Votes given by #epicWin

  1. .
    dear universe, i trust you.
    «posso…?»
    Si trattenne dal rispondere con “mi offenderei se non lo facessi” perché in quel poco tempo insieme, aveva imparato già a leggere il Luna e sapeva con la stessa certezza matematica con cui avrebbe saputo qualcosa di Hayden, che quel commento lo avrebbe irrimediabilmente buggato. Fece invece un cenno con il mento, un gesto per invitarlo ad accettare la veloce guida messa insieme dalla francese per quello che era: un regalo, e l’intrinseca speranza di potergli insegnare qualcosa, un passo alla volta.
    «li hai fatti tu?»
    Lo sguardo chiaro di Lisi si illuminò di una luce orgogliosa e soddisfatta a quella domanda, e le labbra curvarono in un sorriso. «dal primo all’ultimo!» Doveva ammettere che, considerando il poco tempo a disposizione, aveva fatto davvero un ottimo lavoro. «la metà di queste non le ho mai incontrate, certo. ma ho letto molti libri, sulle creature, sai?» lo disse con un certo compiacimento, e l’innegabile sensazione che l'argomento fosse decisamente pane per i suoi denti.
    Quello, e in generale un sacco di altri argomenti; ecco perché si sentiva la persona ideale per introdurre Stanley Luna (ed Harrison Bonnay, se avesse voluto accettare anch’egli il suo invito) a quel nuovo – spaventoso – mondo.
    «sei sicura? Non hai niente da fare?» Seguì lo sguardo del serbo fino alla sedia, e decise che era matura abbastanza da prendere quella decisione per entrambi, perciò prese posto di fronte a lui, posando la tazza di té che aveva riempito poco prima, nello spazio libero tra di loro. «oh, ho già disfatto i bagagli e sistemato le mie cose,» ironizzò, con un gesto della mano che voleva far cadere la questione — avevano con sé solo le cose con cui erano arrivati nella radura fuori dalla bolla, e loro stessi. Per sistemare quegli ultimi, ci sarebbe voluto un po’ più di tempo. «sono molto sicura,» aggiunse poi, onde evitare di dare al biondo l’impressione contraria, quella di essere lì solo per un qualche senso del dovere nato da chissà dove. «mi piace… raccontare. e se posso rendermi utile, tanto meglio.» a tutti era stato chiesto il sacrificio (uh, parola divertente…) di contribuire in qualche modo, qualsiasi modo, e Lisi si conosceva abbastanza bene da sapere di poter stare ovunque, e riuscire comunque in ogni cosa. Si avvicinò lo stesso a Luna, allungandosi appena sul tavolo e abbassando la voce, «tranne in cucina. e poi, qualcuno non mi vuole lì. sai che c’è una bandiera francese con il divieto di entrata disegnato sopra?! maleducati» doveva esser stato qualche italiano che ora non c’era più, a lasciare quel monito. «forse potrei andarci solo per dispetto suggerì ancora, ad uno Stanley sempre più confuso da tutto, immaginava; ma il punto delle sue chiacchiere a vuoto era anche quello di (stordire.) mettere il più possibile a suo agio il ragazzo, fino a che non avesse sentito venirgli più facile il potersi aprire con lei — se non poteva fidarsi (e Lisi non gli avrebbe mai chiesto così tanto; era pur sempre figlia di sua mamma, mentire le veniva naturale come accogliere in calorosi abbracci), perlomeno poteva lasciare che le conoscenze della strega colmassero un po’ i vuoti lasciati da una vita che mai, fino ad un anno prima, aveva avuto la (s)fortuna di incrociare il mondo magico.
    Avrebbe preferito domande più facili, per iniziare, certo, tipo “cos’è una Perfumola” o “esiste un incantesimo che faccia le faccende domestiche al posto tuo”, ma si sarebbe fatta andare bene quel «cos’è successo alle persone che erano qui, e sono andate via…? Tipo, lui» in qualche modo.
    La risposta più semplice, nonché quella più onesta? Non ne aveva la minima idea.
    Ma non poteva deludere già Stanley in quel modo, no? Qualcosa da dire l’avrebbe trovata: non doveva avere senso, nulla aveva senso, ma poteva condividere con lui quel po’ che aveva sentito raccontare in giro.
    «nulla di troppo piacevole, immagino.» Non aveva senso nemmeno indorare la pillola, non quando, vivendo a così stretto contatto con la magia da lì in poi, avrebbe visto e sentito cose ben peggiori. Strinse il labbro inferiore tra i denti, osservando per un attimo la superficie ambrata del té. «per proteggerci, la bolla aveva bisogno… di aiuto.» sacrificio era una parola terribile, non così eroica o romantica come i racconti epici la facevano sembrare; nella vita reale, era solo dolore e dolore e dolore. «aveva bisogno della loro magia. beh,» guardò anche lei in direzione dell’empatico solitario, e si fece più triste. «non della sua magia, né quella degli altri special.» Tornò a guardare Stanley, schiena dritta e sguardo tranquillo, come se non stesse raccontando l’impensabile avvenuto a qualcuno che avrebbe potuto benissimo essere lei, se solo tra gli ostaggi ci fossero state persone a cui Lisi era legata a doppio filo. «il loro prezzo da pagare, affinché fossimo tutti protetti, affinché seth non potesse raggiungerci, è stata la magia. sono diventati… babbani,» aggiunse quell’ultima parola dopo un istante di incertezza, decidendo poi che non ci fosse nulla di denigrante nel termine, perché era… la pura e semplice verità. «hanno scelto di andarsene,» continuò, mani ancora strette intorno alla tazza, senza accennare a volerla portare alle labbra. «e di tornare alle loro vite, pur essendo… legate alla bolla, ora. dimenticheranno anche loro di essere stati qui, ma non davvero. sentiranno per sempre una sorta di… attrazione, diciamo, che li spingerà a tornare.» il tono si era fatto via via più basso ad ogni parola, e lo sguardo un po’ più triste: doveva essere terribile uscire sapendo che, giorno dopo giorno, i ricordi si sarebbero fatti meno nitidi fino a che non fossero spariti del tutto; avere delle voci nella testa e dei ricordi che non riuscivano a spiegare; sentirsi vincolati a qualcosa che non potevano, né sapevano come, raggiungere. «ma dobbiamo ringraziarli: senza di loro, non avremmo avuto questo rifugio.» davvero una magra consolazione, certo, ma Lisi Selwyn era cresciuta sapendo precisamente che sapore avessero le rinunce e i sacrifici; era abituata, e ne sapeva apprezzare il significato. «e ora sta a noi impegnarci per fare qualcosa di utile.» Non potevano lasciare che fosse tutto per nulla, no?
    A Stan, rivolse un mezzo sorriso tirato. «è una cosa buona, quella che stanno cercando di fare qui, Stan. una cosa importante.» poteva non esserlo sembrato, agli occhi di chi aveva scelto di schierarsi contro, ma lo era; se c’era la possibilità di evitare che Seth distruggesse altre città, che stringesse la sua morsa intorno ad altre popolazioni e gettasse l’intero mondo nella confusione e nel terrore, dovevano fare il possibile per coglierla.
    Finalmente prese un sorso di té, facendo una pausa, e dando al serbo il tempo necessario per elaborare quelle informazioni, o per dare forma a successive domande.
    lisi
    selwyn

    when she talks
    you can hear the revolution
    (re)belle
    “this beauty is a rebel”
    witch
    loyal to the cause
    the victor — 1994, magizoologist, rebelWho's gonna pick you up when you fall?
    Who's gonna hang it up when you call?
    Who's gonna pay attention to your dreams?
    Who's gonna hold you down when you shake?
    drive
    the cars
    moonmaiden, guide us
  2. .
    Tell me your secrets and ask me your questions.
    Oh, let's go back to the start.
    «lo pensi davvero?»
    ma all'animaccia de li mortacci suoi — che dovevano essere tanti, considerato tooth avesse circa centodieci anni o giù di lì.
    non poté evitarsi il salto di mezzo metro sul bordo del letto, con il rischio concreto ma fortunatamente sventato di finire culo a terra: no, no che non lo aveva ignorato. così preso dal film visto duecento volte e dal tentativo di rassicurare (se stesso.) un dormiente remì, che del Simmons non si era ancora accorto. e quello appariva così, dal nulla, a infierire sulla sua già provata psiche aggiungendoci anche un mezzo infarto.
    va bene toothless, va bene.
    «madonna, ti odio» c'era la virgola, attenzione. premette l'icona di pausa e portò la mano libera al petto, un respiro profondo a recuperare il battito perso. quando aprì gli occhi, trovando tooth sdraiato sul suo letto, l'insulto successivo si sciolse in una bolla di confusione; avrebbe voluto chiedergli che ci facesse in infermeria, a parte cercare di ucciderlo, ma la domanda l'aveva fatta prima lui.
    una che clay avrebbe potuto ignorare, se solo fosse stato capace di mettere un filtro tra se stesso e gli altri — non ci era mai riuscito, per inciso «a quale parte?» riconobbe il sapore amaro sulla punta della lingua, ma era troppo tardi per inghiottirlo; forse nemmeno gli importava. stava cercando di fare il punto, lì: raccontando a remì la versione della storia che clay per primo avrebbe voluto sentire. aveva tempo, avevano tempo, per affondare fino al collo nel pantano della nuova realtà che li circondava, lasciando che il cinismo si mangiasse anche l'ultima fetta di speranza.
    evidentemente toothless non era della stessa opinione.
    «che gli voglia ancora bene, intendo. si può volere bene a qualcosa che non c’è più?» fu l'istinto a guidare le mani di clay, i palmi già sollevati a mezz'aria in direzione di remì: per tappare le orecchie al ragazzino, anche se forse prendere il cuscino e schiacciarlo sul volto tumefatto sarebbe stato più clemente. solo in quel momento, una realizzazione tardiva ma in qualche modo rassicurante, si rese conto che il thornill stava facendo un viaggetto nel mondo dei sogni. sperava fossero belli, e che fossero sereni — almeno quello.
    «non è sempre così? ci affezioniamo alle persone e ci innamoriamo di quello che sono per noi» nel corrugare la fronte, rese chiaro nell'immediato a tooth e a se stesso quanto quel concetto fosse una novità; non aveva mai sentito la necessità di pensarci, prima. ed era ancora un'idea acerba, priva di una forma realmente concreta «di ciò che rappresentano. e finché ti tieni stretto quello, l'altra persona continuerà ad esserci» di nuovo, si mosse sul bordo del letto senza trovare pace. odiava stare fermo, clay, a meno che non fosse una sua scelta; una che faceva di rado.
    approfittò dello sguardo rivolto altrove per osservare il profilo del ragazzo, le dita aggrappate al lenzuolo «dici che è una cazzata?» dubbi leciti. di fronte alle sue scuse si strinse nelle spalle, perché non erano necessarie, ma lo aiutavano ad andare avanti chi era lui per negargliele. e poi, vuoi mettere: «posso farti stare un po’ meglio, però.» ora, potremmo dire che la mente del Morales non avesse elaborato in modo molto fantasioso quanto detto da tooth, e sulle guance non fossero affiorate chiazze rosse a confondersi con i lividi bluastri — ma non siamo qui a raccontare bugie. l'apparizione di baby Allen fu come la grazia per un condannato a morte, e nel vedere le orecchie flosce spuntare oltre la porta clay si sentì sopraffarre dall'insensata voglia di farsi un piantino.
    skin care accetera eccetera.
    «grazie» dell'avvertimento, per grogu. annuì e allungò comunque una mano, amante del rischio e del pericolo, grattando con i polpastrelli la pelle verdognola e rugosa della creatura «sai, non era così male nell'altra forma» poteva ancora sentire le urla di Kaz rimbalzare da un corridoio all'altro, come una sirena d'allarme che indicasse a tutta la Bolla quando Allen era nei paraggi. sorrise a quel pensiero, conscio che l'oh non avrebbe approvato il suo tradimento e la minaccia di non rivolgere a clay la parola per almeno dieci minuti sarebbe giunta inesorabile.
    poteva sopportarlo, se significava lasciarsi (mangiare) annusare da un grogu in carne ed ossa.
    «stai avendo ripensamenti?» e insisteva, a scavare con il dito nella maledetta ferita. da sotto i riccioli castani, il cinetico si limitò a sollevare un sopracciglio, lisciando un orecchio di Allen fino alla punta «perchè, tu no?» ma allora, toothless, chi è il cucciolo qui.

    clayton
    morales

    Nobody said it was easy
    It's such a shame for us to part
    im sorry anakin
    for all of it
    special
    kinetic absorption
    18 — rebel — (non in) bollaNobody said it was easy
    No one ever said it would be this hard
    oh take me back to the start
    the scientist
    coldplay
    Mother of Night, darken my step
  3. .
    FUORI DALLA BOLLA.
    — Un sacchetto con tutte pietruzze dalle forme e dai colori disparati, dal corniolo allo smeraldo, passando per ametiste, malachite, giada imperiale, granito ecc... c'è un foglietto, all'interno, che spiega il significato e le proprietà di ogni tipo di pietra. (Lisi)
    — Il kit per fare tatuaggi (ago + inchiostro) che Ryu glo ha regalato dopo qualche mese che aveva iniziato a lavorare presso di lui come tirocinante. (Theo)
    — Un prototipo di spada laser funzionante, creata dallo stesso Kyle anni fa, ma da sempre in attesa di essere perfezionata. (Kyle)
    — Un giacchetto di jeans anonimo, niente spille o decorazioni, la cui unica particolarità è il suo essere un po' bruciacchiata in posti casuali, nulla che le impedisca di essere comunque indossata. (Hans)


    DENTRO LA BOLLA.
    — Un piccolo ricettario con scarabocchiate sopra le dosi e le preparazioni di alcune delle sue specialità, ricopiate nel corso dei due mesi nella Bolla; alcune sono il lascito di una vita prima, altre esperimenti fatti negli ultimi anni, altri ancora idee che non ha avuto il tempo di provare. (Grey)
    — Una bandana gialla decorata a mano, con tanti piccoli fiori fatti con il pennarello per tessuti proprio da lei, con l'aiuto e la pazienza di Kieran; ci sono due piccole K+H su una delle estremità della stoffa, ricamate invece con il filo nero. (Hold)
  4. .
    Sì, ho fatto delle mini-descrizioni perché non sapevo come rendere poco vaghi gli oggetti in poche parole, la sintesi non è il mio forte.

    Dentro la Bolla:

    1. Erbario (Mina)
      [plico di fogli rilegati fra loro grossolanamente con dello spago che contiene la descrizione di alcune piante autoctone, i loro più disparati utilizzi innocui e non, rischi e benefici per la salute; per una più intuitiva fruizione, è corredato di campioni secchi provenienti dalle piante descritte. Chi ha studiato Erbologia ad Hogwarts potrebbe riconoscere l'alta preparazione di chi lo ha messo insieme. Ha parecchie pagine ancora vuote e il tipo di rilegatura può essere facilmente disfatto per aggiungerne di nuove]

    2. Pendente a crocifisso d'argento (Alice)
      [Un pendente con un crocifisso d'argento, con un rubino incastonato al centro. È molto goth, proprio che lo guardi e inizi a sentir riecheggiare dalla lontanaza suoni di gruppi metal finlandesi anziché le solite band di miariachi selvatiche che caratterizzano l'erba alta del Messico]

    3. Scorta di droghe leggere (Corvina)
      [Dei pacchetti di carta chiusi con dello spago che contengono una quantità non indifferente di panetti di fumo di natura imprecisata, delle cannette già rollate bonus per incentivarvi, cartine e filtri ricavati con materiali di fortuna. Le materie prime utilizzate sono tutte locali a chilometro zero anche se non potete saperlo, ma non garantiamo sugli effetti: potreste non sentire nulla di che come potreste avere il trip della vita, di certo non potete morire perché insomma, la Quest è finita, siete salvi]

    4. Punte di freccia artigianali in ossidiana (Styx)
      [Una serie di punte di freccia ricavate artigianalmente da delle scaglie di ossidiana. Di manifattura raffinata, ma in apparenza totalmente inutili a meno che non si decida di installarle effettivamente su delle frecce. In compenso, sono molto belle e qualunque accumulatore seriale di animo goblinoide potrebbe apprezzare di aggiungerle alla sua collezione]


    Lascio il codice da copiare per l'inserimento senza le descrizioni.

    HTML
    <li>Erbario (Mina)</li>
    <li>Pendente a crocifisso d'argento (Alice)</li>
    <li>Scorta di droghe leggere (Corvina)</li>
    <li>Punte di freccia artigianali in ossidiana (Styx)</li>
  5. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    witch angel???
    19 y.o.
    red fury
    Thursday De Thirteenth
    Tre giorni.
    Tre giorni e sarebbe finito tutto. O forse cominciato, come un sibillino Lancaster aveva lasciato intendere, sempre quell’insopportabile sorriso sulle labbra, come se tutto quello che era successo fosse inevitabile, o peggio, il migliore dei mondi possibili. Thor odiava quello che c’era fuori dalla Bolla, ma odiava anche ciò che c’era dentro. Ma non chi, dentro o fuori che fosse, o che sarebbe stato, per quanto le sarebbe piaciuto. Sarebbe stato mille volte meglio odiare, riversare la sua naturale e innata rabbia su tutto e tutti, sentir ribollire il sangue nelle vene e il cuore battere forte, fuori di sé dalla furia.
    Ma Thor non si sentiva arrabbiata. Non lo era nemmeno, persino. Lei, che di quel sentimento aveva fatto tutta sé stessa, che viveva d’ira, da che ne avesse memoria, ora era stranamente tiepida. Innaturalmente tiepida. Nonostante la febbre che l’aveva consumata, e che la consumava ancora, da quando si era svegliata in quella che somigliava più a una brandina che a un letto, ogni singolo centimetro del corpo dolorante, la stanza che girava e i volti, intorno a lei, che si mescolavano.
    Avrebbe voluto odiare tutti e essere in preda all’eccesso di rabbia più distruttivo di tutta la sua vita.
    Non era vuoto, quello dentro di lei.
    Thor si sentiva impotente.
    Per una che non voleva crescere e prendersi delle responsabilità, che si era sempre tenuta lontana dal mondo reale, si era spinta decisamente troppo in là. Ma non ci aveva pensato, non davvero. Dopotutto, non era così che prendeva le decisioni lei, nella vita? Era l’impulso a muoverla, la rabbia a spingerla in una direzione o nell’altra. Era l’amore, quell’amore aggressivo, sanguigno, ferale che provava per i suoi amici, per la sua famiglia. Era persino il senso di giustizia, l’incessante ricerca della verità, come le era stato instillato, che le piacesse o no, da chi le era davvero stato intorno sin dai suoi primissimi istanti. Non May e August De Thirteenth. MamaLama. Wendy. Persino (!) Sandy.
    Fray.
    Tre giorni e non avrebbe più rivisto Friday.
    Tre giorni e il ricordo di lei avrebbe cominciato a svanire, fino a sparire del tutto. Non le sembrava possibile, anzi, non poteva proprio esserlo. Come si poteva dimenticare totalmente di qualcuno? Come poteva l’esistenza stessa di una persona essere cancellata così, da un giorno all’altro?
    No, Thor non si sarebbe dimenticata di Kaz, di Clay. Non si sarebbe dimenticata di sua sorella. Non solo era assurdo, ma lei non avrebbe lasciato che accadesse. Ritrovata la sua rabbia, avrebbe lottato con le unghie e soprattutto con i denti perché quantomeno il ricordo di quelle persone che amava non svanisse.
    Non potevano strapparle anche questo.
    Non li avrebbe rivisti mai più, chiusi com’erano in quello che avrebbe pure potuto sembrare un paradiso, ma che rimaneva pur sempre una prigione; ricordarsi di loro era il minimo.
    Ed era tutto quello che le rimaneva, visto che adesso… adesso cos’era, Thursday? Cos’era senza la sua rabbia? Senza il quidditch? Senza la magia?
    Era successo così, in un battito di ciglia. Un istante prima era tutto lì. La magia, i suoi amici, la sua famiglia. Il quidditch. Un istante dopo ogni cosa era sparita. Perché lo sapeva, Thor, che difficilmente avrebbe inforcato di nuovo una scopa e spiccato il volo. Certo, c’erano altri modi, e Kaz, il suo Kaz, il Kaz che non avrebbe mai più rivisto, il Kaz il cui ricordo sarebbe lentamente scivolato via dalla sua mente, dal suo cuore (no, non poteva essere!), per volare. Ma Thursday non era disposta ad accettarlo, perché non erano fatti per lei.
    O tutto o niente.
    Avrebbe dovuto essere furiosa, non addolorata.
    Invece, zoppicando fuori dalla stanza del PUS (quel nome assurdo poteva esserselo inventato solo Kaz, lo sentiva nel profondo del cuore), nonostante le fosse stato intimato di stare lì a riposare perché ancora estremamente convalescente (9 ps) e febbricitante, si era trascinata all’aria aperta, sempre che di aria aperta si potesse parlare, sotto a una Bolla. Aveva arrancato fino allo spiazzo erboso più vicino, lasciandosi cadere sotto un albero, la schiena appoggiata contro il tronco. Quello che sentiva non era male fisico. Non solo, almeno. Era qualcosa di più profondo, qualcosa che le scavava la carne e, a differenza della rabbia, la raffreddava, quasi congelandola dall’interno.
    Non aveva mai imparato ad accettare la sconfitta. Tutte le volte che le furie erano uscite dal campo da quidditch da perdenti, Thor aveva faticato a sopportarlo e, anzi, quasi sempre non l’aveva proprio fatto. Aveva sempre reagito alla sconfitta… con la rabbia.
    Ora, invece, c’era solo quel senso di perdita.
    Sentiva di aver perso qualcosa, o meglio, tutto, ancora prima di perderlo davvero.
    Non guardò in quella direzione, sebbene con la coda dell’occhio la vide avvicinarsi. Non era solo per il suo sguardo allenato da infinite ore a caccia della pluffa, attenta a schivare i bolidi e gli avversari. In fondo era impossibile non notare quella macchia rosso fuoco in avvicinamento, quella macchia che avrebbe continuato a vedere nello specchio, ma in cui non avrebbe più cercato tracce di quella somigliava che desiderava con tutta sé stessa, pur non ammettendolo con anima viva.
    Non guardò Friday farsi sempre più vicina, estraendo invece dalla tasca posteriore della tuta la bacchetta, per poi rigirarsela tra le dita. La magia era sempre stata l’ultima spiaggia per lei, eppure non riusciva a concepirsi senza. Cos’era Thor, se non una strega, una giocatrice di quidditch, una sorella?
    «Tre giorni e risorgerò, come Gesù», borbottò in direzione di Friday, ormai abbastanza vicina da schermarla dalla luce del sole, gli occhi ancora fissi sulla bacchetta. «Spero che la cosa ti renda felice
    Vorrei sapere a che cosa è servito
    vivere, amare, soffrire,
    spendere tutti i tuoi giorni passati
    se presto hai dovuto partire


    Non ho elaborato /niente/, ma non sono capace hhh.
  6. .
    danger: mouth operates faster than brain
    «vattene. a fanculo»

    Non era mai stato bravo ad abbassare la testa e ammettere di aver fatto la scelta sbagliata, o una cazzata, Theo Kayne. Non era mai stato in grado di riconoscerle come tali, se proprio vogliamo essere sinceri. E poi, in aggiunta, c’era il fatto che fosse un testardo del cazzo, una testa dura, un coglione, troppo orgoglioso per chiedere scusa e troppo stupido per accorgersi di quanto troppo in la fosse solito spingersi solo per inseguire un capriccio.

    «sei un coglione, theo. ricordati che sei stato te a rovinarci con le tue mani»

    L’avevano quasi cacciato da quella cazzo di struttura di merda dove aveva preso residenza giorni prima e dalla quale si rifiutava di allontanarsi anche per cose basilari come mangiare, pisciare, lavarsi; aveva il terribile sospetto (quasi una certezza, arrivato a quel punto, con davvero poche ore di sonno alle spalle e più lividi addosso di quanti ne avesse mai avuti in vita sua) che se avesse alzato il culo da quella sedia di plastica, ogni cosa sarebbe finita. Svanita nel nulla. Scivolata tra le sue dita quando era troppo distratto per mantenere una presa solida.

    «pensavo che le botte facessero male, ma vedere te che ci volti le spalle è ancora peggio di una bastonata allo stomaco»

    Allo stomaco, al viso, alle ginocchia, ovunque. Di bastonate, in quegli ultimi giorni, ne aveva prese e date moltissime; non era così che avrebbe voluto che andassero le cose, ma non poteva farci nulla ormai. Lui aveva fatto una scelta, e anche Mis e Del e Paris. Se non altro, aveva il supporto di Avery, e di Kaz, e di Clay; era più di quanto alcuni (ciao fratello infame) avessero creduto potesse meritare.
    Non era comunque abbastanza, e per quanto fosse grato ai compagni del sostegno che avevano cercato di fornire in quei tre lunghi giorni, c’era solo una voce che desiderava sentire in quel momento; la stessa voce che al contempo aveva così fottutamente paura di sentire, perché sapeva non avrebbe avuto nulla di carino da dire. Tanto per cambiare.
    Come se non avessero smesso per un solo secondo di osservare il petto della ragazza alzarsi e abbassarsi in maniera più o meno regolare per le ultime settantadue ore, gli occhi di Theo cercarono ancora una volta la figura di Mini, troppo piccola in quel cazzo di letto, troppo pallida, troppo sbagliata.
    Aveva massacrato le unghie, le pellicine, cuticole, tutto, nell’ansia soffocante di non poterla più abbracciare, sì, pur consapevole di rischiare di perdere un braccio (o tutti e due. O direttamente la vita) non appena la russa avesse riaperto gli occhi e lo avesse visto lì.
    “C’era il nome di Theo sulle lame dei chackram di Sinead Mikahilova” eccetera eccetera; beh, per fortuna qualcuno aveva saggiamente pensato di toglierle di mano le armi affilate prima che potesse sventrarlo.
    Non c’era davvero più nulla che potesse distruggere sulle dita già martoriate, eppure continuava a tirare e mordere e spillare sangue, solo perché non aveva nulla di meglio da fare; la tensione impossibile da scaricare, anche con la gamba che da tre giorni si muoveva di sua iniziativa, e ogni nervo scoperto e pronto a farlo scattare se solo fosse stato sfiorato nella maniera sbagliata.
    Svegliati, Russa, cazzo. Svegliati. Svegliati, e urlami contro. Fa qualcosa. Cazzo, Russa, fa qualche cazzo di cosa. Cazzo, cazzo, cazzo, Mini ti prego.
    Aveva avuto paura, Theo, quando aveva visto Mini uscire dalla bolla — si era fottutamente cagato sotto, ok? Era stato terrorizzato dalla possibile reazione della russa, da quello che avrebbe potuto fargli, e da ciò che avrebbe potuto dirgli. Era sopravvissuto a malapena alle parole di Mis, e a quelle di Delilah, e a quelle di Paris; non era certo di poter sopportare anche la merda verbale che Mini aveva in (russo! ah!) serbo per lui.
    E invece quello che aveva visto lo aveva devastato ancora di più: la russa, la sua russa, pallida, stanca, ricoperta di sangue, a malapena in grado di reggersi sulle proprie gambe.
    Un battito di ciglia, e Mini era in terra.
    Non si muovono, non reagiscono ai tentativi di svegliarli, non respirano nemmeno. «non sono morti.»
    Beh, vaffanculo fato, lo sembravano eccome!
    Il mondo di Theo si era ridotto a quel microscopico istante tra che Mini lo aveva guardato con (lo poteva giurare sui propri fratelli, il Kayne) letterali fiamme negli occhi, e quello in cui quegli stessi occhi avevano perso ogni barlume di lucidità possibile.
    Quando la Bolla aveva iniziato ad espandersi, Theo era già al fianco di Mini; l’unica cosa in grado di farlo staccare dal Tipton ancora sanguinante, e ancora stretto tra le sue braccia, era la visione di una Sinead distesa a terra, il petto troppo piatto e un’espressione troppo neutra sul viso giovane. L’aveva raggiunta prima ancora di realizzare che si fosse mosso, e aveva ringhiato contro a chiunque avesse cercato di toccarla al posto suo. Quando Jeanine Lafayette aveva suggerito di portarli con loro, Theo aveva messo da parte ogni stanchezza e ogni dolore, e si era caricato la propria migliore amica in spalla, rivolgendo occhiate letali a chiunque avesse provato ad avvicinarsi — e dopo due mesi vissuti in quel carcere all’aperto, sapevano tutti benissimo che razza di animale ferale potesse rivelarsi il Kayne, quando quel poco di buon senso scivolava via in favore di reazioni più istintive.
    Nessuno aveva osato sfidarlo.
    E quei pochi che avevano cercato di dissuaderlo dal rimanere al capezzale della strega (ex strega? unclear), avevano lasciato perdere dopo i primi (dieci, o giù di lì) tentativi: non c’era verso di farlo uscire da quella stanza, non senza rischiare di ricevere un pugno in faccia. Un po’ era sorpreso che nessuno avesse cercato di portarlo fuori di lì con le brutte maniere, o utilizzando la magia, e poco ma sicuro era felice che non l’avessero fatto. Li avrebbe odiati dal primo all’ultimo.
    Aveva bisogno di essere lì, aveva bisogno di controllare la situazione, di essere sicuro che Mini continuasse a respirare, ora che aveva ripreso a farlo; e se la conseguenza doveva essere che la prima cosa che la serpeverde vedesse al suo risveglio fosse il viso ancora tumefatto di Theo Kayne, che così fosse — avevano visto di peggio, quegli occhi chiari e pieni di finto astio nei suoi confronti.
    Lanciò una bestemmia mista a imprecazione di dolore quando strappò via l’ennesima pellicina, il bruciore della ferita a fare da eco a quello degli occhi stanchi, e senza pensarci due volte mise in bocca il dito per succhiare via il sangue ancora fresco.
    «cazzo–» borbottò, con ancora il sapore metallico del sangue sulla lingua, e gli occhi a ispezionare la ferita: niente di che, sarebbe sopravvissuto. Li rialzò sulla figura di Mini e «CAZZO!» Il salto sulla sedia di plastica fu reale, spontaneo, così come la mano sul cuore per cercare di trattenere il muscolo cardiaco all’interno della gabbia toracica, dalla quale stava minacciando di scappare. «mi hai spaventato a morte.» In un sacco di modi, stupida Russa.
    Non l’aveva mica sentita muoversi, eppure era lì, che lo fissava con lo sguardo più omicida che il Kayne avesse mai visto, immobile nel suo letto, ancora collegata alle macchine che ne monitoravano parametri che il grifondoro non aveva minimamente compreso. «sei…» viva? sveglia? tutta intera? «incazzata???» EUFEMISMO DEL SECOLO!
    theo
    kayne

    I wish I was good at something
    other than war
    recklessness
    “lack of regard for danger, or consequences”
    wizard
    soldier of the new order
    the soldier — 2007, beater, gryffindor...?'cause it's avoidable, I'll destroy chances to be
    better than I was before you and me.
    Now we're at the part
    where you'll hate what you see
    SELF-SABOTAGE
    waterparks
    moonmaiden, guide us
  7. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    ombrocinesi
    the chosen one
    defective
    Kul Oh


    non era mai stato una cima Kul Oh.
    non eccelleva nelle materie scolastiche, non eccelleva nell’ambito sentimentale, non eccelleva nell’ambito comportamentale.
    aveva sempre creduto a ciò che gli dicevano gli altri, lo aveva fatto suo, ciò che sua mamma, quando era ancora in vita, gli raccomandava, quello che suo padre si assicurava che lui sapesse.
    ed era stato bravo, fino a quel momento, a far sì che tutto filasse come previsto, era stato bravo a seguire gli ordini celati sotto le mentite spoglie di consigli, fino a quel momento per l’appunto.
    non aveva mai preso in considerazione il fatto di rinunciare alla propria vita, la sua libertà, la vita che tanto era grato di poter vivere, non era pronto a lasciare tutto.
    si sentiva un bambino viziato, non voleva lasciare che suo fratello affondasse nell’oblio, che nessuno si ricordasse di lui, il fantastico special che era riuscito a diventare il capitano di tassorosso, il finto bad boy che aveva cominciato a fare stragi di cuori.
    erano solo ragazzini, ed erano stati chiamati a prendere una scelta più grande di loro.
    erano solo ragazzini, ed ora lui era difettoso, più di quanto già fosse, più di quanto fosse riuscito ad immaginare.
    tirò ancora più su il lenzuolo, per coprire la testa, avrebbe pianto se non fosse stato che… non ci riusciva, si sentiva svuotato, dai suoi poteri, da tutto.
    «ma sei deficiente», contrasse la mascella e strinse tra le mani il tessuto del lenzuolo, senza muoversi «”cosa direbbero mamma e papà”, bohoo. ma se mamma è morta, e sai che papà mi supporterebbe!», si scoprì di botto Kul, con uno sguardo accigliato guardò suo fratello, quello che era suo fratello
    «forse hai ragione» la voce che aveva pronunciato quelle parole non sembrava nemmeno la sua, di solito allegra e leggera, roca e… sprezzante «forse ti supporterebbero, ti lascerebbero stare qui, guardandoti abbandonare la tua vita» abbandonare me.
    si passò entrambe le mani fra i capelli incrostati di sangue, il suo e quello del mai nato, tirandoli all’indietro, cercando di calmare i nervi «come sei egocentrico. megalomane. Kul! kul. qui si parla del mondo intero»
    il… mondo intero? ok, va bene, era un egocentrico, era un megalomane ma… aveva il diritto di volere suo fratello al suo fianco, l’unica persona con cui avesse condiviso ogni cosa, per sempre? «io… non so se si tratti del mondo intero. » lo guardò, per la prima volta da quando avevano iniziato quel discorso, negli occhi «io volevo solo vivere il resto dei miei giorni al tuo fianco in una realtà non fasulla, perché eri mio fratello, sarò egoista o megalomane, chiamami come diavolo ti pare» la testa venne poggiata alla testiera del letto «…hai tutta la vita» «anche tu Kaz, anche tu avevi tutta la vita» avevi me.
    «avremmo potuto… provare a fare qualcosa al di fuori di questa cosa… questa cosa che ha preso il mio sangue, mi ha reso difettoso, mi ha tolto mio fratello» abbassò lo sguardo osservando la mano poggiata sul lenzuolo candido, rosso su bianco
    «questo è il momento in cui mi chiedi scusa.»
    ma Kul invece, tacque.


    Photo album on the counter
    Your cheeks were turning red

    You used to be a little kid with glasses in a twin-sized bed
    And your mother's telling stories 'bout you on the tee-ball team You told me 'bout your past thinking your future was me
  8. .
    If you can't handle me at my worst, same! But at least you get to leave.
    Che non ci fosse più tempo, Hans lo aveva capito da un po’.
    Che non ne avessero mai avuto affatto, lo aveva sempre saputo; che fosse solo il suo (pragmatismo) pessimismo, quello a spingerlo a cedere a quella verità, o una vera cosapevolezza a bruciare nel petto e a premere contro la gabbia toracica, non faceva differenza; l’aveva saputo, e non l'aveva condiviso con nessuno, perché non era un problema suo se gli altri non fossero giunti alla sua stessa (o a nessuna) conclusione.
    (Se poteva evitare a Taichi quell’informazione, anche solo per un’altra manciata di minuti, lo avrebbe fatto; che lo odiasse pure per non aver condiviso con lui quanto teorizzato, era davvero l’ultimo dei problemi di Hans, e il meteorologo poteva mettersi in fila e attendere il suo turno per gli insulti.)
    Quando anche l’ultimo blob era caduto, Hans lo aveva saputo.
    Quando la barriera era sparita, come se non fosse mai stata lì, e aveva lasciato intravedere gli altri (sacrificisacrificisacrifici) compagni, Hans lo aveva saputo.
    Quando la piattaforma aveva iniziato a muoversi, e quando avevano raggiunto gli ostaggi, Hans lo aveva saputo.
    Quando Mac era corso incontro a lui e a Taichi, quando l’aveva abbracciato inchiodandolo sul posto con le braccia lungo il corpo e la schiena rigida, incapace di ricambiare quel gesto, e quando le iridi ghiaccio avevano fallito a trovare la figura di Twat, Hans lo aveva saputo.
    Lo aveva sempre fatto, era la condanna di avere una mente fin troppo acuta nascosta dietro uno sguardo (non solo) in apparenza impassibile.
    Non c’era più tempo.
    Ma quel poco che gli era stato concesso, se lo erano presi. Tutto, fino all’ultimo secondo. Avevano trovato le persone che due mesi prima gli erano state strappate via — amici, fratelli, qualcosa di più e, perché no, anche qualcosa di meno; erano lì, stanchi, emaciati ma sollevati. Erano vivi. Erano reali. Non erano più solo una voce nascosta dietro le pareti, o un ricordo ancora vivido nella mente che li aveva spinti fino a lì.
    Avevano trovato la via per uscire da quel labirinto di corridoi e stanze, e avevano trovato la strada per ricongiungersi con gli altri; che qualcuno avesse voluto che la trovassero, quella strada, era solo un problema marginale per l’empatico. Se nessuno voleva sottolineare quell’ovvietà, non sarebbe stato di certo lui a farlo — non quando il suo unico pensiero era portare Mac via di lì, e dove cazzo sei Twat, e trascinare Taichi il più lontano possibile da quella che, fino a pochi minuti prima, il Belby aveva seriamente temuto finisse con il diventare la loro tomba. Il pensiero che qualcuno li stesse guidando, mano invisibile a trascinarli fuori da lì, era davvero, ma davvero!, l’ultimo dei problemi.
    Avrebbe dovuto pensarci due volte.
    E saperlo, che una fregatura c’era.
    C’era sempre.
    Ma non gli interessava, non gli interessava, non gli fottutamente interessava; perché erano fuori, erano salvi (lo erano davvero?), e — Twat. In piedi, una divisa addosso che Hans aveva visto indossare solo a quelli che, per due giorni interi, aveva classificato come nemici; gli dava le spalle, e forse era meglio così, perché se lo avesse visto in quel preciso momento, l’ennesimo coltellino dell’emocineta sarebbe finito direttamente tra gli occhi del Belby, lo sapeva.
    (Sapeva davvero un fottio di cose, Hans Belby; e nessuno sospettava mai nulla.)
    Da una parte, però, sperava che l’amico si voltasse, che lo colpisse, che gli facesse capire di essere vero e non un’allucinazione; Hans aveva ancora difficoltà a credere che stretto a lui, battito del cuore frenetico e tutto quanto, ci fosse davvero Mckenzie, non poteva semplicemente farsi bastare la presenza di Twat a pochi metri e darla per buono. Aveva—
    Battè le palpebre stanche, rese appiccicose dal sangue e dal sudore e dai residui di golem ancora appiccicati alla pelle. Battè le palpebre e cercò Mac, occhi leggermente distanti e voce bassa. «l’ho solo presa in prestito» disse distrattamente all’Hale, restituendogli la mazza com’era giusto che facesse. Era sempre stata un prestito da restituire; e in quel momento lo colse la cosapevolezza che— ci siamo; questo è il momento dei saluti. Pur senza aver dato peso alle parole di Lancaster, senza sapere assolutamente nulla di una fazione o dell’altra, Hans aveva deciso. E così anche Mac. Non riusciva a lasciarlo andare via; arrivare fin lì solo per perderlo di nuovo.
    Perché andare via?
    Perché rimanere?
    Perché—
    Alla fine, fu solo un attimo: gli occhi a lasciare solo un attimo il viso di Mac, per cercare istintivamente la figura del norvegese ancora al centro del campo di battaglia, e a trovare quelli freddi e impassibili di Twat, anziché la nuca bionda come aveva (sperato) immaginato. Non aveva nemmeno le forze per dirgli… cosa, che gli dispiacesse? Che non se ne pentiva? Che l’avrebbe rifatto altre dieci volte pur avendo letteralmente zero competenze? No, fanculo Twat, non si sarebbe scusato.
    Poi la sensazione di perdere nuovamente tutto, la stessa che aveva provato nella stanza insieme al golem, quando il Mai Nato aveva spento qualcosa (tutto) in lui; il silenzio, l’assenza di dolore, il vuoto. E l’istante dopo un dolore così improvviso e lancinante che quando finì, quando tutto si fece nuovamente buio (per l’ultima volta?) Hans ringrazio, e si lasciò andare.


    Col senno di poi, sarebbe stato meglio rimanere sulla radura ed essere lasciato indietro da tutto — dai pro, dai contro, dalla bolla, dal tempo.
    E invece il conto delle volte che si era ritrovato tu-per-tu con la morte e ne era uscito per poterlo raccontare, era salito a sei e Hans era ancora lì, che respirava. Non si sarebbe azzardato a dire che fosse vivo e vegeto, infondo non lo era mai stato, ma non era… mh, beh non era rimasto morto, ecco. Era abbastanza certo di aver smesso di respirare (di nuovo!) per chissà quanto tempo, o così gli avevano detto al suo risveglio; lo avevano salvato, perché lui, e gli altri quindici sfigati che come l’empatico avevano combattuto il golem, avevano salvato la Bolla. Sì beh, anche sti cazzi, non lo aveva fatto per loro, lo aveva fatto per Mac e Twat.
    Dov’erano?
    Dove— «venite, devo farvi conoscere una persona.»
    Un. Fottuto. Scherzo.
    Non poteva essere altrimenti, no?
    Hey Mac, look; guarda chi è tornato.
    Non lo aveva mai visto in faccia quell’Asdrubale lì, il Belby, ma non gli serviva riconoscere il viso di quell’entità per sapere che fosse la stessa che un anno e mezzo prima aveva rispedito indietro lui e l’Hale, dopo averli chiamati a Tottington (DI NUOVO!!) senza il loro consenso.
    Odiava che la sua presenza lì lo facesse sentire… così tranquillo. Sereno. Con un senso di appartenenza che non poteva e non voleva spiegare, alieno nel cuore e allo stesso tempo giusto. Di quella storia raccontata da Michael, l’empatico ascoltò solo qualche parte: l’aveva già sentita, e pur non avendola ricordata quasi affatto fino a quel momento, d’improvviso gli tornò in mente tutta insieme, dal primo sparo di quell’imbecille di Harrison alla faglia che li aveva risucchiati e all’incantesimo meschino di Mac per trascinarlo da Barbie. Tutto.
    «le mie capacità sono limitate su questo piano,»
    Immaginava, dunque, che fosse ancora incatenato all’altro reame, quello dove continuava a trascinare persone a caso solo per avere un po’ di compagnia; ugh, odiava che anziché detestarlo per quello, riuscisse quasi a comprenderlo. A mettersi nei suoi panni, e a trovare in sé la forza di perdonarlo. Capirlo.
    Non riuscì ad odiarlo nemmeno quando spiegò loro (Tai, Corvina, Amaranth, Kul, un perfetto sconosciuto e lui) degli effetti collaterali di quello che, ah! lo aveva sempre saputo, a conti fatti era stato il loro sacrificio. Una magia impura la loro, inutile e necessaria solo per bilanciare qualcosa come tutto in natura doveva essere; una magia di cui la Bolla non sapeva che farsene, e che gli era stata rispedita indietro in maniera diversa da come l’aveva rubata in origine.
    Difettosa.
    Stupidamente, perché certe volte Hans aveva bisogno di esserlo per poter sopravvivere, l’empatico credette intendesse in una maniera molto semplice e banale: ogni tanto funzionerà, ogni tanto no. Tottington docet! Non poteva pensare alle ramificazioni di quella parola, difettosa, non in quel momento. E possibilmente mai.
    Guardò istintivamente in direzione di Taichi, pallido come un cencio e in condizioni pietose, e pensò che nemmeno lui doveva avere una bellissima cera: non con le spalle sempre più curve, il fisico magro, il viso smunto, e l’ustione che ancora fresca a deturpare il volto (avrebbero fatto qualcosa più avanti, gli avevano detto, perché prima avevano avuto altre priorità — quelle di evitare che il loro gioco del cazzo lo facesse morire, immaginava. Va beh, poteva sopportare uno sfregio sul viso, non si guardava comunque abbastanza allo specchio da sentirsi diverso. Ma tanto c’era già la luce diversa nello sguardo, a fregarlo).
    Guardò Taichi, e pensò che quella volta l’avevano combinata davvero grossa, e che persino Nah avrebbe avuto difficoltà a perdonarli.
    «a tal proposito… ci sono delle ultime cose di cui rendervi partecipi. chi è all’interno della bolla, così come la bolla stessa, è stato cancellato dalla memoria collettiva: non esiste più. chiamatelo oblivion se preferite, ma è una versione… diversa.»
    O… o magari no.
    Non sapeva se fosse una benedizione o meno, quella lì; sapeva solo che da una parte era sollevato di sapere che fuori da lì, nessuno lo ricordasse. Dominic e Joey e Narah e Bri e Mac e Joni e quelle altre poche anime che avevano avuto la sfortuna di incrociare il suo cammino si meritavano un po’ di pace; li aveva fatti preoccupare già abbastanza. Poteva cacciare Twat a calci e rimuovere quel fardello anche dalle sue spalle? Chiedeva; era un’opzione che valeva la pena prendere in considerazione. Gli rimaneva solo Taichi, e che non sarebbe rimasto lo sapeva; magra consolazione il fatto che anche lui l’avrebbe dimenticato, quando doveva comunque portarsi addosso il peso di tutto il resto.
    «non sarà facile rimanere lì fuori, voglio essere del tutto onesto con voi.» Fottuta onestà; Hans Belby non era mai stato capace di vivere senza e al contempo accettare la propria.
    Quando, allontanandosi dall’aula dopo il discorso di Michael, Hans fermò il Lìmore per un ultimo (forse l’ultimo per sempre) saluto, gli disse solo «non farlo. non tornare qui.» se davvero aveva la possibilità di dimenticare, di ridurre tutta quell’esperienza a delle stupide voci nella sua testa e qualche incubo, che lo facesse; non sarebbe stato il primo al mondo, né la prima volta. «cerca–» cosa? non era mai stato bravo con le parole, o con i saluti, o con le persone in generale. Persino (soprattutto) con quelli che reputava amici. Il migliore, se proprio. «va’ avanti, Tai. lasciatelo alle spalle.» ingenuamente, stupidamente, Hans Belby ci credeva davvero a quelle parole. «salutami–» mh, nessuno immaginava, perché nessuno si sarebbe ricordato di lui. Nessuno, tranne gli animali; in quell ci credeva. «pentacolo, e orion» ancora non ci credeva che gli avessero impedito di uscire per prendere il dannato cane. Era offesissimo.
    (Twat l’aveva presa molto peggio di lui.)
    Aveva messo le mani in tasca, poi, affondate lì perché non sapeva cos'altro farci e di certo non le avrebbe strette intorno alla figura allampanata del cinese, e aveva guardato Fake stringere le spalle del cugino e tirarlo via, ma non aveva aperto bocca, Hans, quando anche l’ultimo dei lost kids se n’era andato.


    Non se ne era reso conto subito, convinto che l’intermittenza e il continuo alternarsi di momenti troppo vuoti a momenti troppo… troppo, fosse solo la conseguenza di quell’improvviso e radicale cambiamento, la consapevolezza di dover iniziare una nuova vita, e il continuo brusio in sottofondo che da giorni (da quando aveva riaperto gli occhi) non lo lasciava in pace. Eppure avrebbe dovuto saperlo, perché Michael era stato chiaro ed onesto con loro: i poteri avrebbero dato dei problemi. Ma con tutto quello che stava succedendo, ogni tanto Hans dimenticava di ricordare quel particolare. Poteva convincersi ancora un po’ di essere solo stanco, prima di accettare il fatto che fosse rotto.
    Si rifugiava nei momenti di calma piatta, di totale assenza, perché facevano da cuscinetto quando quelli più intrusivi e sfiancanti tornavano a bussare; in quei momenti era impossibile, per lui, stare in mezzo alla gente. Che fosse la mensa, i giardini, o addirittura le stanze del Lotus, richiedeva davvero uno sforzo immane per l’empatico rimanere concentrato e non lasciarsi sopraffare da quella tempesta emotiva che si abbatteva contro di lui; dopo aver perso il controllo più volte di quante fosse disposto ad accettare (due. Ed erano due di troppo), aveva deciso che per affrontare quei momenti c’era un’unica soluzione: l’auto-isolamento. E per sua fortuna era un pro, ormai, in quello. Anni e anni e anni di allenamento alle spalle lo avevano reso un campione nello sfuggire e non farsi più trovare.
    Aveva solo dimenticato di tenere in considerazione una variabile, nell'equazione.
    «tranquillo, è tranquillo»
    Non aveva nemmeno bisogno di chiedersi come facesse, il Vibe, a trovarlo sempre; c’era l’opzione più ingenua (quella che sottolineava un certo interesse da parte del maggiore a sincerarsi sempre delle condizioni di Hans), quella realistica (il fatto che fosse effettivamente un predatore e conoscesse la sua scia perfettamente) e quella preoccupante (che fosse, alla fine dei fatti, davvero uno stalker).
    E poi c’era quella che le mischiava un po’ tutte e tre.
    «ma agli squali ci hai pensato?»
    No, aveva pensato solo a quale fosse il luogo più tranquillo e remoto possibile, dove attendere con trepidante attesa che il momento passasse per riuscire finalmente a concentrarsi di nuovo sui propri pensieri. C’era riuscito? Boh, sembrava e sperava di sì; l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la presenza di Check in uno dei suoi momenti peggiori. Non si fidava più di se stesso.
    Mai fatto, in effetti, ma perlomeno era sempre stato bravo a fingere il contrario, vuoi grazie al muro di impassibilità della droga, vuoi per il fatto che a chiudere a chiave tutto quanto fosse sempre stato una delle sue abilità più grandi.
    Ora come ora, non ne era più certo.
    «sono quasi sicuro li abbiano tolti. servivano solo come ostacolo. ora non ce n’è più bisogno.» la Bolla era al sicuro, loro erano al sicuro. Lui…? Un po’ meno, forse. Ma chi ci pensava più.
    Strinse le ginocchia al petto, e le braccia contro le ginocchia, poggiando la guancia in modo da osservare Check lateralmente, e mostrando solo la metà di viso non sfigurata.
    «perchè sei rimasto, hans»
    Se lo chiedeva dal primo giorno, da quando aveva capito che per rimanere lì avrebbe dovuto salutare quelle poche persone che gli erano rimaste, e che erano fuori — e si chiedeva anche se avesse fatto la scelta giusta. Poi si ricordava di aver ceduto una parte di se stesso (o forse tutto) per quella cazzo di Bolla, e che Twat fosse lì dentro, e si domandava come avrebbe mai potuto pensare di uscire e vivere con il costante presentimento di aver dimenticato qualcosa, un pezzo di sé, qualcosa di terribilmente importante. Preferiva stare lì, e ricordare, piuttosto che uscire e credersi di nuovo pazzo. Aveva vissuto con i ricordi di Tottington a tormentarlo per anni, con il peso sul cuore di chi sapeva di aver vissuto qualcosa che non poteva fottutamente essere vera, e non voleva che la Bolla lo portasse nuovamente ad essere uno zombie di ricordi confusi, legato ad una corda invisibile che tirava verso l’ignoto.
    Non sapeva cosa dirgli, e non era mai stato un fan delle menzogne; preferiva piuttosto il silenzio. Non gli avrebbe chiesto perché fosse rimasto anche lui: Mood era lì, ed era tutto ciò che Hans doveva sapere per comprendere la scelta di Check.
    Che poi, in effetti, anche l'empatico ce l’aveva una motivazione, in realtà; una risposta che cercava da sempre, e che nessuno gli aveva mai dato. O, perlomeno, non gli avevano mai dato la risposta che cercasse. Sperava che, se davvero il potere che scorreva nelle sue vene nasceva dalla stessa matrice di quello di Seth, fermando lui avrebbero anche trovato il modo di far sparire per sempre dal suo sistema anche quella condanna; credeva nella scienza.
    Puff, cancellato. Spazzato via. Non la voleva più, la magia. Mai voluta.
    A Check non lo disse, però.
    Disse solo, un bisbiglio appena accennato che rivolse alla superficie del lago, quando distolse lo sguardo, «non aveva senso non farlo» almeno quella non era una menzogna; rimanere, o andarsene, avevano quasi lo stesso peso sulla bilancia, in quel frangente.
    E con tutto quello a cui avrebbe avuto da pensare da lì a lungo termine, dubitava avrebbe trovato anche il tempo per sentire la mancanza del fuori, o rimpiangere quella scelta. Di tutte le cose fatte nelle ultime settimane di cui avrebbe potuto pentirsi, scegliere di rimanere era davvero l'ultima della lista.
    Rivolse un altro sguardo veloce al maggiore, ancora in piedi e a debita distanza, e se da una parte era grato per quella parvenza di privacy concessa, dall'altra non riusciva a non pensare a quel momento condiviso con Check sulla barca dei pirati della bolla, e la confusione tornava prepotente a fare capolino in quel groviglio di emozioni (sue, non sue, chi le distingueva più) e rendeva molto più difficile rimanere razionale e distaccato.
    Solo rendendosi conto di aver indugiato con lo sguardo per un attimo di troppo sulla figura del Vibe, decise di tornare ad osservare lo specchio d'acqua di fronte a loro e pensare ad altro: aveva appena (appena!) ripreso controllo di sé, non poteva permettere alla presenza di Check di scombussolare tutto quanto.
    Avrebbe volentieri scelto il silenzio, se solo non avesse saputo per esperienza personale che fosse molto peggio; parlando di qualcosa, invece, poteva distrarsi e fingere di essere normale.
    (Ah!)
    Non senza una punta di sarcasmo, chiese «hai già scelto quale sarà il tuo ruolo nella società?» che era un po' l'equivalente nella Bolla del parlare di meteo, o delle ultime notizie in fatto di economia, sport, politica; l'organizzazione della comunità che stavano mettendo su era la priorità di tutti, ed era chiaro che ciascuno di loro avrebbe dovuto prendere il proprio posto e fare qualcosa per contribuire e per aiutare.
    Hans non aveva idea di quale fosse il suo, preferiva non scoprirlo e rimanere sulle sponde di quel lago il più a lungo possibile.
    hans
    belby

    he was pointing at the moon,
    but I was looking at his hand
    immolation
    “to sacrifice; to destroy by fire.”
    special born
    empathy
    the martyr — 2004, defective, chosenhead fuck, won't go;
    so tired of being tired, you know?
    I wish I could make it easy, oh
    (I'm still a broken machine, babe)
    keeping you around
    nothing but thieves
    moonmaiden, guide us
  9. .
    I don’t give a f**k
    uno scricchiolio, un suono ovattato che accompagnava le notti al dormitorio serpeverde, mura sommerse dalle oscure acque del lago simbolo della scuola.
    un malessere che le impregnava le membra da giorni, un malessere che non c’entrava nulla con le ferite che squarciavano la pelle candida della Parker.
    avrebbe lasciato correre, se quel malessere le si fosse presentato mentre era avvolta tra le morbide lenzuola del suo letto scolastico. ma non si trovava a scuola.
    si trovava in un letto asettico d’ospedale, dopo essere stata colpita da dei detriti, molti detriti di un edificio che era lì vicino, tornava tutto in effetti, ma perché si sentiva come se le mancasse un pezzo?
    era già la terza volta in quella notte che sognava cose che al suo risveglio, cruento e immotivato, non riusciva a ricordare, ed era strano, lei non aveva mai sofferto di insonnia, nemmeno quando le suore per punirla la facevano dormire in uno scantinato putrido nel quale la sua unica compagnia erano i topi; si sentiva strana, quasi triste, forse… di quei sogni riusciva a ricordare unicamente il viso di Paris, distrutto, e lei che gli carezzava il capo consolandolo, ed ogni volta si svegliava con una sensazione terribile allo stomaco.
    sospirò, spostando le gambe dal materasso al pavimento, quest’ultimo poteva sentirlo, freddo e tagliente sotto le piante dei piedi, con fatica si tirò su, una mano sullo stomaco, dove poche ore prima aveva scoperto di avere tanti… fori. avrebbe proprio voluto sapere che tipo di detriti le avevano lasciato quelle strane ferite.
    aprì la porta e iniziò a trascinarsi lungo il corridoio buio e quasi inquietante, erano pur sempre le tre di notte ed era quasi certa che non avrebbe trovato nessuno lì fuori a farle compagnia, beh in effetti quasi certa «…Paris» lo chiamò con tono piatto, fermandosi sul posto, pigiama a quadroni, capelli neri sciolti sulle spalle fino ad arrivarle ai fianchi, una faccia stanca e piedi scalzi «non riesci a dormire?» lui, che era stato coinvolto nel suo stesso incidente, lui che occupava i suoi sogni, unica cosa che rammentava di quei probabili incubi «come ti senti? sei ancora ammaccato?»
    si poggiò al muro, stanca di tenersi in piedi, quel maledetto dolore al torace a ricordarle che era lì per un motivo
    «sappi che…» «sappi che qualsiasi cosa sono lì» «qualsiasi cosa sono lì » disse, indicando con un cenno della testa la camera in cui l’avevano sistemata, com’era crudele il destino, le prime parole che rivolgeva a Paris erano come le ultime che gli aveva rivolto sul campo di battaglia.
    ma questo lei, non poteva saperlo

    Delilah
    Parker


    It takes my breath away
    Soft hearts, electric souls
    hothead
    “what are you looking at?”
    amnesia — 17 y.o, slyterin, confusedTake my picture now, shake it 'til you see it
    And when your fantasies become your legacy
    Promise me a place
    in your house of memories
    house of memories
    panic! at the disco
    moonmaiden, guide us
  10. .
    Burn the pain, burn the lies, Burn the fear inside myself. And burn it all again, It's the right time to Escape this cage
    check vibe non doveva elaborare un cazzo, perché non c'era un cazzo da elaborare.
    si poteva dire che un momento così, un occasione come quella!, l'avesse aspettato per tutta la vita — due, a essere sinceri. c'era stato un tempo, uno più semplice, in cui il giovanissimo ché avrebbe trovato affascinante tutto quello: una piccola comunità che cercava di ripartire da zero, ogni singolo individuo pronto a fare la sua parte, un piccolo sacrificio per evitare un male insopportabile. i confini, nella mente corrotta del cheemy, si erano confusi in fretta.
    le linee, inizialmente ben visibili e definite, avevano sbavato il loro inchiostro trasformandosi in un disegno caotico e distruttivo, una macchia dopo l'altra a fondersi con la carta. convinto, nonostante tutto e fino all'ultimo istante, di aver venduto anima e innocenza per qualcosa che era senza sugli più grande: di lui, di loro.
    i piani del vibe erano decisamente più modesti.
    preferiva mantenersi umile pensando a se stesso, piuttosto che ad un bene superiore pronto a chiedere in cambio la sua libbra di carne. e tra dentro o fuori, era convinto avrebbe fatto poca differenza; non si lasciava indietro nulla, check. tranne forse un peso, quello che aveva gravato sul torace magro di un bambino facendo scricchiolare le costole e sulle spalle di un adulto artigliando pelle e carne — per la prima volta da quando ne aveva memoria, la voce lo aveva lasciato solo. era bastato un passo, e quando le onde concentriche di quella magia sconosciuta avevano travolto tutto e tutti, anche quei sussurri di fiele si erano dissolti.
    il suo personale torna a casa, ché.
    nel mondo esterno, quello che non gli apparteneva più, aveva lasciato soltanto delle briciole; così poco di se stesso, che le persone alle quali teneva se l'era ritrovate tutte al proprio fianco. buffo, a volerci trovare qualcosa da ridere, e più difficile capire cosa lo fosse di più: che fossero solo due, un'intera vita ridotta a suo fratello «pidocchio—» «lo so»
    e ad hans belby
    «non credevo potesse importarti.»
    «non volevo che buttassi via la tua vita, l'hai dimenticato?»
    o il fatto che per check fossero gia troppe.
    non aveva lasciato alcuno spazio a hold e justin perché potessero riempirlo, e alla fine il tempo gli aveva dato ragione: al cenno leggero di quella mano sollevata a mezz'aria, il vibe aveva risposto con la più totale indiffere nza, quasi non si aspettasse altro. non aveva nemmeno iniziato a considerarli parte della sua vita, ed erano già belli che andati.
    un problema in meno a cui pensare.
    aveva atteso un paio di giorni, persi ad esplorare la città sotto la bolla, un brulicante fermento di nuova vita nel quale ricominciare da zero; o dal punto stesso in cui aveva interrotto la propria. conscio, suo malgrado, di essere uno dei pochi a cui degli addii e delle conseguenze non poteva fregare una minchia di meno — aveva visto le lacrime, la disperazione, la consapevolezza farsi più nitida di secondo in secondo; il tradimento, l'odio e il rancore, l'accettazione in occhi lucidi e sguardi affranti.
    di tutto quello gli importava poco.
    le conseguenze per chi fosse rimasto a lottare nella bolla, sacrificio di sangue and all, gia un po di più..
    in fondo, quando finalmente aveva deciso di fare il primo passo, trovare hans non era stato difficile: sapeva come seguire gli spostamenti di qualcuno, check vibe, anche quando questo qualcuno avrebbe preferito scomparire dalla faccia della Terra.
    un bravo segugio, se così si può dire.
    la scelta del lago, d'altraparte, gli sembrava un pochino azzardata; nostalgica, quasi.
    «tranquillo, è tranquillo» non si sedette accanto al minore, rispettando il suo spazio. un paio di metri a distanziarli era quanto poteva concedergli, tutto considerato «ma agli squali ci hai pensato?» mantenne le iridi verde acqua rivolte alla superficie appena increspata, affondando le mani nelle tasche. il cielo, che sembrava stato dipinto con una tonalità di azzurro sbagliata (impercettibile, come la sensazione che dava guardarlo troppo a lungo: artificiale, falso quanto un sorriso di circostanza), mostrava già il profilo della luna, pallido e incompleto.
    aveva chiesto e gli era stato detto di non preoccuparsi.
    nel dubbio, check non lo faceva: se volevano studiare le reazioni di un licantropo durante la luna piena senza antilupo in circolo avevano solo che da chiedere.
    a quel punto piegò il capo, rivolgendo ad hans un'occhiata che non era di scuse, né tantomeno di compassione; qualunque cosa stesse passando il belby, check non aveva la pretesa di capirlo. poteva condividerlo, però — un cazzo di problema alla volta «perchè sei rimasto, hans» non era nemmeno una domanda, quasi un pensiero tra sé e sé lasciato rotolare sulle labbra con una studiata casualità. voleva sapere, voleva sempre sapere, ma non al punto da costringerlo ad aprire bocca per raccontarglielo.

    check
    vibe-bigh

    Burn the pain, burn the lies
    Burn the fear inside myself
    nobody smart
    plays fair
    MAGO
    WEREWOLF
    20 — halfblood — Focused. FlourishingReady to fight, ready to go
    That defines the world
    Second chances are gifted
    Just get one
    burn
    onlap
    moonmaiden, guide us
  11. .
    A little bad luck has taught me how to stand
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Avrebbe potuto farlo per ogni presunta frequentazione che portava a casa dai genitori, soltanto per far loro un dispetto o per reclamarne l’attenzione, quando non per trasformare la rabbia celata dietro il trucco sempre impeccabile in divertimento fine a sé stesso. Non lo aveva mai fatto: non era un suo diritto tanto quanto non lo era di nessun altro; si limitava ad essere un buon fratello nel terrorizzare tutte le compagnie che sapeva non essere opportune per Liz, stringendo i ranghi attorno alla maggiore per proteggerla dalle sue stesse scelte – sempre che questo significasse esserlo, un buon fratello. Aveva sempre sperato di sì – aveva sempre creduto che esserlo volesse dire prendersi cura di lei, e non soltanto amarla per com’era; rispettare ogni decisione che la facesse stare bene e anche quelle che facevano il contrario, fintanto che fossero state prese da lei e non dai demoni nella sua testa. Ma non c’era mai stato giudizio negli occhi cioccolato, né nelle mani a sfiorarle le ciocche dorate ad ogni rottura.
    Avrebbe potuto giudicarla quando era caduta in una spirale senza fine, vorticando attorno ad un buco nero dal quale solo ultimamente era riuscita a tirarsi fuori, aggrappandosi al primo fascio di luce disponibile. Chi in un modo e chi nell’altro, tutti lo facevano – tutti, gli dicevano che avrebbe dovuto farlo anche lui. Non ci era mai riuscito, non ci aveva nemmeno mai provato: si era lasciato trascinare sul fondo con lei, piuttosto, sciogliendo una pasticca dietro l’altra sotto la lingua e non potendo fare altro che capirla, e sentirglisi un po’ più vicino. Perché non c’era mai stato nulla di capriccioso o vizioso nei gesti della ragazza – piuttosto un bisogno, ed il modo più semplice per soddisfarlo; e tutte le volte che aveva potuto, l’avevano condiviso. Non c’era mai stato giudizio nei sorrisi poco lucidi, né nei glitter appiccicati tra un abbraccio e l’altro.
    Avrebbe potuto farlo quando era partita per la guerra. Avrebbe voluto farlo, nel momento in cui si era ritrovato con un semplice biglietto – un messaggio, niente più, per comunicargli fosse andata dove non poteva raggiungerla, e dal quale forse nemmeno sarebbe tornata. Ma anche allora, non ci era riuscito: si fidava di Liz più di quanto il buonsenso potesse suggerire di fare, e se l’aveva reputato necessario lo accettava. L’aveva odiata, forse; l’aveva voluta odiare perché non gli aveva detto niente, perché se aveva pensato alle conseguenze aveva ponderato anche l’ipotesi di rimanere nel fuoco incrociato e non aveva reputato opportuno salutarlo come si doveva, ma non era certo di essere stato in grado di fare nemmeno quello. Ed aveva fatto l’offeso, ovviamente aveva fatto l’offeso, perché era suo fratello ed era suo obbligo morale farle pagare in qualche modo il fatto di non avergliene parlato: era la sua vita, poteva fare quello che più riteneva giusto per sé; Balt voleva soltanto essere avvertito, finché poteva. Ma non c’era stato giudizio nel broncio appuntato sul viso del diciassettenne, né tantomeno nel silenzio che le aveva riservato per quei pochi giorni.
    Non avrebbe iniziato ad esserci, quel sentore di giudizio che chiunque poneva con tanta superficialità su Lissette Monrique, nemmeno in quel momento. Aveva pensato di sì, ed avrebbe voluto che fosse vero. Sarebbe stato più facile stare lì, davanti a lei, con i pugni affondati nei jeans e la visiera di un cappellino da baseball a coprire lo sguardo puntato sui fili d’erba ai propri piedi, se solo avesse deciso di riservarle tutto il proprio sdegno – perché avrebbe significato l’essere andati oltre all’odio, ed aver sublimato tutto il proprio rancore nell’indifferenza: non aveva mai creduto d’essere capace di una cosa del genere, ma c’era sempre una prima volta.
    Se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire ogni singola, e fottuta, cosa provata tre giorni prima.
    La felicità di aver ritrovato Wren, ed il non aver reputato importante il fatto che fosse stato messo a dormire per due mesi interi: stava bene, glielo avevano assicurato, e tanto gli bastava per portarlo fuori di lì tirandoselo sulla spalla – malgrado non ce la facesse, e la magia fosse più semplice in una situazione del genere; voleva stringerlo, e sentirlo vivo contro di sé, e tenerselo lì perché magari si sarebbe svegliato mentre lo trascinavano fuori ed avrebbe avuto lui al suo fianco.
    Lo sbigottimento, quando aveva visto Kaz e Clay impugnare le armi in favore dell’uomo che li aveva rapiti due mesi prima – un sentimento prettamente egoista, e superficiale: era andato lì anche per loro, il tassorosso; era andato lì per riportarli a casa, e non sarebbe successo.
    Il sollievo, perché tutti i suoi amici (i tibiavorio compresi) erano sani e salvi.
    La paura ad ogni battito troppo potente o troppo debole contro lo sterno, perché non voleva morire, e non aveva un singolo muscolo nel proprio corpo che lo aiutasse a tenersi in piedi come avrebbe dovuto.
    Il dolore di quelle mani premute sulle spalle, di quelle parole a fare più male di ogni colpo ricevuto – persino della pugnalata al petto. La sofferenza della propria voce a rompersi contro le pareti della gola, e ad uscire come singhiozzi privi di forma e senza lacrime a solcare tracciati tra il sangue.
    Cosa stai dicendo, Liz. Non potrei mai dimenticarti. Perché dovrei farlo? Cosa vuoi fare? Non mi lasci da solo, vero? Non puoi lasciarmi da solo, ti prego.
    Ricordava ancora il momento in cui gli era stata tolta la magia, la libertà, la sua scelta; quello in cui era caduto a terra, e di non essere riuscito a provare niente che valesse la pena di essere ricordato – confusione, vuoto, abbandono.
    Ma faceva più male sollevare gli angoli delle labbra, ed il capo per cercare le iridi chiare di Liz. Non perché fosse forzato, ma perché piuttosto era l’unica cosa che volesse fare: voleva che se lo ricordasse così, suo fratello. Voleva non sentirsi abbandonato, per quanto partendo per lo Sri Lanka avesse perso più di quanto avrebbe mai potuto immaginare; voleva rimanere stoico, con i denti stretti ed i nervi tesi per bloccare il prurito agli angoli degli occhi.
    Annullò quella poca distanza che c’era tra loro, e non le diede modo di allontanarsi per qualche stupido motivo che poteva funzionare solo e soltanto nella sua testa: le strinse le braccia attorno alle spalle prima che potesse opporsi, e nascose la testa nell’incavo del collo per qualche istante.
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Non avrebbe iniziato a farlo per una scelta del genere; non se sarebbe stata bene, in pace con le proprie decisioni. Si era sempre preso cura di lei, ma mai quanto il contrario – non l’avrebbe potuta lasciare in altro modo, se non in quello.
    «te quiero, noona.» soffiò sulla pelle della bionda, occhi strizzati per impedire che uscisse anche solo una singola lacrima. Non le disse che non l’avrebbe mai dimenticata, né che non gli sarebbe mancata: non faceva promesse che non poteva mantenere, il Monrique. «vedi di diventare l’imperatrice di questo stupido posto. fatti valere.» deglutì, lasciando che il suo profumo gli si imprimesse addosso quanto più possibile prima di staccarsi da lei. «ci vediamo presto, va bene?» quelle parole uscirono un po’ più secche, ma non poté controllarlo: sapeva sarebbe tornato lì, e che non dipendesse da lui.
    Posò lo sguardo su Kaz, arretrando fino ad essere ad un passo dall’uscita della Bolla, due dita premute sulla fronte ed il sorriso stampato sulle labbra: non gli interessava cosa avessero scelto, era felice fintanto lo fossero anche loro; sperava soltanto che il lumocineta tenesse fede alla promessa, e che si prendesse cura della sorella al posto suo.
    Quando la Città scomparve alle sue spalle, dovette passare il palmo contro il viso e spingere sugli occhi: a quanto pareva, le lacrime non avevano più motivo di stare al loro posto.

    La cosa peggiore, fu credere fino all’ultimo che salutare Liz e gli amici rimasti al fianco di Lancaster sarebbe stata la cosa più difficile.
    Si era sbagliato, e se ne era reso conto quando la realtà che aveva deciso di ignorare gli si era abbattuta addosso con tutta la forza che il golem che avevano combattuto nel teocalli poteva soltanto sognare di possedere.
    Aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, quando lo aveva accolto in un’aula del Castello. Lo conosceva per la nomea che si era fatto nel corso degli anni all’interno della scuola, e perché non c’era una singola persona che il Monrique non conoscesse, ma dopo essere stato tra quelli che avevano contribuito a portarli fuori dalla piramide mesoamericana trovava terribilmente ironico – giusto, eppure così sbagliato – che fosse proprio lui a dirgli che non potesse più rimanere lì. Che non avrebbe più frequentato le lezioni di Hogwarts, che non si sarebbe mai diplomato, che non poteva più passare ogni istante della sua vita con i propri amici.
    Che doveva tornare a casa, parlarne con i suoi genitori, spiegare cosa fosse successo.
    Che era il loro unico figlio, che erano sicuramente preoccupati per lui.
    Allora aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, e di scoppiare in lacrime senza riuscire a fermarsi. Non voleva sembrare un pazzo nel dirgli che non fosse figlio unico – che sua sorella era lì dove il legionario aveva passato gli ultimi due mesi della sua vita, dove era andato per riprendersi un fratello che nessuno sapeva avesse tranne lui –, né disperato nel tranquillizzarlo – era più facile che i suoi genitori lo lasciassero in mezzo ad una strada, piuttosto che preoccuparsi di quel che gli era successo. Aveva chinato il capo perché non voleva che lo vedesse piangere, ma da qualche parte doveva aver fallito – forse nella superficialità con cui aveva creduto che all’ex battitore dei Corvonero non potesse fregare di meno: il suo era un copione, in fin dei conti, frasi fatte e di circostanza da riadattare in base alle esigenze; aveva sentito il sentimento con cui aveva condito quelle parole, ed aveva voluto che fosse per lui, ma crederci era un altro discorso. «non è la fine, balt.» annuì, ma senza alzare lo sguardo sul maggiore. «non sarà facile, ma non sei da solo. hai un gran bel gruppo di amici, no?» a quello assentì con più convinzione, felice al solo sentir nominare i Ben – ma.
    «è stato bello quello che avete fatto in bangladesh.» furono forse le prime, sicuramente le ultime, parole che rivolse al Hale, alzandosi dalla sedia sulla quale si era affossato sempre di più con un sorriso caldo sul volto tirato e stanco. «grazie.»
    Quello aveva fatto male, sì.
    Ma non quanto andare nel dormitorio mentre tutti gli altri erano a lezione di Incantesimi e fare davvero le valigie. Non quanto aspettarli laddove si erano incontrati prima di partire, senza voler guardare fuori dalla grande finestra oltre al pendolo, rimanendo con la testa affossata nelle ginocchia strette al petto – meno guardavano un volto che non riconosceva più nemmeno lui, e meglio era. Non doveva dir loro addio: avrebbe semplicemente vissuto fuori dal Castello, non lo avrebbero dimenticato una volta oltrepassato il cancello – «venite da me quest’estate? ad ibiza.» caso mai pensassero volesse tornare a Barcellona dai suoi –; allora perché lo sembrava? Un anticipazione di quello che Michael aveva profetizzato, che sentiva vibrare nel petto – torna a casa.
    Parlare con Mac non aveva fatto nemmeno male quanto far cadere tutte le valigie nel scontro, chiedere quello «scusa!» prima di rendersi conto a chi lo stava rivolgendo, e che questo lo guardava come se fosse uno studente qualunque? Alla fine quello era Balt, per il guardiacaccia: cosa ne poteva sapere Galen Acharya del fatto che in un giorno, un solo fottutissimo giorno, si fosse fidato più di lui che di quanto avesse mai fatto con Adam Monrique.
    Né aveva fatto male quanto passare davanti all’Aconitea, e sentire sulla bocca dello stomaco e nel petto che ci fosse qualcosa di sbagliato – come se poi se ne sarebbe sbattuto più di tanto le palle, il diciassettenne, che qualsiasi cosa fosse Wren facesse a pugni con qualsiasi cosa fosse lui ora: non avrebbe perso l’unica cosa che era riuscito a riportarsi a casa.
    Non aveva fatto minimamente male quanto lo aveva fatto tornate nella casa che aveva preso con Liz quando si erano trasferiti a Londra, e trovare tutte le sue cose ancora lì: a quel punto, non aveva potuto evitare di cadere a terra e piangere – e piangere, e piangere, fino a quando non ebbe più fiato in corpo per singhiozzare o acqua nei dotti lacrimali per irrigargli il volto.
    Trasse un profondo respiro, ed iniziò a raccogliere quello che aveva lasciato in giro sua sorella. Svuotò il proprio baule, e mise tutto quanto lì dentro, scrivendoci sopra il nome di lei: poteva pur finire per dimenticarla, ma prima o poi quegli averi avrebbero significato qualcosa. Così come avrebbe significato qualcosa quel diario di viaggio, tutte le informazioni e i vari Kaz è pompatissimo e Paris + Theo = </3 ma andrà meglio.
    Avrebbe significato qualcosa anche il ciondolo infilato nella collana – e anche non lo avesse fatto, l’importante era che in quel momento sapesse che la stellina appuntata al collo voleva dire che la avrebbe sempre avuta con sé.
    Fu nel sistemarsela, che posò lo sguardo sul suo viso riflesso nello specchio. Non lo aveva fatto davvero da quando si era risvegliato nella bolla; avrebbe preferito non farlo nemmeno lì. C’era... qualcosa di sbagliato. Fece scivolare le dita sulla pelle del viso, sulle labbra, sul naso, sugli occhi – forse non era nemmeno così sbagliato, soltanto tremendamente diverso; eppure uguale a com’era prima di partire, se non si consideravano le occhiaie e il colore meno acceso dell’incarnato. Chiuse con prepotenza gli occhi fino a sentire il dolore alla radice del naso, e quando li riaprì non guardavano più la propria immagine riflessa, ma una piccola scatolina abbandonata sul mobile.

    Ricordava la prima pasticca che aveva fatto sciogliere sotto la lingua, ma non se ce n’erano state delle successive. Supponeva di sì, perché non era ben certo di come fosse arrivato seduto sul prato dell’Aetas sotto il cielo stellato di Maggio.
    Aveva pianto? Ancora? Anche lì, poteva darsi una risposta soltanto premendo il polso sul viso: sentendolo umido, immaginava di sì – immaginava di aver solo creduto avesse finito, in casa, e che ne avesse ancora bisogno.
    Ma soprattutto: aveva chiamato lui Mimmo? O era stato l’italiano a chiamarlo? Oppure era lì di passaggio anche lui, a vagare senza alcuna meta? Battendo il palmo sull’erba accanto a sé per invitarlo a fargli compagnia, occhi liquidi e sorriso ebbro sul viso, decretò che non gli interessasse affatto.
    «sgodiamo?»
    baltasar
    monrique

    mom, dad
    i failed again
    chosen
    sacrifice
    what did
    you expect?
    nothing but an angel — hufflepuff — 2006It's taken my spirit
    It's taken the words out of my mouth
    I feel like I'm disappearing
    And all I ever seem to say is-
    down with my demons
    Lø spirit
    moonmaiden, guide us
  12. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    soft
    idiot
    sappy
    motherfucker
    sentimental
    bastard
    archibald dominique baudelaire leroy
    Una giornata come tutte le altre.
    Poche ore di sonno mentre cercava di incastrare due lavori che amava e che lo tenevano ancorato ad una vita ormai cambiata, sorrisi sghembi agli avventori della panetteria, battute e lamentele ad amici e colleghi, sbadigli e mal di testa e Dio, ancora quelle immagini, ricordi e possibilità che non gli appartenevano, sogni ad occhi aperti pronti destabilizzarlo ogni volta che non era abbastanza veloce a ingoiare un potere che ancora non controllava. Ancora il senso di perdita, ancora l'impressione di essere maledetto, ancora la paura di guardarsi allo specchio e vedere un bambino di dieci anni abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo ed arrabbiato con chiunque per questo.
    Niente di diverso dal solito (o da quello che almeno, ormai, era diventato il suo solito).
    Solo che non era davvero una mattina come tutte le altre. E neanche lo sapeva.
    Non poteva saperlo, Arci, quando si era avvicinato pronto a bussare alla porta della camera da letto vuota, ridendo fra sé e sé per la propria stanchezza.
    Non poteva saperlo quando aveva notato le troppe tazze nel mobile della colazione, e si era chiesto distrattamente perché Aidan avesse rubato a casa Eubeech quella roba a tema Star Wars.
    Non poteva saperlo quando aveva trovato una pergamena abbandonata sul tavolo in salotto con dei compiti di sdm abbandonati al loro destino, e li aveva lanciati nello zaino ripromettendosi di restituirli al povero studente a cui li aveva presi per sbaglio.
    Non poteva saperlo guardando un po' confuso, un po' annoiato, i tanti piccoli segni della presenza di un terzo (ex) abitante di quella casa.
    Non poteva saperlo quando, toccati i fu oggetti di tale coinquilino per metterli a posto, aveva ricevuto un insolito (e ironicamente piacevole) silenzio.
    Una giornata uguale a quella prima in tutto e per tutto - anche nel suo alzare lo sguardo di scatto verso l'ingresso quando la magia lo avvisó del rientro a casa di Aidan.
    Il rapporto di Arci con la sua (ormai non più) nuova... situazione, era ancora particolare. Preferiva non parlarne, non pensarci, e aveva stiracchiato il potere volontariamente talmente poche volte che non era una sorpresa che di tanto in tanto gli esplodesse in faccia, offeso di essere relegato a contrattempo piuttosto che esercitato come dono.
    La chiaroveggenza era ancora un punto dolente, visto che averla significava aver perso la Vista, l'animagia, la sua bacchetta...
    Riconoscere l'arrivo imminente a casa di Aidan e di- di- (Aidan e basta) rientrava nelle poche cose in cui eccelleva di natura come chiaroveggente.
    La sua magia gli sussurrava sempre nell'orecchio quando il Gallagher stava arrivando, forse riconoscendo il piacere che questa notizia portava, e Arci accoglieva ogni volta l'avviso con un sorriso. Non lo aveva detto al compagno, certo che Aidan lo avrebbe preso in giro per il suo romanticismo, per il modo in cui tutte le lamentele dette o silenzione (odiava quel potere. Odiava non essere più un mago), si scioglievano nel momento in cui c'entrava il Gallagher.
    Non avrebbe capito.
    O avrebbe capito troppo bene per volerne parlare.
    Quando Aidan ci mise più del solito a varcare la soglia, fu Arci ad andargli incontro, curioso del perché ci stesse mettendo tanto, affamato di vederlo come non sapeva spiegarsi e sentendo una nostalgia carogna e confusa per le sue mani addosso, i denti sul collo, le labbra sulla pelle tiepida - nostalgia che sapeva non avere senso di esistere visto che erano visti solo- tre- uno- giorn- (si erano appena visti).
    Sorridendo divertito aprì la porta.
    E non fu più un giorno come tutti gli altri - anche se per tutti i motivi sbagliati.
    «Aidan» cauto (più di quanto il suo cuore a battere veloce nel petto avrebbe richiesto), come lo sarebbe stato con un gatto, sia nel pronunciare il suo nome sia nell'allungare la mano. Il sorriso era sparito, gli occhi scuri fattisi preoccupati. Spaventati. Arrabbiati. Strinse il pugno, prendendo un respiro profondo e quasi minaccioso. C'era qualcosa di sbagliato nel Gallagher, anche se non avrebbe saputo decidere cosa (non solo nell'espressione, fisicamente), e rischiò a distogliere lo sguardo per cercare tracce di sangue su di lui (cos'è successo chi è stato lo ucciderò non dovevi andare-), non trovando però, a vista, risposte ai suoi dubbi.
    Un bene, forse. Un male, se il problema di Aidan, dei suoi occhi scavati, dei capelli non lucidi come al solito, dell'aria provata e sconfitta, era di natura magica.
    Il fu grifo arrancò in avanti, ma non pronto dal trovarsi ad avere a che fare con un peso morto, Arci riuscì appena a rallentargli la caduta.
    Finalmente, al movimento dell'altro, gli si attivò nel cervello la modalità emergenza, e questo per lo meno gli permise di non gridare, di non chiedere chi gli avesse fatto del male, di non uscire di casa a passi veloce per cercare chiunque o qualunque cosa avesse portato alla loro porta Aidan in quello stato e dargli fuoco, dare alle fiamme l'intera città se necessario, riportando cadaveri in cenere al capezzale del Gallagher se sarebbe servito a farlo stare meglio.
    Invece, un braccio ancora a tenere Aidan (non si era reso conto di averlo preso per impedirgli di cadere malamente a terra, tanto era stato istintivo, pur nello shock iniziale, proteggerlo da altro male), si allungò per chiudere la porta dietro il grifo dopo averlo tirato a sé. Gli scivolò allora di fronte, in ginocchio sul pavimento freddo e incurvato in avanti per essere allo stesso livello dell'altro. Scomodo, in quella posizione, nel tentativo sia di toccare Aidan - assicurarsi che fosse lì che stesse bene che non stesse andando via da lui e restasse lucido - che di farsi guardare... ma quando mai amare Aidan non era stato doloroso, negli ultimi sette anni?
    Fra loro ondeggiava la catenina legata al collo di Arci, una croce e un anello fianco a fianco.
    «mi dispiace»
    «Aidan»
    ripetè, con meno urgenza, ignorato nuovamente mentre cercava di riportarlo al presente, di portarlo da sé. Aveva domande, ma la maggior parte riguardavano la salute dell'altro, quindi prima doveva capire quello. Stava bene? Era ferito? Fece scivolare una mano sul retro del suo collo, tenendolo fermo in una presa solida, meno dolce di quanto avrebbe dovuto, imitando le strategie che altre volte il grifondoro aveva usato con lui. Resta con me. Non annaspare via. Mi senti? Strinse la presa. Sono qui.
    «mi dispiace»
    «Ehi. Guardami un ordine, perchè Aidan smettesse di vedere Dio solo sa cosa, ma si inebriasse del Leroy davanti a sè - uno che non aveva bisogno di scuse. Gli prese il mento fra indice e pollice, tenendogli non senza gentilezza il viso e obbligando l'uomo a guardarlo.
    Non era mai stato bravo con le parole,.
    «Mon coeur» mormorò. Aveva iniziato a usare il nomignolo per scherzo, per prendere in giro più che Aidan le coppie che non erano loro e il loro romanticismo zuccheroso, ma col tempo ci si era affezionato, trovandolo un nome azzeccato e sincero. «ça va aller. Je suis là»
    Tracciò col pollice la linea dello zigomo, bagnandolo di lacrime, e parlò ancora a bassa voce in francese come cantilenando una ninnananna. Era una lingua abbastanza melodica da non aver bisogno di grande impegno per riuscire ad essere di conforto di per sé.
    Parlare francese, da utile (per non farsi capire da- da- per non farsi capire e basta) era passato a piacevole e poi necessario. Lo usava quando voleva dire cose ma il suo intero essere si ribellava dal farlo - nei momenti troppo dolci per usare la stessa lingua con cui si prendevano a parole o si prendevano e basta, e nei momenti in cui respirare era difficile e non sapeva come ammettere che non sapeva come andare avanti.
    Si sporse in avanti, spinse la mano sulla nuca dell'altro per avvicinare i loro visi, il respiro raschiato di Aidan a fargli il solletico, lasciando che il proprio, forzatamente tranquillo, gestisse il tempo fra una boccata d'aria e l'altra anche per entrambi.
    Posò le labbra sulle ciglia umide di pianto di Aidan, con calma passò all'altro occhio.
    Appoggiò la fronte contro quella dell'uomo.
    «Risolveremo tutto. Ci siamo dentro insieme»
    Il panico di aver visto Aidan crollare davanti a lui (Aidan! La cui strategia era sempre stata quella di nascondersi, piuttosto che chiedere aiuto. Chiedere scusa), era stato sostituito da una paura più razionale.
    Era successo qualcosa di grave.
    Aidan pensava che Arci non l'avrebbe presa bene.
    Si conoscevano abbastanza vicendevolmente per sapere entrambi che il Leroy si arrabbiava spesso, ma proprio per questo poche cose meritavano una tale reazione da parte del Gallagher.
    Qualcuno che Arci amava si era fatto del male (o peggio).
    Aidan pensava, presumibilmente, di essere parte del problema.
    L'assenza di sangue non escludeva ancora del tutto l'idea che la persona in pericolo fosse Aidan stesso.
    «nel bene e nel male» Mosse ancora il dito, accarezzandolo. «Lascia che ti aiuti»
    I will not have you without the darkness that hides within you.
    I will not let you have me without the madness that makes me.
    If our demons cannot dance, neither can we.
  13. .
    Mi voglio rovinare, arrivo anche in questo topic a lasciarvi una domanda. Testualmente cito:
    CITAZIONE
    b) gli special sono rimasti special, perché la Bolla non poteva accettare la loro magia, che gli è stata rispedita contro… defective (cosa significa essere un defective? significa che la magia è difettosa, avranno più difficoltà ad usarla, e li controllerà più di quanto la controllino loro).

    Per precisione/trasparenza vorrei sapere se esiste l'idea di dare linee guida più specifiche a riguardo o anche solo una notazione in più qui in FAQ. Perché ogni Potere Special ha il suo concept e i suoi funzionamenti, quindi magari avete delle idee particolari su come le categorie di Poteri o i singoli Poteri proprio possano reagire a questa nuova condizione di instabilità? O preferite, per comodità eccetera, lasciare queste cose alla fantasia dei player?
    Non picchiatemi, sono delicata.
  14. .
    CITAZIONE
    Aveva un nodo allo stomaco che si continuava a contorcere di continuo, forse la somma consapevolezza che tutto quello che aveva detto, un giorno, non avrebbe avuto senso neanche per lui: una favola, una brutta favola, forse più un incubo che però gli aveva lasciato in "dono" una serie di brutte cicatrici psichiche e magiche che non si sarebbero mai e poi mai rimarginate. Forse sopportabili, se la fortuna fosse stata dalla loro ma gli utlimi due anni avevano ampiamente dimostrato che la Dea Bendata era più una camminatrice di strada a basso costo che applicava forti sconti alle comitive e probabilmente Lancaster e gli altri due suoi compagni erano la sua comitiva preferita.
    A loro applicava direttamente prestazioni gratuite.

    — John Ming-Yue Campbell
10427 replies since 12/12/2011
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