nonostante tutto e fino all'ultimo istante, di aver venduto anima e innocenza per qualcosa che era senza sugli più grande: di lui, di loro.
    i piani del vibe erano decisamente più modesti.
    preferiva mantenersi umile pensando a se stesso, piuttosto che ad un bene superiore pronto a chiedere in cambio la sua libbra di carne. e tra dentro o fuori, era convinto avrebbe fatto poca differenza; non si lasciava indietro nulla, check. tranne forse un peso, quello che aveva gravato sul torace magro di un bambino facendo scricchiolare le costole e sulle spalle di un adulto artigliando pelle e carne — per la prima volta da quando ne aveva memoria, la voce lo aveva lasciato solo. era bastato un passo, e quando le onde concentriche di quella magia sconosciuta avevano travolto tutto e tutti, anche quei sussurri di fiele si erano dissolti.
    il suo personale torna a casa, ché.
    nel mondo esterno, quello che non gli apparteneva più, aveva lasciato soltanto delle briciole; così poco di se stesso, che le persone alle quali teneva se l'era ritrovate tutte al proprio fianco. buffo, a volerci trovare qualcosa da ridere, e più difficile capire cosa lo fosse di più: che fossero solo due, un'intera vita ridotta a suo fratello «pidocchio—» «lo so»
    e ad hans belby
    «non credevo potesse importarti.»
    «non volevo che buttassi via la tua vita, l'hai dimenticato?»
    o il fatto che per check fossero gia troppe.
    non aveva lasciato alcuno spazio a hold e justin perché potessero riempirlo, e alla fine il tempo gli aveva dato ragione: al cenno leggero di quella mano sollevata a mezz'aria, il vibe aveva risposto con la più totale indiffere nza, quasi non si aspettasse altro. non aveva nemmeno iniziato a considerarli parte della sua vita, ed erano già belli che andati.
    un problema in meno a cui pensare.
    aveva atteso un paio di giorni, persi ad esplorare la città sotto la bolla, un brulicante fermento di nuova vita nel quale ricominciare da zero; o dal punto stesso in cui aveva interrotto la propria. conscio, suo malgrado, di essere uno dei pochi a cui degli addii e delle conseguenze non poteva fregare una minchia di meno — aveva visto le lacrime, la disperazione, la consapevolezza farsi più nitida di secondo in secondo; il tradimento, l'odio e il rancore, l'accettazione in occhi lucidi e sguardi affranti.
    di tutto quello gli importava poco.
    le conseguenze per chi fosse rimasto a lottare nella bolla, sacrificio di sangue and all, gia un po di più..
    in fondo, quando finalmente aveva deciso di fare il primo passo, trovare hans non era stato difficile: sapeva come seguire gli spostamenti di qualcuno, check vibe, anche quando questo qualcuno avrebbe preferito scomparire dalla faccia della Terra.
    un bravo segugio, se così si può dire.
    la scelta del lago, d'altraparte, gli sembrava un pochino azzardata; nostalgica, quasi.
    «tranquillo, è tranquillo» non si sedette accanto al minore, rispettando il suo spazio. un paio di metri a distanziarli era quanto poteva concedergli, tutto considerato «ma agli squali ci hai pensato?» mantenne le iridi verde acqua rivolte alla superficie appena increspata, affondando le mani nelle tasche. il cielo, che sembrava stato dipinto con una tonalità di azzurro sbagliata (impercettibile, come la sensazione che dava guardarlo troppo a lungo: artificiale, falso quanto un sorriso di circostanza), mostrava già il profilo della luna, pallido e incompleto.
    aveva chiesto e gli era stato detto di non preoccuparsi.
    nel dubbio, check non lo faceva: se volevano studiare le reazioni di un licantropo durante la luna piena senza antilupo in circolo avevano solo che da chiedere.
    a quel punto piegò il capo, rivolgendo ad hans un'occhiata che non era di scuse, né tantomeno di compassione; qualunque cosa stesse passando il belby, check non aveva la pretesa di capirlo. poteva condividerlo, però — un cazzo di problema alla volta «perchè sei rimasto, hans» non era nemmeno una domanda, quasi un pensiero tra sé e sé lasciato rotolare sulle labbra con una studiata casualità. voleva sapere, voleva sempre sapere, ma non al punto da costringerlo ad aprire bocca per raccontarglielo.

    check
    vibe-bigh

    Burn the pain, burn the lies
    Burn the fear inside myself
    nobody smart
    plays fair
    MAGO
    WEREWOLF
    20 — halfblood — Focused. FlourishingReady to fight, ready to go
    That defines the world
    Second chances are gifted
    Just get one
    burn
    onlap
    moonmaiden, guide us
  11. .
    sometimes i just agree with people so they can stop talking
    Ma che cazzo. Se Ryuzaki chiudeva gli occhi, gli ultimi due mesi gli parevano un fever dream, un universo alternativo dei bordi sfocati e intangibili. Ma non erano solo gli ultimi due mesi, no? Era dal suo soggiorno in Siberia che si sentiva così, le sue fondamenta scosse e collassate e riassemblate in una forma differente con cui aveva dovuto imparare a convivere. Ed eccome se l’aveva fatto, perché vaffanculo che l’avrebbe data vinta a degli anonimi camici bianchi, quando non aveva piegato il capo nemmeno davanti al suo capofamiglia. Vi era solo una persona per la quale avrebbe sempre ceduto, un soft spot che si era sviluppato negli anni fino a che era diventato innegabile e il suo tallone d’Achille. Secondo voi, perché altro avrebbe dovuto accettare di andare nel fottuto Bangladesh a costruire casa per i poveri se non dietro richiesta di Fake? Richiesta, più che altro una di quelle idee folli che ogni tanto entravano in testa al suo migliore amico, e non vi era modo di dissuaderlo. E dio, dio, cosa non avrebbe dato il Kageyama per vederlo felice, persino spaccarsi la schiena sotto al sole cocente del sud est asiatico. Ma non– non era stato lì tutto il tempo, vero? No, era dovuto tornare a casa per qualcosa. Poco importava, se i bambini e Fake erano felici, Ryu era felice. Dio santo, non sarebbe potuto essere più palese, a se stesso e a una prospettiva esterna, la debolezza che suscitava in lui il Cheena. Ed era lì, in quel momento, cristallino nello sguardo apprensivo e pesante che scrutava il viso provato di Fake «bel posto» si concesse un sorso del suo spritz, gli occhi a scivolare lungo la parete, e poi oltre le porte dove la proprietaria del bar stava tenendo banchetto con una donna dal pesante eyeliner e tacchi vertiginosi. Erano gli unici due dentro al locale, per qualche ragione. Se Ryuzaki non avesse knew better, avrebbe pensato che quel bar appartenesse a un qualche tipo di organizzazione criminale. «cos’è successo, fake?» lasciò tamburellare le dita sulla plastica del bicchiere, impronte lasciate sulla condensa del bicchiere anzi di premerle sul polso dell’ex grifondoro, un tocco di cui aveva bisogno per assicurarsi che Fake fosse lì. Vivo, davanti a lui. «un cazzo di attentato, davvero.» secca, la risata del Kageyama, incredula come lo era stato quando aveva sentito per la prima volta dell’incidente a Heathrow. Capitavano tutte a loro, uh? Forse avrebbero dovuto farsi vedere da qualcuno per controllare di non avere il malocchio. E andava bene, fino a che se la cavavano con ancora tutta la pelle sulla schiena, ma fino a quando li avrebbe assistiti la fortuna? Ryuzaki non poteva– non poteva farlo un’altra volta, quell’incertezza di non sapere in che condizioni versasse Fake. Essere rinchiuso in una cella frigida per mesi, con il calore del proprio corpo come unica compagnia.
    ryuzaki
    kageyama

    Getting it all for free
    Living a strung-out dream
    we are
    golden
    SPECIAL
    umbrakinesis
    2001 — former gryffindor — yakuzaI'm blinded by the neon lights
    Shining bright on the innocent
    Shibuya nights
    Burning brighter than the sun
    neon
    One Ok Rock
    moonmaiden, guide us
  12. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    2005's
    lumokinese
    belga-bollo
    kaz oh
    Con il mento poggiato sulle dita intrecciate fra loro ed i gomiti a scavare solchi sulle ginocchia, Kaz Oh guardava una mattonella scheggiata dell’ospedale. Una precisa, con una crepa nell’angolo più a sinistra. Si domandava dove fosse finito il pezzo mancante, perché le altre domande sembravano un po’ troppo pesanti per lui. In quel momento; il giorno dopo, ad occhio e croce.
    Per sempre.
    «tu non sei più mio fratello, ti odio »
    Non lo pensava davvero, Kul. Sapeva non lo pensasse davvero. Ma era un timore costante, e ci si scontrava di continuo. Ogni battito di cuore ne picchiava uno spigolo. Lo sentiva rimbalzare fra una parete e l’altra della calotta cranica come una pallina da ping pong: ogni colpo, inspirava tremulo; al rimpallo, espirava e corrugava le sopracciglia. Sulla scomoda sedia del Primo ed Ultimo Soccorso, chiamato in amicizia (e da chi lo visitava spesso, tipo l’Oh) PUS, mordicchiava l’interno del labbro inferiore e faceva le due cose che meno preferiva al mondo: aspettava e pensava.
    Non avevano dato stanze singole, ai Sedici Prescelti. Mancava lo spazio, e certo il personale. Erano stati tutti ammassati in una delle camere del primo piano, su brande misere che apparivano, se possibile, ancor più sconvenienti della sedia su cui ormai aveva lasciato la propria impronta. C’erano sedute di ogni tipo, lì dentro. L’Oh, come Riccioli d’oro nella favola, le aveva provate tutte – quelle in legno, quelle da bagnino, quelle metalliche raccattate solo Dio sapeva dove – prima di scegliere quella plasticosa da giardino. Sentiva di essere diventato ormai un tutt'uno con lei.
    Non c’era stato verso di farlo alzare, dopotutto. E perché avrebbe dovuto? Erano tutti lì: Balt e Mimmo, Thor. Kul. Ancora addormentati, la pelle segnata e sporca dal sangue che non era venuto via al primo passaggio del panno umido. Non ce n’era stato un secondo, per l’Oh manipolatore d’ombre: Kaz aveva guardato lo straccio offerto da Melvin, ed aveva scosso secco il capo.
    Più passava il tempo, più aveva modo di riflettere fra sé e sè, e più si innervosiva. Lo riteneva un sentimento migliore rispetto alle centinaia d’altri in attesa di sfondare la cassa toracica, quasi gradevole. Un pensiero sul quale ossessionarsi che non fosse tutto il resto, recluso sotto cumuli di macerie e polvere. Non aveva – non voleva - non poteva -
    E non l’avrebbe fatto, signori e signore. Neanche una singola cosa. Cuore sottochiave, e lingua appiccicata al palato. Rimase aggrappato solo a quello, Kaz, perché una cosa per volta sembrava gestibile, ed osservare il profilo del fratello ancora in convalescenza con sguardo torvo ed accigliato, era la sua alternativa migliore. Continuava a cercare di immaginare la scena di quando l’altro avrebbe aperto gli occhi, completando dieci e cento scenari diversi. Il vero saluto che non avevano avuto tempo di darsi, le confessioni, il perché della sua scelta. Le lacrime – quelle, ne aveva immaginate parecchie, perfino nel solo contesto protetto riguardante loro due, e senza includere quanto tutto il resto attendesse sotto pelle di strappare e strappare. Per qualche motivo, non accadde nulla di quanto Kaz si era immaginato in quelle ore, quando le palpebre del fratello tremolarono segnando il suo risveglio.
    E la sua mano scattò a dargli uno schiaffo sulla tempia.
    «ma sei deficiente»
    Rabbia. Poco familiare, per l’Oh. Forse aveva passato troppo tempo con la sua anima gemella, perché tremava da testa a piedi di pura, non filtrata, furia. Migliaia di motivi, ma decise di dedicarne al minore solo un paio, nessuno dei quali includesse la stretta alla gola del pensiero fosse maledettamente morto. «”cosa direbbero mamma e papà”, bohoo. ma se mamma è morta, e sai che papà mi supporterebbe!» non alzò la voce, gli altri stavano ancora (shes dead – shes meditating) riposando, ma rivedere baby allen aveva riportato alla memoria il suo talento, non così segreto, di gridare molto forte, molto sottovoce. Bisbigli indignati, quello del lumocineta. «pugnalarti alle spalle?» Unì le dita della mano destra e le scrollò, labbra curvate verso il basso. Quello, doveva averlo ereditato da Remo. «come sei egocentrico. megalomane. Kul! kul. qui si parla del mondo intero» indicò con un ampio cenno la stanza attorno a loro, ingurgitando nel senso l’universo oltre quelle porte.
    Quella Bolla.
    «pensi sia qua perchè tu hai fatto di male a me Non resistette, allungando ancora una mano per schiccherarlo sulla guancia. Che fosse messo male, dopotutto, non era una novità – non per loro, non fra loro - e si sentì del tutto in diritto di mettere il dito nella piaga. Metaforicamente parlando.
    Il prezzo da pagare per avergli spezzato il cuore. Frantumato sotto il tallone, senza alcun maledetto rimorso. Parole dure, sputate come fottuto veleno solo per fargli del male: quella, era cattiveria gratuita. Quello era pugnalare qualcuno, alle spalle e tutto intorno. «rimanere da solo... ridicolo» incrociò le braccia al petto, sentendo il primo brivido lungo la schiena – non l’ultimo, immaginava. Cercò comunque di tenerlo a bada, perché non era pronto. Non lo era, ok? Scelta, sì, ed aveva fatto la sua; no, non sarebbe tornato indietro. Non significava che ne fosse euforico: tutti dovevano fare dei sacrifici. «hai papà. hai gli amici. hai tutta la vita» ed eccolo, il seme originario di quella rabbia.
    Aveva scelto tutto il resto, Kul. Rispetto alla cosa giusta, rispetto a lui. Ed anziché capirlo, fidarsi, e conoscerlo abbastanza da sapere che non avrebbe messo sull’altare la sua intera esistenza se non fosse stato sicuro ne sarebbe valsa la pena, parlava di tradimento? A Kaz, che incarnava tutti gli ideali per i quali avevano sempre combattuto? Insieme, per giunta. «questo è il momento in cui mi chiedi scusa.»
    If I don't say this now, I will surely break
    As I'm leaving the one I want to take
    Forgive the urgency, but hurry up and wait
    My heart has started to separate
  13. .
    don't cag my cazz.
    Avevano perso.
    Ci avevano provato alla grande fino alla fine, stringendo i denti, cercando di recuperare dopo l'errore grossolano che li aveva fottuti e condannati; valorosi guerrieri che non ci stavano, semplicemente non ci stavano ad accettare quella sconfitta.
    Non era possibile.
    Ma non erano ancora spacciati; potevano ancora farcela.
    Potevano ancora farcela, cazzo.
    Non avrebbero concesso a dei nessuno qualunque il permesso di strappare quella vittoria, in nome… in nome di cosa, poi. Si credevano organizzati solo perché erano stati in grado di disegnare un progetto e realizzarlo; sistemare le pedine sulla scacchiera nella giusta maniera e fare scacco matto; fare capo ad un leader che — ok, sì, aveva messo in saccoccia qualche vittoria in più di loro, ma?? Ma??
    Che cazzo ne sapevano, cosa stracazzo sapevano!
    Serviva più di quello per vincere davvero.
    Avevano perso, sì, ma non erano stati sconfitti; non del tutto.
    Potevano ancora… ribaltare il risultato, in qualche modo. C'era ancora una speranza.
    C'era… c'era una speranza.


    .
    La Roma aveva ancora una speranza di arrivare in finale: andare a Leverkusen e spaccare il culo ai crucchi di merda, o in alternativa si accontentavano di spaccare la faccia a Karsdorp, per quel retropassaggio del cazzo a due metri dall'avversario, che nemmeno i pulcini della Nova Sette si permettevano di fare, certo.
    E di cosa pensavate si parlasse, scusate, se non della semifinale di Europa League?
    Ovvio che fosse quello era l'unico pensiero nella testa di Romolo Linguini in quei giorni, come sempre, — a cos'altro doveva pensare? Di certo non a missioni in Sri Lanka mai avvenute (e, con esse, tutto il resto; se si era riscoperto stranamente affascinato dalle tipe con i capelli rossi, ultimamente, era solo colpa di quella vecchia foto di Miriam Leone che aveva visto sul Chi di nonna Rosetta, e di nient'altro). E c'era anche una spiegazione logica allo strano dolore fantasma al petto, e alla convinzione sempre più concreta che sarebbe morto di infarto prima di raggiungere i venticinque anni: tifava la Roma, e non esisteva nessun romanista fedele al romanismo che non avesse rischiato l'attacco di cuore almeno una o due volte (a partita); chi diceva il contrario era un tifoso occasionale.
    Insomma: vincere la semifinale di ritorno, e assicurarsi la quarta finale europea consecutiva era l'unico pensiero coerente nella mente del romano (e romanista). La sua testa lavorava in maniera molto semplice, e gni altro ricordo, di qualsiasi natura, era stato facilmente soppiantato da quello, così come i vuoti di memoria o i buchi narrativi lasciati da una magia antica e incomprensibile erano stati facilmente colmati con quel genere di immagini; rimaneva solo il dolore del pugno ricevuto sul naso quando il fottuto ladro aveva fatto impattare le nocche contro il suo viso, al tentativo dell'italiano di bloccarlo prima che fugisse dopo il tentativo di rapina. «ginè, è l'ultima cazzo di volta che mi metto in mezzo. 'o vedi a volè fa' der bene, ce se rimette sempre» ma chi glielo aveva fatto fare di immolarsi, non ne valeva mai la pena.
    Inutile dire che il naso era ancora gonfio e le borse sotto gli occhi così scure da farlo sembrare Bruce Wayne dopo che si toglieva il casco da pipistrello e rimaneva solo col trucco sbavato intorno agli occhi; ma di andare a farsi sistemare da un guaritore bravo non se ne parlava, e preferiva guarire a modo suo, come aveva sempre fatto, perché anche sticazzi.
    Non era proprio uno spettacolo bellissimo, certo, viso gonfio ed espressione omicida, ma anche sticazzi un’altra volta: chi frequentava il Bar dello Sport ormai ci aveva fatto l’abitudine al viso sempre più o meno tumefatto del cugino romano (e romanista), e non si facevano più domande; avevano capito che domandare se si fosse picchiato con un tifoso rivale o avesse dato una testata a qualche studente durante il lavoro e rischiare di ricevere una risposta poteva essere un’arma a doppio taglio.
    Chiuse di scatto il Corriere dello Sport (che Ginevra si faceva arrivare tutti i giorni direttamente dall’Italia, santa donna), e lo girò sottosopra per non vedere la prima pagina e i titoloni giganti che chiamavano la Roma all’impresa delle imprese, e si verso un altra tazzina di caffé. Tipo il sesto della giornata. Erano solo le due del pomeriggio, doveva arrivare alle nove e superare quello scoglio insormontabile che erano le qualificazioni ala finale di europa league 2023-2024 senza perdere quel poco di sanità mentale (!) che gli era rimasta.
    Poteva farcela.
    Poteva farcela?
    «che vvoi?» chiese, sapore dolceamaro del caffé ancora appiccicato alla lingua, e occhi scuri stretti sul cliente al bancone: vuoi essere tu?
    romolo
    linguini

    io boh,
    ma pure voi mah!
    romanismo
    “che er daje sia con voi”
    wizard
    good heart, bad temper
    the leader — 1999, romano, romanistae un'altra notte che passa,
    questa vodka rilassa,
    non pensare a domani
    alza al cielo le mani!
    domani ci passa
    ludwig
    moonmaiden, guide us


    un'altra pq libera?! sì.
    non ha neanche uno scopo se non che serviva a me per esorcizzare demoni (della quest? no. della partita di domani.)
  14. .
    dear universe, i trust you.
    Lisi Selwyn non aveva mai rimpianto una singola decisione presa in vita sua. Non aveva mai dovuto farlo, perché il suo cuore e la sua mente erano sempre andati fin troppo d'accordo, per poter scegliere uno una cosa, ed uno un'altra.
    Quello che il cuore desiderava, la testa accettava; e quello che la testa comandava, il cuore giustificava. Erano sempre andati a braccetto, come i contrasti della sua personalità, così ben bilanciati da essere quasi perfetti. Non avevano mai avuto occasione per non andare d'accordo, e quello era sempre stato uno dei punti di forza della strega; non aveva mai avuto bisogno di rimpiangere nulla, non a sedici anni e non a venti e non a venticinque — e di certo non a trenta.
    Lo aveva saputo nel momento stesso in cui aveva visto Jeanine apparire, che fosse il momento; uno che aveva atteso da tutta la vita pur non rendendosene conto; uno che l'aveva attesa con pazienza, contando i giorni che la dividevano dal sacrificio finale.
    Non solo quelli infiltrati attraverso la spaccatura nella avevano sacrificato qualcosa, quel giorno; lo avevano fatto tutti. Qualcuno con più consapevolezza di altri, certo; qualcuno ad occhi chiusi, senza pensare alle conseguenze; qualcuno solo perché non aveva nulla di meglio da fare; qualcuno per motivi egoisti.
    Non giudicava nessuno di loro, Lisi. Non una singola anima. Avevano tutti avuto un motivo per farlo, che fosse per qualcuno all'interno della Bolla, o per qualcuno fuori; non c'erano motivazioni meno valide di altre. La sua non era meno valida (o stupida, o egoista, o testarda, o impulsiva) di altre.
    Aveva visto Jeanine e aveva capito fosse giunto il momento.
    A lungo aveva saputo che, prima o poi, sarebbe arrivato il giorno in cui non avrebbe più rivisto i suoi genitori (tutti e quattro) o i suoi fratellini (tutti e tre) — solo che per molti, moltissimi, anni, Lisi aveva creduto sarebbe arrivato sottoforma di fulmine a ciel sereno, la notizia della sua prematura dipartita, l'inevitabile fine di una donna che aveva scelto la Resistenza piuttosto che il Regime. Aveva accettato l'idea di deluderli, di saperli devastati e piangenti non per la sua morte, ma per il suo tradimento; di vedere sua mamma asciugare le lacrime con un fazzoletto e domandarsi perché, o suo papà stringere i pugni e guardare lontano domandandosi come avesse potuto.
    Mai, nemmeno una volta, però, aveva immaginato potessero semplicemente non ricordarla.
    Forse era una benedizione, quella lì.
    La dolce concessione di un'entità che faticavano a comprendere, ma che aveva deciso di ricompensarli per la loro difficile scelta.
    Sacrificio.
    E riconoscimento.
    Era stato un po' più facile allontanarsi dalla barriera con un ultimo sguardo a Cherry e Lawrence sapendo che, in qualche modo, qualcuno si sarebbe preso cura di loro e avrebbero dimenticato quegli ultimi giorni; un sollievo sapere che avessero ancora l'un l'altra.
    Ed era stato un po' più facile salutare da lontano i suoi bambini, tutti quanti: Ficus, occhioni tristi rivolti ad alcuni amici, e braccia strette intorno al corpo degli altri; Del, la stessa espressione risoluta e incazzata che le aveva visto il giorno prima quando avevano combattuto fianco a fianco; Paris, devastato da quello che Lisi, ne era certa, fosse il primo grande amore, ma non l'unico — gli avrebbe voluto dire che, a diciassette anni, c'era ancora tutto il tempo del mondo per innamorarsi di nuovo, follemente, perdutamente.
    Guardò persino Row, stupido, impertinente, antipatico Row, e gli sorrise; premette un bacio sul palmo della mano, e lo soffiò verso il polacco, nella speranza che lo colpisse e facesse bene.
    Cercò Raphael, compagno silenzio di fin troppi momenti nel Quartier Generale, dove rimanere da soli non era un'opzione eppure sembrava l'unica cosa che volessero fare; erano sempre stati bravi a sostenersi a vicenda, senza dire troppe parole, semplicemente essendo presenti.
    A Barry, infine, rivolse il più triste degli sguardi: truffato, a pagare le conseguenze di scelte passate e decisioni non del tutto sue; rinnegato pur dopo aver scelto di combattere per la Bolla — a lui, Lisi rivolse lo sguardo più lungo e più dolce di tutti, senza rammarico, ma con una promessa sulle labbra morbide: finiremo quel ballo.
    Aveva continuato a guardarli tutti anche quando la magia della bolla aveva reso tutto invisibile ai loro occhi increduli, e solo quando infine erano stati smaterializzati lontano da lì, Lisi aveva dato le spalle alla barriera e si era incamminata verso la sua nuova vita.

    Cercare i suoi nuovi amichetti era stato naturale, un gesto che Lisi Selwyn avrebbe compiuto a prescindere, anche se non avesse condiviso con quelle sei anime un'esperienza ai limiti della follia.
    Aveva cercato per prima cosa Mood e Toothy, e li aveva osservati a lungo, ciascuno dei due, prendendo nota di ogni capello fuori posto, ogni macchiolina di sangue sul viso, ogni centimetro dei vestiti che fosse fuori posto; solo quando si era sincerata che nessuno di quel sangue fosse loro, li aveva lasciati andare con un buffetto sulla guancia di entrambi e un «poi mi racconti bene di—» come l'aveva chiamato? «baby allen» rivolto a Tooth, il sorriso ancora lì dove era rimasto per tutto il tempo dei saluti.
    Aveva cercato Olga, la donna taciturna ma risoluta che, quando la terra aveva tremato, aveva preso, tra loro, il colpo peggiore; le avevano detto fosse stata presa in cura dagli uomini di Jeanine, e Lisi l'aveva accettata come rassicurazione sufficiente — si fidava ciecamente del suo leader.
    Si era seduta accanto ad Harry per un momento, braccia strette intorno alle ginocchia e sguardo lasciato a vagare sul panorama intorno a loro. «immagino che dovremo allungare la lista, ora» ed era uno scherzo solo in parte: c'erano così tante cose che né lui, né Stan, sapevano riguardo quel mondo.
    Infine, ma non per ultima, aveva cercato Liz e l'aveva ringraziata per il suo aiuto contro il ghoul, asciugando qualche lacrima dagli occhi chiari della bionda con gesti delicati, ma lasciandola a quel fratello che, più di tutti loro, aveva dato se stesso senza nemmeno rendersene conto, o sapere perché.
    A Stan – senza toccarlo perché aveva capito l'antifona, la francese – aveva solo detto che le cose sarebbero andate meglio, e aveva offerto la sua totale disponibilità per qualsiasi cosa; aveva il sospetto che il serbo non l'avrebbe colta così facilmente, ma per sua fortuna Lisi non era una che demordesse, o lasciasse perdere, e sapeva che sarebbe stata lei, alla fine, a cercare il Luna.

    Solo alla fine, riposando il corpo stanco in una stanza d'hotel poco familiare, ripulendolo dalla fatica e dal sangue e dalla terra e dal peso delle decisioni prese, si concesse di pensare ad Hayden.
    Lacrime silenziose a mescolarsi con l'acqua pulita che le rinfrescava il viso, e la consapevolezza che lo avrebbe rivisto prima o poi, pur non sapendo quando.
    Poteva consolarsi con il fatto che lui non la ricordasse, ed era già abituata ad altri fratelli che non sapessero della sua esistenza, non sarebbe stato così difficile, si ripeteva, sopportare anche quello. Ma Hayden, a differenza di Law e Wyatt, Lisi lo aveva visto crescere; lo aveva cresciuto lei stessa, un bambolotto fatto di carne ed ossa e sangue e pianti isterici, che a sei anni lei aveva stretto al petto e impedito ad altri bambini dell'orfanotrofio anche solo di guardare. Era la sua vita, era il suo cuore, e da quel giorno lei non era più nessuno per lui.

    Non c'era più quella tristezza però, quando rivolse le iridi cangianti a Stan. L'aveva chiusa nella stanza del Lotus, e aveva accettato di lasciarla lì, indietro; come tutte le altre cose della sua precedente vita.
    Al serbo mostrò solo il suo sorriso più dolce e rassicurante, e un quaderno ad anelli doveva aveva iniziato a raccogliere i primi disegni di una lunga serie: “creature poco belle ma non chiamiamoli mostri.”
    Disegnare e dipingere era sempre stata la sua passione più grande, e continuava ad essere il modo migliore per esorcizzare i brutti pensieri e trovare un po' di sanità mentale (!) quando tutto sembrava andare a rotoli; farlo con uno scopo era stato liberatorio. E molto utile.
    «spero non capiti più l'occasione, ma in caso dovesse succedere, almeno sarai pronto» gli spiegò, attendendo che aprisse il quaderno e iniziasse a posare lo sguardo sulla serie di creature che Lisi aveva disegnato e descritto per lui; i disegni erano riproduzioni abbastanza fedeli della realtà, ma non troppo spaventosi da dare al babbano materiale per altri incubi, più di quanto l'incontro con le creature di Seth non avesse già fatto. «ne arriveranno altri, un po' alla volta» chiedere matite e colori era stato facile; trovare il tempo di dedicarsi al progetto un po' meno. «prima o poi ne farò anche una su quelle più carine» e, da magizoologa, ne conosceva davvero un sacco!
    Lo osservò per qualche istante, studiando il viso giovane, emaciato, terrorizzato. Avrebbe voluto proteggerlo da tutto quello, ma non era compito suo; poteva solo tendergli la mano e sperare l'accettasse, e le permettesse di camminare al suo fianco. «se hai altre domande, sono qui Stan.» se non poteva essere presente per Hayden, poteva almeno essere presente per lui.
    lisi
    selwyn

    when she talks
    you can hear the revolution
    (re)belle
    “this beauty is a rebel”
    witch
    loyal to the cause
    the victor — 1994, magizoologist, rebelWho's gonna pick you up when you fall?
    Who's gonna hang it up when you call?
    Who's gonna pay attention to your dreams?
    Who's gonna hold you down when you shake?
    drive
    the cars
    moonmaiden, guide us
  15. .
    It's beautiful how this deep normality settles down over me
    I'm not bored or unhappy, I'm still so strange and wild
    Non ricordava quando, esattamente, avesse scelto di fare capolino in quella stanza.
    A dirla tutta ricordava molto poco di ogni momento successivo alla fine. Ricordava Barry, finché Barry non era sparito dalla sua visuale. Mood, e quello strano scambio di sguardi; l’accusa che aveva interpretato nei suoi occhi, e che ancora non aveva avuto il modo, o il coraggio, di affrontare appieno. Qualcuno doveva averlo trascinato via dalla scena. Era abbastanza certo di non aver opposto resistenza, e se l’aveva fatto non doveva essere stato così bravo. Qualcosa — qualcuno — aveva mormorato tra i suoi capelli delle parole che vagamente somigliavano al conforto. Poteva esserselo immaginato. Harry era stato lì, in ogni caso. A scrutare negli occhi vuoti di Toothless, e a tenerlo fermo sotto la luce fioca del crepuscolo. Non aveva pianto, e non aveva urlato; guance miracolosamente asciutte e gola seccata dall’aridità nell’aria, ma non graffiante. Il pensiero era stato gratificante — sapere che nonostante tutto era riuscito a non attirare troppo l’attenzione su di sé, scalpitante come un bambino di fronte a tutto quell’orrore.
    Aveva scoperto solo dopo il destino dei Prescelti. E allora, nel privato della sua stanza, si era concesso di spingere i polpastrelli contro le estremità degli occhi fino a vedere bianco e lasciarsi andare. Liberatorio. Non l’aveva considerata, quella terza opzione. La morte, e quanto potesse bruciargli nelle vene. Il resto? Poteva imparare ad accettarlo. Lo aveva già fatto una volta.
    La routine che aveva seguito era stata al contempo familiare ed estranea. Trascinarsi in giro, crearsi uno spazio nel miasma post battaglia; in quel nulla totale, che a un certo punto avrebbe dovuto imparare a riconoscere come casa. I passi cauti attorno alla casupola, attorno alle persone; mento basso e occhi puntati sempre sull’inanimato. L’unico volto su cui era sostato per più di qualche secondo era stato quello di Aidan, alla quale aveva raccontato le sue avventure che avevano ben poco di eroico in sussurri prima di sgusciare via. Non si era chiesto se la sua presenza fosse accetta o meno; la porta era rimasta convenientemente aperta, e l’aveva preso come un segnale.
    Poi, chissà. Interesse morboso, forse.
    O la necessità di non appartenere da nessuna parte, ma con qualcuno al suo fianco. I passi lo avevano semplicemente guidato . Quasi un auto-tradimento.
    «tranquillo, non è così grave»
    Considerò l’idea di battere le nocche al muro e rendere la sua presenza ovvia, nascosto com’era tra le ombre del corridoio. Strinse i denti attorno al labbro inferiore, e spinse il peso contro l’arcata della porta, e alla fine non fece la cosa giusta. Si trovava meglio in quel limbo, Toothless. Abbastanza lontano da non dover essere inserito nella conversazione, e abbastanza vicino da poter fare i suoi conti e trarne i risultati.
    «davvero, non devi preoccuparti. gli vuole ancora bene, sai? nonostante tutto»
    Hm.
    E non si chiese chi, esattamente, il Morales stesse cercando di convincere. Ma una grazia — minima — glie la concesse. Spingendo la gomma delle Converse contro la pavimentazione e rompendo l’illusione. Se Clay voleva continuare a ignorarlo, a quel punto, era un problema suo.
    «non— non capisce perché Ani abbia fatto quello che ha fatto e, certo, si sente tradito»
    Sorrise. Un sorriso amaro, a pesare sul suo volto invece che illuminarlo. Lentamente, si sedette sul letto abbandonato. Strano ma vero, attese la fine di quel monologo senza infierire.
    «lo pensi davvero?»
    Fece scorrere lo sguardo su Remì, intoccato di fronte alle ferite esposte e il colore malaticcio della sua pelle. Non aveva mai vissuto direttamente gli orrori della guerra, Toothless, ma era cresciuto fra i risultati; persino Bodie, poco più che un punto su di una cartina della California, aveva assistito alle sue parate. Chi non era mai tornato; chi lo aveva fatto solo fisicamente, e neanche del tutto.
    Poi guardò Clay.
    «che gli voglia ancora bene, intendo. si può volere bene a qualcosa che non c’è più?» spinse la lingua contro il palato, e stese la schiena lungo il lenzuolo, reggendosi sui gomiti. «o forse vuole solo bene all’idea di anakin?» e roteò il capo indietro, perdendosi momentaneamente tra i popcorn del soffitto.
    «ciò che sperava diventasse.» ciò che non era più, e che forse non era mai stato.
    Le interpretazioni di Toothless tendevano a scendere sull’infelice. Che ci poteva fare: l’affetto, nella sua vita, era sempre stato collaterale. Una strana coincidenza di cui si parlava poco, perché non era in grado di esprimerlo apertamente.
    «scusa.» quello, però, stava diventando molto facile. Gli pareva quasi di averlo detto così tante volte, negli ultimi tempi, da sfidare Baltasar Monrique. Cinse un fianco con la mano, e schioccò con la lingua un paio di volte. «posso farti stare un po’ meglio, però.» parole che uscirono macchinose, impacciate nel suo palato.
    Eh, dopo avergli distrutto ogni sogno. Piegò la testa contro la spalla, lo sguardo ora puntato sulla porta in attesa di un pitter patter che non tardò ad arrivare. Ci aveva messo più tempo del previsto a capire come far funzionare lo strano meccanismo di Baby Allen in quel fulcro di magia potente e sconosciuta, ma alla fine ci era riuscito a sincronizzarlo a qualunque cosa lo tenesse in vita. Sincera e affettuosa, la curvatura delle sue labbra; e con un cenno del mento invitò anche Clay a guardare.
    Cosa? Ma che domande.

    «non farti mangiare le dita.» perché sapeva, duh, che la tentazione di prenderlo in braccio fosse tanta. Spinse meglio il gomito nel materasso, allora; e accavallò le gambe, riportando le iridi smeraldo su Clay. Non che fossero cazzi suoi, ma. «stai avendo ripensamenti?»
    Oh, cucciolo d’uomo.
    toothless
    simmons / baudelaire

    It's never too late, baby,
    so don't give up
    even stars
    burn out
    wizkid
    time traveler
    folk hero — la sanità mentale! — bubblin'You're in the wind, I'm in the water
    Nobody's son, nobody's daughter
    Suburbia, The Brentwood Market
    What to do next? Maybe we'll love it
    chemtrails over the country club
    lana del rey
    moonmaiden, guide us


    e facciamo che i crediti della gif nel post li metto qui o da telefono ti si apre il popup molesto.
103 replies since 28/4/2022
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