I think I see the problem, it's only gon' get worse.

post quest 11 | ft. sin @ casa di sin

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    they hate to see a boytoy win.
    Doveva aver battuto violentemente la testa, non c'erano altre spiegazioni per il comportamento di Lawrence.
    Battè le palpebre un paio di volte, scacciando il ronzio nelle orecchie con un gesto della mano, come se fosse una zanzara, il problema, e non i ripetuti colpi alla testa ricevuti.

    Continuò a camminare verso Cherry, o meglio, a trascinarsi verso la bionda, incurante del fatto che incespicasse sui propri piedi un passo sì e l'altro pure, o che la vista fosse appannata dal sangue che colava sugli occhi.
    Batté le palpebre, e le trovò coperte da un liquido denso, appiccicoso, e cremisi.
    Sangue?
    Beh, Lawrence, cos’altro poteva essere.

    Quando la raggiunse, le prese il viso tra le mani tremanti e le chiese, con un moto di apprensione che solo la Benshaw poteva suscitare in lui «stai bene?»
    Non si era nemmeno reso conto di essersi effettivamente mosso, ma la presenza di Cherry fra le proprie braccia era solida e tangibile, un chiaro segno che non stesse immaginando tutto.

    Le spostò i capelli dal viso, poggiando la fronte contro la sua, e respirando piano — cristo santissimo, sembrava che i polmoni stessero andando a fuoco, ogni cosa gli faceva male, e voleva solo tornare a casa sua e dormire sei giorni di fila.
    Vero, incredibilmente vero.
    Delle voci della gente intorno a loro non gli interessava nulla; non era nemmeno sicuro di riuscire a percepirli, gli altri esseri umani. C’era solo la sua migliore amica accovacciata di fronte a lui, pezzi di piombo — no, di metallo, conficcati nella gamba, parte di qualsiasi ordigno avessero fatto esplodere, chiaramente.
    «sembra il foro di un proiettile, ah ah» lo sfirò piano, prima di rendersi conto che fosse davvero una pessima idea.
    Uh.
    Beh, le idee – e i pensieri – arrivavano tutti ovattati, in quel momento. AH!
    Era molto stanco, Lawrence. Voleva solo dormire.
    Aveva davvero un solo desiderio in quel frangente e, stranamente, non era rotolarsi tra le lenzuola di uno sconosciuto e dare alle stanche membra un motivo per essere davvero stanche.
    Il suo desiderio era uno.
    Era—

    «andiamo a casa» così, di punto in bianco, nel bel mezzo della battaglia si.
    Era la prima e l'ultima volta che andava a morire per Moka. O per il vecchio bastardo.

    «andiamo a casa.»
    Potevano? Ma si che potevano.
    E in che senso qualcuno ha fatto esplodere una bomba, australiana stai zitta, tu e il tuo stupido accento, vai via, lasciaci stare, lascia in pace Cherry, lascia—
    Oh Dio, ma certo, qualcuno aveva fatto esplodere una bomba.
    Aveva sentito l’onda d’urto (le onde d’urto, plurale! AH!) scaraventarlo via prima di realizzare davvero cosa stesse succedendo; era finito contro il bancone del gate, Lance, sbattendo con violenza la testa. Era finito a terra, senza essere in grado di ripararsi dalla caduta, ed impattando con il pavimento freddo dell’aereoporto con la fronte, tanto perché non aveva già preso abbastanza botte.
    E non il genere che piaceva a lui, poi!
    «qualcuno ha fatto esplodere una bomba» ripeté a Cherry, a sua – non dirlo. Non dirlo Lawrence, «mamma, stai bene?»
    Batté le palpebre, senza preoccuparsi di togliere il sangue dallo sguardo castano che faticava più del necessario a mettere a fuoco la figura della strega.
    Mamma?
    Scoppiò a ridere, e poi si rifece serio.
    Poi rise di nuovo.
    «devo vomitare.»
    Si sentiva un Hugo Cox qualunque prima di qualsiasi esame — e si, certo che conosceva Hugo Cox, avevano fatto tutte le scuole insieme.
    Ed in effetti, vomitò.
    Ma tra detriti, sangue, gente che perdeva braccia e gambe come pezzi dei lego, il panico generale e le condizioni di quel dannato terminal, dubitava qualcuno se ne sarebbe accorto.
    Sperava almeno di aver vomitato sulle scarpe di Claudia, che era ancora lì, e voleva rubargli la mamma la sua migliore amica.
    Protestò con quanta più veemenza gli fosse concessa dal fisico provato, ma alla fine perse la presa su Cherry, e fu costretto a lasciarla alle cure di una decisamente più funzionale Moor. Le vide sparire entrambe, una bionda appena un po’ più viva dell’altra, e mise il broncio.
    «stronze!» Nemmeno lo avevano aspettato.
    Si rimise in piedi, usando le sedie – divelte da terra e scaraventate via dall’esplosione – come supporto; impresa davvero complicata, si rese tristemente conto, se non tanto per le gambe cedevoli e tremanti, per il continuo senso di vertigini che non ne voleva sapere di lasciarlo stare. Si rese conto dell’essere ad un passo dal perdere conoscenza – di nuovo?! – solo quando la presa scivolò lungo il metallo freddo, e quasi finì nuovamente a terra.
    Intorno a lui la gente si muoveva in maniera sempre più concitata, e la sola idea di dover alzare lo sguardo per osservare lo fece rimettere di nuovo. Il terminal danzava in immagini confusi davanti alla sua visione sfocata, e il ronzio nelle orecchie non ne voleva sapere di scemare.
    Non era un dottore, ma poteva arrivarci anche lui a capire che non vertesse nelle migliori delle condizioni.
    Oh, ma! Un dottore, certo. Aveva bisogno di un medico. Qualcuno che si prendesse cura di lui. Dottore.
    Doc.
    Doc?
    Smaterializzarsi senza un’idea precisa di dove si voleva finire era sconsigliato da qualsiasi istruttore di Smaterializzazione, e da qualsiasi mago con un pizzico di buon senso.
    Evidentemente non era il caso di Lawrence Matheson che, senza nemmeno pensarci due volte, chiamò a sé la magia necessaria per allontanarsi dalla scena del crimine, e finire il più lontano possibile da lì.
    No, non lontano.
    Bastava che fosse da qualche parte con un dottore.
    L’ospedale!
    Si, beh, certo — per una persona normale e senza una commozione cerebrale in corso sì. L’ospedale.
    Per Lance?
    Beh. Lui lo conosceva, un dottore.
    «busso.»
    Bussò.
    Accasciato alla porta di casa di Sinclair, ma lo fece.
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    Sinclair non aveva mai dovuto preoccuparsi delle condizioni di vita del terzo mondo fino a che non vi aveva sbattuto contro con la faccia, e poi il resto del corpo. Per esempio, non si era mai soffermato a pensare dove venissero smaltiti i rifiuti radioattivi o quale fosse l’esatto processo dietro, ma era diventato intimamente familiare nei mesi passati in Bangladesh. Non aveva fatto domande, perché non era il tipo da sprecare fiato quando i fatti erano distesi palesemente davanti a lui, ma aveva trovato un tocco di ipocrisia nel costruire un rifugio per i più bisognosi sopra un terreno avvelenato fino alle fondamenta. Una scommessa già persa in partenza, se non era quella una cruda metafora della vita, non sapeva come altro descriverla. E Sinclair aveva messo mano a quella creazione, no? Almeno, per un breve lasso di tempo. Guardandosi nello specchio, a malapena si riconosceva: la carnagione pallida e spenta, un calo di peso non indifferente e i muscoli a scomparire sotto il peso della malattia. Mai avrebbe pensato di prendere la mononucleosi, ma aveva preso un rischio andando in Bangladesh e non aveva calcolato come gli si sarebbe potuto ritorcere contro. Almeno, piccole gioie della vita, non era stato l’unico stronzo. Il Bangladesh dava e prendeva, ti sbatteva da una parte all’altra in una danza violenta fino a ritrovarsi in ginocchio ormai stremato, ma l’Hansen era stato all’altezza della sfida e ne era uscito on top. Una folata di vento scompigliò le pagine del libro che teneva sul comodino, e il suono improvviso lo riportò alla realtà. Non si trovava più in Bangladesh, non c’era alcuna casa da costruire o fogna da supervisionare, solo lui e il silenzio della sua abitazione. Silenzio che gli era mancato in quei mesi caotici e confusi, ma che pareva alieno a un orecchio ormai disabituato al fruscio del vento tra le foglie come unico sottofondo. Scosse la testa e si impose di muoversi, dritto verso l’armadio che lo tormentava ormai da ore e che contendeva moltitudini dentro di sé. E con moltitudini si intendeva una valanga di vestiti pronta a seppellirlo vivo. Fategli causa, se c’erano giorni dove non se la sentiva di adult-are. Un colpo contro la porta arrestò i suoi passi, il capo a scattare verso la direzione del rumore– non aspettava nessuno, no? Sbuffò esasperato, quello non significava niente nella vita di Sinclair Hansen. I suoi conoscenti non conoscevano la cortese regola di avvisare almeno qualche ora prima di presentarsi sull’uscio di casa sua. Chissà, forse era Moka che aveva ritrovato le palle dopo settimane che l’aveva evitato. Aprì la porta e non fece in tempo a registrare chi vi fosse dall’altra parte che si ritrovò un corpo tra le braccia. Un peso morto, più che altro. «cosa–» fece fatica a sostenere il peso di entrambi, muscoli debilitati dalla malattia e dal disuso, ma strinse i denti e con uno sforzo delle braccia riportò entrambi in equilibrio. Solo in quel momento, riuscì a scorgere il volto del suo ospite. «lawrence, cosa–» la voce gli si bloccò in gola, un garbuglio di sillabe che si rifiutavano di uscire, congelate dal sangue che macchiava il volto del Matheson e dallo sguardo assente che non riusciva a trovare il suo sguardo. «vieni dentro» scosse la testa, ricacciando nello stomaco tutti gli insulti che voleva lanciare nella sua direzione, concentrandosi piuttosto sul trascinare il corpo di Lawrence sulla prima superficie solida disponibile: il divano. Il suo divano di pelle che non sarebbe mai più stato lo stesso. «perché sei qui? dovresti essere all’ospedale» severo e caustico, ma non per questo non dannatamente onesto, cosa avrebbe dovuto fare con un ragazzo morente nel suo soggiorno? Era un medimago, non un prestigiatore.
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    I was the last one you thought you'd see there
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    HYDROKINESIS
    1989 — doctor — former rebel'Cause I've got friends in low places
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    And I'll be OK Yeah, I'm not big on social graces
    friends in low places
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