i dare you not to miss me

ft. stiles

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  1. (un)lucky
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    But they can never tame
    a fire like yours
    No it ain't over, until she sings
    «non è vero!!!»
    «sì che lo è!!!»
    «nooo!!!»
    «sei un falso, simon!»
    Ancora. Ancora. E di nuovo ancora.
    Jeremy Milkobitch, grazie a Dio o a chi per esso, era nato con una grandissima dote: la pazienza. Aveva i suoi tempi di ricarica, e spesso necessitava di giorni interi per poter tornare a pieno regime (motivo per cui partiva molto volentieri per escursioni in luoghi sperduti e lontani, quasi sempre da solo nonostante chiedesse a destra e a manca a chi andasse di seguirlo), ma era innegabile che ne avesse tanta in serbatoio. C'era sempre stata, ma da quando aveva iniziato ad allenare i bambini ad Hogwarts si era dovuto procurare un master in Sopportazione e Mantenimento della calma. Dover lavorare in quella scuola era a dir poco sfiancante, e ringraziava ogni volta che poteva Lupe per essere entrata nel corpo docenti ed avergli tolto la supplenza di Erbologia - di cui l'unica cosa bella era la sua assistente, e le serre stesse -: invidiava chi, come la messicana, riusciva a vivere le lezioni senza la voglia costante di uccidersi, o uccidere qualche studente. Che poi magari nemmeno era così, e tutti i docenti del castello speravano segretamente di porte davvero fine alle proprie sofferenze eliminando tutti gli aspiranti maghi, ma lui non era portato per quel tipo di vita; allenarli ad un gioco come il Quidditch era decisamente diverso, più gestibile.
    Alle volte, tuttavia, il vaso traboccava per le troppe gocce che erano rimaste in bilico sul bordo.
    E doveva, doveva!, prendere le teste di cazzo di Simon e Tyler e sbatterle l'una contro l'altra - una, due, cinque volte, finché non arrivavano a chiedergli di smetterla con le lacrime agli occhi e il sangue a colare sulle tempie. Non era nemmeno la pena peggiore alla quale poteva sottoporli, quella della violenza fisica in loco. Poteva minacciarli con la sala torture, dire ai due ragazzini del secondo anno che avesse due biglietti per un incontro intimo con la Queen con su scritto il loro nome; o peggio, poteva spedirli dal vicepreside per fargli ricevere una bella ramanzina tritura palle dal Winston - non lo avrebbe augurato nemmeno al suo peggior nemico: personalmente, avrebbe preferito farsi un mese nei sotterranei con Anjelika.
    Ma di che soddisfazione si sarebbe privato, se non si fosse personalmente sporcato le mani con quei due nani da giardino che discutevano su chi avesse fallito a liberare un bolide, mandandolo direttamente in faccia ad una povera Karen qualsiasi che passava di lì?
    Era liberatorio, era catartico, era...

    Falso, come realizzò non appena ebbe aperto gli occhi. Braccia incrociate sul petto e spalle premute contro un armadietto dello spogliatoio, gli occhi celesti del Milkobitch si posarono sui due studenti ai quali non aveva spaccato la testa, e che ancora si accusavano a vicenda come due liceali qualsiasi che fuori dai cortili scolastici litigavano per una ragazza della propria classe.
    Sospirò greve, cercando inutilmente di farsi sentire, e quando nemmeno al colpo di tosse esageratamente sonoro parvero ricordarsi della sua presenza mosse un paio di passi verso di loro. Sebbene li stesse odiando come poche persone aveva odiato in vita sua - e, oh!, l'ex tassorosso era capace d'essere un hater fenomenale -, si dipinse sul volto un sorriso cordiale.
    «lo sapete perché vi ho convocato qui, vero? perché sono un grande fan della diplomazia e del dialogo,» ah, com'era bello mentire così apertamente. «e credevo, ingenuamente, che avremmo risolto il problema in pochissimo tempo. invece siamo qui da un quarto d'ora, e ancora siamo al punto di partenza. facevo prima a mandare entrambi in sala torture, vero?» si strinse nelle spalle, decidendo di ignorare i borbottii dei due dodicenni che rompevano un altresì fitto silenzio. Lanciò uno sguardo all'orologio da polso, e si assicurò che all'interno della tasca della giacca ci fosse ancora tutto: un gesto involontario, forse, ma voleva essere sicuro di non essersi perso nulla per strada o che quei due infami non gli avessero rubato qualcosa. «io ora ho da fare, sono in ritardo» allerta spoiler: non era in ritardo, si era solo rotto le palle. «avete avuto la vostra occasione per risolvere la questione con me,» si chinò appena verso di loro, abbassando la voce. «ora vi lascio a chelsey.»
    Così fece, voltando le spalle a due visi pallidi ed imperlati di freddo sudore, facendo un occhiolino alla Weasley che già scioglieva i muscoli del collo e delle braccia.
    Le urla in lontananza non erano più un suo problema, aveva altro a cui pensare.

    Altro a cui pensare che si trovava dietro una semplice porta in mogano dell'infermeria, sempre un po' troppo difficile da aprire.
    Non era la paura, il sentimento che lasciava l'allenatore fermo con il pugno chiuso alzato a pochi centimetri dalla porta, e gli faceva procrastinare un paio di botte contro il legno per annunciare la propria presenza; era il dubbio. Un'incertezza talmente sedimentata nel petto che lo obbligava a porsi fin troppi quesiti, senza davvero rendersene conto e senza alcuna necessità.
    In fondo, con Stiles credeva di avere un... rapporto. Immaginava fosse anche buono: non cercava di evitarlo per i corridoi della scuola, si parlavano tranquillamente, scherzavano; era capitato anche che lo psicomago gli scrivesse criptici messaggi in chat.
    Soltanto che... era complicato, e tormentava Jeremy il fatto che potesse essere stato lui, quella notte, ad aver reso tale la loro situazione.
    Ad ogni modo, a toglierlo dalla scomoda posizione di dover bussare, ci pensò una ragazza che doveva aver appena concluso un colloquio con lo Stilinski. Meglio così; dovette solo trasformare quel pugno chiuso in una mano aperta a salutare il ragazzo dall'altra parte della stanza.
    Dopo aver scansato lo scatto felino con il quale la suddetta fuggì dall'infermeria, non perse poi molto tempo ad entrare, facendo scivolare un semplice «disturbo?» di circostanza ad accompagnare i propri passi, e a chiudersi la porta alle spalle. Poteva temporeggiare quanto voleva fuori da un uscio chiuso, ma sulla soglia non aveva senso né motivo di farlo - come avrebbe detto una poco saggia donna vestita di discutibile latex in un labirinto: ormai siamo in ballo... vuol dire che balleremo.
    «odio i bambini.» riteneva giusto metterlo in chiaro da subito le cose principali, senza un vero e proprio perché mentre si sedeva di fronte alla scrivania del maggiore, allungando le gambe sopra di essa. Avrebbe potuto sdraiarsi sul lettino? Sì, sarebbe stato anche più comodo. «ti giuro, a volte vorrei prendere le loro testoline, e...» mimò con una certa verve l'atto di scontrarle tra loro, prendendo i primi soprammobili disponibili sul tavolo. «ti succede mai?» chiedeva.
    Ma perché lo stava dicendo.
    Perché non se ne stava zitto.
    «comunque...» deglutì, recuperando la refurtiva dalla tasca della giacca e lanciandola sull'altro lato della scrivania. «questa credo sia roba tua,» lettere, perlopiù. Giornalini, cose, bollette? Non ne aveva idea, non ne aveva aperta mezza. «continuo a trovarla sotto la porta del mio ufficio, sai perché?» non c'era accusa nella voce del Milkobitch, era... Sinceramente curioso.
    E confuso.
    Attese qualche istante, per poi guardarlo negli occhi. «come va?»
    Il tono più pacato, le parole più morbide sulle labbra; poteva sembrare una domanda di pura circostanza, ma sapevano entrambi non la fosse.
    Sapevano entrambi quanto pesassero quelle poche sillabe, quelle paure affatto lontane.



    Aveva tenuto la mano sul petto di Stiles, era rimasto stretto nel suo abbraccio, aveva ascoltato ogni singola lettera delle sue parole ed aveva sorriso - un sorriso dolceamaro, un veleno al gusto di miele. Ed aveva preso il suo viso tra le dita quando aveva deciso di liberarlo, occhi chiusi mentre chiedeva un contatto - fronte contro fronte, respiri ad incontrarsi senza mai fondersi.
    «non smetto, stiles. non posso - non voglio.»
    Non si era mosso, ma le mani erano scese a cercare le linee del collo, le spalle, il petto.
    «ma... tu devi fare pace con te stesso. devi...» perdonarti? Dimenticare? Ricordare?
    Lo aveva allontanato quasi fisicamente, togliendosi a forza da quel campo gravitazionale.
    «devi... capire...»
    ... cosa vuoi davvero?
    ... che puoi volerlo e puoi averlo?
    ... che il meglio, per me, sei tu?
    ... che non mi interessa, se mi ferisci?
    «e per quanto io sarò sempre qui, non sono certo che possa aiutarti a farlo.»
    bitch
    do drugs with me
    get high with me
    just vibe
    with me
    quidditch
    deatheater
    22 y.o.
    more than you know
    axwell /\ ingrosso
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