Votes given by sort(a) of motherfika

  1. .
    my zodiac? i'm a dumbass. moon in dramatic bitch.
    Che lo avesse detto tanto per dire qualcosa, incapace come al solito di starsene zitto, o perché l’avesse davvero (inconsciamente o meno) atteso, era impossibile dirlo: nelle parole di Elias era sempre possibile leggere tutto e il contrario di tutto, spesso nello stesso esatto momento.
    Lui stesso non si sarebbe stupito di uno o dell’altro esito, fin troppo abituato al fare (o dire) qualcosa solo perché. Se proprio, lo considerava parte del suo fascino.
    Fatto sta, qualunque fosse il motivo, rimase ancora un po’ con lo sguardo perso ad osservare il palazzo del ministero, prima di spostarlo lentamente sul ragazzetto che gli si era avvicinato. Lo studiò, lo guardò per bene e lo vide, che era più di quanto potessero dire di fare gli altri. Trovò quantomeno divertente il fatto di ritrovarsi faccia a faccia con le stesse costellazioni di efelidi che aveva già incontrato pochi giorni prima, su quel vagone della metro destinato a deragliare e a portare con sé confusione in più di un modo diverso. Lo trovò abbastanza divertente che si permise persino di tirare le labbra in un sorriso compiaciuto, prima di togliere la sigaretta dal suo legittimo posto dietro l’orecchio, e portarla tra quelle stesse labbra ancora sorridenti.
    Destino.
    O mera casualità, certo, dipendeva dai punti di vita; lo special era propenso a credere ad entrambi.
    Quasi dal nulla, fece apparire un accendino fluo e accese il cilindro di tabacco, riempiendo i polmoni e spuntando via il fumo dopo averlo trattenuto per un attimo in più del necessario, solo per sentire la fatica tornare come una vecchia amica, giusto per non rischiare di credere di essersi immaginato tutto — polmone perforato eccetera eccetera; poco ma sicuro, una conseguenza peculiare per un incidente in metro, specialmente quando nessuno aveva trovato alcuna giustificazione per quello che sembrava un foro di proiettile più che il buco lasciato da un palo, o dei detriti. Ma sapete cosa? Non la più strana ed inspiegabile delle sue ferite, perciò non ci faceva nemmeno caso.
    Era già andato oltre, gli piaceva solo riconoscere la familiare scarica di eccitazione mista a dolore nel provocarsi volontariamente quelle fitte, tutto qui.
    Alla prima domanda del biondino, non rispose.
    Si conoscevano?
    Difficile dirlo, quasi impossibile: Elias conosceva un sacco di gente e al contempo nessuno. E, nello stesso modo, in molti potevano dire di averlo visto ma nessuno mai ricordava di averlo fatto; anche quello era parte del suo fascino, nonché un punto cruciale per la sua professione.
    Si limitò ad aspirare altro fumo, riempire i polmoni di quel sostituto d’ossigeno di cui non poteva più fare a meno, e distogliere lo sguardo dal giovane solo per un attimo.
    Poteva dirgli di ricordare il suo come uno dei pochi messi a fuoco subito dopo la visione e subito prima dell’inevitabile impatto, ma non lo fece; dava spesso retta al suo sesto senso, il danese, e in quel caso gli stava sussurrando con prepotenza che non fosse necessario sottolineare quella parte. Che avesse lo stesso sapore dolceamaro di una menzogna, ma non di quelle che raccontava per lavoro; più vicina e familiare a quelle che raccontava a se stesso per andare avanti.
    (A tutte quelle che lui e Miks avevano usato come giustificazione nel corso degli anni.)
    Dirgli che ricordasse perfettamente che forma potesse disegnare unendo ogni singola efelide a macchiare la pelle candida del viso, aveva altrettanto poco senso — ed era, proprio per questo, la parte preferita di tutta quella storia. Impossibile, inspiegabile!, e maledettamente perfetta.
    «hai un'aria piuttosto familiare»
    Fumò ancora, accentuando il sorriso stretto intorno al filtro: dicevano di lui. Non abbassò lo sguardo verso quello che avrebbe dovuto essere uno sconosciuto e che allo stesso tempo, sfidando ogni logica, aveva tutta l’aria di qualcuno a cui Elias avrebbe certamente lasciato la possibilità di aiutarlo nel momento del bisogno — mah!; si limitò a rivolgergli un’occhiata di sbieco, da sopra le lenti scure degli occhiali, soppesando quel «hai per caso un fratello minore?»
    «oh, sì!» era emozionato all’idea di parlarne, non capitava mai! I suoi fratellini…! «ne ho svariati, a dire la verità. tutti figli dello stesso papà, ma abbiamo mamme diverse!» davvero una famiglia… peculiare, quella lì; e non avrebbe nemmeno iniziato a parlare del resto del Clan! O sarebbero stati lì per giorni. «ho tre fratelli, e due sorelle! beh, tre in realtà,» fece un vago cenno con la mano, senza stare a spiegare che con Joyce non ci fosse alcun legame di sangue, e che fosse comunque la sua preferita; chi fosse il maggiore e chi il minore, poi, a quel punto, era solo questione di dettagli e non interessava a nessuno — specialmente, poi, quando con il cambio di linea temporale quell’ordine lì era stato mescolato e distribuito alla rinfusa. «ho un fratello gemello!» aggiunse, quasi come un’ulteriore riflessione, ricordandosi che Mikkel fosse più di un fratello; una parte quasi speculare della sua stessa anima.
    Solo a quel punto, sporgendosi lateralmente verso il biondo e abbassando il tono di voce, lo informò che «io sono più carino, però» ed era vero, nail polish emoji e tutto il resto.
    Così preso dal rievocare cene di famiglia che Elias non ricordava, appartenute ad un’altra vita e ad un altro tempo, che quasi aveva dimenticato il punto della questione. Al suo compagno di chiacchiere, rivolse dunque un’espressione accigliata e un po’ confusa, sopracciglia platino ad aggrottarsi e il fumo della sigaretta a lasciare le labbra mentre formulava una domanda. «dicevamo?» Non era mai stato troppo bravo a seguire i flussi — di pensiero, di conversazione, del tempo. Viveva da sempre (e per sempre) su un piano tutto suo. Un piano astrale, metafisico, intangibile.
    Guardò intensamente il ragazzino, osservandolo come se lo vedesse in quel preciso istante per la prima volta. Ed esclamò, occhi sbarrati e tutto il resto: «sai che hai proprio un’aria familiare?!» Non lo faceva nemmeno di proposito ad essere cosi… così. Gli veniva naturale.
    «disegni?» come se quella potesse essere la via più naturale per proseguire quella conversazione, lo special indicò il quaderno stretto tra le braccia dell’altro, fin troppa curiosità a palesarsi sui lineamenti ancora giovani, nonostante l’età. Sollevò le sopracciglia, sempre più intrigato e felice di aver atteso ed essersi fidato dell’istinto misto al desiderio di non presentarsi al lavoro, quel giorno. «posso vedere?» Una domanda perfettamente innocente da fare, certo; e per niente invasiva, o assurda, se rivolta ad un completo sconosciuto.
    Una cosa così da Elias che solo chi non lo conosceva affatto l’avrebbe trovata strana.
    O fuori luogo.
    elias
    raikkonen

    'source'?
    bro, divine intuition.
    drama queen
    “loves acting in a melodramatic way”
    special born
    clairvoyance
    the messiah — 1991, danish, pavor spyIn the end, the choice was clear:
    take a shot in the face of fear.
    Fist up in the firing line.
    Times are changing.
    walk on water
    thirty seconds to mars
    moonmaiden, guide us
  2. .
    If you can't handle me at my worst, same! But at least you get to leave.
    Che non ci fosse più tempo, Hans lo aveva capito da un po’.
    Che non ne avessero mai avuto affatto, lo aveva sempre saputo; che fosse solo il suo (pragmatismo) pessimismo, quello a spingerlo a cedere a quella verità, o una vera cosapevolezza a bruciare nel petto e a premere contro la gabbia toracica, non faceva differenza; l’aveva saputo, e non l'aveva condiviso con nessuno, perché non era un problema suo se gli altri non fossero giunti alla sua stessa (o a nessuna) conclusione.
    (Se poteva evitare a Taichi quell’informazione, anche solo per un’altra manciata di minuti, lo avrebbe fatto; che lo odiasse pure per non aver condiviso con lui quanto teorizzato, era davvero l’ultimo dei problemi di Hans, e il meteorologo poteva mettersi in fila e attendere il suo turno per gli insulti.)
    Quando anche l’ultimo blob era caduto, Hans lo aveva saputo.
    Quando la barriera era sparita, come se non fosse mai stata lì, e aveva lasciato intravedere gli altri (sacrificisacrificisacrifici) compagni, Hans lo aveva saputo.
    Quando la piattaforma aveva iniziato a muoversi, e quando avevano raggiunto gli ostaggi, Hans lo aveva saputo.
    Quando Mac era corso incontro a lui e a Taichi, quando l’aveva abbracciato inchiodandolo sul posto con le braccia lungo il corpo e la schiena rigida, incapace di ricambiare quel gesto, e quando le iridi ghiaccio avevano fallito a trovare la figura di Twat, Hans lo aveva saputo.
    Lo aveva sempre fatto, era la condanna di avere una mente fin troppo acuta nascosta dietro uno sguardo (non solo) in apparenza impassibile.
    Non c’era più tempo.
    Ma quel poco che gli era stato concesso, se lo erano presi. Tutto, fino all’ultimo secondo. Avevano trovato le persone che due mesi prima gli erano state strappate via — amici, fratelli, qualcosa di più e, perché no, anche qualcosa di meno; erano lì, stanchi, emaciati ma sollevati. Erano vivi. Erano reali. Non erano più solo una voce nascosta dietro le pareti, o un ricordo ancora vivido nella mente che li aveva spinti fino a lì.
    Avevano trovato la via per uscire da quel labirinto di corridoi e stanze, e avevano trovato la strada per ricongiungersi con gli altri; che qualcuno avesse voluto che la trovassero, quella strada, era solo un problema marginale per l’empatico. Se nessuno voleva sottolineare quell’ovvietà, non sarebbe stato di certo lui a farlo — non quando il suo unico pensiero era portare Mac via di lì, e dove cazzo sei Twat, e trascinare Taichi il più lontano possibile da quella che, fino a pochi minuti prima, il Belby aveva seriamente temuto finisse con il diventare la loro tomba. Il pensiero che qualcuno li stesse guidando, mano invisibile a trascinarli fuori da lì, era davvero, ma davvero!, l’ultimo dei problemi.
    Avrebbe dovuto pensarci due volte.
    E saperlo, che una fregatura c’era.
    C’era sempre.
    Ma non gli interessava, non gli interessava, non gli fottutamente interessava; perché erano fuori, erano salvi (lo erano davvero?), e — Twat. In piedi, una divisa addosso che Hans aveva visto indossare solo a quelli che, per due giorni interi, aveva classificato come nemici; gli dava le spalle, e forse era meglio così, perché se lo avesse visto in quel preciso momento, l’ennesimo coltellino dell’emocineta sarebbe finito direttamente tra gli occhi del Belby, lo sapeva.
    (Sapeva davvero un fottio di cose, Hans Belby; e nessuno sospettava mai nulla.)
    Da una parte, però, sperava che l’amico si voltasse, che lo colpisse, che gli facesse capire di essere vero e non un’allucinazione; Hans aveva ancora difficoltà a credere che stretto a lui, battito del cuore frenetico e tutto quanto, ci fosse davvero Mckenzie, non poteva semplicemente farsi bastare la presenza di Twat a pochi metri e darla per buono. Aveva—
    Battè le palpebre stanche, rese appiccicose dal sangue e dal sudore e dai residui di golem ancora appiccicati alla pelle. Battè le palpebre e cercò Mac, occhi leggermente distanti e voce bassa. «l’ho solo presa in prestito» disse distrattamente all’Hale, restituendogli la mazza com’era giusto che facesse. Era sempre stata un prestito da restituire; e in quel momento lo colse la cosapevolezza che— ci siamo; questo è il momento dei saluti. Pur senza aver dato peso alle parole di Lancaster, senza sapere assolutamente nulla di una fazione o dell’altra, Hans aveva deciso. E così anche Mac. Non riusciva a lasciarlo andare via; arrivare fin lì solo per perderlo di nuovo.
    Perché andare via?
    Perché rimanere?
    Perché—
    Alla fine, fu solo un attimo: gli occhi a lasciare solo un attimo il viso di Mac, per cercare istintivamente la figura del norvegese ancora al centro del campo di battaglia, e a trovare quelli freddi e impassibili di Twat, anziché la nuca bionda come aveva (sperato) immaginato. Non aveva nemmeno le forze per dirgli… cosa, che gli dispiacesse? Che non se ne pentiva? Che l’avrebbe rifatto altre dieci volte pur avendo letteralmente zero competenze? No, fanculo Twat, non si sarebbe scusato.
    Poi la sensazione di perdere nuovamente tutto, la stessa che aveva provato nella stanza insieme al golem, quando il Mai Nato aveva spento qualcosa (tutto) in lui; il silenzio, l’assenza di dolore, il vuoto. E l’istante dopo un dolore così improvviso e lancinante che quando finì, quando tutto si fece nuovamente buio (per l’ultima volta?) Hans ringrazio, e si lasciò andare.


    Col senno di poi, sarebbe stato meglio rimanere sulla radura ed essere lasciato indietro da tutto — dai pro, dai contro, dalla bolla, dal tempo.
    E invece il conto delle volte che si era ritrovato tu-per-tu con la morte e ne era uscito per poterlo raccontare, era salito a sei e Hans era ancora lì, che respirava. Non si sarebbe azzardato a dire che fosse vivo e vegeto, infondo non lo era mai stato, ma non era… mh, beh non era rimasto morto, ecco. Era abbastanza certo di aver smesso di respirare (di nuovo!) per chissà quanto tempo, o così gli avevano detto al suo risveglio; lo avevano salvato, perché lui, e gli altri quindici sfigati che come l’empatico avevano combattuto il golem, avevano salvato la Bolla. Sì beh, anche sti cazzi, non lo aveva fatto per loro, lo aveva fatto per Mac e Twat.
    Dov’erano?
    Dove— «venite, devo farvi conoscere una persona.»
    Un. Fottuto. Scherzo.
    Non poteva essere altrimenti, no?
    Hey Mac, look; guarda chi è tornato.
    Non lo aveva mai visto in faccia quell’Asdrubale lì, il Belby, ma non gli serviva riconoscere il viso di quell’entità per sapere che fosse la stessa che un anno e mezzo prima aveva rispedito indietro lui e l’Hale, dopo averli chiamati a Tottington (DI NUOVO!!) senza il loro consenso.
    Odiava che la sua presenza lì lo facesse sentire… così tranquillo. Sereno. Con un senso di appartenenza che non poteva e non voleva spiegare, alieno nel cuore e allo stesso tempo giusto. Di quella storia raccontata da Michael, l’empatico ascoltò solo qualche parte: l’aveva già sentita, e pur non avendola ricordata quasi affatto fino a quel momento, d’improvviso gli tornò in mente tutta insieme, dal primo sparo di quell’imbecille di Harrison alla faglia che li aveva risucchiati e all’incantesimo meschino di Mac per trascinarlo da Barbie. Tutto.
    «le mie capacità sono limitate su questo piano,»
    Immaginava, dunque, che fosse ancora incatenato all’altro reame, quello dove continuava a trascinare persone a caso solo per avere un po’ di compagnia; ugh, odiava che anziché detestarlo per quello, riuscisse quasi a comprenderlo. A mettersi nei suoi panni, e a trovare in sé la forza di perdonarlo. Capirlo.
    Non riuscì ad odiarlo nemmeno quando spiegò loro (Tai, Corvina, Amaranth, Kul, un perfetto sconosciuto e lui) degli effetti collaterali di quello che, ah! lo aveva sempre saputo, a conti fatti era stato il loro sacrificio. Una magia impura la loro, inutile e necessaria solo per bilanciare qualcosa come tutto in natura doveva essere; una magia di cui la Bolla non sapeva che farsene, e che gli era stata rispedita indietro in maniera diversa da come l’aveva rubata in origine.
    Difettosa.
    Stupidamente, perché certe volte Hans aveva bisogno di esserlo per poter sopravvivere, l’empatico credette intendesse in una maniera molto semplice e banale: ogni tanto funzionerà, ogni tanto no. Tottington docet! Non poteva pensare alle ramificazioni di quella parola, difettosa, non in quel momento. E possibilmente mai.
    Guardò istintivamente in direzione di Taichi, pallido come un cencio e in condizioni pietose, e pensò che nemmeno lui doveva avere una bellissima cera: non con le spalle sempre più curve, il fisico magro, il viso smunto, e l’ustione che ancora fresca a deturpare il volto (avrebbero fatto qualcosa più avanti, gli avevano detto, perché prima avevano avuto altre priorità — quelle di evitare che il loro gioco del cazzo lo facesse morire, immaginava. Va beh, poteva sopportare uno sfregio sul viso, non si guardava comunque abbastanza allo specchio da sentirsi diverso. Ma tanto c’era già la luce diversa nello sguardo, a fregarlo).
    Guardò Taichi, e pensò che quella volta l’avevano combinata davvero grossa, e che persino Nah avrebbe avuto difficoltà a perdonarli.
    «a tal proposito… ci sono delle ultime cose di cui rendervi partecipi. chi è all’interno della bolla, così come la bolla stessa, è stato cancellato dalla memoria collettiva: non esiste più. chiamatelo oblivion se preferite, ma è una versione… diversa.»
    O… o magari no.
    Non sapeva se fosse una benedizione o meno, quella lì; sapeva solo che da una parte era sollevato di sapere che fuori da lì, nessuno lo ricordasse. Dominic e Joey e Narah e Bri e Mac e Joni e quelle altre poche anime che avevano avuto la sfortuna di incrociare il suo cammino si meritavano un po’ di pace; li aveva fatti preoccupare già abbastanza. Poteva cacciare Twat a calci e rimuovere quel fardello anche dalle sue spalle? Chiedeva; era un’opzione che valeva la pena prendere in considerazione. Gli rimaneva solo Taichi, e che non sarebbe rimasto lo sapeva; magra consolazione il fatto che anche lui l’avrebbe dimenticato, quando doveva comunque portarsi addosso il peso di tutto il resto.
    «non sarà facile rimanere lì fuori, voglio essere del tutto onesto con voi.» Fottuta onestà; Hans Belby non era mai stato capace di vivere senza e al contempo accettare la propria.
    Quando, allontanandosi dall’aula dopo il discorso di Michael, Hans fermò il Lìmore per un ultimo (forse l’ultimo per sempre) saluto, gli disse solo «non farlo. non tornare qui.» se davvero aveva la possibilità di dimenticare, di ridurre tutta quell’esperienza a delle stupide voci nella sua testa e qualche incubo, che lo facesse; non sarebbe stato il primo al mondo, né la prima volta. «cerca–» cosa? non era mai stato bravo con le parole, o con i saluti, o con le persone in generale. Persino (soprattutto) con quelli che reputava amici. Il migliore, se proprio. «va’ avanti, Tai. lasciatelo alle spalle.» ingenuamente, stupidamente, Hans Belby ci credeva davvero a quelle parole. «salutami–» mh, nessuno immaginava, perché nessuno si sarebbe ricordato di lui. Nessuno, tranne gli animali; in quell ci credeva. «pentacolo, e orion» ancora non ci credeva che gli avessero impedito di uscire per prendere il dannato cane. Era offesissimo.
    (Twat l’aveva presa molto peggio di lui.)
    Aveva messo le mani in tasca, poi, affondate lì perché non sapeva cos'altro farci e di certo non le avrebbe strette intorno alla figura allampanata del cinese, e aveva guardato Fake stringere le spalle del cugino e tirarlo via, ma non aveva aperto bocca, Hans, quando anche l’ultimo dei lost kids se n’era andato.


    Non se ne era reso conto subito, convinto che l’intermittenza e il continuo alternarsi di momenti troppo vuoti a momenti troppo… troppo, fosse solo la conseguenza di quell’improvviso e radicale cambiamento, la consapevolezza di dover iniziare una nuova vita, e il continuo brusio in sottofondo che da giorni (da quando aveva riaperto gli occhi) non lo lasciava in pace. Eppure avrebbe dovuto saperlo, perché Michael era stato chiaro ed onesto con loro: i poteri avrebbero dato dei problemi. Ma con tutto quello che stava succedendo, ogni tanto Hans dimenticava di ricordare quel particolare. Poteva convincersi ancora un po’ di essere solo stanco, prima di accettare il fatto che fosse rotto.
    Si rifugiava nei momenti di calma piatta, di totale assenza, perché facevano da cuscinetto quando quelli più intrusivi e sfiancanti tornavano a bussare; in quei momenti era impossibile, per lui, stare in mezzo alla gente. Che fosse la mensa, i giardini, o addirittura le stanze del Lotus, richiedeva davvero uno sforzo immane per l’empatico rimanere concentrato e non lasciarsi sopraffare da quella tempesta emotiva che si abbatteva contro di lui; dopo aver perso il controllo più volte di quante fosse disposto ad accettare (due. Ed erano due di troppo), aveva deciso che per affrontare quei momenti c’era un’unica soluzione: l’auto-isolamento. E per sua fortuna era un pro, ormai, in quello. Anni e anni e anni di allenamento alle spalle lo avevano reso un campione nello sfuggire e non farsi più trovare.
    Aveva solo dimenticato di tenere in considerazione una variabile, nell'equazione.
    «tranquillo, è tranquillo»
    Non aveva nemmeno bisogno di chiedersi come facesse, il Vibe, a trovarlo sempre; c’era l’opzione più ingenua (quella che sottolineava un certo interesse da parte del maggiore a sincerarsi sempre delle condizioni di Hans), quella realistica (il fatto che fosse effettivamente un predatore e conoscesse la sua scia perfettamente) e quella preoccupante (che fosse, alla fine dei fatti, davvero uno stalker).
    E poi c’era quella che le mischiava un po’ tutte e tre.
    «ma agli squali ci hai pensato?»
    No, aveva pensato solo a quale fosse il luogo più tranquillo e remoto possibile, dove attendere con trepidante attesa che il momento passasse per riuscire finalmente a concentrarsi di nuovo sui propri pensieri. C’era riuscito? Boh, sembrava e sperava di sì; l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la presenza di Check in uno dei suoi momenti peggiori. Non si fidava più di se stesso.
    Mai fatto, in effetti, ma perlomeno era sempre stato bravo a fingere il contrario, vuoi grazie al muro di impassibilità della droga, vuoi per il fatto che a chiudere a chiave tutto quanto fosse sempre stato una delle sue abilità più grandi.
    Ora come ora, non ne era più certo.
    «sono quasi sicuro li abbiano tolti. servivano solo come ostacolo. ora non ce n’è più bisogno.» la Bolla era al sicuro, loro erano al sicuro. Lui…? Un po’ meno, forse. Ma chi ci pensava più.
    Strinse le ginocchia al petto, e le braccia contro le ginocchia, poggiando la guancia in modo da osservare Check lateralmente, e mostrando solo la metà di viso non sfigurata.
    «perchè sei rimasto, hans»
    Se lo chiedeva dal primo giorno, da quando aveva capito che per rimanere lì avrebbe dovuto salutare quelle poche persone che gli erano rimaste, e che erano fuori — e si chiedeva anche se avesse fatto la scelta giusta. Poi si ricordava di aver ceduto una parte di se stesso (o forse tutto) per quella cazzo di Bolla, e che Twat fosse lì dentro, e si domandava come avrebbe mai potuto pensare di uscire e vivere con il costante presentimento di aver dimenticato qualcosa, un pezzo di sé, qualcosa di terribilmente importante. Preferiva stare lì, e ricordare, piuttosto che uscire e credersi di nuovo pazzo. Aveva vissuto con i ricordi di Tottington a tormentarlo per anni, con il peso sul cuore di chi sapeva di aver vissuto qualcosa che non poteva fottutamente essere vera, e non voleva che la Bolla lo portasse nuovamente ad essere uno zombie di ricordi confusi, legato ad una corda invisibile che tirava verso l’ignoto.
    Non sapeva cosa dirgli, e non era mai stato un fan delle menzogne; preferiva piuttosto il silenzio. Non gli avrebbe chiesto perché fosse rimasto anche lui: Mood era lì, ed era tutto ciò che Hans doveva sapere per comprendere la scelta di Check.
    Che poi, in effetti, anche l'empatico ce l’aveva una motivazione, in realtà; una risposta che cercava da sempre, e che nessuno gli aveva mai dato. O, perlomeno, non gli avevano mai dato la risposta che cercasse. Sperava che, se davvero il potere che scorreva nelle sue vene nasceva dalla stessa matrice di quello di Seth, fermando lui avrebbero anche trovato il modo di far sparire per sempre dal suo sistema anche quella condanna; credeva nella scienza.
    Puff, cancellato. Spazzato via. Non la voleva più, la magia. Mai voluta.
    A Check non lo disse, però.
    Disse solo, un bisbiglio appena accennato che rivolse alla superficie del lago, quando distolse lo sguardo, «non aveva senso non farlo» almeno quella non era una menzogna; rimanere, o andarsene, avevano quasi lo stesso peso sulla bilancia, in quel frangente.
    E con tutto quello a cui avrebbe avuto da pensare da lì a lungo termine, dubitava avrebbe trovato anche il tempo per sentire la mancanza del fuori, o rimpiangere quella scelta. Di tutte le cose fatte nelle ultime settimane di cui avrebbe potuto pentirsi, scegliere di rimanere era davvero l'ultima della lista.
    Rivolse un altro sguardo veloce al maggiore, ancora in piedi e a debita distanza, e se da una parte era grato per quella parvenza di privacy concessa, dall'altra non riusciva a non pensare a quel momento condiviso con Check sulla barca dei pirati della bolla, e la confusione tornava prepotente a fare capolino in quel groviglio di emozioni (sue, non sue, chi le distingueva più) e rendeva molto più difficile rimanere razionale e distaccato.
    Solo rendendosi conto di aver indugiato con lo sguardo per un attimo di troppo sulla figura del Vibe, decise di tornare ad osservare lo specchio d'acqua di fronte a loro e pensare ad altro: aveva appena (appena!) ripreso controllo di sé, non poteva permettere alla presenza di Check di scombussolare tutto quanto.
    Avrebbe volentieri scelto il silenzio, se solo non avesse saputo per esperienza personale che fosse molto peggio; parlando di qualcosa, invece, poteva distrarsi e fingere di essere normale.
    (Ah!)
    Non senza una punta di sarcasmo, chiese «hai già scelto quale sarà il tuo ruolo nella società?» che era un po' l'equivalente nella Bolla del parlare di meteo, o delle ultime notizie in fatto di economia, sport, politica; l'organizzazione della comunità che stavano mettendo su era la priorità di tutti, ed era chiaro che ciascuno di loro avrebbe dovuto prendere il proprio posto e fare qualcosa per contribuire e per aiutare.
    Hans non aveva idea di quale fosse il suo, preferiva non scoprirlo e rimanere sulle sponde di quel lago il più a lungo possibile.
    hans
    belby

    he was pointing at the moon,
    but I was looking at his hand
    immolation
    “to sacrifice; to destroy by fire.”
    special born
    empathy
    the martyr — 2004, defective, chosenhead fuck, won't go;
    so tired of being tired, you know?
    I wish I could make it easy, oh
    (I'm still a broken machine, babe)
    keeping you around
    nothing but thieves
    moonmaiden, guide us
  3. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    irish
    slut
    un-holy
    aidan kenneth gallagher-lestrange
    Strizzò le palpebre, combattendo attivamente contro una sensazione che era certo di saper controllare. Che aveva controllato innumerevoli volte, e se non era l’ennesima punizione, quella di sentirsi così lontano da corpo e mente da riuscire solo a vagare tra i contorni sbiaditi della voce di Arci. Ansimante e rotto oltre ogni limite; li percepiva, i polmoni che faticavano a stare al passo con l’aria che cercava disperatamente di accogliere e sputare fuori. La nausea, il dolore che s’insidiava con prepotenza tra le tempie. Quella strana contrazione al petto, a stringere e stringere e stringere.
    Boccheggiò, e alla fine si concesse di focalizzare le iridi chiare su Archibald. Il peggior errore e un miracolo al contempo: non era ancora pronto a vedere tutte quelle emozioni scivolare sul suo volto — non era certo lo sarebbe mai stato. Avrebbe voluto odiarlo. Era stato così facile, a Bodie, tradurre l’energia statica in qualcosa di più semplice da maneggiare. Scansarlo e scansarsi, e ridurre quel contatto genuino che non sapeva come trattenere senza sentirsi esposto in qualcosa di più crudo. Ma non ricordava più come si facesse. Schiarì la vista dalle lacrime ancora raccolte tra le ciglia, e lo guardò, e permise di essere visto. Rimosse i guanti con dita tremanti, e strinse un palmo freddo sul braccio di Arci, l’altro a cercare il dorso della sua mano. Una preghiera silenziosa: non lasciarmi andare. Non era certo che sarebbe stato in grado di tenersi in piedi da solo, altrimenti.
    «Risolveremo tutto. Ci siamo dentro insieme»
    Spinse la fronte contro la sua. Debole, finché non fu troppo da sopportare; e allora scivolò giù, nascondendo il volto fra spalla e collo e infondendo i sensi con il profumo della sua pelle. Uno spazio comodo e protetto dove poter ricominciare; casa, ancora una volta. Nonostante ogni parte di Aidan fosse stata strappata e ricucita in tutti i posti sbagliati, quello non era cambiato.
    Non ci credeva, ovviamente. Non potevano risolvere niente; di certo non potevano farlo insieme. Quella era una croce tutta speciale che doveva trascinarsi dietro da solo.
    Nel bene e nel male.
    Lasciò la presa sulla sua mano così da potergli premere i polpastrelli contro il petto, in cerca di un battito gemello che lo cullasse.
    «non sai di cosa parli.» e come avrebbe potuto, d’altronde. Non c’era in quello stomaco di pietra. E quella, privatamente, la riteneva una fortuna. Il suo unico premio; sapeva che li avrebbe persi entrambi, in caso contrario.
    Si sistemò meglio tra le sue braccia, accucciandosi come un felino per rubare tutto il calore che di suo non era in grado di produrre. Gelido fino alle ossa dal momento in cui la lama aveva toccato il suo polso. «crederai che io sia pazzo.»
    E si rese conto del suo sbaglio solo dopo aver pronunciato quelle parole. Quanto sarebbe stato facile scansare la questione con una bugia; premere le labbra contro le sue clavicole e mormorare tutte le frasi giuste. Ho avuto paura, pensavo sarei morto in quella stazione, ho solo bisogno di sentirti vicino, portami a letto. Ma a quale scopo? Il suo passo falso lo aveva fatto nel momento stesso in cui era crollato davanti ad Arci. Un pensiero che in momenti come quelli lo terrorizzavano più di ogni altra cosa: lo conosceva troppo bene. Non c’era angolo o curva che il Leroy-Baudelaire non avesse catalogato e accolto. Quasi un’estensione di se stesso — un gioco nullificato dalla rapidità con cui i suoi occhi scuri avevano cercato chiavi d’appiglio, e trovato delle risposte. Nessuna via di fuga.
    «un mostro.» ma era forse così sbagliato? Avevano entrambi fatto una scelta. Ci aveva provato. Voleva vivere, Aidan. Recuperare ciò che gli era stato strappato via una volta di troppo — voleva Archibald. Stringere qualcosa senza che questa si sgretolasse tra le sue mani. Ora che finalmente aveva un motivo per cui tornare e rimanere.
    Corrugò la fronte, e lo guardò di nuovo. «cosa vedi?» raddrizzò la schiena; poi si allontanò il giusto necessario da poter stringere le mani nelle sue, trascinandole nello spazio a dividerli come l’arma di un crimine. «cosa senti?»
    Una richiesta chiara, la sua. Difficile e crudele, ma necessaria. Ignorò la voce spezzata, e con un gesto secco spinse via l’ennesima lacrima, prima di racchiudere nuovamente il palmo attorno alle sue dita. «concentrati. cos’è rimasto?» anche se la risposta, ormai, già la conosceva.
    Who made you like this? Who encrypted your dark gospel in body language?
    Synapses snap back in blissful anguish
    Tell me you met me in past lives, past life
    Past what might be eating me from the inside, darling
    Half algorithm, half deity, Glitches in the code or gaps in a strange dream
    Tell me you guessed my future and it mapped onto your fantasy
  4. .
    Burn the pain, burn the lies, Burn the fear inside myself. And burn it all again, It's the right time to Escape this cage
    check vibe non doveva elaborare un cazzo, perché non c'era un cazzo da elaborare.
    si poteva dire che un momento così, un occasione come quella!, l'avesse aspettato per tutta la vita — due, a essere sinceri. c'era stato un tempo, uno più semplice, in cui il giovanissimo ché avrebbe trovato affascinante tutto quello: una piccola comunità che cercava di ripartire da zero, ogni singolo individuo pronto a fare la sua parte, un piccolo sacrificio per evitare un male insopportabile. i confini, nella mente corrotta del cheemy, si erano confusi in fretta.
    le linee, inizialmente ben visibili e definite, avevano sbavato il loro inchiostro trasformandosi in un disegno caotico e distruttivo, una macchia dopo l'altra a fondersi con la carta. convinto, nonostante tutto e fino all'ultimo istante, di aver venduto anima e innocenza per qualcosa che era senza sugli più grande: di lui, di loro.
    i piani del vibe erano decisamente più modesti.
    preferiva mantenersi umile pensando a se stesso, piuttosto che ad un bene superiore pronto a chiedere in cambio la sua libbra di carne. e tra dentro o fuori, era convinto avrebbe fatto poca differenza; non si lasciava indietro nulla, check. tranne forse un peso, quello che aveva gravato sul torace magro di un bambino facendo scricchiolare le costole e sulle spalle di un adulto artigliando pelle e carne — per la prima volta da quando ne aveva memoria, la voce lo aveva lasciato solo. era bastato un passo, e quando le onde concentriche di quella magia sconosciuta avevano travolto tutto e tutti, anche quei sussurri di fiele si erano dissolti.
    il suo personale torna a casa, ché.
    nel mondo esterno, quello che non gli apparteneva più, aveva lasciato soltanto delle briciole; così poco di se stesso, che le persone alle quali teneva se l'era ritrovate tutte al proprio fianco. buffo, a volerci trovare qualcosa da ridere, e più difficile capire cosa lo fosse di più: che fossero solo due, un'intera vita ridotta a suo fratello «pidocchio—» «lo so»
    e ad hans belby
    «non credevo potesse importarti.»
    «non volevo che buttassi via la tua vita, l'hai dimenticato?»
    o il fatto che per check fossero gia troppe.
    non aveva lasciato alcuno spazio a hold e justin perché potessero riempirlo, e alla fine il tempo gli aveva dato ragione: al cenno leggero di quella mano sollevata a mezz'aria, il vibe aveva risposto con la più totale indiffere nza, quasi non si aspettasse altro. non aveva nemmeno iniziato a considerarli parte della sua vita, ed erano già belli che andati.
    un problema in meno a cui pensare.
    aveva atteso un paio di giorni, persi ad esplorare la città sotto la bolla, un brulicante fermento di nuova vita nel quale ricominciare da zero; o dal punto stesso in cui aveva interrotto la propria. conscio, suo malgrado, di essere uno dei pochi a cui degli addii e delle conseguenze non poteva fregare una minchia di meno — aveva visto le lacrime, la disperazione, la consapevolezza farsi più nitida di secondo in secondo; il tradimento, l'odio e il rancore, l'accettazione in occhi lucidi e sguardi affranti.
    di tutto quello gli importava poco.
    le conseguenze per chi fosse rimasto a lottare nella bolla, sacrificio di sangue and all, gia un po di più..
    in fondo, quando finalmente aveva deciso di fare il primo passo, trovare hans non era stato difficile: sapeva come seguire gli spostamenti di qualcuno, check vibe, anche quando questo qualcuno avrebbe preferito scomparire dalla faccia della Terra.
    un bravo segugio, se così si può dire.
    la scelta del lago, d'altraparte, gli sembrava un pochino azzardata; nostalgica, quasi.
    «tranquillo, è tranquillo» non si sedette accanto al minore, rispettando il suo spazio. un paio di metri a distanziarli era quanto poteva concedergli, tutto considerato «ma agli squali ci hai pensato?» mantenne le iridi verde acqua rivolte alla superficie appena increspata, affondando le mani nelle tasche. il cielo, che sembrava stato dipinto con una tonalità di azzurro sbagliata (impercettibile, come la sensazione che dava guardarlo troppo a lungo: artificiale, falso quanto un sorriso di circostanza), mostrava già il profilo della luna, pallido e incompleto.
    aveva chiesto e gli era stato detto di non preoccuparsi.
    nel dubbio, check non lo faceva: se volevano studiare le reazioni di un licantropo durante la luna piena senza antilupo in circolo avevano solo che da chiedere.
    a quel punto piegò il capo, rivolgendo ad hans un'occhiata che non era di scuse, né tantomeno di compassione; qualunque cosa stesse passando il belby, check non aveva la pretesa di capirlo. poteva condividerlo, però — un cazzo di problema alla volta «perchè sei rimasto, hans» non era nemmeno una domanda, quasi un pensiero tra sé e sé lasciato rotolare sulle labbra con una studiata casualità. voleva sapere, voleva sempre sapere, ma non al punto da costringerlo ad aprire bocca per raccontarglielo.

    check
    vibe-bigh

    Burn the pain, burn the lies
    Burn the fear inside myself
    nobody smart
    plays fair
    MAGO
    WEREWOLF
    20 — halfblood — Focused. FlourishingReady to fight, ready to go
    That defines the world
    Second chances are gifted
    Just get one
    burn
    onlap
    moonmaiden, guide us
  5. .
    *still uses pinky promises as a legitimate foundation of trust*
    In un primo momento, Dylan non si era accorta del tonfo; quasi certamente era stato il rumore sordo a svegliarla del tutto, a riportarla al presente e a farle aprire gli occhi in quella stanza d’ospedale (era al San Mungo? Immaginava di sì. Kiel? Kiel, dove sei. Kiel.); ma col senno di poi, osservando il viso di Iris fare capolino oltre il letto, immaginò che , avrebbe dovuto rendersene conto prima.
    Le venne spontaneo sorridere alla biondina, quando si giustificò in fretta, salvo poi fare un veloce calcolo a mente e capire che no, Dylan non intendeva quello. Ma anche, in effetti: se fosse stata un po’ meno presa dai suoi vuoti di memoria e quella sensazione di angoscia e perdita che le attanagliava il petto, avrebbe certamente chiesto come prima cosa, alla grifondoro, che ci facesse a terra.
    E invece le venne da chiedere se fosse stato un attentato — perché non aveva altre spiegazioni da dare, o darsi, la Kane. E ormai era arrivata ad un punto nella sua vita in cui accettare l’idea di un attentato in pieno giorno era più facile che pensare di essere accidentalmente finita giù da un balcone mentre giocava con le sue amiche.
    «dici? non sono finita in ospedale per aver ingerito troppi funghetti?»
    Si strinse nelle spalle, non sapendo per certo quale motivo avesse portato la Roux in quell’ospedale; lei, dal canto suo, sapeva quasi al cento percento di non aver ingerito alcun funghetto, figuriamoci “troppi”. «e quindi hai ancora il vizio, eh» la rimbeccò, ma non troppo. Non era sua mamma, e non erano così tanto amiche da potersi permettere una ramanzina; e poi!! sarebbe stato molto ipocrita da parte di Dylan Kane, che di cose idiote nella vita ne aveva fatte davvero un sacco. Non aveva mai provato la droga, certo, ma non voleva dire che non avesse avuto le sue personalissime dipendenze, ecco. La sua droga. Solitamente erano le ship (emergenti o già consacrate dal dio delle otp, non importava: le seguiva tutte), ma non poteva giudicare Iris per i suoi, ecco.
    «ci è quasi caduta un'impalcatura addosso»
    «mh», si passò una mano sui capelli, trovandoli annodati e sporchi di… terra, e sangue? E sicuramente sudore, ew. «dici?» non era molto convinta, ma era anche vero che i suoi ricordi delle ultime… non sapeva dirlo, dodici ore? Ventiquattro?! Chissà, fossero confusi e sparpagliati come le biglie lasciate cadere in terra. «ricordo un’esplosione, nessuna impalcatura però.» magari si erano trovate nella parte opposta dello stesso disastro, chi poteva dirlo. «ti sei fatta molto male?» la osservò un attimo con apprensione, provando a mettersi seduta con la schiena poggiata contro i cuscini, e tirando la coperta fino al petto. «nell’incidente, dico. ma anche cadendo dal letto.» non si poteva mai sapere con Iris Roux.
    Poi le venne in mente di chiedere di Joni, e arricciò le labbra pensierosa alla risposta della minore.
    «appena ti sentirai meglio possiamo andare a cercarla, se vuoi !!»
    La voglia di cercare la sua migliore amica e costringerla ad accoglierla in un abbraccio era forte, ma aveva anche il bisogno incomprensibile di rimanere da sola, in quel momento. Scosse dunque la testa, piano, e già a quel movimento tutta la stanza iniziò a ballare God’s Menu intorno a lei. «meglio di no, per il momento. più tardi, magari…» lo sguardo le cadde di nuovo oltre la finestra, perdendosi per un attimo tra i palazzi che si intravedevano intorno all’ospedale. «adesso ho voglia di gelato.» annunciò di punto in bianco, senza contesto, riallacciandosi al primo commento farfugliato da Iris riguardo il “sentirsi scavata come una coppetta gelato”. «l’ansia mi mette fame.» Un po’ tutto le metteva fame, vero, ma soprattutto l’ansia.
    dylan
    kane

    kind heart, fierce mind,
    brave spirit
    phantom pain
    “it’s no longer there,
    but it still hurts”
    witch
    little broken-hearted girl
    the good — 2005, huntress, red furythey say bad things happen for a reason
    but no wise words gonna stop the bleedin'
    (&& what am I going to do when
    the best part of me was always you?)
    breakeven
    the script
    moonmaiden, guide us
  6. .
    sometimes i just agree with people so they can stop talking
    Ma che cazzo. Se Ryuzaki chiudeva gli occhi, gli ultimi due mesi gli parevano un fever dream, un universo alternativo dei bordi sfocati e intangibili. Ma non erano solo gli ultimi due mesi, no? Era dal suo soggiorno in Siberia che si sentiva così, le sue fondamenta scosse e collassate e riassemblate in una forma differente con cui aveva dovuto imparare a convivere. Ed eccome se l’aveva fatto, perché vaffanculo che l’avrebbe data vinta a degli anonimi camici bianchi, quando non aveva piegato il capo nemmeno davanti al suo capofamiglia. Vi era solo una persona per la quale avrebbe sempre ceduto, un soft spot che si era sviluppato negli anni fino a che era diventato innegabile e il suo tallone d’Achille. Secondo voi, perché altro avrebbe dovuto accettare di andare nel fottuto Bangladesh a costruire casa per i poveri se non dietro richiesta di Fake? Richiesta, più che altro una di quelle idee folli che ogni tanto entravano in testa al suo migliore amico, e non vi era modo di dissuaderlo. E dio, dio, cosa non avrebbe dato il Kageyama per vederlo felice, persino spaccarsi la schiena sotto al sole cocente del sud est asiatico. Ma non– non era stato lì tutto il tempo, vero? No, era dovuto tornare a casa per qualcosa. Poco importava, se i bambini e Fake erano felici, Ryu era felice. Dio santo, non sarebbe potuto essere più palese, a se stesso e a una prospettiva esterna, la debolezza che suscitava in lui il Cheena. Ed era lì, in quel momento, cristallino nello sguardo apprensivo e pesante che scrutava il viso provato di Fake «bel posto» si concesse un sorso del suo spritz, gli occhi a scivolare lungo la parete, e poi oltre le porte dove la proprietaria del bar stava tenendo banchetto con una donna dal pesante eyeliner e tacchi vertiginosi. Erano gli unici due dentro al locale, per qualche ragione. Se Ryuzaki non avesse knew better, avrebbe pensato che quel bar appartenesse a un qualche tipo di organizzazione criminale. «cos’è successo, fake?» lasciò tamburellare le dita sulla plastica del bicchiere, impronte lasciate sulla condensa del bicchiere anzi di premerle sul polso dell’ex grifondoro, un tocco di cui aveva bisogno per assicurarsi che Fake fosse lì. Vivo, davanti a lui. «un cazzo di attentato, davvero.» secca, la risata del Kageyama, incredula come lo era stato quando aveva sentito per la prima volta dell’incidente a Heathrow. Capitavano tutte a loro, uh? Forse avrebbero dovuto farsi vedere da qualcuno per controllare di non avere il malocchio. E andava bene, fino a che se la cavavano con ancora tutta la pelle sulla schiena, ma fino a quando li avrebbe assistiti la fortuna? Ryuzaki non poteva– non poteva farlo un’altra volta, quell’incertezza di non sapere in che condizioni versasse Fake. Essere rinchiuso in una cella frigida per mesi, con il calore del proprio corpo come unica compagnia.
    ryuzaki
    kageyama

    Getting it all for free
    Living a strung-out dream
    we are
    golden
    SPECIAL
    umbrakinesis
    2001 — former gryffindor — yakuzaI'm blinded by the neon lights
    Shining bright on the innocent
    Shibuya nights
    Burning brighter than the sun
    neon
    One Ok Rock
    moonmaiden, guide us
  7. .
    no pronouns: do not refer to me, ever

    I suoi saluti, Kyle, li aveva fatti.
    Pochi, perché non aveva così tante persone care all’interno della Bolla, e non le avrebbe perse quando, inevitabilmente, avessero scelto di voltare le spalle alla comunità e tornare al mondo fuori da lì.
    Ma li aveva fatti.
    Quelli che gli erano stati concessi, certo; se avesse potuto chiedere il permesso di farne altri, probabilmente si sarebbe smaterializzato a casa per prendere Hiro, e portarlo con sé; per salutare JD, e assicurargli che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarlo anche se non sembrava; avrebbe salutato Bye, forse addirittura scusandosi per essere l’ennesima persona che se ne andava. Avrebbe scritto una lettera ai Kang, e una diversa per sua sorella, e le avrebbe augurato buona fortuna ora che finalmente diventava lei il capo effettivo dell’azienda familiare.
    Ma non ce lo aveva quel tempo, e ad essere del tutto sinceri, non gli era pesato non averlo: chi lo conosceva, sapeva che fosse naturale così, che sparisse senza dire nulla, che lasciasse indietro solo meri ricordi di sé e progetti lasciati a metà. Sperava che JD ci si sarebbe divertito, con quei progetti; che lui e Zac avrebbero dato vita a ciò che Kyle aveva interrotto prima del tempo. Che i ribelli lo avrebbero perdonato per aver scelto un’altra via, una più pratica, una soluzione diversa.
    Aveva comunque salutato quei pochi che conosceva, Mis e Murphy ed Ethan e — uh, basta, probabilmente. Non c’erano così tante persone con cui avesse stretto legami, in quei due mesi; quei pochi con cui era successo, avevano deciso di fare la sua stessa scelta, poi.
    Con la testa china sui tavoli dell’officina, e la mente sempre impegnata a tenere il conto dei tentativi o a pensare a soluzioni per aggirare quello o quell’altro problema, anche nei momenti più conviviali, Kyle era stato solo di passaggio; mai un grande chiacchierone, mai troppo propenso a partecipare alle conversazioni, ai giochi, alla vita quotidiana.
    Quei pochi saluti che aveva concesso, erano stati più per educazione e perché, con quelle persone, aveva condiviso qualcosa; i ribelli, ed Ethan. Non lo conosceva così bene, ma da quando lo aveva visto la prima volta nella foresta, dopo essere letteralmente uscito a mani nude dal terreno umido, aveva sentito subito una connessione con l’altro coreano, che non aveva mai potuto spiegare a parole. La stessa che, da quando lo conosceva, lo legava a doppio filo a Kaz, pur senza averne necessariamente un motivo.
    Aveva salutato persino Troy, quando ce n’era stata l’opportunità.
    E poi aveva girato le spalle, raccolto le armi e offerto supporto ai compagni non in grado di reggersi sulle loro gambe. Aveva aiutato Kaz a prendersi cura di Clay, e aveva sistemato per loro qualche piccolo aggeggio robotico affinché potessero sentire un po’ meno il peso di quella scelta che li aveva, di fatto, tagliati via da tutto ciò che avevano conosciuto per diciassetta anni di vita.
    Non era bravo a dare supporto morale, a malapena riusciva in quello fisico, ma per i mini ribelli sentiva un’inclinazione particolare, diversa, più sincera.
    Più facile.
    Erano comunque quelli meno semplici da gestire, socialmente parlando, ma erano anche gli unici che non gli rompessero più di tanto le scatole quando voleva solo starsene per i fatti suoi e si rifiutava di partecipare attivamente al resto della vita comunitaria nella bolla.

    Che avesse passato più tempo nell’officina che nella propria stanza al Lotus, in quei due mesi, non era certo una nozione che avrebbe sconvolto i più; pensare che ne avrebbe passato ancora di più, di tempo, lì dentro, era quasi… beh, scontato.
    Sapere che non sapesse di quello o quell’altro locale adibito a punto di ritrovo o svago, sorprendeva ancora meno: Midnight Gate? Mai sentito nominare. Giardini botanici? Figuriamoci. Il Bottom? Anche no. Era già tanto che si ricordasse, quando capitava, di recarsi fino alla mensa per mangiare qualcosa — ecco, se proprio, della vita fuori dalla Bolla gli mancavano le app per la consegna a domicilio.
    Quello che succedeva nella Bolla, delle nuove installazioni, dei nuovi ospiti, eccetera eccetera eccetera, a Kyle importava poco. Il giusto. (Quindi sì, davvero poco.) Per esempio, non metteva il naso fuori dalla sua stanza-slash-nuovo ufficio da.. boh, tre giorni? Insomma, tutti quelli che i sacrifici avevano passato in convalescenza, lui li aveva passati chino sulle armi che avevano distribuito ai soldati e che avevano spillato sangue amico, e non solo. Era uscito solo per farsi la doccia, e mangiare qualcosa; per il resto, il tempo era trascorso tra una sistemazione e l’altra, sempre troppi cacciaviti stretti tra le dita, tra i denti, ficcati dietro le orecchie.
    Così tanto abituato all’andirivieni della gente che entrava nella stanza, gli parlava, non riceveva risposta, se ne andava, che non ci fece neppure caso quando la porta si aprì per l'ennesima volta, facendo entrare l’ennesima persona che, dopo essersi scontrata con il muro di silenzio di un Kyle assorto in cose ben più importanti, avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe andata.
    Giusto?
    Hhhh.
    Se, infine, alzò lo sguardo sulla fonte di distrazione, fu solo perché quel qualcuno pensò bene di mettere mano dove non doveva, e tirare giù una serie ben impilata di schede LED e farle capitombolare a terra.
    Dire che la biondina fosse fuori posto, tra cavi di rame, bulloni e dispositivi EMP era dire poco. Ma Kyle l’avrebbe fatto, senza neppure alzare il visore protettivo. «ti sei persa.» E no, non era una domanda quella del coreano. «la spa non l’hanno ancora aperta.» AH! Quello lo sapeva, e solo perché aveva sentito Melvin affermare che avrebbe accettato al volo un posto all’interno del centro benessere, se lo avessero aperto. Kyle aveva stretto le spalle, ed era andato oltre. «non toccare più nulla.» Disse all’intrusa, poi, riabbassando lo sguardo sul chip che stava saldando, e riprese a fare il suo lavoro.
    Ciao Liz.
    Addio Liz!
    kyle
    kang hae-il

    next time I'm opening up to someone
    is my autopsy
    error 404
    conviviality not found.
    wizard
    the brain and the brawl
    the honest — 1998, magitechnician, rebelmake social calculations,
    know when you're supposed to cry,
    fake real communication,
    rehearse your scripted lines
    machine learning
    j. maya
    moonmaiden, guide us
  8. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    2005's
    lumokinese
    belga-bollo
    kaz oh
    Con il mento poggiato sulle dita intrecciate fra loro ed i gomiti a scavare solchi sulle ginocchia, Kaz Oh guardava una mattonella scheggiata dell’ospedale. Una precisa, con una crepa nell’angolo più a sinistra. Si domandava dove fosse finito il pezzo mancante, perché le altre domande sembravano un po’ troppo pesanti per lui. In quel momento; il giorno dopo, ad occhio e croce.
    Per sempre.
    «tu non sei più mio fratello, ti odio »
    Non lo pensava davvero, Kul. Sapeva non lo pensasse davvero. Ma era un timore costante, e ci si scontrava di continuo. Ogni battito di cuore ne picchiava uno spigolo. Lo sentiva rimbalzare fra una parete e l’altra della calotta cranica come una pallina da ping pong: ogni colpo, inspirava tremulo; al rimpallo, espirava e corrugava le sopracciglia. Sulla scomoda sedia del Primo ed Ultimo Soccorso, chiamato in amicizia (e da chi lo visitava spesso, tipo l’Oh) PUS, mordicchiava l’interno del labbro inferiore e faceva le due cose che meno preferiva al mondo: aspettava e pensava.
    Non avevano dato stanze singole, ai Sedici Prescelti. Mancava lo spazio, e certo il personale. Erano stati tutti ammassati in una delle camere del primo piano, su brande misere che apparivano, se possibile, ancor più sconvenienti della sedia su cui ormai aveva lasciato la propria impronta. C’erano sedute di ogni tipo, lì dentro. L’Oh, come Riccioli d’oro nella favola, le aveva provate tutte – quelle in legno, quelle da bagnino, quelle metalliche raccattate solo Dio sapeva dove – prima di scegliere quella plasticosa da giardino. Sentiva di essere diventato ormai un tutt'uno con lei.
    Non c’era stato verso di farlo alzare, dopotutto. E perché avrebbe dovuto? Erano tutti lì: Balt e Mimmo, Thor. Kul. Ancora addormentati, la pelle segnata e sporca dal sangue che non era venuto via al primo passaggio del panno umido. Non ce n’era stato un secondo, per l’Oh manipolatore d’ombre: Kaz aveva guardato lo straccio offerto da Melvin, ed aveva scosso secco il capo.
    Più passava il tempo, più aveva modo di riflettere fra sé e sè, e più si innervosiva. Lo riteneva un sentimento migliore rispetto alle centinaia d’altri in attesa di sfondare la cassa toracica, quasi gradevole. Un pensiero sul quale ossessionarsi che non fosse tutto il resto, recluso sotto cumuli di macerie e polvere. Non aveva – non voleva - non poteva -
    E non l’avrebbe fatto, signori e signore. Neanche una singola cosa. Cuore sottochiave, e lingua appiccicata al palato. Rimase aggrappato solo a quello, Kaz, perché una cosa per volta sembrava gestibile, ed osservare il profilo del fratello ancora in convalescenza con sguardo torvo ed accigliato, era la sua alternativa migliore. Continuava a cercare di immaginare la scena di quando l’altro avrebbe aperto gli occhi, completando dieci e cento scenari diversi. Il vero saluto che non avevano avuto tempo di darsi, le confessioni, il perché della sua scelta. Le lacrime – quelle, ne aveva immaginate parecchie, perfino nel solo contesto protetto riguardante loro due, e senza includere quanto tutto il resto attendesse sotto pelle di strappare e strappare. Per qualche motivo, non accadde nulla di quanto Kaz si era immaginato in quelle ore, quando le palpebre del fratello tremolarono segnando il suo risveglio.
    E la sua mano scattò a dargli uno schiaffo sulla tempia.
    «ma sei deficiente»
    Rabbia. Poco familiare, per l’Oh. Forse aveva passato troppo tempo con la sua anima gemella, perché tremava da testa a piedi di pura, non filtrata, furia. Migliaia di motivi, ma decise di dedicarne al minore solo un paio, nessuno dei quali includesse la stretta alla gola del pensiero fosse maledettamente morto. «”cosa direbbero mamma e papà”, bohoo. ma se mamma è morta, e sai che papà mi supporterebbe!» non alzò la voce, gli altri stavano ancora (shes dead – shes meditating) riposando, ma rivedere baby allen aveva riportato alla memoria il suo talento, non così segreto, di gridare molto forte, molto sottovoce. Bisbigli indignati, quello del lumocineta. «pugnalarti alle spalle?» Unì le dita della mano destra e le scrollò, labbra curvate verso il basso. Quello, doveva averlo ereditato da Remo. «come sei egocentrico. megalomane. Kul! kul. qui si parla del mondo intero» indicò con un ampio cenno la stanza attorno a loro, ingurgitando nel senso l’universo oltre quelle porte.
    Quella Bolla.
    «pensi sia qua perchè tu hai fatto di male a me Non resistette, allungando ancora una mano per schiccherarlo sulla guancia. Che fosse messo male, dopotutto, non era una novità – non per loro, non fra loro - e si sentì del tutto in diritto di mettere il dito nella piaga. Metaforicamente parlando.
    Il prezzo da pagare per avergli spezzato il cuore. Frantumato sotto il tallone, senza alcun maledetto rimorso. Parole dure, sputate come fottuto veleno solo per fargli del male: quella, era cattiveria gratuita. Quello era pugnalare qualcuno, alle spalle e tutto intorno. «rimanere da solo... ridicolo» incrociò le braccia al petto, sentendo il primo brivido lungo la schiena – non l’ultimo, immaginava. Cercò comunque di tenerlo a bada, perché non era pronto. Non lo era, ok? Scelta, sì, ed aveva fatto la sua; no, non sarebbe tornato indietro. Non significava che ne fosse euforico: tutti dovevano fare dei sacrifici. «hai papà. hai gli amici. hai tutta la vita» ed eccolo, il seme originario di quella rabbia.
    Aveva scelto tutto il resto, Kul. Rispetto alla cosa giusta, rispetto a lui. Ed anziché capirlo, fidarsi, e conoscerlo abbastanza da sapere che non avrebbe messo sull’altare la sua intera esistenza se non fosse stato sicuro ne sarebbe valsa la pena, parlava di tradimento? A Kaz, che incarnava tutti gli ideali per i quali avevano sempre combattuto? Insieme, per giunta. «questo è il momento in cui mi chiedi scusa.»
    If I don't say this now, I will surely break
    As I'm leaving the one I want to take
    Forgive the urgency, but hurry up and wait
    My heart has started to separate
  9. .
    Riding on the mist, I wander to Lofty Whirlwind Peak. The Lady of the Supreme Primordial
    descends through jade interior doors; The Queen Mother opens her Blue-gem Palace.
    I colori di John, nelle luci cupe dello studio rischiarato dalla lampada sulla sua scrivania, i contorni che lo definivano e lo delimitavano come se dovessero impedirgli di perdersi nell'horror vacui che era il flusso eterno del mondo e di tutte le cose, impedirglielo come le mani di sua moglie che lo trattenevano con delicatezza e forza assieme, temendo di vederselo sfuggire fra le dita come le era tragicamente scivolato via dalla memoria per ben tre giorni. Tutto di lui, del dottor Campbell, del suo John era divenuto finalmente più vero a quel tocco tremante delle dita sui fianchi, a quello sguardo diverso che era suo ma che non lo era più. Lo guardava, muovendo uno dei pollici in piccoli circoletti apprensivi sulla guancia sporcata di barba, cercando disperatamente quel vero dettaglio che continuava a sfuggire, l'ombra di un miraggio che non aveva riscontro nella realtà ma che allo stesso tempo esisteva, come una cicatrice segregata oltre l'orizzonte di ciò che gli occhi potevano scorgere.
    Indugiò, così, quando John chiese una conferma, le labbra appena schiuse e le parole che faticavano a sopraggiungere per spiegare una sensazione che la faceva sentire paranoica quasi più di tutto il resto.
    « Non... non lo so. » si arrese infine all'evidenza. Cosa vedeva? Nulla, tecnicamente. Nulla di diverso negli occhi scuri che conosceva in ogni più infimo dettaglio, in ogni sfumatura delle striature dell'iride, in ogni battito di ciglia scure. « Non sono... sembrano davvero... identici ai tuoi. » non era un sottinteso sottile, quello retoricamente posto dalla donna in questa maniera. Era esattamente lo sguardo di John in ogni cosa, una riproduzione perfetta, eppure... era come vederlo quel giorno per la prima volta, nella maniera meno poetica e più terribile a cui si potesse pensare e che anche lei, in maniera molto evidente a quel punto, faticava a mettere in parole. Serrò le palpebre, sfiatando dalle narici in un'esternazione di stanchezza e frustrazione pura e semplice.
    Non poteva minimamente immaginare cosa passasse davvero per la testa di John, la mente che ancora faticava a non prendere il suo racconto cum grano salis. Eppure, la medesima pulsione irrazionale che l'aveva spinta, decenni prima, a rivolgergli la parola in Sala Grande dopo lo Smistamento, ora le urlava a pieni polmoni di credergli, che non avrebbe mai potuto mentirgli su una cosa del genere. La mente di Mina, i suoi ricordi, quelli di Alice, erano d'altro canto vulnerabili a qualunque tipo di attacco, plasmabili a piacimento da forme di magia di ogni genere, meno attendibili per certi versi.
    Un ragionamento attaccabile, non di certo privo di falle, ma la componente emotiva era forte a sufficienza da renderlo un'opzione più che papabile.

    Fu quel nomignolo soffiato debolmente a farla tornare coi piedi per terra, a guardare un John abbandonato contro i suoi palmi, la supplica già silenziosa che si rese concreta quando parlò nuovamente. Anche nei momenti peggiori, alla fine, era sempre lui, erano sempre loro, e la sicurezza che almeno quello nessuno fosse riuscito a sottrarlo a nessuno dei due era l'unico appiglio a cui potersi tenere saldamente.
    Sentire quella richiesta vibrare nell'aria fino alle orecchie le spezzò il cuore in mille pezzi, eppure anche in un momento del genere Mina riusciva a non versare una lacrima. Sgonfiandosi in un piccolo sospiro, si avvicinò traendolo a sé per stringerlo piano fra le braccia, lasciandogli lo spazio e il modo di potersi appoggiare contro di lei, stringerla a propria volta come sempre faceva quando era bisognoso di conforto. Fece salire una mano ad accarezzargli teneramente i capelli mentre lo guardava in quel modo dall'alto, sempre forzandosi a non esternare troppo quel pressante terrore di vederlo scomparire.
    « Non... ricordo assolutamente nulla di tutto questo, mon cher, io... era tutto così normale da quando siamo tornate dal Bangladesh tre giorni fa fino a stamattina quando tu non eri più di fianco a me. » rivelò col cuore in gola e il tono incredulo. Rimanendo solo a quel che ricordava in quel momento, a partire da quella mattina, John non se n'era mai andato e l'unica distanza anomala era stata quella dovuta al viaggio in Bangladesh, solo perché l'uomo non avrebbe mai potuto rinunciare al lavoro in clinica con tutti i pazienti abituali, alcuni anche molto anziani, che si affidavano alle sue competenze, non avrebbe avuto alcun senso. Se avesse potuto rendersi conto di aver completamente rimosso l'esistenza dell'uomo dalla sua vita, anche se solo per tre miseri giorni, probabilmente si sarebbe sentita mancare la terra da sotto i piedi ancor più di quanto non se la sentiva già in quel momento.
    WILHELMINA ASPHODÈLE
    CAMPBELL

    a man who cannot tolerate small misfortunes
    can never accomplish great things
    XIWANGMU
    QUEEN MOTHER OF THE WEST
    SPECIAL WIZARD
    MEDIUMSHIP
    BRITISH/FRENCH — MOTHER — RAPTURED — WIFEthere's a blade by the bed and a phone in my hand
    a dog on the floor, and some cash on the nightstand
    when I'm all alone the dreaming stops
    and I just can't stand
    goodnight moon
    shivaree
    Mother of Night, darken my step
  10. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    soft
    idiot
    sappy
    motherfucker
    sentimental
    bastard
    archibald dominique baudelaire leroy
    Una giornata come tutte le altre.
    Poche ore di sonno mentre cercava di incastrare due lavori che amava e che lo tenevano ancorato ad una vita ormai cambiata, sorrisi sghembi agli avventori della panetteria, battute e lamentele ad amici e colleghi, sbadigli e mal di testa e Dio, ancora quelle immagini, ricordi e possibilità che non gli appartenevano, sogni ad occhi aperti pronti destabilizzarlo ogni volta che non era abbastanza veloce a ingoiare un potere che ancora non controllava. Ancora il senso di perdita, ancora l'impressione di essere maledetto, ancora la paura di guardarsi allo specchio e vedere un bambino di dieci anni abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo ed arrabbiato con chiunque per questo.
    Niente di diverso dal solito (o da quello che almeno, ormai, era diventato il suo solito).
    Solo che non era davvero una mattina come tutte le altre. E neanche lo sapeva.
    Non poteva saperlo, Arci, quando si era avvicinato pronto a bussare alla porta della camera da letto vuota, ridendo fra sé e sé per la propria stanchezza.
    Non poteva saperlo quando aveva notato le troppe tazze nel mobile della colazione, e si era chiesto distrattamente perché Aidan avesse rubato a casa Eubeech quella roba a tema Star Wars.
    Non poteva saperlo quando aveva trovato una pergamena abbandonata sul tavolo in salotto con dei compiti di sdm abbandonati al loro destino, e li aveva lanciati nello zaino ripromettendosi di restituirli al povero studente a cui li aveva presi per sbaglio.
    Non poteva saperlo guardando un po' confuso, un po' annoiato, i tanti piccoli segni della presenza di un terzo (ex) abitante di quella casa.
    Non poteva saperlo quando, toccati i fu oggetti di tale coinquilino per metterli a posto, aveva ricevuto un insolito (e ironicamente piacevole) silenzio.
    Una giornata uguale a quella prima in tutto e per tutto - anche nel suo alzare lo sguardo di scatto verso l'ingresso quando la magia lo avvisó del rientro a casa di Aidan.
    Il rapporto di Arci con la sua (ormai non più) nuova... situazione, era ancora particolare. Preferiva non parlarne, non pensarci, e aveva stiracchiato il potere volontariamente talmente poche volte che non era una sorpresa che di tanto in tanto gli esplodesse in faccia, offeso di essere relegato a contrattempo piuttosto che esercitato come dono.
    La chiaroveggenza era ancora un punto dolente, visto che averla significava aver perso la Vista, l'animagia, la sua bacchetta...
    Riconoscere l'arrivo imminente a casa di Aidan e di- di- (Aidan e basta) rientrava nelle poche cose in cui eccelleva di natura come chiaroveggente.
    La sua magia gli sussurrava sempre nell'orecchio quando il Gallagher stava arrivando, forse riconoscendo il piacere che questa notizia portava, e Arci accoglieva ogni volta l'avviso con un sorriso. Non lo aveva detto al compagno, certo che Aidan lo avrebbe preso in giro per il suo romanticismo, per il modo in cui tutte le lamentele dette o silenzione (odiava quel potere. Odiava non essere più un mago), si scioglievano nel momento in cui c'entrava il Gallagher.
    Non avrebbe capito.
    O avrebbe capito troppo bene per volerne parlare.
    Quando Aidan ci mise più del solito a varcare la soglia, fu Arci ad andargli incontro, curioso del perché ci stesse mettendo tanto, affamato di vederlo come non sapeva spiegarsi e sentendo una nostalgia carogna e confusa per le sue mani addosso, i denti sul collo, le labbra sulla pelle tiepida - nostalgia che sapeva non avere senso di esistere visto che erano visti solo- tre- uno- giorn- (si erano appena visti).
    Sorridendo divertito aprì la porta.
    E non fu più un giorno come tutti gli altri - anche se per tutti i motivi sbagliati.
    «Aidan» cauto (più di quanto il suo cuore a battere veloce nel petto avrebbe richiesto), come lo sarebbe stato con un gatto, sia nel pronunciare il suo nome sia nell'allungare la mano. Il sorriso era sparito, gli occhi scuri fattisi preoccupati. Spaventati. Arrabbiati. Strinse il pugno, prendendo un respiro profondo e quasi minaccioso. C'era qualcosa di sbagliato nel Gallagher, anche se non avrebbe saputo decidere cosa (non solo nell'espressione, fisicamente), e rischiò a distogliere lo sguardo per cercare tracce di sangue su di lui (cos'è successo chi è stato lo ucciderò non dovevi andare-), non trovando però, a vista, risposte ai suoi dubbi.
    Un bene, forse. Un male, se il problema di Aidan, dei suoi occhi scavati, dei capelli non lucidi come al solito, dell'aria provata e sconfitta, era di natura magica.
    Il fu grifo arrancò in avanti, ma non pronto dal trovarsi ad avere a che fare con un peso morto, Arci riuscì appena a rallentargli la caduta.
    Finalmente, al movimento dell'altro, gli si attivò nel cervello la modalità emergenza, e questo per lo meno gli permise di non gridare, di non chiedere chi gli avesse fatto del male, di non uscire di casa a passi veloce per cercare chiunque o qualunque cosa avesse portato alla loro porta Aidan in quello stato e dargli fuoco, dare alle fiamme l'intera città se necessario, riportando cadaveri in cenere al capezzale del Gallagher se sarebbe servito a farlo stare meglio.
    Invece, un braccio ancora a tenere Aidan (non si era reso conto di averlo preso per impedirgli di cadere malamente a terra, tanto era stato istintivo, pur nello shock iniziale, proteggerlo da altro male), si allungò per chiudere la porta dietro il grifo dopo averlo tirato a sé. Gli scivolò allora di fronte, in ginocchio sul pavimento freddo e incurvato in avanti per essere allo stesso livello dell'altro. Scomodo, in quella posizione, nel tentativo sia di toccare Aidan - assicurarsi che fosse lì che stesse bene che non stesse andando via da lui e restasse lucido - che di farsi guardare... ma quando mai amare Aidan non era stato doloroso, negli ultimi sette anni?
    Fra loro ondeggiava la catenina legata al collo di Arci, una croce e un anello fianco a fianco.
    «mi dispiace»
    «Aidan»
    ripetè, con meno urgenza, ignorato nuovamente mentre cercava di riportarlo al presente, di portarlo da sé. Aveva domande, ma la maggior parte riguardavano la salute dell'altro, quindi prima doveva capire quello. Stava bene? Era ferito? Fece scivolare una mano sul retro del suo collo, tenendolo fermo in una presa solida, meno dolce di quanto avrebbe dovuto, imitando le strategie che altre volte il grifondoro aveva usato con lui. Resta con me. Non annaspare via. Mi senti? Strinse la presa. Sono qui.
    «mi dispiace»
    «Ehi. Guardami un ordine, perchè Aidan smettesse di vedere Dio solo sa cosa, ma si inebriasse del Leroy davanti a sè - uno che non aveva bisogno di scuse. Gli prese il mento fra indice e pollice, tenendogli non senza gentilezza il viso e obbligando l'uomo a guardarlo.
    Non era mai stato bravo con le parole,.
    «Mon coeur» mormorò. Aveva iniziato a usare il nomignolo per scherzo, per prendere in giro più che Aidan le coppie che non erano loro e il loro romanticismo zuccheroso, ma col tempo ci si era affezionato, trovandolo un nome azzeccato e sincero. «ça va aller. Je suis là»
    Tracciò col pollice la linea dello zigomo, bagnandolo di lacrime, e parlò ancora a bassa voce in francese come cantilenando una ninnananna. Era una lingua abbastanza melodica da non aver bisogno di grande impegno per riuscire ad essere di conforto di per sé.
    Parlare francese, da utile (per non farsi capire da- da- per non farsi capire e basta) era passato a piacevole e poi necessario. Lo usava quando voleva dire cose ma il suo intero essere si ribellava dal farlo - nei momenti troppo dolci per usare la stessa lingua con cui si prendevano a parole o si prendevano e basta, e nei momenti in cui respirare era difficile e non sapeva come ammettere che non sapeva come andare avanti.
    Si sporse in avanti, spinse la mano sulla nuca dell'altro per avvicinare i loro visi, il respiro raschiato di Aidan a fargli il solletico, lasciando che il proprio, forzatamente tranquillo, gestisse il tempo fra una boccata d'aria e l'altra anche per entrambi.
    Posò le labbra sulle ciglia umide di pianto di Aidan, con calma passò all'altro occhio.
    Appoggiò la fronte contro quella dell'uomo.
    «Risolveremo tutto. Ci siamo dentro insieme»
    Il panico di aver visto Aidan crollare davanti a lui (Aidan! La cui strategia era sempre stata quella di nascondersi, piuttosto che chiedere aiuto. Chiedere scusa), era stato sostituito da una paura più razionale.
    Era successo qualcosa di grave.
    Aidan pensava che Arci non l'avrebbe presa bene.
    Si conoscevano abbastanza vicendevolmente per sapere entrambi che il Leroy si arrabbiava spesso, ma proprio per questo poche cose meritavano una tale reazione da parte del Gallagher.
    Qualcuno che Arci amava si era fatto del male (o peggio).
    Aidan pensava, presumibilmente, di essere parte del problema.
    L'assenza di sangue non escludeva ancora del tutto l'idea che la persona in pericolo fosse Aidan stesso.
    «nel bene e nel male» Mosse ancora il dito, accarezzandolo. «Lascia che ti aiuti»
    I will not have you without the darkness that hides within you.
    I will not let you have me without the madness that makes me.
    If our demons cannot dance, neither can we.
  11. .
    ogni tanto ritornano (nda: la gente in vacanza in messico)
    tempi di quest, tempi di sofferenza // al solito, un +1 di avvenuta lettura pls ♥
    STORYLINE: ma lo sapete che sono successe un sacco di cose? no che non lo sapete, tecnicamente avete dimenticato tutto, ha ha. per chi se lo fosse perso: fateggio finale della Q11 con annesse spiegazioni brevi e indolori (sotto spoiler, ultimo messaggio).
    HALO POINTS: wake the fuck up, prescelti, we got a raccolta punti to complete.
    ABILITAZIONI: ricordiamo a chi non l'ha già fatto di inserire i personaggi che hanno partecipato alla quest 11 e di fazione pro (quindi, in parole povere, tutti coloro rimasti nella bolla) nel gruppo apposito. abbiamo anche fatto un gruppo su telegram che ci servirà per motivi misteriosi (il gossip). se non siete stati inseriti giurin giurello che ci perdonate, perché siamo molto stanchi (anno 378 di quest....), e segnalatecelo!
    AMBIENTAZIONE: e già che parliamo di bolla -- abbiamo inaugurato la sezione apposita in cui ruolare! dentro ci troverete una handy dandy faq dove raccoglieremo, man mano, dubbi e risposte.

    POST QUEST: ed è giunto il tempo delle post! yaaaaaaay.
    ricordo rapidamente come funziona:
    -- potete aprirle in qualsiasi momento, ma ciascun post conterà per i PE totali della quest solo fino al 19/05.
    -- i punti esperienza andranno esclusivamente ai personaggi partecipanti alla quest (quindi non rapiti, non personaggi esterni all'evento). sono considerate post quest (e quindi, role che danno punti esperienza) solo role con almeno un personaggio presente nelle settimane ed eventualmente personaggi rapiti tra oblinder e mini quest.

    colgo l'occasione per ricordarvi sempre del canale telegram, dove gli aggiornamenti vi arrivano in tempo reale, e per qualsiasi cosa sapete sempre dove trovarci < 3 (su telegram a perdere tempo? sì)


    Edited by ad[is]agio - 8/5/2024, 07:52
  12. .
    MA GLI ANIMALI RICORDANO I PADRONI NELLA BOLLA? non ci posso pensare è terribile in tutte le versioni. maledetta puntata di Futurama
  13. .
    Tell me your secrets and ask me your questions.
    Oh, let's go back to the start.
    It's over Anakin, I have the high ground.
    si mosse sul bordo del letto, improvvisamente a disagio. e sì che avrebbe dovuto saperlo — alla duecentesima volta di fronte alla stessa identica scena era previsto fosse pronto. forse, se quella situazione in particolare non avesse colpito un po troppo vicino a casa, clay l'avrebbe affrontata al solito modo: ginocchia strette al petto, piantino, enorme porzione di gelato trangugiato mezzo sciolto.
    ma non si trovava al quartier generale, schiacciato in mezzo a kaz e twat come prosciutto dentro ad un sandwich perché nessuno dei tre voleva cedere il posto su un divano troppo piccolo; non gliel'aveva mai detto, conservando gelosamente quel pensiero per gli attimi prima di addormentarsi, che stare tra di loro gomito contro gomito e gambe ad intrecciarsi una sull'altra lo faceva sentire al sicuro.
    batté leggermente la mano sulla spalla di remì, offrendo al ragazzino un sorriso tremolante che per fortuna l'altro non poteva vedere: si era addormentato dopo dieci minuti di film, in quel corpo martoriato la cui totale guarigione era ancora ben lontana «tranquillo, non è così grave» avrebbe voluto crederci un po di più, ma come poteva? si morse l'interno della guancia e valutò di mettere in pausa, mentre anakin skywalker strisciava privo di gambe e con il cuore spezzato tra le pietre laviche di mustafar.
    You were the chosen one! It was said that you would destroy the Sith, not join them! Bring balance to the Force, not leave it in darkness!
    bastava toccare lo schermo del telefono (dai, figurati se nella bolla non hanno internet mi rifiuto. ALMENO UN FILM SCARICATO ILLEGALMENTE), uscire dal sito, togliere gli auricolari che condivideva con un incosciente remì — di nuovo: scelte. il film sbagliato, certo; la parte sbagliata, anche? impossibile dire quante volte se lo fosse chiesto in quei due mesi, giorni ad accavallarsi uno sull'altro con troppe cose da fare per tenere il conto. un pensiero martellante che sfuggiva quando kaz gli toccava la spalla per rassicurarlo andasse tutto bene (non lo aveva appena fatto anche lui? e che cos'era una bugia a fin di bene, se non un atto d'amore?) e tornava di prepotenza nell'incrociare le iridi scure della skywalker.
    di Kieran.
    poteva solo essere grato che quegli occhi non si fossero posati su di lui, mentre il mondo finiva. che le urla disperate di dylan non l'avessero raggiunto mentre annaspava nel suo stesso sangue, il cervello misericordiosamente spento. avrebbe dovuto ringraziare Edward Moonarie, per aver colpito tanto duro; avrebbe dovuto—
    You were my brother, Anakin! I loved you!
    il movimento improvviso di remì lo fece trasalire. piegò la testa nella sua direzione, per trovare il thornill ancora addormentato; lo scatto, le dita a stringersi nella carne e un singulto nel petto: erano tutti suoi. persino il gemito di sconforto a scivolare tra le labbra secche, così estraneo da sembrare appartenere a qualcun altro «davvero, non devi preoccuparti. gli vuole ancora bene, sai? nonostante tutto» era così? come poteva essere altrimenti «non— non capisce perché Ani abbia fatto quello che ha fatto e, certo, si sente tradito» murphy, kieran, dylan.
    javi, moka, sin.
    joni, thor.
    giacomino.
    tutte quelle persone a cui aveva fatto del male.
    «ma quello che provano uno per l'altro è più forte di tutto, capisci? anche delle scelte sbagliate» e di quelle giuste. restava solo da capire da quale parte della barricata fosse andato a finire. chinò leggermente il capo, ignorando la fitta di dolore che dagli zigomi si irradiava a ciclo continuo fin dentro ogni singola cellula: stava cominciando a farci l'abitudine. più difficile era guardarsi allo specchio, ricordare che l'origine di quelle chiazze viola sotto agli occhi e intorno alla bocca glieli aveva procurati suo padre; che sulla terra del Messico bagnata di sangue, per un singolo momento aveva desiderato non doversi svegliare più «certi legami non si spezzano per così poco» tentò un sorriso, di nuovo. e fallendo — di nuovo. non poteva raccontare a remì come finiva la storia: una già scritta, a ripetersi sempre uguale.
    just the two of them, and the damage they had done to each other.

    oh, i made myself sad.


    clayton
    morales

    Nobody said it was easy
    It's such a shame for us to part
    im sorry anakin
    for all of it
    special
    kinetic absorption
    18 — rebel — (non in) bollaNobody said it was easy
    No one ever said it would be this hard
    oh take me back to the start
    the scientist
    coldplay
    Mother of Night, darken my step
  14. .
    *still uses pinky promises as a legitimate foundation of trust*
    C’era un no ancora incastrato in gola, un urlo strozzato e che risaliva direttamente dalla pancia, cresceva nel petto, e moriva sulle labbra.
    C’erano occhi colmi di lacrime, occhi che avevano visto più morte e sangue in quelle ultime quarantotto terribili ore che in meno di diciannove anni di vita.
    C’erano braccia allungate per stringersi un’ultima volta attorno a corpi familiare, e altre braccia a tenere fermo un corpo che si muoveva col pilota automato.
    C’erano mani alla disperata ricerca di un pezzo di stoffa fa tirare, stringere, strappare. Tenere con sé.
    C’era un cuore che batteva troppo forte, ad un ritmo impazzito e insopportabile, a tanto così dallo spezzarsi — no, che dico, si era già spezzato.
    Si era spezzato quando gli occhi verdi di Dylan avevano trovato nell’esercito alle spalle di Jeanine il viso per cui era arrivata fino a lì, quelle fossette morbide di cui in quel momento non c’era traccia, gli occhi neri e meno vispi di come li ricordava, e i capelli sempre lucenti e perfetti.
    Kaz? Cosa… cosa stai facendo. Clay??? Kaz… Kazzino, no. No. Nonono.
    Si era definitivamente rotto quando si era voltata, e aveva trovato Gaylord pronto a scavallare quella barriera invisibile, a schierarsi con le stesse divise che fino a quel momento avevano combattuto; pronto a difendere la Bolla dalle creature oscure che si avvicinavano.
    Gay… Gay torna qui. Gaylord non lasciarmi.
    Per un attimo, Dylan Kane non aveva sentito più nulla. Il suo mondo si era ridotto a–
    Kaz con la divisa del Nuovo Ordine.
    Gaylord che sceglieva la Bola.
    Thor che spariva oltre la faglia nella barriera.

    Voleva tornare a casa.
    Voleva tornare alla Villa che i suoi genitori avevano tirato su senza amore e con molti soldi, voleva tornare alle sgridate di sua mamma e ai vizi concessi da suo papà. Voleva tornare a rompere le palle a Kiel, a saltare sul letto di Joni, a giocare nel parco con Thor, a intrecciare i capelli di Sana, a spiare le coppiette con Kaz, a imparare i nuovi passi delle coreografie di Clay, a fare il tifo per Aracoeli, a lavorare per Ake, a fare l’amore con Gaylord.
    Non voleva più trovarsi lì.
    Non voleva combattere i suoi amici, o altri sconosciuti, in nome di qualcosa che non poteva sostenere; che non poteva credere fosse alla base di quell’impossibile e incolmabile divario fra lei, e le migliori parti di se stessa.
    Le era impossibile concentrarsi sulla battaglia – non voleva più combattere, era arrivata fin lì per trovare Kaz, e l’aveva trovato, ti prego Kaz torniamo a casa, torniamo a casa, torniamoacasatipregotiprego ti prego – eppure era costretta a farlo, se non altro per proteggersi dai loro attacchi. Non aveva la testa, non quando il suo sguardo continuava a cercare Gaylord, e Joni,e Kaz, e Clay, e dov’è finita Thor, Joni dov’è Thor, dov’è dov’è dovedovedovedove.

    C’era un urlo incastrato nella gola, al tremare improvviso della terra.
    Un urlo, e un cuore a perdere due, tre, mille battiti mentre gli occhi arrossati, grandi e disperati, si appoggiavano un’ultima volta sul viso di Kaz, e poi su quello di Gaylor, e poi di nuovo su Kaz. Una promessa stretta fra le labbra dello special; le lacrime a lavare via sangue e terra e fatica e delusione dalle guance della rossa. Le braccia di Joni a stringerla all’altezza della vita, per impedirle di correre da loro — avevano fatto una scelta, tutti quanti. Tutti.
    Un’altra scossa, la luce argentea della bolla, quella forza invisibile ad allontanarla per sempre dai ragazzi che amava, in modi totalmente diversa ma ugualmente, fottutamente, disperata.
    Era fatta per quel genere di emozioni, Dylan Kane, sapete? L’amore incondizionato. La devozione. La complicità. L’adorazione. La gioia. La sciocchezza immatura di un cuore che vedeva sempre e solo le cose belle nella vita.
    Non per il dolore, non per la perdita.
    Non lo voleva il sapore amaro di un ti amo che non riusciva a lasciare libero, perché non voleva fosse l’ultimo. Poteva solo urlare i loro nomi, urlare a Joni di lasciarla andare, urlare che non poteva finire così, no no no. No.

    C’era ancora un no incastrato in gola, quando Dylan aprì gli occhi.
    Un cuore che batteva lento e placido, ma che mancava di qualcosa.
    Occhi rossi che bruciavano, il sapore di terra a premere sulla lingua, la fatica a far cedere i muscoli, e rendere ogni movimento pesante e difficile. C’era la consapevolezza di aver perso qualcosa, di aver sofferto, di stare male.
    Joni?
    (Thor?)
    E qualcos’altro.
    Che aveva un nome, ma Dylan non lo ricordava.
    Batté le palpebre, e una singola lacrima rimasta incastrata scivolò lateralmente, bagnando il cuscino. Sorpresa, la ragazza cercò la scia umida lasciata dalla perla salata, e la pulì via con la punta del dito. Non si era resa conto di aver pianto.
    Quello non era il suo letto.
    Con estrema fatica, ruotò la testa verso la finestra; la luce a filtrare dalle tapparelle alzate bruciava gli occhi già stanchi, ma la fissò lo stesso, cercando di ricordare. C’erano solo —
    (un urlo incastrato in gola, un battito del cuore a mancare, un no strozzato tra labbra screpolate)
    — il sapore del sangue incollato al palato, e l’odore di fumo che rimaneva sui capelli, e nel naso, e sulla pelle.
    «è stato un attentato?»
    Uscirono un po’ rauche, le parole, e molto basse. C’era qualcuno lì con lei, lo sentiva agitarsi nel letto accanto. Alzò di poco la testa, distogliendo lo sguardo dal paesaggio fuori dalla finestra, e si aspettò di trovare… beh, non Irisi Roux. «cos’è successo?» Ricordava di essere seduta su una panchina, Joni che la stringeva a sé per evitarle di correre dietro a qualcuno… uh, dietro a chi? Beh, sicuramente qualcuno di non così importante se non ricordava nemmeno il loro nome. O il viso.
    Alla studentessa rivolse un’espressione preoccupata. «devo avvisare Akelei… il ministero…» giusto? Lo sapevano già? Ma si, dovevano saperlo per forza.
    Cadde all’indietro sul letto, tra i cuscini scomodi, e sospirò.
    (Pianse.)
    «hai visto joni, per caso?»
    Voleva la sua migliore amica, voleva—
    Voleva qualcosa.
    Voleva qualcuno.
    Voleva Joni.
    Voleva Joni?
    Voleva—
    dylan
    kane

    kind heart, fierce mind,
    brave spirit
    phantom pain
    “it’s no longer there,
    but it still hurts”
    witch
    little broken-hearted girl
    the good — 2005, huntress, red furythey say bad things happen for a reason
    but no wise words gonna stop the bleedin'
    (&& what am I going to do when
    the best part of me was always you?)
    breakeven
    the script
    moonmaiden, guide us
  15. .
    Se mi amate, cari, venite a vedermi. mi troverete laggiù nel grande bosco di Shinoda
    della provincia di Izumi, dove le foglie di kudzu frusciano sempre d'umor pensoso.
    Si era assai preoccupata quando era venuta a sapere che sua sorella fosse stata ricoverata al San Mungo. Di approfondire la questione di cosa fosse o meno successo a King's Cross poco le interessava, si era limitata a fare una borsa in fretta e furia per andarla a prendere non appena aveva saputo, senza chiedere ulteriori spiegazioni.
    Troppo abituata a pensare come un'inerme umana senza magia, a non considerare tutte le implicazioni di essere ricoverati in un ospedale magico da cui si poteva uscire, a tutti gli effetti, forse più in salute di come ci si era entrati; perché nonostante fosse radicalmente cambiata da quando era stata sputata fuori dai laboratori, e con questo persino Ekaterina aveva avuto il tempo e il modo di farci pace, l'affetto che provava inevitabilmente per la sorella era rimasto immutato, forse si era persino rafforzato, acquisendo i contorni di uno spirito di maternità molto meno fragile e delicato di ciò che era stata Selena in vita, prima di morire.

    Non aveva mai avuto particolari problemi ad ospitare Kat in casa sua. Si trattava di un ampissimo appartamento che occupava l'interezza dell'ultimo piano di uno dei palazzi storici più panoramici di Londra, in sostanza una cosa che solo il suo conto in banca a numerosi zeri poteva permettersi, comprensivo persino di ampio terrazzo con vista dove la meno giovane delle sorelle Volkov teneva, oltre ad un classico tavolino con sedie, numerose piante fra quelle ornamentali e quelle aromatiche. Vi era spazio sufficiente per ospitare un certo numero di ambienti, inevitabilmente; Kat era abituata ad occupare una confortevole stanza degli ospiti, così come era abituata all'arredamento minimale e dalle tonalità eleganti che si abbinava perfettamente alle numerose stampe ed oggetti d'arte giapponesi in quasi ogni spazio della casa.

    Selena era nella zona giorno, un open space che includeva per intero l'uscita sul terrazzo, inondandosi di luce naturale anche durante le giornate uggiose. Reduce da una lunga telefonata con la madre che le aveva preso ben tre ore, aveva dovuto pazientemente informare l'apprensiva donna che probabilmente non aveva notizie di Ekaterina da un tempo decisamente eccessivo per i suoi standard, o così aveva correttamente supposto conoscendola. A differenza di Selena, Styx aveva la giusta fermezza d'animo per poter interpolare un po' la verità in modo da rasserenare l'animo nevrile della genitrice, ma era certamente un processo che richiedeva il suo tempo - tre ore, abbiam detto.

    Alle mezzogiorno meno un quarto del mattino, aveva finalmente chiuso una telefonata dalle slave sonorità, stando attenta a sgonfiarsi in quel sospiro sollevato solo dopo essersi assicurata di aver chiuso la chiamata. Si era premurata di risparmiare Ekaterina da quel tedioso processo dicendo alla madre che aveva bisogno di riposo e che, di conseguenza, stava ancora dormendo - un dato molto realistico alle otto e passa quando era iniziata la telefonata. Per dire la verità, però, era così abituata a lasciarle la sua privacy che aveva evitato accuratamente di controllare se dormisse ancora o meno.
    SELENA
    VITALYEVNA VOLKOVA

    winter sunlight is a warm old soul
    spreading love in the bitter cold
    KUZUNOHA
    LA VOLPE BIANCA
    SPECIAL MUGGLE
    HALLUCIKINESIS
    RUSSIAN — MODEL — RAPTURED — HUNTRESSIt's all about ascension, I guess
    Don't put me to rest
    Go on and hand me your clothes
    Take a picture or two
    OH KLAHOMA
    jack stauber
    moonmaiden, guide us
126 replies since 13/11/2020
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