«stai perdendo tempo.»
Batté le palpebre, Aidan, e alzò lo sguardo sulla donna. Non le chiese cosa ci facesse sul ciglio della porta, le braccia conserte e le iridi scure a cogliere le sue nello specchio. Nel breve periodo di convalescenza che aveva passato al suo fianco, d’altronde, aveva imparato due cose su di lei: era un medico, primo, e il suo livello di considerazione per la privacy altrui rasentava lo zero, secondo.
Fece un passo indietro, e roteò il busto così da poterla guardare davvero. Stava facendo un favore a se stesso, realisticamente, a dare le spalle a quello spettacolo perturbante. Rimandato all’ultimo secondo per quel motivo esatto: aveva odiato tutto dello sconosciuto che gli si era presentato davanti. Lo spettro di Aidan Gallagher, tornato storto e sbagliato.
Poggiò la schiena contro l’estremità del lavandino, e imitò la sua posa. Due spicchi della stessa luna; conuctio. Ironico come non mai. «prima mi trascinate nella vostra merda e poi mi scacciate come se non mi voleste tra i piedi.» piegò il volto contro la spalla, e non sorrise. «ferite il mio orgoglio, così.»
Non glie lo disse che Jeanine Lafayette poteva smettere di rompergli il cazzo e tornare a sacrificare vergini per il bene dell’universo, o qualunque cosa facesse nel suo tempo libero. Sperava fosse ovvio nelle linee spigolose che lo componevano, per quanto macchinose gli risultassero in quel momento: si sarebbe preso tutto il tempo che lo aggradava, e loro se ne sarebbero fatti una ragione.
In egual maniera, la ragazza non gli disse che non era lì in veste ufficiale; né tantomeno che la cara Jeanine era già tanto se si ricordava della sua esistenza. Abbassò il mento, fissandolo con un pigro disinteresse, e piuttosto scelse la violenza. «non cambierà niente.»
Il gelo non attese la fine di quell’affermazione, prima di espandersi nel suo petto; già sapeva, Aidan, dove volesse andare a parare. «dimenticherai lo stesso.»
E sapeva anche quello. Sapeva di star rubando qualcosa che era destinato a perdere in ogni caso; che l’unico modo che aveva di tenersi strette quelle briciole era rimanere. Ma era Aidan, purtroppo. Aidan Gallagher, Lestrange, e non aveva mai smesso di scegliere se stesso. Neanche di fronte a quella particolare creatura eldritch — neanche quando scegliere se stesso imponeva una certa condizionalità all’amore che era disposto a condividere. Quando farlo mangiava le sue interiora e avvelenava la sua gola.
Glie lo aveva chiesto di nuovo. Una volta sola, perché non gli piaceva ripetersi, né tantomeno apprezzava la sensazione di quelle lame a scivolargli a pioggia nella carne. Toothless aveva abbassato lo sguardo sulle Converse, e non aveva detto niente. Se n’era andato un po’ prima del solito, dopo minuti di silenzio teso più dolorosi di quel rifiuto implicito, e tanto era bastato.
Non rispose a quella chiara provocazione. Anche se sospettava che non fosse quello il suo intento; e non capiva come, o perché, ma non era importante. Si rese conto di aver abbassato lo sguardo — lo ripose su di lei. «non mi hai mai detto come ti chiami.»
«dimenticherai anche questo.» schioccò la lingua contro il palato, la Crain. Ma lo indugiò lo stesso. «Isobel.» studiò Aidan mentre tastava il nome sulla lingua, circospetto. E sorrise per entrambi, allora; un ghigno divertito che non raggiunse i suoi occhi. «strano, vero? non hai idea di quanto lo sia per me. ma — com’era, quella storia. quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente. eccetera, eccetera.»
La guardò ancora. Spostando le sue attenzioni il giusto necessario da vederla pescare una carta dalla tasca della giacca, tendere il giudizio verso di lui. Avrebbe riso, Aidan, se solo ne fosse stato in grado.
«salutamele.»
Si strinse nelle spalle, e non accennò a voler prendere la sua carta. Fanculo i tarocchi. Fanculo Toothless, e fanculo Isobel. Avrebbe voluto urlarle di non essere un fottuto gufo; che se proprio avevano cose da dire ad altri che non fossero Aidan stesso, potevano uscire da quel posto di merda e farlo da soli. Ma di nuovo, si tenne per sé le parti peggiori del suo astio. «non so di chi parli.»
«lasci davvero che ogni evento della tua vita venga attribuito al caso?» eliminò la distanza, allora; e posò Il Giudizio sulla porcellana. «è proprio vero che non bisognerebbe mai conoscere i propri idoli. vattene» gli rivolse un ultimo sguardo, Isobel Crain. E quella volta, Aidan si concesse di notare la familiarità di quel volto – le linee che marcavano la sua faccia, quella particolare tonalità di nocciola che aveva studiato e studiato; che amava così tanto, in ogni universo. Le onde ordinate a scivolarle sulle spalle; quel tono nella sua voce che sembrava tagliarlo a metà, in un modo così intimo da poter provenire facilmente dalle sue stesse corde. «mi occuperò io di lui.»
Non era forse per quello, che l’avevano rispedita vent’anni nel passato? Recuperare i cocci, e aggiustare gli errori dei suoi genitori in un kintsugi che non aveva mai smesso di lasciarle l’amaro in bocca.
Rimase lì, a fissare quella porta spalancata, anche quando ormai se n’era andata da tempo.
Finalmente riposò le iridi smeraldo sulla carta; la bocca stretta in una linea retta, e un’accusa affatto velata a studiarne i contorni.
La intascò, perché che altro avrebbe potuto fare, e uscì da quel bagno. L’aria si era fatta un po’ troppo pesante, un po’ troppo rapidamente.
Quindi. Aveva un copione.
L’aveva ripetuto per tutta la strada di ritorno; in un taxi, ignorando le occhiate frequenti dell’uomo al volante e i suoi tentativi fallimentari di portare avanti una conversazione che mettesse entrambi a loro agio. Non aveva la pazienza per lui o per la sua curiosità fuoriluogo — quella con cui aveva continuato a fissare le sue mani guantate, incrociate elegantemente sulle gambe, e le ferite nella poca pelle rimasta scoperta. Aveva ingoiato così tanto, Aidan. E non era ancora successo un cazzo. Il tempo di sussultare sulla barella, mettere a fuoco i dintorni; cercare la bacchetta, e non sentirla più sua. Non sentire più la magia scorrergli nel palmo e ricordare che quel vuoto percepito non era solo stordimento, era… una mutilazione, nel senso più crudo. Un voltare alle spalle a tutto ciò che conosceva – di nuovo. La stessa che aveva avvertito a tredici anni, quando aveva alzato il polso nel letto di ospedale e visto gli squarci ricoperti di unguento. A sedici, quando aveva nascosto il braccio rotto dietro la schiena e accettato a denti stretti un nome e un cognome che non avevano mai smesso di essere estranei. Obbligato a conoscersi per l’ennesima fottuta volta. Ad abituarsi a un organismo alieno, a respingere il tremore che minacciava di scuoterlo da testa a piedi. Quella familiare disperazione; la stanchezza, la voglia di tornare a casa. Una costante.
Posò il palmo aperto contro il legno della porta, poi la fronte. E chiuse gli occhi. Respiri lenti a regolarizzare il battito del cuore, e a riabituare i polmoni al profumo, di casa. Uno che aveva ben poco a che vedere con muri e mobili e finestre. Che era dall’altro lato della toppa, se solo avesse trovato la forza di spingerci la chiave dentro.
Forse sarebbe stato meglio andarsene.
Era ancora in tempo.
Strinse la mandibola, e percepì il solletichio sullo zigomo prima ancora di vedere la lacrima spaccarsi sullo zerbino. E sussultò perché quello — non era calcolato. Così come non era calcolato il rumore dietro la porta; l’improvvisa mancanza di un corpo solido a separarlo dall’appartamento. Avrebbe davvero voluto scacciare quella debolezza; strofinare le mani sul volto e alzare la testa per incontrare lo sguardo di Archibald. Dire qualcosa. Ciao, sono tornato, sto bene, sono graffi di poco conto. Cristo, ci era riuscito fino a quel momento. E invece lo colpì tutto insieme, un fiume in piena. La realizzazione di dover entrare in quell’appartamento e superare una stanza vuota; di dover fingere che andasse tutto bene. Di trattenere il peso di quei mi dispiace che non avrebbe mai potuto pronunciare ad alta voce; a quale scopo, quando Arci e Jay e Gwen neanche ricordavano il motivo dietro quelle scuse. La persona che gli doveva quelle scuse. Ci provò davvero, a fare quel passo in avanti — crollò a terra. Ancorò le mani alle pareti, e non riuscì a fare proprio un cazzo; pianse, patetico e distrutto in modi che non era ancora del tutto in grado di comprendere, e alla fine glie lo disse lo stesso.
Tra respiri rotti, ciascuna parola a dislocarsi dalla gola come gomma sciolta: «mi dispiace.»
Mi dispiace mi dispiace mi dispiace mi dispiace.
«arci» e quello. Quello fece così male. Grattò sulla laringe, spinse nella cassa toracica fino a spezzare le ossa. «perdonami.»
Sapeva, logicamente, che se solo avesse saputo – se solo il Leroy-Baudelaire avesse avuto una minima idea di cosa significassero davvero quelle parole – non lo avrebbe fatto. Non se lo sarebbe meritato. Egoisticamente, perché quella era l’unica cosa in cui eccelleva, lo chiese lo stesso. Ancora e ancora e ancora. Conscio di non poter ricevere davvero una risposta negativa, senza il contesto necessario. Ma ne aveva così bisogno.